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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 109012 volte)
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« inserito:: Aprile 10, 2008, 04:10:28 pm »

Doppia caduta

di Pierluigi Battista


Non c'era bisogno di essere incendiari per auspicare una campagna elettorale più vivace, meno scialba e incolore di quella che si stava snodando nelle scorse settimane. Ma la vivacità non significa nostalgia del linguaggio esasperato e parossistico cui ci avevano abituato quindici anni di bipolarismo primitivo.

E nemmeno il festival delle escandescenze verbali, caratteristico di schieramenti che si odiano, si considerano nemici irriducibili e focosamente si lanciano l'un l'altro l'accusa di rappresentare un pericolo per la democrazia. Ecco perché due dichiarazioni partite ieri dal centrodestra si configurano come una duplice, brutta caduta di stile: un improvviso, inconcludente tuffo nel passato.

Proporre esami di idoneità mentale per i pubblici ministeri, come ha fatto Silvio Berlusconi a pochi giorni dalle elezioni, comunica l'impressione che il possibile prossimo presidente del Consiglio voglia inopinatamente riaprire la sfida con la magistratura e riaccendere i fuochi di una guerra tra politica e giustizia che ha avvelenato l'Italia per un tempo oramai troppo lungo. Come non scorgere nelle parole del leader del Popolo della Libertà un sentimento vendicativo, un desiderio incoercibile di rivalsa sui propri nemici, che è il contrario di ciò che dovrebbe predicare un uomo politico accreditato come il probabile vincitore della campagna elettorale? E se un esponente di punta del partito berlusconiano come Marcello Dell'Utri promette la revisione dei libri di testo sulla Resistenza «se dovessimo vincere le elezioni», è difficile non sospettare che si coltivi la tentazione di sottrarre il lavoro agli storici e di imporre con metodi politici una assurda storiografia di Stato: come se al posto del pensiero unico delle retoriche egemoni nel passato dovesse subentrare un nuovo canone di interpretazione storica direttamente vidimato dall'autorità politica espressa da una coalizione di governo. Una evidente scivolata censoria e illiberale destinata a intossicare questi ultimi scampoli di campagna elettorale. Ce n'era davvero bisogno?

Non ce n'era bisogno, nemmeno per rianimare una competizione sbiadita, o affidata alla guerra delle promesse guardate con sempre maggior scetticismo dall'elettorato. Una caduta non necessaria e che anzi rischia di disperdere quel senso del riconoscimento reciproco, della lotta politica dura tra schieramenti contrapposti che però non si trasforma mai nella prassi della delegittimazione reciproca. L'epilogo rissoso della campagna elettorale chiuderebbe ogni canale di comunicazione tra partiti che anche dopo il 14 aprile saranno costretti a parlarsi, a trovare un terreno di intesa sia pur nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione. Non ne vale la pena. Nemmeno per un pugno di voti che, forse, potrebbero addirittura allontanarsi.


09 aprile 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Aprile 09, 2009, 11:16:48 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 03, 2008, 12:16:19 pm »

SINISTRA E GIUSTIZIA

La diga si è rotta


di Pierluigi Battista


Molti segnali indicano che è diventato possibile scongelare la militarizzazione degli schieramenti sulla giustizia. Sarebbe una doppia, rivoluzionaria frattura con il passato. Perché dimostrerebbe che, pur mantenendo intatta la diversità tra gli orientamenti politici in competizione, ci si può almeno parlare e tenere aperto un canale di interlocuzione sul tema più incandescente dei quindici anni della cosiddetta Seconda Repubblica. E perché inizierebbe a sanare una terribile malattia culturale, quella che distorce il bipolarismo nelle sue forme più selvagge e primitive, che ha degradato l’eventualità stessa del dialogo a sintomo di cedimento e di scarsa fibra morale, equiparando l’attenzione alle ragioni dell’avversario a una manifestazione di debolezza, di compromissione, addirittura (si è insinuato anche questo) a un peccato di «collaborazionismo» con il nemico.

Ma l’intimazione ricattatoria alla guerra permanente funziona sempre meno. A sinistra come a destra. Ovviamente pioveranno i fulmini dell’indignazione su Luciano Violante che in un’intervista al Giornale vede nella riforma della giustizia un tema cruciale sul quale il Partito democratico non può rinchiudersi nelle litanie autorassicuranti del fronte del no; o su Emma Bonino e sul gruppo radicale (ancora parte integrante del gruppo parlamentare del Pd) che non considerano un tabù per la sinistra la separazione delle carriere dei magistrati e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale; su Lorenzo Cesa e sull’Udc di Casini che contrastano la deriva giustizialista di Di Pietro («la politica come inquisizione ») e non vogliono rifugiarsi sull’Aventino quando si parla della giustizia. Stupore o ostilità nell’area che ha resuscitato a Piazza Navona l’oltranzismo girotondino si appunteranno sull’ex portavoce del governo Prodi Silvio Sircana che sul Riformista auspica (sembra di capire in assoluta sintonia con le intenzioni dell’ex premier) «la convergenza più ampia possibile sui temi della giustizia»; o su Anna Finocchiaro e Dario Franceschini che non vogliono un Partito democratico arroccato sulla strenua difesa dell’esistente; o su Nicola Latorre che considera il dialogo con l’avversario una necessità per la democrazia bipolare. Si griderà ancora al tradimento, o all’ «inciucio», ma la diga si è rotta.

Si afferma il principio che sulla giustizia si parla e si discute senza remore, come frutto di una rottura culturale avviata nei mesi scorsi dallo stesso Veltroni. Si delinea un ruolo dell’opposizione che non si esaurisca nella protesta risentita, nel nullismo, nell’ossessiva e inconcludente ripetizione di un eterno no. Segnali. Segnali numerosi e concordi che non è scontato ottengano i risultati sperati e che possono vanificarsi se la maggioranza di governo decidesse stoltamente di andare per la sua strada senza nemmeno ascoltare critiche e obiezioni. Che però indicano la possibilità per l’opposizione di distinguere tra temi su cui esercitare con intransigenza un contrasto anche aspro e riforme su cui in nessuna democrazia occidentale si mena scandalo se si ottiene una convergenza tra forze collocate in Parlamento su trincee opposte. Un’altra eccezione italiana destinata, forse, a essere archiviata senza rimpianti.

03 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:57:00 pm »

MAGISTRATI E APPELLI ALL’ONU

La retorica del gesto estremo


di Pierluigi Battista


Bisognerà capire perché alcuni magistrati in Italia siano così prigionieri di questa smania contagiosa del gesto eclatante. E perché i vertici dell'Associazione nazionale magistrati abbiano sfidato il buon senso in misura tanto considerevole da ispirare loro addirittura un appello al relatore speciale per i diritti umani dell’Onu, Leandro Despouy, invocandone la tutela dai «duri attacchi contro la magistratura del premier e di altri esponenti politici ».

Difficile non cogliere l’effetto di dismisura, di macroscopica sproporzione (e perfino di involontaria ironia, come ha sottolineato Mattia Feltri sulla Stampa prefigurando la bizzarra combinazione di «toghe rosse» e «caschi blu») che promana da questo singolare coinvolgimento delle Nazioni Unite nelle vicende politico-giudiziarie italiane. Più facile avvertire in questo sovrappiù di zelo allarmistico una lancinante nostalgia per un’epoca che si è chiusa, l’ultimo residuo di una guerra tra politica e magistratura che in quindici anni ha avuto una sua fosca grandezza ma che oggi precipita, appunto, nei rituali stanchi della retorica reducistica.

La fine della guerra non significa, peraltro, auspicio di soppressione di ogni conflitto, anche salutare, tra politica e magistratura. Proprio in questi giorni le toghe francesi sono impegnate in uno scontro durissimo con il ministro della Giustizia Rachida Dati e 500 magistrati hanno sottoscritto un documento allarmato per la chiusura delle piccole sedi giudiziarie di provincia e per lo spaventoso sovraffollamento delle carceri in Francia. E’ ciò che accade in ogni democrazia pluralistica e policentrica, dove non è scandaloso che su singole questioni si mobilitino forze sociali e culturali, comprese quelle che amministrano la giustizia, avverse alle scelte del governo.

Ma sarebbe difficile immaginare i magistrati francesi invocare l’intervento dell’Onu, per la semplice ragione che in Francia, a differenza dell’Italia, non sono stati avvinghiati con tanta intensità, e per oltre un quindicennio, a una rappresentazione collettiva, a un discorso pubblico ossessivo in cui la magistratura ha recitato immancabilmente la parte del contropotere militante nei confronti della politica. Lo svanire di quel discorso, il volgere al termine di quella rappresentazione che aveva posto la pietra tombale sulla Prima Repubblica, condizionando pesantemente l’intero svolgimento della Seconda, ha lasciato affiorare il disagio dei magistrati protagonisti di ieri per dover ricoprire non più un ruolo di punta bensì ordinario, «normale», sottratto alla luce dell’attenzione politico- mediatica.

Una riluttanza a rientrare nei ranghi che ha dettato nel suo gesto estremo un appello sconclusionato alle Nazioni Unite, ma che ispira anche (come in parte si è visto a proposito del rinvio a giudizio per «omicidio volontario » dei responsabili della ThyssenKrupp) una corsa alle scelte giudiziarie che facciano scalpore, suscitino il clamore destinato ad amplificarsi attorno alle sentenze «esemplari » e di forte richiamo emotivo sull’opinione pubblica. Come se fosse impossibile liberarsi da uno schema narrativo che ha tenuto banco per quindici anni, il rimpianto di una gloria passata che oggi si sente ridimensionata, se non addirittura declassata. E che non verrà restituita da nessuna commissione delle Nazioni Unite.

21 novembre 2008

da corriere.it


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vedasi:


20/11/2008 - IL CASO
 
Toghe rosse e caschi blu
 
 
 
 
 
MATTIA FELTRI
 
Se stamattina, transitando a Roma per via del Plebiscito, o nelle immagini di un tg straordinario, vedete Palazzo Grazioli circondato, sappiate che gli assedianti sono Caschi Blu. Il loro obiettivo è il Grande Dittatore, l’Ultimo Genocida, il Macellaio della Brianza: Silvio Berlusconi. Più avanti ricomparirà ammanettato alla sbarra dell’Aja, forse, finalmente, con la barba lunga e grigia e qualche certezza incrinata sulla sua longevità. E se alla lettura di queste poche righe gli occhi vi si sono sbarrati e la bocca spalancata, considerate che si tratta della medesima reazione, ieri sera, di qualche esponente della maggioranza di governo alla lettura dei dispacci di agenzia: l’Associazione nazionale dei magistrati, il sindacato del potere giudicante, per mano del presidente Luca Palamara e del segretario Giuseppe Cascini, ha chiesto l’intervento dell’Onu per avere protezione dai soprusi del presidente del Consiglio.

Non trattandosi di cinematografia, ci sarà preclusa la scena immortale di Palamara e Cascini che stendono la missiva di raccomandazione al rappresentante delle Nazioni Unite, il relatore speciale per i diritti umani, Leandro Despuov, come fosse il Savonarola. «Negli ultimi mesi, in Italia, si sono riproposti in diverse occasioni duri attacchi alle decisioni della magistratura da parte di esponenti politici e dello stesso Primo Ministro.

Ed ancora una volta si discute di proposte dirette a modificare la composizione e le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura, in modo tale da sminuirne il ruolo di garanzia dell’indipendenza della magistratura».

Ora, a parte che i funzionari del Palazzo di Vetro dovranno valutare quali missioni indebolire per reperire le forze necessarie a espugnare Palazzo Chigi, se ritirare i soldati che ingaggiano guerriglia coi ribelli di Laurent Nkunda in Congo, se richiamare quelli deputati a distribuire aiuti nella Striscia di Gaza, se allertare quelli di stanza nei deserti afghani, oppure se mobilitare le forze impegnate nelle sessioni di colloqui fra Russia e Georgia, o nella stabilizzazione dei Balcani, ecco, a parte questi altissimi interrogativi, noialtri italiani ce ne poniamo di più terra terra. E per esempio se sia questo il risultato del rinnovamento generazionale che l’Anm si era data per trovare nuovi rapporti con la politica, guastati da un quindicennio di fuoco. I predecessori, gente come Elena Paciotti ed Edmondo Bruti Liberati - qualsiasi opinione si abbia di loro - combattevano tosti e in prima persona, e mai si sarebbero sognati l’appello alle Nazioni Unite, la qual cosa è talmente drammatica da sconfinare nell’umoristico.

Dovrebbero figurarsi, Palamara e Cascini, la faccia di Despuov quando leggerà l’implorazione, lui che si occupa di diritti, e non di casi umani. E soprattutto domandarsi quali connotati assuma la leggenda della Toga Rossa se stimola l’ironia sulla calata dei Caschi Blu.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 26, 2008, 04:01:59 pm »

MILANO, LA MEDAGLIA NEGATA

Quell'astio verso Enzo Biagi


di Pierluigi Battista


Davvero è inspiegabile l'accanimento con cui la maggioranza di centrodestra di Milano ha negato un'onorificenza a Enzo Biagi caldeggiata dallo stesso sindaco Letizia Moratti. È incomprensibile la persistenza coriacea di un risentimento così intenso da ispirare una crociata (postuma) contro il riconoscimento, attraverso una medaglia da conferire assieme alla consegna degli «Ambrogini», a un giornalista che ha indubitabilmente portato lustro a Milano, rendendosi meritevole di un tributo capace di spezzare la rigidità degli schieramenti ideologici. Come se la diversità di opinioni costituisse ancora l'incentivo di un ostracismo da rendere eterno. Come se non ci si potesse conciliare nemmeno con il ricordo di Enzo Biagi. Come se il rancore politico fosse incapace di decantarsi, e la militarizzazione degli spiriti indicasse un destino immodificabile: una guerra permanente sui simboli del passato. Enzo Biagi è un simbolo della storia del Corriere della Sera: ma non è per questo che se ne scrive qui per commentare l'errore così puerile commesso ai suoi danni. È il simbolo di un comportamento che, anche nello scontro duro, non ha mai voluto ripiegare nel vittimismo deprecatorio, meno che mai nel martirologio autocelebrativo. Anche la scelta della Moratti voleva rendere manifesto il valore simbolico della riconciliazione, del riconoscimento pubblico e solenne offerto a un talento apprezzato anche da chi non condivideva ogni parola scritta e detta da Biagi.

Possiamo immaginare che la Moratti (la quale, è il caso di ricordare, seppe testimoniare la sua vicinanza solidale a Indro Montanelli anche nelle stagioni più difficili e tormentate del suo isolamento) avesse questo in mente: dimostrare che la sua città, Milano, è capace di disintossicarsi, di accogliere in sé anche le ragioni dell'avversario, di non prolungare oltre ogni limite e ragionevolezza un dissidio amaro e astioso verso un giornalista che, al momento della sua scomparsa, ha attirato sulla sua figura il rispetto di tutti, anche di chi polemizzò aspramente con lui. Ma nella vicenda dell' «Ambrogino» rifiutato, la ragionevolezza è stata mortificata. Il puntiglio mai smaltito del centrodestra milanese si è dimostrato così imperdonabilmente acrimonioso da sconfessare persino gli sforzi del sindaco. Una scelta di puro buonsenso si è rivelata impraticabile. Inspiegabilmente, appunto. A Biagi non garbavano i pennacchi e le medaglie, e un'onorificenza in più non ne avrebbe certo ammorbidito il carattere orgoglioso e combattivo. Ma se non si può tornare indietro, e se la memoria di Enzo Biagi non sarà gratificata da un riconoscimento negato, è possibile sperare che i vertici del centrodestra, dal presidente del Consiglio Berlusconi al presidente della Camera Fini, sappiano spiegare ai loro troppo zelanti proconsoli milanesi (di Forza Italia, di An, della Lega) che stavolta sono incappati in un errore su cui, con un minimo di buona volontà, avrebbero potuto non inciampare. Lo potrebbero fare, per spirito liberale se non per antica consuetudine (nel caso di Fini, soprattutto) con le fatiche di chi ha saputo vivere e battagliare su posizioni di minoranza. Occorrerebbe soltanto uno sforzo di umiltà: per Enzo Biagi qualcosa di più di una medaglia al valore.

26 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 17, 2008, 07:45:43 pm »

17 dicembre 2008 AREA RASSEGNA STAMPA - Rassegna stampa

Il silenzio di un Paese intero fonte  Pierluigi Battista - Il Corriere della Sera

La «non reazione» della Chiesa, certo.


Ma nel '38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime. Gli ebrei vennero lasciati soli, come il padre di Giorgio nel Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, iscritto al Fascio di Ferrara, volontario nella Prima guerra mondiale.

Nel '38 il personaggio di Bassani vide improvvisamente la sua famiglia messa ai margini della società, dal partito, dalle biblioteche, dal circolo del tennis, senza che nessuno, ma proprio nessuno spendesse una parola contro la discriminazione. Vittorio Foa, che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo («non so bene perché diavolo lo faccio ») e scrisse: «Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza».

Dieci anni fa Giulio Andreotti si chiese perché non si fossero avviate indagini critiche «sul comportamento di senatori come Croce, De Nicola, Albertini, Frassati, che disertarono la seduta del 20 dicembre 1938 facendo passare senza opposizione la legislazione antisemita ». Vero. Ma non risultano commenti altrettanto indignati di Andreotti sulle accuse che padre Agostino Gemelli, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, mosse nel '39 all'indirizzo degli ebrei, «popolo deicida» che «va ramingo per il mondo » a scontare le conseguenze di quell'«orribile delitto ». E a proposito di Croce fa molta impressione leggere, nel libro "L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane" di Annalisa Capristo, l'elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare «i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni».

Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame. E invece i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abbagnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d'Entrèves e i Giuseppe Siri (e centinaia con loro, illustri come loro) vollero sfoggiare «l'aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda».
Da Luigi Einaudi, che sottolineò orgoglioso «l'appartenenza alla religione cattolica ab immemorabile», a Ugo Ojetti, che fu puntuale fino alla pignoleria: «Cattolico romano, dai dieci ai sedici anni ho servito tutte le domeniche».

Solitaria eccezione, appunto, quella di Benedetto Croce, che rispedì al mittente i moduli della vergogna con impareggiabile sarcasmo: «L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».
Era già una «persecuzione »: ci voleva poco a capirlo, malgrado i risibili rosari autoassolutori del «non sapemmo » e del «non capimmo».

Mentre Alberto Moravia implorava le autorità fasciste perché gli venisse data la possibilità di continuare a scrivere sulle riviste («sono cattolico fin dalla nascita, mio padre è israelita, ma mia madre è di sangue puro »), Guido Piovene recensiva rapito Contra Judeos di Telesio Interlandi.
Il giovane cattolico Gabriele De Rosa (in un «libercolo » che lo storico decenni dopo avrebbe definito «goffo e scriteriato ») inveiva contro «il focolare ebraico» in Palestina, alimentato dal popolo responsabile della crocifissione di Gesù Cristo. Il giovane Giorgio Bocca discettava sui pericoli del piano ebraico di conquista del mondo rivelata dai (falsi) Protocolli dei savi Anziani di Sion.
Giulio Carlo Argan, colto collaboratore del regime per la difesa dei beni culturali e artistici, in una corrispondenza del 1939 dagli Stati Uniti dissertava sull'influenza del «potentissimo elemento ebraico» in America. Una fornitissima appendice documentaria apparsa nella seconda edizione del «lungo viaggio» di Ruggero Zangrandi «attraverso il fascismo» descrisse nel 1962 l'ampiezza del consenso servile degli intellettuali alla politica antisemita del regime, ricostruito per la prima volta in quegli stessi anni da Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo.
Rosetta Loy, nel suo libro

La parola ebreo, ha definito la «Difesa della Razza» una «rivista dalla grafica aggressiva e anticonvenzionale che aveva tra i suoi finanziatori la Banca Commerciale ». Sandro Gerbi ha confermato che sul quindicinale fossero comparsi «talvolta avvisi pubblicitari della Comit, del credito Italiano, della Ras, dell'Ina e via dicendo», precisando però che quelle inserzioni erano il frutto di «chiare direttive "superiori" del Minculpop e non di scelte autonome e di dirigenti delle singole aziende». Non furono scelte «autonome». Ma furono o no, anch'esse, l'esito di una tacita «non reazione»?

«Non reagirono» gli scrittori che, come è documentato dall'Elenco di Giorgio Fabre, non si rifiutarono di firmare i manuali e le antologie scolastiche al posto degli autori ebrei il cui nome era ostracizzato e dannato. Non reagirono i docenti universitari che ereditarono le cattedre lasciate vacanti dai colleghi estromessi a causa della legislazione antisemita. Roberto Finzi ha rivelato che per Ernesto Rossi, in carcere, la cacciata dei docenti ebrei avrebbe rappresentato «una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi». Rossi non si sbagliava: l'«affollamento » fu macroscopico, corale, macchiato solo da qualche residuale caso di coscienza. Un capitolo controverso di viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell'Italia democratica.

Alberto Cavaglion ha ricordato che la cattedra di letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sotto l'effetto delle leggi razziali «dopo la fine della guerra sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato». Chi, in altre parole, non aveva «reagito» nel '38 e negli anni successivi non perderà la cattedra.

E del resto le leggi razziali saranno completamente e radicalmente soppresse solo nel 1947, con una lentezza che forse tradì il turbamento per non aver saputo contrastare, coralmente e individualmente, l'abiezione della legislazione antiebraica.

La vergogna per non aver «reagito»: con poche, ammirevoli, sporadiche eccezioni.

da www.partitodemocratico.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 20, 2008, 03:24:20 pm »

GOVERNO E DEMOCRATICI

Le cattive tentazioni

di Pierluigi Battista


Ora che il Partito democratico si contorce negli spasmi di una crisi profonda, l'attuale maggioranza di governo farebbe bene a ispirarsi a una regola semplice, ma che richiede la saggezza dell'autocontrollo e il respiro della lungimiranza: in una democrazia sana l'opposizione svolge una funzione vitale e insostituibile. Cedere alla tentazione di umiliarla, solo all'apparenza gratificante, sarebbe controproducente e persino autolesionista. Sarebbe un gesto di plateale incoerenza, per chi ha sempre vituperato l'uso politico delle vicende giudiziarie. Colpirebbe l'essenza di un sistema bipolare, che costringe chi governa a non sbagliare (troppo) per non subire il castigo elettorale. Perché una democrazia, se non si fa in due, è finta, diventa uno scenario vuoto. E muore per asfissia.

Non è dunque per magnanima concessione che il governo e la sua maggioranza possono proporre al Partito democratico una riforma della giustizia non vendicativa, non ultimativa, non imposta con la prepotenza dei numeri e con lo stile dell'intimazione. «Condivisa», come hanno auspicato il capo dello Stato e i presidenti delle due Camere, vuol dire proprio questo: divisa «con», aperta alle proposte di chi ne abbraccia i princìpi ma intende discuterne legittimamente e apertamente tutti, ma proprio tutti i singoli passaggi. Non una ricerca del compromesso al ribasso, ma nemmeno l'obbligo di una prova di forza con cui costringere l'interlocutore ad accettare un prodotto preconfezionato e immodificabile. Sulle norme che regolano le intercettazioni, per esempio, esiste già un testo approvato dal Consiglio dei ministri su cui l'opposizione si mostra tutt'altro che veementemente contraria. Trattandosi di un tema delicato e controverso, perché allora giocare ulteriormente al rialzo e demolire quella base minima di consenso (peraltro, è bene ripetere, già approvata con atto formale dallo stesso governo) da cui può scaturire una riforma «condivisa» delle intercettazioni?

Non bisogna dimenticare che la disponibilità a impegnarsi su una riforma della giustizia espone il Partito democratico su tre fronti. Quello dell'opinione pubblica, che può sospettare un interesse del Pd a mettere mano alla macchina giudiziaria proprio adesso che si sente nel mirino delle inchieste improvvisamente partite da una molteplicità di Procure. Quello dell'ingombrante e dilagante alleato Di Pietro, pronto a bombardare il partito di Veltroni, bollato come corresponsabile di un «inciucio » se non di un «tradimento ». Quello di una parte della magistratura, incline ad offendersi al minimo cenno di ridimensionamento dello strapotere goduto nell'ultimo quindicennio. Sarebbe miope se la maggioranza di governo, anziché favorire la virtù di un'intesa per un obiettivo «condiviso», fosse tentata dall'apertura di un quarto, devastante fronte di conflitto: e solo per intralciare il cammino di un avversario in evidente difficoltà e lucrare sulle convulsioni dell'opposizione. Mercoledì scorso Angelo Panebianco ha invitato il Pd a non lasciare solo Luciano Violante con le sue aperture sulla riforma della giustizia. Ora sarebbe bene che il governo non isolasse quella parte dell'opposizione disposta a seguire il percorso di Violante. Basterebbe non darla vinta alle cattive tentazioni.


20 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 23, 2008, 01:49:38 pm »

IL CASO SORU

La maledizione doppiopesista


di Pierluigi Battista


La maledizione del doppiopesismo, ancora una volta. Quella malattia politica e culturale che spezza ogni unità di giudizio, fomenta l'indignazione a corrente alternata, alimenta il pregiudizio che tra di «noi» si possa regalare per grazia ricevuta un trattamento più indulgente e autogratificante di quello abitualmente riservato all'avversario. È questa sindrome del doppio standard che si manifesta ancora una volta nelle parole di Renato Soru, una delle figure più innovative, moderne e post-ideologiche della famiglia democratica. Parole da cui si evince che anche il conflitto di interessi è sottoposto alla logica del doppio standard: intollerabile se ne sono responsabili gli altri; una trascurabile inezia se ad esserne prigioniero è uno dei «nostri».

Soru si è dimesso da governatore della Sardegna. Ieri ha sciolto la riserva e ha deciso di ricandidarsi per le prossime elezioni regionali sarde confermando che un apposito blind trust rimedierà al conflitto di interessi espressamente indicato da una legge regionale della Sardegna come motivo di incompatibilità tra la proprietà di un'azienda e la carica di presidente della Regione. Ma è qui che nascono i problemi. Perché la sinistra ha da sempre fieramente indicato nel conflitto d'interessi dell'avversario Silvio Berlusconi la più colossale anomalia del sistema italiano, bollando come una risibile panacea la legge che sul tema è stata emanata nella precedente legislatura del centrodestra e considerando anche il blind trust come una misura largamente insufficiente, monca, facilmente aggirabile. E invece, quando Alberto Statera su Repubblica ha chiesto di rispondere a chi «ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu Confalonieri" a Mediaset e suo fratello all'Unità è come "Paolu Berlusconi" al Giornale », Soru ha liquidato sprezzantemente come «sciocchezze» quelle domande sacrosante eppure trattate come spregevoli insinuazioni.

Non sono «sciocchezze », sono il normale sospetto cresciuto nell'atmosfera del conflitto di interessi. Se poi si risponde come Soru, e cioè rivendicando al professor Racugno (intervistato oggi da Alberto Pinna per il Corriere) una «specchiata onestà e moralità», è fatale che si commettano insieme almeno due deprecabili errori. Con il primo si getta gratuitamente un'ombra sulla «specchiata moralità» degli avversari, che invece possono vantare titoli di «moralità» non inferiori a quelli giustamente attribuiti a Racugno. Con il secondo si persevera nella pretesa di una pregiudiziale «superiorità morale» di cui ci si sente investiti come per un diritto acquisito. Ma questo secondo errore continua ad essere una fonte di guai da cui il mondo del Partito democratico farà bene a liberarsi al più presto. È la malattia doppiopesista che oramai viene accolta con sempre maggiore freddezza e incredulità dall'opinione pubblica italiana. È la stessa malattia che traspare dall'insofferenza con cui, dentro e attorno al Partito democratico, ci si lamenta in questi giorni per il legittimo interesse con cui vengono seguite le inchieste che stanno minando numerose giunte di centrosinistra. È la malattia che scambia per «sciocchezze » tutte le domande sulla coerenza di chi si sente per principio sottratto all’esame spietato dell'opinione pubblica. Domande che esigono una risposta, prima che sia troppo tardi.

23 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 07, 2009, 12:35:38 pm »

LA GUERRA A GAZA

Tregua e retorica

di Pierluigi Battista


I numerosi appelli alla «tregua» non possono lasciare indifferente chi sostiene il buon diritto delle operazioni militari condotte da Israele.
Di fronte allo scenario straziante di Gaza, dei civili e dei bambini uccisi, delle case sventrate, degli ospedali sovraffollati e drammaticamente a corto di medicinali, l’invocazione di una tregua parla a chiunque abbia a cuore le ragioni dell’umanità e disvela la natura essenzialmente, irrimediabilmente atroce della guerra, persino di quella più «giusta». Anche i civili massacrati nelle guerre di Bagdad e di Beirut, di Kabul e di Belgrado richiamavano l’urgenza di una «tregua». Per fortuna è passato il tempo in cui (basta compulsare le antologie letterarie per sincerarsene) anche gli intellettuali più sensibili cantavano l’ebbrezza bellica, l’estetica della guerra, la mistica della morte, la poesia del combattimento. La morte e la devastazione provocate dalla guerra, oggi, rendono invece improrogabile l’esigenza di una «tregua».

Sono le autorità morali e religiose che chiedono la tregua. La chiede il presidente francese Sarkozy. Chiede il «cessate il fuoco » Tony Blair sebbene, come ha maliziosamente notato il suo successore Gordon Brown, in diciotto mesi da che è rappresentante del «Quartetto» in Medio Oriente non abbia mai messo piede nella striscia di Gaza. In Italia si spendono Massimo D’Alema per chiedere la «trattativa» con Hamas, Emma Bonino per la «tregua duratura», Lamberto Dini per il «negoziato». Tutti interventi animati da argomenti che non attengono solo alla sfera «morale», ma anche a quella del realismo politico. Non è dettata dal candore delle «anime belle» la preoccupazione (peraltro, non proprio inedita) che tra i giovani palestinesi l’irruzione a Gaza possa acuire un distruttivo furore anti-israeliano. E non è un argomento capzioso quello di chi invita a non sottovalutare il radicamento di Hamas, partito dedito alla lotta armata terroristica che però è sostenuto dalla maggioranza della popolazione di Gaza. Il fronte della «tregua » non è privo di basi politiche, oltreché morali. Ma è la «retorica della tregua» che rischia di renderle fragili e destinate all’inconcludenza.

Tutte le espressioni che modulano con ripetitiva monotonia l’esigenza della tregua, dal «cessate il fuoco» al «tacciano le armi», dai «tavoli della pace» alle «conferenze internazionali per il dialogo » ai «corridoi umanitari », presuppongono una condizione fondamentale che è proprio quella assente nell’inferno di Gaza: la tregua, perché sia tale, si fa sempre in due. E’ ragionevole, è realistico, è possibile che Hamas voglia essere una delle due parti a rispettare una tregua? Non l’ha già violata lanciando razzi Qassam sulle città israeliane per fare espressamente vittime civili? E poi, su quali basi è possibile per Israele trattare con chi non nasconde un’ostilità assoluta e non negoziabile verso la sua stessa esistenza?

Una condizione asimmetrica talmente evidente che anche i più convinti partigiani della «tregua», e persino i commentatori più critici con le scelte di Israele, non possono fare a meno di notare. Rossana Rossanda, sul «manifesto », è durissima con «gli aerei e i blindati di Tsahal», ma non regala ad Hamas, tragicamente ispirata alla logica del «periscano Sansone e tutti i filistei», l’attenuante del «giustificato risentimento». Chi, a cominciare da Sarkozy, insiste sulla «sproporzione» della reazione israeliana non nega la legittimità di una reazione a un evidente torto di Hamas. Dovrebbe piuttosto indicare con passabile approssimazione quale sarebbe la reazione «proporzionata». Dovrebbe definire quale sanzione sarebbe considerata legittima per chi violasse in futuro una tregua già compromessa con il lancio dei razzi su Ashkelon e Sderot. Dovrebbe spiegare come colmare la latitanza degli organismi internazionali e come ovviare alla tragica mancanza di credibilità dell’Onu che, come ha scritto Angelo Panebianco sul «Corriere», parla senza pudore, attraverso il Richard Falk che rappresenta il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, di «aggressione israeliana». Dovrebbe spiegare se la condanna morale di chi uccide i civili palestinesi è applicabile con la stessa severità ad Hamas, che in uno dei suoi lanci di razzi sulle città israeliane ha colpito per sbaglio proprio due bambini di Gaza. Dovrebbe descrivere con parole moralmente adeguate chi fa delle sue donne e dei suoi bambini altrettanti scudi umani dietro cui mimetizzare bunker e depositi di armi. Dovrebbe indicare in cosa consista esattamente l’alternativa alla guerra e all’intervento militare. Per rendere la parola «tregua» credibile e convincente e salvare Israele come i civili palestinesi.

07 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 14, 2009, 05:27:56 pm »

Baruffe nostrane

di Pierluigi Battista


Ma è possibile svilire una crisi internazionale nelle beghe della provincia italiana? È possibile rimpicciolire la tragedia umanitaria di Gaza alle baruffe politiche italiane, alle rese dei conti nel cortile di casa, alle rivalità che fioriscono all’ombra delle nostre redazioni e negli angoli dei palazzi romani? Se questo accade, come accade, è un vero peccato.

Peccato perché è difficile trovare la strada giusta in un conflitto dove le ragioni e i torti non sono purtroppo concetti astratti e disincarnati. In una guerra che travolge fatalmente ogni confine tra la dimensione militare e l’esistenza di centinaia di migliaia di civili, tra l’incubo dei razzi Qassam che Hamas lancia sulle città di Israele e il terrore che attanaglia la gente di Gaza in balia dei soldati israeliani. Ci si accosta a quella guerra con timore e senza iattanza. Lo sappiamo al «Corriere», dove la comprensione per le ragioni di Israele non ha messo a tacere le voci critiche nei confronti del governo israeliano, da Amos Oz a Saeb Erekat, uno dei principali negoziatori palestinesi, allo scrittore franco-algerino Yasmina Khadra.

È sorprendente, perciò, che per spirito di baruffa polemica, il «manifesto» faccia nomi e cognomi di una pattuglia di editorialisti «pasdaran », deprecati come soldati della penna «allineati e coperti » sulla linea degli «aggressori » israeliani. Una legittima critica politica, beninteso, che tuttavia, visto il contesto, dovrebbe pur porre ai colleghi del «manifesto » il problema di interpretazioni, per così dire, molto più «radicali» e sbrigative. Come è sintomo di un’incoercibile inclinazione alla rissa la reiterata attitudine del Massimo D’Alema di questi giorni ad accompagnare le sue pur interessanti analisi con battute rancorose sulla «rozzezza propagandistica di certi editorialisti nostrani » e sulla «tv italiana che è di fatto un bollettino israeliano ».

Giudizi sommari, pronunciati con una verve bellicosa in singolare contrasto con la compostezza che, su diversi fronti, stanno conservando il ministro Frattini e tutti, ma proprio tutti gli altri esponenti di spicco del Partito democratico. Parole, queste sì, dall’inconfondibile sapore «nostrano»: mentre il mondo discute del pericolo iraniano o della posizione del presidente eletto Obama, noi invece veniamo investiti da una piccola polemica casalinga, come se il dramma mediorientale si confacesse ai toni adoperati nelle guerricciole che dilaniano il Pd campano.

Rifiutando la rissa, e riflettendo sul D’Alema che equipara l’intervento in Israele a Gaza a una sproporzionata «spedizione punitiva», sarà invece il caso di fare attenzione ai conteggi (s)garbati di Andrea Marcenaro che sul «Foglio», commentando le osservazioni dalemiane secondo cui «non si può definire guerra un conflitto in cui muoiono 900 persone da una parte e 10 dall’altra», ricorda gli oltre 500 civili periti nelle scuole, negli ospedali, nelle ambasciate, negli autobus, nelle redazioni tv, nei treni, nelle carceri durante i «78 giorni di bombardamenti Nato» sulla Serbia e sul Kosovo nella guerra del ’99 notoriamente condivisa dallo stesso D’Alema: 500 vittime contro zero. Per meditare sugli orrori e gli squilibri di ogni guerra, anche di quella più «giusta», e per non disperdersi, attratti dalle ossessioni del cortile, in piccole diatribe «nostrane». Meno cruente, per fortuna.

14 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Febbraio 12, 2009, 03:35:27 pm »

IL CASO WILDERS

La tolleranza sospesa

di Pierluigi Battista


Il deputato olandese Geert Wilders non è un personaggio da ammirare. Il suo film «Fitna» offende il Corano e ferisce i musulmani. Ma se la libertà di esprimersi, girare film, viaggiare fosse riservata solo alle persone ammirevoli vivremmo in un mondo da incubo. Le autorità britanniche, come racconta oggi sul nostro giornale Luigi Offeddu, non vogliono che l’olandese Wilders metta piede in Gran Bretagna perché le «sue dichiarazioni contro i musulmani minacciano l’armonia della comunità e dunque la sicurezza pubblica nel Regno Unito». Per evitare le manifestazioni di protesta degli islamici si comprime il diritto di circolare liberamente nell’Europa tollerante, inclusiva, rispettosa di ogni «diversità ». Il diritto di diffondere le proprie idee, anche se detestabili. La paura cancella diritti di cui dovremmo andare orgogliosi: ma la circostanza passa inosservata, complice l’impresentabilità intellettuale di chi ne viene privato. Il «caso Wilders» potrebbe trasferirsi dalla Gran Bretagna all’Italia, perché è previsto (ma ancora non è sicuro) che il deputato olandese verrà nel nostro Paese per ritirare un premio, tra l’altro con l’accoglienza di alcuni parlamentari.

E’ difficile non essere d’accordo con Ian Buruma, l’intellettuale olandese che considera Wilders «non certo un artista, neppure un buon politico, solo un provocatore che cerca lo scontro e deliberatamente vuole aizzare le frange islamiche più estremiste». Ma sulla questione del «buon artista» dobbiamo necessariamente fidarci di Buruma, perché nessuno può vedere un film di cui è stata interdetta la trasmissione pubblica. Del resto, sono ormai clandestine anche le opere dei vignettisti danesi che anni fa con i loro disegni anti-Islam suscitarono cruente proteste nelle principali capitali musulmane, esposero la Danimarca alla ritorsione delle «frange islamiche più estremiste», consegnarono i loro autori e i responsabili dei giornali che ne consentirono la pubblicazione ai rigori di una vita blindata, superprotetta e taciturna. Nessuno ha potuto vedere «Submission », il film sull’Islam del regista Theo Van Gogh assassinato in Olanda secondo il rituale riservato ai nemici della religione.

Nessuno immagina il tipo di vita di Robert Redeker, l’insegnante francese che, dopo aver scritto su Le Monde un articolo molto veemente contro il fondamentalismo islamista, ha perso il suo lavoro e vive rintanato nella clandestinità. A vent’anni esatti dalla fatwa scagliata contro Salman Rushdie, e quando ancora la «rinnegata» Ayaan Hirsi Ali patisce in Olanda la sua vita braccata e sotto perenne scorta, la fine della sindrome dell’ 11 settembre, la percezione di uno sbiadirsi dello scenario di guerra che quell’evento epocale aveva prodotto, ha lasciato un manipolo di fantasmi in balia della furia vendicatrice delle «frange estremiste ». Anche Wilders è forse un estremista del fanatismo anti-islamico, ma l’ostracismo europeo, britannico (e italiano?) decretato nei suoi confronti è la sconfitta di uno «stile di vita» liberale e tollerante che è esattamente il bersaglio dell’odio di matrice totalitaria e integralista. Il ricordo dell’11 settembre non è più così cocente, per fortuna. Ma la dimenticanza comporta dei prezzi. L’autocensura compresa.

12 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:39:54 am »

RONDE E TESTAMENTO BIOLOGICO


Il ricatto della «deriva»


di Pierluigi Battista


A New York e a San Francisco, a Chicago e Filadelfia— racconta la «Stampa»—non un incidente, un’aggressione, un atto di violenza, una prepotenza ha deturpato la missione dei «Guardian Angels», i volontari armati solo di telefoni cellulari e berretti rossi che aiutano la polizia nella protezione dei quartieri più disagiati delle metropoli americane. Può darsi che negli Stati Uniti siano più fortunati. Oppure che le cose possano funzionare senza necessariamente precipitare nella loro versione degenerata.

E’ possibile che queste forme di volontariato civico non si perdano nella cupa «deriva» squadristica preconizzata in Italia. Può darsi cioè che almeno una volta sia stato possibile superare il terrore della «deriva», l’angoscia, la premonizione della «deriva»: quella sindrome del peggio (la deriva) che paralizza ogni iniziativa per paura che la normalità si trasformi obbligatoriamente nella sua patologia. La sindrome della «deriva » appare come il nuovo stato d’animo che attanaglia l’Italia impaurita e frastornata nei nostri giorni. «Deriva», caricato di un significato totalmente diverso da quello che campeggia sul titolo di un libro avvincente e amaro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è diventato un termine chiave del lessico politico italiano. Si parla di deriva autoritaria e di deriva plebiscitaria, di deriva xenofoba e di deriva estremista. La deriva dilaga, si insinua negli interstizi del discorso pubblico, si impone come figura dell’allarme e dello sgomento verso l’incognito e l’inedito.

Nella discussione sulle «ronde» o in quella sul testamento biologico, la sindrome della deriva autorizza a non fare niente invece di fare qualcosa di ragionevole, di utile e di giusto. Se non si imponesse la paura della deriva, l’idea che dei cittadini di un quartiere o di un rione, avendo a cuore le sorti della comunità, si adoperino per la protezione e la sicurezza di tutti, non dovrebbe essere per forza una cattiva idea. Diventa una pessima idea se prevale l’immagine di squadracce di facinorosi armati che si abbandonano ad atti di linciaggio e di rappresaglia, di giustizieri della notte che si danno a un’immonda caccia allo straniero. Ma se la legge impone tassativamente il disarmo dei cittadini impegnati, la loro rigorosa selezione, il loro controllo da parte delle forze dell’ordine, perché non pensare che le cose possano andare per il verso giusto come con i «Guardian Angels» negli Stati Uniti? Sempre la paura, l’ansia paralizzante della «deriva ». Che si riaffaccia in modi imperiosi anche nella controversia sul «testamento biologico».

Appare del tutto evidente la sproporzione tra una dichiarazione della propria volontà in merito alle cure e alle terapie cui essere sottoposti quando la vita se ne va e l’incubo di una «deriva eutanasica» sbandierato da una parte consistente del mondo cattolico. Basterebbe elencare i Paesi europei che, come la Francia e la Germania, la Spagna e il Belgio, dispongono di una legge sul testamento biologico senza essere scivolati (come l’Olanda) sul piano inclinato dell’eutanasia e del suicidio assistito. Perché noi e soltanto noi dovremmo essere condannati alla «deriva eutanasica»? Forse sarebbe meglio, come ha autorevolmente argomentato Angelo Panebianco su queste pagine, che lo Stato frenasse la sua smania intrusiva e non invadesse quella fragile «zona grigia» dove la democrazia non dovrebbe decidere a maggioranza sulle questioni ultime della vita e della morte. Ma se si decide di fare una legge, ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive o espressamente proibisce, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili «derive» interpretative che quella legge si immagina debba comportare.

E se una legge consente a un cittadino, con procedure certe e sicure, di formulare anticipatamente la propria volontà di non subire l’accanimento di cure dolorose e vane che avrebbero come unico effetto di deturpare persino la dignità della morte (oltreché della vita), cosa autorizza a equiparare questo diritto all’immagine fosca e apocalittica di un’orgia eutanasica? Che atroce idea si ha della «deriva» morale di medici e familiari che altro non attenderebbero se non il via libera per la soppressione anticipata di pazienti e congiunti? La «sindrome della deriva» altera i toni emotivi del dibattito pubblico, descrive esiti tragici per non contemplare nemmeno la possibilità di esiti più «normali», capaci di dare una risposta ragionevolmente efficace a problemi largamente sentiti in una comunità. La «sindrome della deriva» è l’antitesi di un approccio gradualista e riformista alle esigenze che si muovono nel corpo sociale. Ricorda Fabrizio Rondolino sulla «Stampa» che «contro la violenza sessuale, negli anni Settanta gruppi di femministe organizzavano pattugliamenti notturni delle strade, con l’intento di "riprendersi la notte" rendendola, semplicemente, un po’ meno buia e deserta».

E’ davvero pensabile che ciò che di positivo, civicamente ineccepibile, è racchiuso nella voglia di vincere la paura e impegnarsi con gli altri per rendere pacificamente più sicure le città, venga inghiottito nello spettro di una deriva squadristica e addirittura xenofoba? Ed è davvero immaginabile che uomini e donne normali, sinceramente preoccupati per la potenza schiacciante della tecnoscienza e per l’eventualità di trascorrere periodi interminabili della propria vita al tramonto in una condizione di dipendenza assoluta da macchine sempre più sofisticate, possano dare il loro benestare a una pratica selvaggia dell’eutanasia? La «deriva» è un fantasma catastrofista di cui liberarsi. Trasforma il legittimo allarme, che le leggi hanno il compito di prevedere e di neutralizzare, in un allarme globale e incontrollabile: premessa sicura per giustificare, come sempre, l’impotenza e l’immobilismo.

28 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 08, 2009, 09:26:18 am »

Una questione di principio


di Pierluigi Battista


Dunque l’Italia non parteciperà alla «Durban due», la conferenza «sul razzismo» patrocinata dall’Onu destinata, stando alle bozze preparatorie del meeting, a replicare la lugubre kermesse antisemita inscenata a Durban, Sudafrica, alla vigilia dell’ 11 settembre 2001. Il governo italiano, affiancandosi agli Stati Uniti di Obama e al Canada, non assisterà al paradossale spettacolo del linciaggio che, purtroppo sotto l’egida delle Nazioni Unite, un pugno di Paesi all’avanguardia nella cancellazione dei diritti umani fondamentali allestirà contro Israele. Il canovaccio era già pronto, pressoché identico a quello di otto anni fa. Forse nessuno inalbererà cartelli con il ritratto di Bin Laden, come pure accadde nella bolgia «antisionista » di Durban pochi giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma come escludere che risuoneranno dalla tribuna di Ginevra le trombe del nuovo credo negazionista amplificate, nella cornice stravolta di un incontro convocato all’insegna dell’antirazzismo, dall’Iran di Ahmadinejad? La decisione comunicata dal ministro Frattini impedisce che l’Italia contribuisca ad azzerare il ricordo del trauma patito a Durban. Si capì subito allora che il «razzismo» da combattere era soltanto il «sionismo». La legittimità dello Stato di Israele era negata in linea di principio, con una veemenza bellicosa che spiazzò persino i responsabili delle Nazioni Unite. Dal palco degli oratori, nel silenzio sbigottito e impotente di Amnesty International e Human Rights Watch, si irrideva agli ebrei che «usavano» l’Olocausto per giustificare il «razzismo contro i palestinesi». Dittatori feroci come Mugabe indossarono le vesti di paladini dell’umanità calpestata dall’idra israeliana. Che l’allora Segretario Generale dell’Onu Kofi Annan avesse solo eccepito molto blandamente sull’ondata antisemita che stava sommergendo una conferenza che avrebbe dovuto impostare la battaglia internazionale contro il razzismo, fu solo il coronamento di una colossale mistificazione. Accettare senza reagire la prevedibile replica di Ginevra sarebbe stato un grave errore.

E’ merito del governo italiano non averlo commesso. Perché si possa dire «dell’Italia» e non solo del «governo italiano », occorre che l’opposizione dica, tra l’altro nella scia di un governo americano «amico» come quello di Obama, che su una questione irrinunciabile di principio come la lotta all’antisemitismo comunque camuffato non c’è ostacolo di schieramento e di collocazione politica. Un obiettivo, la lotta all’antisemitismo, ovviamente condiviso anche dal predecessore di Frattini agli Esteri, Massimo D’Alema, che sempre, anche quando ha criticato con vigore l’azione israeliana a Gaza, anche quando ha rivendicato una linea di condotta che tenesse conto della forza e del radicamento di Hamas ed Hezbollah, ha tenuto a erigere una frontiera civile e valoriale contro il dilagare della furia antisemita (antisionista) che nega il diritto all’esistenza stessa dello Stato di Israele.

Questa frontiera è stata oltrepassata a Durban e nessun lavoro diplomatico di lima per il testo della Risoluzione finale avrebbe potuto disinnescare il pericolo che a Ginevra la stessa frontiera venisse nuovamente violata. Forse non solo una «buffonata», come Pascal Bruckner ha definito la Conferenza di cui ha promosso il boicottaggio, ma soprattutto un’inquisizione mondiale che con le bandiere dell’Onu metterà sul banco degli imputati il vituperato «sionismo». Un’inquisizione da cui l’opposizione non può che dissociarsi.

06 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 18, 2009, 06:32:23 pm »

Il principio che vince


di Pierluigi Battista


Ventisette Paesi dell'Unione Europea hanno deciso che a Ginevra non potrà esserci una replica del festival antisemita inscenato a Durban nel 2001. Hanno stabilito che senza sostanziali modifiche al testo preparatorio della conferenza Onu contro il razzismo, attualmente zeppo di giudizi e pregiudizi ostili a Israele, la maggioranza dell'Europa politica diserterà i lavori della cosiddetta «Durban 2». Hanno segnato una linea che non può essere valicata: l'accettazione passiva e acquiescente di una tribuna internazionale che, sotto le insegne delle Nazioni Unite, si faccia megafono di una campagna ossessivamente «antisionista ».


Gli Usa e il Canada avevano già deciso di boicottare la conferenza di Ginevra. Il governo italiano si è associato alla linea del rifiuto di collaborare con un'iniziativa che, così come era impostata, non avrebbe potuto impedire il ripetersi dei misfatti di Durban. Oggi l'Europa, malgrado le critiche francesi alla scelta italiana considerata troppo «unilaterale », si attesta su una posizione che sottolinea l'impossibilità di assecondare un appuntamento internazionale destinato a stravolgere l'obiettivo stesso, la lotta al razzismo, a favore del quale era stato convocato. Testimonianza ulteriore che il principio della mediazione, utile e da perseguire con la giusta tenacia, non può oscurare le basi culturali dell'identità europea, dove l'antisemitismo e la violazione della libertà di espressione non possono trovare casa.


È la fine di un sortilegio, che ha sinora sacrificato ogni perplessità sull'altare dell'unità dell'Onu. Non è la conclusione di una battaglia, perché non è affatto detto che i testi preparatori della conferenza di Ginevra saranno cambiati in profondità secondo le indicazioni delle nazioni europee. Ma è la traccia di un cambiamento nell'atteggiamento e nella mentalità nelle democrazie che, come a Durban nel 2001, hanno permesso, nel silenzio omertoso delle organizzazioni internazionali, la grottesca equiparazione del razzismo e del sionismo, indicando in Israele l'unica fonte di discriminazione conosciuta in tutto il mondo. Per evitare il ripetersi di una farsa tanto oltraggiosa, va dato atto al governo italiano (con il consenso, nell'opposizione, dei radicali) di non aver esitato a seguire l'esempio americano, frustrando sul nascere ogni tentazione rinunciataria sul fronte europeo.
Il tono tassativo della dichiarazione dei Ventisette sta a dimostrare che l'Europa ha considerato non negoziabile ogni riferimento testuale che suonasse, se non come approvazione, come rassegnata accettazione di una visione rovesciata delle cose del mondo. L'Italia, in questo caso, non si è avventurata in un'imprudente fuga in avanti. Ha invece convinto anche i Paesi europei più riottosi ad attestarsi su una linea ultimativa, assegnando all'Europa un ruolo insperato di promozione dei diritti umani. Per l'Europa ora corre l'obbligo di tener duro e di non contraddire i proclami con comportamenti più disponibili a un inconcludente negoziato. Separando il proprio destino, nel caso, dai fanatici architetti di un'altra Durban.


17 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:44:35 pm »

L’OCCIDENTE E KABUL

Lo sfregio dei diritti


di Pierluigi Battista


Se il presidente afghano approva la reintroduzione legale del diritto di stupro domestico presso le comunità sciite, è un rinfocolamento di uno sconsiderato «scontro di civiltà» chiedere ai governi democratici di non restarsene silenziosi e acquiescenti? Se, con la scusa delle prescrizioni coraniche, le donne dell’Afghanistan sono maltrattate dalla legge locale come esseri inferiori, gli amici occidentali del presidente Karzai (Italia compresa) avrebbero o no il dovere di subordinare il loro aiuto alla certezza che a Kabul e dintorni non si restauri una cupa tirannia di tipo talebano?

E le donne liberate dell’Occidente si acconciano davvero così facilmente al ripristino di una norma che obbliga le mogli oppresse dell’Afghanistan a «non rifiutarsi di avere rapporti sessuali » imposti contro la volontà della donna dalla prepotenza del marito-despota? Interrogativi retorici, anzi pateticamente retorici, perché la risposta appare ovvia e scontata: nessuno chiederà conto al presidente Karzai del precipizio oscurantista in cui sta nuovamente sprofondando l’Afghanistan «liberato » nel 2001 e tenuto in piedi solo grazie al (peraltro doveroso) sostegno militare occidentale. Nessuno ha chiesto conto delle condanne a morte comminate per «apostasia».

O per il codice di famiglia tutto particolare in vigore presso la comunità sciita che prevede l’arresto e pene severissime per una moglie (anche minorenne) in fuga da un matrimonio forzato. O per Perwiz Kambakhsh, condannato a vent’anni di galera per «blasfemia», che poi erano solo articoli a favore dei diritti delle donne. O per il carcere (fino alla pena di morte) per gli omosessuali. O per l’infinità di proibizioni di ogni genere d’opinione giudicata «oscena». Non è stato detto nulla e non si dirà nulla perché ogni parola di critica e di protesta sarebbe apparsa come un attentato al «dialogo», o addirittura come la manifestazione proterva di un colonialismo culturale inaccettabile.

Del resto Tariq Ramadan, un intellettuale che incomprensibilmente gode fama di «ponte» culturale tra il mondo occidentale e l’islamismo, ha scritto sul «Riformista» che la pretesa di far «accettare » ai musulmani l’omosessualità «rivela un nuovo dogmatismo», oscuramente alimentato da non meglio precisate «lobby» e addirittura non privo «di un qualche sentore coloniale antico persino xenofobo». Fossero state pronunciate (anche in una formulazione più tenue) da qualche esponente del mondo cristiano, ci sarebbe stata una sollevazione energica contro un esempio arrogante di omofobia clericale.

Ma le ha argomentate un leader intellettuale del fondamentalismo islamico, e dunque la prudenza del silenzio prevarrà anche in questo caso, come per gli stupri legalizzati in Afghanistan. Ci si domanda solo — ed è il caso di domandarlo anche al ministro Frattini di cui pure si conosce la sensibilità nei confronti dei temi attinenti alla libertà dei singoli e delle nazioni — fin dove arriva la soglia di accettazione per questo spaventoso arretramento nella difesa dei diritti umani fondamentali. Fin dove il realismo politico può ignorare l’abisso di oppressione in cui cadono anche regimi considerati «amici».

02 aprile 2009


da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:16:25 am »

La lezione abruzzese


di Pier Luigi Battista


C’è una lezione abruzzese da segnalare: l’Italia politica sta faticosamente imparando a distinguere i compiti fondamentali in cui unirsi dai temi, non meno importanti, in cui è democraticamente vitale dividersi. La maggioranza e l’opposizione stanno recitando un ruolo inedito. Hanno capito, tra le macerie e le innumerevoli vittime dell’Abruzzo, che sulle emergenze nazionali non deve avere spazio l’isteria di uno scontro primitivo.

Il governo si muove con sollecitudine, ma non chiude le porte al sostegno dell’opposizione. Il Pd non usa propagandisticamente il disastro e partecipa fattivamente ai soccorsi. Nelle stesse ore, su un tema diverso come la sicurezza e la proposta delle ronde di volontari, maggioranza e opposizione si combattono invece a viso aperto. La tragedia rinsalda l’unità nazionale. Ma la politica non va in letargo, rivendica quanto c’è di sano nel conflitto democratico. Le polemiche non mancheranno, ma a tempo debito. Ci si deve interrogare sulla sconcertante fragilità di un ospedale ridotto in frantumi dalla potenza del terremoto.

Bisognerà capire se le leggi che impongono la costruzione di edifici anti-sismici sono state osservate nel corso degli anni. Ci saranno idee, ipotesi di ricostruzione, tempi da rispettare su cui è giusto che l’opposizione vigili, critichi, stimoli chi ha responsabilità di governo. Ma è un bene che lo Stato faccia fisicamente sentire la sua presenza, e che le opere di soccorso siano accompagnate dall’impegno diretto, efficace e non formale del governo. Ed è un bene che, se l’opposizione giudica positivamente l’atteggiamento di chi governa, non debba essere costretta a nasconderlo in omaggio alla retorica dello scontro totale e del non riconoscimento della reciproca legittimità.

Tutto questo sarebbe normale nelle democrazie più solide: nessuno trovò disdicevole che l’America si fosse unita sotto la stessa bandiera, attorno al governo e ai pompieri di New York nei giorni successivi all’11 settembre. In Italia, invece, questo spettacolo di unità e di coesione nel momento della tragedia nazionale è sorprendente perché inconsueto. Una coesione che però non ha paralizzato il Parlamento, non ha svuotato l’opposizione al punto da indurla a rinunciare alla sua legittima battaglia sui temi della sicurezza dei cittadini.

Uniti sulla tragedia abruzzese. Divisi, vivacemente polemici, conflittuali e senza ricatti unanimistici sulle materie su cui non può essere invocata l’unanimità. Una novità che ovviamente non consola e non risarcisce chi ha perso tutto nel terremoto. Ma restituisce una dignità allo Stato che interviene a tutela dei suoi cittadini. Una prova di serietà e di affidabilità, almeno per una volta.

08 aprile 2009(modificato il: 09 aprile 2009)
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