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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 109014 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:06:00 am »

Diritti
Matrimonio gay, la lezione irlandese
Un Paese cattolico, dove fino a 20 anni fa l’omosessualità era considerata reato, ha deciso con un referendum che le unioni fra persone dello stesso sesso sono legittime.
Nel mondo tutto va veloce, tranne in Italia, che ora deve trovare una sua strada

Di Pierluigi Battista

Anche nella cattolica Irlanda il matrimonio gay non è più un tabù. Non lo è in una Nazione in cui il cattolicesimo ha avuto e ha un peso fondamentale. Nell’Irlanda del culto di san Patrizio, dove storicamente la fede cattolica ha avuto un peso politico e sociale rilevantissimo, nell’Irlanda in cui ancora oggi l’aborto è un reato e la stessa omosessualità lo è stata fino al 1993 (solo vent’anni fa) quasi il 60 per cento di chi ha votato nel referendum, tra cui tanti cattolici, non ha trovato scandaloso, un attentato al matrimonio, un attacco ai valori fondanti della nostra civiltà, il fatto di dare veste giuridica, tutele e addirittura rilevanza costituzionale alle unioni tra persone dello stesso sesso.

Tutto diventa più veloce nel mondo. Tranne in Italia, dove son decenni che il riconoscimento delle unioni omosessuali si è impantanato nella discussione infinita, nella ragnatela dei veti, nell’ostruzionismo dilatorio. Eppure, si può e si deve fare anche in Italia. Le posizioni nella Chiesa cattolica non sono univoche. In Irlanda la Chiesa non ha fatto la guerra nel referendum. In Italia non si chiede ai cattolici di rinunciare ai loro valori, ma di accettare il principio di maggioranza. Si può fare, ma solo se si libera la questione dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso dalla cappa di pregiudizi che pesano come in una interminabile guerra di religione. Si può fare, se si affronta il problema con realismo e desiderio di mettere a segno un risultato che sembra impossibile da realizzare. Il voto irlandese dimostra che si può fare, anche in un Paese con una forte tradizione cattolica che non deve essere umiliata, messa in un angolo, costretta addirittura a tacere. Si può fare se si esce dalla propaganda e si entra, veramente e non con gli annunci dell’ultimo momento, in una dimensione in cui si stabiliscono date, scadenze, criteri, concetti.

La prima cosa da fare è sottrarre la questione del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali alla maggioranza di governo e consegnarla alla maggioranza che si forma in Parlamento. Per una ragione di principio: perché sui diritti, come sulle riforme istituzionali, è auspicabile una convergenza più ampia. E per una constatazione di fatto: perché c’è una forza di governo, il Ncd, contrario a una legge sulle unioni civili, mentre due fondamentali forze d’opposizione, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle, non lo sono. E anche per una ragione storica: la parlamentarizzazione del dibattito crea convergenze inedite, polarizzazioni che non mettono in discussione la stabilità del governo. Ricordiamo che la legge sul divorzio ebbe due motori, Baslini che era un liberale e Fortuna che era un socialista e un radicale, che appartenevano a due schieramenti diversi. Poi Fanfani volle portare la Dc alla guerra di religione del referendum del ‘74 e per lui fu il disastro. Ma fu una scelta politica, non un atto dovuto. Il governo poteva essere messo al riparo dal conflitto sul divorzio. Solo la smania di rivincita del leader democristiano creò le condizioni di un quasi ribaltone politico.

Oggi è diverso. Si può e si deve accettare il principio di maggioranza per una legge giusta ed equilibrata che garantisca pari diritti alle coppie omosessuali (non c’è bisogno nemmeno del termine «matrimonio»). Si può e si deve accettare che chi non è d’accordo proponga referendum abrogativi, manifesti tutti gli argomenti contrari a una legge. Purché si decida. Purché non si finisca per sentirci lontani dall’Europa e dalla cattolicissima Irlanda.

24 maggio 2015 | 09:34
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_maggio_24/matrimonio-gay-lezione-irlandese-a39547f2-01e0-11e5-8422-8b98effcf6d2.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:50:52 pm »

LA «SINDROME SPAGNOLA»
Addio al bipolarismo, più forti (anche da noi) i partiti antisistema
La tendenza è visibile in tutta Europa: circa un quarto di coloro che si recano alle urne danno la loro preferenza a movimenti il cui nemico è l’intero scenario istituzionale e la cui rabbia è radicale. Protesta e rifiuto
Se lo scorso anno Matteo Renzi sembrava aver oscurato per sempre l’anomalia di Grillo, oggi l’alternanza tradizionale soffre, il nemico sembra essere la politica.
L’astensionismo continua a crescere


Di Pierluigi Battista

Oramai in Europa lo schema politico-elettorale prevede il tre, non più il due. L’Italia era entrata faticosamente nell’era del bipolarismo: una volta vinceva il centrosinistra, un’altra il centrodestra, al governo nazionale, nelle Regioni, nei Comuni. Ora si deve adattare al tripolarismo, all’emergere prepotente e stabile di forze antisistema, o eurofobiche, o di protesta organizzata, o alternative ai partiti tradizionali. In questa tornata elettorale, la prevalenza del tre è ritornata con grande evidenza. Se l’anno scorso l’astro di Matteo Renzi sembrava aver oscurato per sempre l’anomalia di Beppe Grillo, stavolta è il bipolarismo a dover ingoiare il Maalox. L’alternanza tradizionale soffre. Le forze antisistema tornano a gioire.

Poi, ovviamente, si va per oscillazioni e andirivieni. Ma la tendenza appare netta: oramai c’è una parte del popolo europeo che va a votare che ha rotto definitivamente con lo schema mentale del bipolarismo. È una parte che più o meno si attesta al 25 per cento, un quarto dell’elettorato che decide di andare a votare. Poi c’è la marea dell’astensionismo. Oramai siamo stabilmente sotto al 50 per cento di partecipazione elettorale, anche in regioni come l’Emilia Romagna e la Toscana dove la fila ai seggi era lo spettacolo più consueto. Difficile conteggiare quei non-voti come forme di espressione antisistema? Ma allora come decifrare questo fenomeno così massiccio e nuovo di rifiuto, disgusto, indifferenza, sfiducia che si manifesta in una volontà così corale di astensione?

Qui siamo ancora nel nebuloso e nell’opinabile. Ma i voti effettivamente espressi nelle elezioni in tutta Europa dicono che quel 25 per cento è oramai su un’altra galassia mentale rispetto agli imperativi del bipolarismo. In Spagna un movimento come Podemos conquista Barcellona e smantella le basi elettorali del Psoe, e anche il suo omologo «liberale», il movimento dei Ciudadanos, esprime un’insofferenza di tenore analogo nei confronti del Partito popolare. In Francia Marine Le Pen porta il suo Fronte Nazionale stabilmente sopra il 20 per cento, ben al di sopra delle percentuali, peraltro cospicue, raggiunte da suo padre, oramai ripudiato, Jean-Marie. In Inghilterra, con un sistema di voto proporzionale come quello fissato nelle Europee, l’Ukip di Nigel Farage ha sfiorato addirittura il 30 per cento e il suo recente flop nelle elezioni politiche è pur sempre gratificato da un 16 per cento, una percentuale che oramai un tradizionale partito a vocazione maggioritaria come Forza Italia si può soltanto sognare. In Olanda, il fenomeno è analogo. Un po’ più contenuto è in Germania, dove comunque la sinistra socialdemocratica se la deve vedere con la concorrenza della Linke, mentre a destra l’«Alternativa per la Germania» rappresenta, con la sua intransigente linea anti-euro, un pungolo sempre molto fastidioso per Angela Merkel. In Italia, dove non ci facciamo mai mancare qualche esagerazione, di forze antisistema, eurofobiche, antipolitiche, ne abbiamo addirittura due: il Movimento 5 Stelle, che ha rivelato un radicamento che va anche al di là dell’identificazione con il leader Grillo, e la Lega di Salvini, che oramai sta cannibalizzando ciò che resta del centrodestra.

Ovviamente non c’è nulla di lineare in questo fenomeno. Intanto, nel momento delle elezioni decisive per la formazione dei governi nazionali, soltanto Tsipras in Grecia è riuscito a strappare la maggioranza dei voti. Poi non vanno sottovalutati arretramenti e controtendenze, come in Francia, dove Nicolas Sarkozy ha di recente inflitto una memorabile lezione a Marine Le Pen. Inoltre si tratta di movimenti litigiosi e settari, che per esempio nel Parlamento europeo riescono molto di rado a trovare momenti di unità. Ma le elezioni di domenica dimostrano che questa era di antipolitica può contare su un 25 per cento di voti che nelle consultazioni locali, Comuni e Regioni, possono modificare radicalmente lo scenario: il 20 per cento della Lega in Toscana, il voto massiccio alla candidata del Movimento 5 Stelle in Liguria stanno lì a dimostrarlo. È un’area che si è oramai psicologicamente e politicamente affrancata dagli imperativi del «voto utile», che oramai sembra sorda alla logica del male minore, al richiamo di schieramento, alla battaglia da condurre insieme contro un nemico comune. Adesso il nemico è la «politica» di cui il bipolarismo tradizionale è stato l’espressione ordinata e stabile. Una variabile diventata permanente nel nostro panorama politico, altro che voti in libera uscita destinati a ritornare all’ovile. È la logica dell’ovile, oramai, che non funziona più.

2 giugno 2015 | 10:58
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_02/regionali-addio-bipolarismo-piu-forti-partiti-antisistema-4d016b84-0904-11e5-8a3c-2c409b81767d.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Giugno 21, 2015, 05:22:19 pm »

Family day
Il fronte del rifiuto di gender e unioni gay che riscopre la piazza
Una mobilitazione senza la sollecitazione della Chiesa apre uno scenario inaspettato, proprio su un tema sul quale papa Francesco aveva deciso di non intervenire con forza


Di Pierluigi Battista

Stavolta il mondo laico non se la può prendere come al solito con le ingerenze vaticane, le intromissioni della Chiesa, il confessionalismo delle gerarchie. Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia gender», indicata come tirannica manipolazione della natura e degli stessi fondamenti umani della società, ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti. È l’antitesi di ciò che è accaduto in Irlanda con il referendum sui matrimoni gay. Lì, in assenza di una massiccia partecipazione dell’episcopato di Dublino, l’elettorato cattolico ha disobbedito esprimendosi a favore. Qui, nella città che è il luogo simbolico dove il Vicario di Cristo è anche il vescovo di Roma, le strade si sono riempite di cattolici che hanno manifestato la loro disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che a loro avviso sradica l’umanità da se stessa.

È la prima volta che accade nell’era di papa Francesco. È la prima volta che il sesso, il genere, ciò che è uomo e ciò che è donna, l’atto stesso del congiungimento carnale da cui scaturisce la procreazione entra a pieno titolo nei «valori non negoziabili», in quella sfera di scelte che riguarda le questioni prime e ultime della vita e della morte. È la prima volta che la piazza viene mobilitata e riempita non semplicemente per quello che è chiamata «unione tra coppie dello stesso sesso», ma in una sfera di interrogativi che hanno a che fare con la cultura, la concezione del mondo, l’idea stessa della natura.

È un terreno su cui papa Francesco ha deciso di non intervenire con forza. Certo, non per rinunciare ai fondamenti della visione cristiana delle cose, ma per non esasperare la conflittualità con il mondo secolare. La chiesa «infermeria» di papa Francesco non vuole fare altri feriti, non vuole scavare trincee contro lo spirito del tempo, non vuole scatenare la guerra santa contro la deriva secolarista. La manifestazione di ieri invece sì. È stata l’espressione di un fronte del rifiuto che è più esteso di quanto i media non riescano a immaginare. È stata la rinascita di un movimento di guerra culturale contro la modernità che sembrava essersi spenta con il nuovo papato. Ecco l’altra differenza con movimenti come quello francese «Manif pour tous». In quel caso l’episcopato francese spinse l’acceleratore della protesta, sancì l’armonia tra un sentimento diffuso e le istituzioni preposte alla irreggimentazione del mondo cattolico. Qui a Roma si è visto il segno di uno scarto, di una sottile linea di frattura, di una insofferenza che le gerarchie ecclesiastiche difficilmente potranno ignorare. Questo è il vero segnale d’allarme per il mondo laico, o comunque per quella parte dell’opinione pubblica che ritiene indispensabile il riconoscimento delle tutele e del diritto per le coppie dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente, senza discriminazioni.

La guerra culturale era invece alla base dell’azione del cardinale Camillo Ruini quando dirigeva l’episcopato italiano. Lui la chiamava «progetto culturale» e voleva ribadire l’idea che il cristianesimo non dovesse essere solo vissuto nel chiuso delle coscienze, nella dimensione privata, ma imponesse i suoi valori culturali nell’arena pubblica. La battaglia sui «valori non negoziabili» aveva questa base: la guerra sull’aborto, sulla fecondazione assistita, sulla difesa dell’embrione, sul rifiuto dell’eutanasia. Tutti temi che toccavano direttamente la sfera della vita e della morte, o meglio dell’intervento umano sull’origine della vita e sulla sua fine, la protesta contro una tecno scienza che voleva prendere con prepotenza il posto del Creatore nella determinazione della vita e della morte.

Ma l’azione di Ruini aveva direttamente l’appoggio di due Pontefici: Giovanni Paolo II (che già all’inizio degli anni Ottanta assecondò la mobilitazione cattolica nel referendum poi perso, sull’aborto) e poi papa Ratzinger. Oggi è tutto diverso. Una parte del mondo cattolico fa da sé, riempie le piazze senza un comando ecclesiastico, fornendo un’immagine di sé implicitamente polemica nei confronti dell’atteggiamento «accomodante» di papa Bergoglio. E lo fa su un tema, quello del «gender», che oramai nella sensibilità del mondo moderno, e di una parte stessa dell’universo cattolico come è accaduto in Irlanda, è stato assimilato senza più traumi e crisi di rigetto.

L’idea che su una visione filosofica del mondo, considerata però essenziale per l’integrità della fede, il mondo cattolico manifesti come ieri una sensibilità esasperata e risentita, è una novità che tutti noi stentavamo a considerare così sentita e centrale. Nel cattolicesimo italiano si è aperta una spaccatura profonda che arriva dritta al cuore delle istituzioni ecclesiastiche. La manifestazione anti gender è insieme uno spauracchio e un avvertimento. La fonte di un nuovo, imprevisto conflitto. Il mondo laico non può dormire sonni tranquilli.

21 giugno 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_21/fronte-rifiuto-gender-unioni-gay-che-riscopre-piazza-b382896a-17e6-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:34:16 pm »

Grillo sarà «stanchino»
Ma gli elettori antisistema sono in piena forza

Di Pierluigi Battista

Grillo annientato. Lo abbiamo pensato (e addirittura auspicato) in molti, all’indomani delle elezioni europee, con i 5 Stelle sommersi dal 40,8 di Matteo Renzi. Abbiamo sbagliato: un errore colossale. Abbiamo scambiato la realtà per un talk-show. Abbiamo immaginato che una gaffe grillina sbertucciata da Twitter sia più importante di un fenomeno colossale: la fine delle appartenenze, l’affrancamento definitivo di una parte consistente dell’elettorato dal richiamo di schieramento.

Quando dicemmo che Grillo era stato stracciato da Renzi, il suo Movimento aveva preso il 22 per cento dei voti: un’enormità, altro che dissoluzione. Come nel resto dell’Europa, un partito antisistema, eurofobo, anti establishment fa presa stabilmente su quasi un quarto dell’elettorato. E le barriere tradizionali si stanno dissolvendo. La dicotomia sistema-antisistema si sta rivelando molto più forte di quella, sempre meno vincolante, tra destra e sinistra. L’elettorato mobile scavalca le frontiere. I voti leghisti possono finire a Grillo. I voti grillini non soccorreranno più quelli del Pd, come è avvenuto in Liguria e a Venezia, per contrastare il comune nemico di destra. Il Pd è visto come il perno del sistema. Il suo elettorato sempre più disilluso si rifugia nell’astensione. Intere Regioni rosse, la base tradizionale della sinistra, fugge nell’astensionismo. Il voto di protesta dilaga. Non trova argini nemmeno sul «territorio».

Abbiamo sbagliato tutto perché pensavamo che il Movimento 5 Stelle fosse interamente identificabile con la figura di Grillo. Un’illusione: «stanchino» Grillo, ci siamo detti consolandoci, «stanchini» tutti i grillini, residuali, scombinati, sempre sopra le righe, si sarebbero dispersi. Un errore. Speculare all’errore di considerare la vitalità di Renzi come il segno della vitalità del Pd. Non è vero, fuori da Palazzo Chigi il Pd è sempre più preda dei cacicchi locali. Il territorio è sguarnito. Il partito copre pezzi di società che dipendono dal voto di scambio, specialmente da Roma in giù, ma chi ne resta fuori cova un rancore sordo per la politica e opta per Grillo. Oppure per la Lega al Nord. Dicono che il messaggio grillino sia supersemplificato e quasi caricaturalmente complottista. È vero: raffigura l’Italia, l’Europa, il mondo prigionieri di un pugno di maghi della finanza, di poteri forti arroganti, di corrotti. Purtroppo i partiti del sistema, europeisti, tradizionali hanno fatto ben poco per dissipare queste ombre. A Roma tutti sanno che se Marino dovesse dimettersi dopo gli scandali di Mafia Capitale, il prossimo inquilino del Campidoglio potrebbe essere un rappresentante dei 5 Stelle. Sanno che Grillo potrebbe mietere consensi trasversalmente. Sanno che, finché l’area della protesta antisistema sarà così estesa, stabile radicata, alimentata dall’inettitudine altrui, non sarà un’apparizione in più o in meno di Grillo in un social network o in televisione a stabilire se il suo partito avrà un futuro.

Abbiamo sbagliato perché i media tendono a scambiare l’apparenza per la realtà. La realtà non è il pasticcio che i grillini fanno sui blog ma è un movimento che nasce dal «vaffa» e arriva ad essere il secondo partito, con la concreta possibilità di arrivare al ballottaggio in elezioni nazionali impostate sull’Italicum. La realtà è che se fino a qualche anno fa sarebbe apparso impossibile che l’elettorato di destra potesse votare Grillo, l’ultima tornata elettorale dimostra che invece è possibile. E che è possibile anche l’inverso. Poi certo il Movimento 5 Stelle potrà, anzi quasi certamente avverrà così, perdere le elezioni. Ma le elezioni si perdono e si vincono, mentre l’area dell’antisistema è forte, articolata, variegata, arrabbiata, tutt’altro che domata. Si è anche appannato il potenziale di novità rappresentato da Renzi, una novità che soltanto un anno fa aveva neutralizzato l’irresistibile ascesa di Grillo. Oggi bisognerà fare i conti con questa realtà. Con un elettorato sempre meno irretito nei lacci della tradizione e delle distinzioni classiche. Con una crisi che morde ancora, anche se i pronostici dicono che siamo nel miglioramento e che forse il peggio è alle nostre spalle. I Comuni e le Regioni dovranno abituarsi alla presenza di questo terzo soggetto forte e coriaceo. Non sarà una battuta a cancellarlo. E nemmeno tanto sfoggio di simpatia e gioventù.

17 giugno 2015 | 09:51
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_17/grillo-sara-stanchino-ma-elettori-antisistema-sono-piena-forza-dbdce78c-14c3-11e5-9e87-27d8c82ea4f6.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:24:57 pm »

Il bullismo culturale contro Carlo Giovanardi

Di Pierluigi Battista

Chissà se i vacanzieri cortinesi riusciranno mai a capire quanto sia ridicolo il loro ostracismo nei confronti di Carlo Giovanardi. Impedendo la presentazione di un libro di Giovanardi magari avranno creduto di compiere un eroico gesto, un atto che rimarrà negli annali della resistenza contro l’oppressore. Avranno scambiato una bravata per una manifestazione di impegno civile. Avranno pensato che, costringendo gli organizzatori a fare marcia indietro sulla presentazione, sono riusciti a impedire che il diavolo giovanardesco si materializzasse tra i monti e i rifugi della splendida e indifesa Cortina d’Ampezzo. E invece sono soltanto i portavoce di un’intolleranza difficile da smaltire. Di un’intolleranza ridicola, nel caso specifico.

Bastava disertare la presentazione, se Giovanardi gli stava antipatico. Ma da loro questa elementare verità non è stata presa nemmeno in considerazione. Dovevano mostrare i muscoli. Dovevano dare prova del bullismo da montagna, e ci sono riusciti. Attraverso di loro, e questa è la parte seria di quel che è accaduto a Cortina, parla il nuovo conformismo che considera la presentazione di un libro come una provocazione da rintuzzare. Quelli che fischiano prima di ascoltare. Quelli che non hanno rispetto per chi ha voglia di leggere libri non graditi dal manipolo di volenterosi. Quelli che la libertà d’espressione per tutti è un concetto troppo difficile per essere metabolizzato. Quelli che vorrebbero vedere i libri censurati, i giornali chiusi nelle tipografie. Quelli che non sopportano un’opinione diversa, fosse quella più distante e indigeribile. Quelli che sono intolleranti mostrano la faccia della bontà, della correttezza, dei buoni sentimenti, del progresso, della carità. Quelli che hanno bisogno del nemico assoluto da ostracizzare. Ecco perché bisogna stare dalla parte di Giovanardi a Cortina. Per criticarlo. Ma per fargli esprimere liberamente le sue idee. Troppo difficile da capire? No. È facile. Ma per gli intolleranti vecchi e nuovi, con i pantaloni alla zuava, è difficilissimo, impossibile da capire.

15 luglio 2015 (modifica il 15 luglio 2015 | 08:43)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_15/bullismo-culturale-contro-carlo-giovanardi-6835ccfc-2ab9-11e5-8eac-aade804e2fe2.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:44:45 am »

AUTOCENSURE
Hanif Kureishi non bestemmia (per paura) e cede ai nemici della libertà
Lo scrittore strappa il velo della doppiezza che ha sinora coperto chi mette sullo stesso piano coloro che pronunciano battute blasfeme e quelli che uccidono per una battuta


Di Pierluigi Battista

Tutto si può dire dello scrittore Hanif Kureishi, tranne che sia un ipocrita. All'intervistatore di El Pais che gli chiede se trova lecita la bestemmia, Kureishi non adopera parole impegnative come «rispetto» per dire che lui non vuole bestemmiare. No, dice, non bestemmio, non uso espressioni blasfeme contro l'Islam perché, testuale, «non sono così stupido». Non è contro la bestemmia per qualche nobile motivo, perché non si inveisce contro il Dio in cui credono milioni di persone, perché non si oltraggia la divinità, perché non si deve offendere la fede di chicchessia. Non si deve bestemmiare, perché bestemmiare è un gesto poco intelligente. Poco intelligente in che senso? Nel senso che devi essere intelligente per capire che se bestemmi ti accoppano, che finisci male, che vieni coinvolto in una carneficina, come i poveri vignettisti, che stupidi che erano, di Charlie Hebdo.

La paura che governa le scelte
Infatti Kureishi, per denigrare quei poveri che stanno sotto terra, ammazzati come cani dai fanatici fondamentalisti dell'islamismo politico radicale, ribadisce il concetto: quelle vignette che sono costate la vita ai disegnatori del settimanale non erano «intelligenti». Se fossero state intelligenti, se avessero satireggiato soltanto su cristiani ed ebrei, allora sì, non sarebbero state stupide e non sarebbe successo nulla. Erano così idiote da aver riso dell'Islam e allora se la sono proprio andata a cercare, quella strage. Scemi. Morti e scemi. Mica intelligenti come Kureishi.
Finalmente, è la fine dell'ipocrisia. Non si bestemmia, dice Kureishi, perché si valutano le conseguenze intelligentemente. E' la paura che non deve far bestemmiare, non il rispetto per la fede altrui, come sostengono virtuosamente i nemici della libertà d'espressione che, come Joyce Carolo Oates e altre decine di scrittori contrari al premio dedicato al settimanale decimato, hanno colto l'occasione del massacro di Charlie Hebdo per avanzare pensose considerazioni sui «limiti» che la libertà d'espressione deve tassativamente onorare. Come se il problema fosse l'irriverenza di un pugno di vignettisti e non le condanne a morte comminate in tutto il mondo islamico con la grottesca motivazione della «blasfemia». E' la paura: ecco il motivo per cui è «intelligente» autocensurarsi, rinunciare alla libertà di parola, alla libertà di disegnare, alla libertà di dire sciocchezze, di pubblicare brutte vignette senza incorrere nei rigori della condanna a morte. Kureishi, anche senza volerlo, strappa il velo della doppiezza che ha sinora coperto chi mette sullo stesso piano chi pronuncia battute blasfeme e chi uccide per una battuta blasfema.

L’«intelligenza» nel chiamarsi fuori
Recentemente un numero speciale della rivista Nuovi argomenti ha dimostrato quanto gli scrittori e gli intellettuali, cioè le categorie che quasi professionalmente dovrebbero essere affezionati all'integrità del diritto di dire e di scrivere, tengano ben poco alla libertà d'espressione. Tutto un eccepire sul cattivo gusto delle vignette blasfeme, un'esplosione di antipatia per le vittime del fondamentalismo fanatico, un nascondersi dietro l'etichetta dell'«opportunità», dell'autocontrollo, della censura, della necessità di non offendere.

Nessuno, però ha avuto il coraggio di Kureishi e di tirare fuori l'argomento decisivo: la paura. La paura di essere ammazzati, perseguitati, imbavagliati, di essere estromessi dai circuiti dei festival e dei convegni attanagliati dal terrore, lo stesso terrore che ha suggerito a un museo inglese di nascondere un quadro che raffigurava Maometto. Lo stesso terrore che impedisce alle Università americane di invitare Ayaan Hirsi Ali, un'«apostata» che ha la fierezza e il coraggio di battersi contro il fondamentalismo islamista e che perciò conduce una vita blindata ed emarginata dalle accademie. Che sono più «intelligenti», direbbe Kureishi, ed evitano di mettersi nei guai. Parlano di «rispetto» e di «buon gusto» per non dire la verità, perché la critica alle bestemmie non è davvero sentita, ma è agitata solo in alcuni casi e indovinate quali. Hanif Kureishi l'ha indovinato e perciò evita accuratamente di dimostrarsi poco «intelligente» come il suo amico Salman Rushdie, che ebbe la stupidità di scrivere un libro libero e perseguitato dai nemici della libertà. Avrebbe dovuto essere più intelligente.

2 agosto 2015 (modifica il 2 agosto 2015 | 11:49)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_02/hanif-kureishi-non-bestemmia-per-paura-cede-nemici-liberta-d5730444-38f9-11e5-b1f9-bf3f6fff91aa.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:03:23 pm »

Le riforme e il passo necessario

Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi ha tre strade davanti a sé e al suo governo. La prima: cedere alla tentazione di arrancare fino al 2018 con maggioranze ogni volta diverse, precarie, variabili, multicolori, caso per caso. La seconda: fare la pace con la sinistra interna del suo partito, smettendo di sfidarla per ottenerne l’umiliazione, ma avendo in cambio la fine della guerriglia parlamentare che il Pd ancora legato alla precedente gestione gli minaccia ripetutamente contro. La terza: allargare la base del governo con il coinvolgimento serio, esplicito, fondato su alcuni punti qualificanti, di una delle principali forze in Parlamento, Forza Italia in primis, vista la conclamata contrarietà dei Cinque Stelle.

Ogni scelta ha le sue controindicazioni e i suoi rischi. Ma la prima delle tre sarebbe di gran lunga la peggiore, perché darebbe il senso di una navigazione zigzagante e vaga, instaurerebbe il regno del caos e dell’incertezza, un ansimare incoerente fino al 2018, accertata l’indisponibilità del presidente della Repubblica ad imboccare la scorciatoia delle elezioni anticipate prima di aver verificato che in Parlamento non ci siano i numeri di una maggioranza.

Anche le altre due opzioni non sono il massimo della desiderabilità all’interno di una democrazia parlamentare trasparente. Ma non dobbiamo dimenticare da dove veniamo, dall’ingovernabilità paralizzante di un Parlamento dove nel 2013 non aveva vinto nessuno. In quella situazione Enrico Letta, con la spinta di Giorgio Napolitano, si assunse il compito di formare un inedito e imprevisto governo di unità nazionale, poi frantumato dalla fuoriuscita di Berlusconi. Renzi si era forse illuso che con una spallata e una robusta rottamazione, unite a una tranquillizzante condizione di non belligeranza con il centrodestra imbrigliato dal cosiddetto patto del Nazareno, questo handicap iniziale si sarebbe dissolto. Dopo un anno e mezzo di governo le cose però non stanno così. E il realismo, insieme alla ineludibile necessità di offrire al mondo e all’Europa una credibilità politica obbligatoria per ogni apertura di fiducia dall’estero, impone a Renzi la strada di una stabilizzazione non velleitaria.

Questo significa la fine degli espedienti e dei giochi di sponda multipli e acrobatici. L’uso della scheggia dei «verdiniani» non ha un grande futuro. L’intesa ammiccante con Forza Italia sulla Rai assomiglia molto alla distribuzione delle poltrone come captatio benevolentiae , e nulla più. Le aperture effimere ai Cinque Stelle, minacciate tutte le volte che vacilla il fronte favorevole alla riforma elettorale, sanno molto di manovretta furba. Restano le altre due strade: o l’accordo con la dissidenza interna del Partito democratico oppure un’intesa, circoscritta ma aperta, con Forza Italia, affrancando il berlusconismo dall’abbraccio mortale con Salvini e offrendo all’opposizione un patto stabile su alcuni punti qualificanti, dalle riforme istituzionali alla riduzione delle tasse, che garantiscano un’andatura meno singhiozzante ad un governo che per andare avanti non può più contare sulla propria orgogliosa autosufficienza. In fondo Angela Merkel, che nella sua visita all’Expo si è mostrata cordiale con Renzi e con l’Italia, è addirittura a capo di una compagine di unità nazionale, e nulla potrebbe eccepire su intese leali tra forze diverse. Compensare la debolezza di una maggioranza con espedienti tattici è un’altra illusione. Operare scelte nette e coraggiose non dovrebbe essere difficile per un leader di rottura come Renzi.

19 agosto 2015 (modifica il 19 agosto 2015 | 07:29)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_19/riforme-passo-necessario-1f39a336-4632-11e5-979c-557f4d93ec30.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Settembre 05, 2015, 12:12:47 pm »

La forza della lentezza nel cuore dell’Europa

Di Pierluigi Battista

La marcia ha un impatto simbolico fortissimo, più di un banale corteo, o del solito comizio. I reietti, i dannati della terra, i profughi in fuga da fanatici e tiranni e che non vogliono rinunciare a percorrere quei 250 km che li separano dalla libertà, scendono dai treni e si mettono in marcia da Budapest. Usano la forza lenta e inesorabile delle loro gambe per trasmettere un messaggio travolgente. La marcia resta sempre qualcosa di memorabile. Questa che si snoda con le lacrime agli occhi di chi non si piega all’ultimo diktat, ancora di più. Le bandiera dell’Europa sventolata con un pathos che nessun europeo ha mai provato ci commuove e ci emoziona. Un popolo in marcia. Sembra il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Impossibile girarsi dall’altra parte e far finta di niente.

Una marcia può servire una buona causa o può servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può essere uno strumento formidabile di ricatto e di pressione, come quella dell’ottobre del ‘22 condotta dalle camicie nere e che terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano.

Questa marcia dà invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta, le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per ricominciare daccapo, per raggiungere una meta?

La forza di una marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli «destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante, selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà.

5 settembre 2015 (modifica il 5 settembre 2015 | 07:13)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_05/forza-lentezza-cuore-europa-battista-1fce3aca-538c-11e5-8d8b-01b5b32840a1.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:29:10 am »

Berlusconi, Ncd e Salvini
Il destino incerto del centrodestra
Orfano della leadership di Berlusconi, il centrodestra sembra essersi perso nei meandri di una rissa non sempre decorosa.
Latita ormai la figura del grande aggregatore


Di Pierluigi Battista

Le convulsioni che scuotono il Ncd di Alfano sono l’ennesima testimonianza nel caos del centrodestra orfano della leadership di Berlusconi. Ognuno va per conto proprio, in una rissa non sempre decorosa. Latita ormai la figura del grande tessitore, del grande aggregatore. Di quello che è stato Berlusconi per un ventennio, che tutti prendevano in giro perché diceva rassemblement in modo che faceva sorridere nella sua ingenuità pre-politica, ma lui il rassemblement l’ha fatto, ha unito le anime diverse del centrodestra, ha cercato una coalizione fortissima, vincendo ripetutamente, diventando protagonista assoluto della politica italiana lungo l’intero arco della Seconda Repubblica. Oggi i suoi eredi presunti si contendono le briciole di un consenso che è evaporato in pochi anni: il Pdl prese da solo il 38% dei voti nelle elezioni nel 2008 e con la Lega di Bossi si arrivava al 45; oggi Forza Italia è a poco più del 10, e il resto si frantuma tra Lega, astensionismo e partitini microscopici, senza futuro, senza coesione, grandi apparati per piccoli consensi. Berlusconi sembra oramai imprigionato nel vortice dell’indecisione. Non sa che fare, è incerto se scatenare la guerra a Renzi o farsi suo alleato. È cupo, malinconico, catturato da una piccola corte gelosa che lo ha rinchiuso in una fortezza. Promette il grande ritorno e poi diserta persino la festa del Giornale che doveva celebrare l’anno zero di una nuova stagione berlusconiana.

Il centrodestra sembra paralizzato dalla stessa sindrome. Forza Italia è evanescente. Il Nuovo centrodestra si divide tra chi vorrebbe andare con Renzi e chi ha voglia di recitare il ruolo del figliol prodigo, contrito, desideroso di farsi perdonare dal vecchio leader in disarmo. La tentazione è di mettersi una felpa e di affidarsi al vigore mediaticamente efficacissimo di Salvini. Ma il voto a Salvini è classicamente un voto «identitario», cancella la possibilità di ogni rassemblement, rompe i rapporti con il resto dei moderati d’Europa, consegna la destra alla sua natura più radicale ed oltranzista, forte nel suo insediamento ma incapace di parlare al resto del Paese e a costruire una maggioranza in gradi di scalzare il dinamismo di Matteo Renzi. Berlusconi è incapace di prefigurare e creare il dopo-Berlusconi. Un giorno parla di una successione democratica e non monarchica, il giorno dopo uccide la prospettiva stessa delle primarie. Non sa più trasmettere alla sua Forza Italia un messaggio univoco: vuole essere un partito che segue la lezione di Cameron, della Merkel, di Ma- riano Rajoy che capeggia con i Popolari ancora il primo par- tito in Spagna, dello stesso Sarkozy, oppure vuole inseguire a braccetto di Salvini la Le Pen, Farage, Orbán nel nome dell’antieuro e della barriere ai profughi che invadono l’Europa.
L’Ncd di Alfano doveva essere il volto moderato del centrodestra: missione fallita. Ma se il centrodestra non deciderà in temi ragionevoli il suo destino, il destino stesso si sobbarcherà il compito di assegnargliene uno: la sempre più marcata irrilevanza.

11 settembre 2015 (modifica il 11 settembre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_11/destino-incerto-centrodestra-796abb24-5843-11e5-8460-7c6ee4ec1a13.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:39:38 am »

Cambi di fronte
I paradossi dei partiti in politica estera
Dopo la decisione di Angela Merkel di accogliere i siriani, la sinistra si è improvvisamente innamorata della destra europea, mentre la destra loda Putin.
E il Movimento 5 Stelle si trova d’accordo con il premier ungherese Orbán

Di Pierluigi Battista

A maggioranza variabile, anche in politica estera. La volubilità italiana è così spiccata che Angela Merkel, vituperata fino a pochi giorni fa come la crudeltà incarnata, bollata come la personificazione della perfidia, l’affamatrice della Grecia che solo l’audacia di Tsipras ha saputo contrastare, l’erede di Hitler che è capace di ottenere con lo strangolamento finanziario ciò che il predecessore non era riuscito a raggiungere con i carri armati e i campi di concentramento, oggi per la sinistra diventa una santa: Santa Angela dell’Accoglienza. La sinistra italiana si è improvvisamente innamorata della destra europea. Ma la destra italiana accusa con i suoi giornali la Merkel, la cui leadership nella destra europea è fuori discussione, di promuovere l’islamizzazione dell’Europa, come se i rifugiati che premono alle frontiere non scappassero dai decapitatori dello Stato islamico, oltre che dai massacri del macellaio Assad.

Alla destra che un tempo amava descriversi come portabandiera di una «rivoluzione liberale» piace anche l’ungherese Orbán (quello dei fili spinati e dei muri), che però fa la sua notevole figura, dimostrando così la sempre più accentuata volatilità delle nozioni tradizionali di destra e di sinistra, anche nel blog di Grillo. Dove però sono almeno coerenti. Il loro motto è semplice: stare con tutti quelli che hanno la Merkel, sia nella versione crudele che in quella buonista, come bersaglio principale. Per cui nei Cinque Stelle si sta con l’ultradestro Farage nel Parlamento europeo e contemporaneamente ci si reca ad Atene in pellegrinaggio con l’ultrasinistro Varoufakis. E con l’Isis? Trattare, secondo la lectio di Di Battista. E contro gli odiati sionisti di Israele e addirittura con le donne velate iraniane perché, come ha proclamato Grillo comodamente adagiato ai bordi di una piscina in Costa Smeralda, almeno non si acconciano in modo peccaminoso come fanno le occidentali. E ci si chiede con una certa preoccupazione cosa potrebbe essere la politica estera di un futuribile governo Cinque Stelle.

Il presidente francese Hollande è di sinistra e dice che contro l’Iss bisogna prepararsi ad azioni aeree più martellanti e incisive. Ma il governo di sinistra italiano si affretta a dire che no, giammai l’Italia parteciperà a raid aerei contro i tagliagole che costringono, insieme alle bombe di Assad sui civili, milioni di siriani a scappare dalle nostre parti. Sempre eccentrici. Sempre fuori collocazione. Con la sinistra che ama la destra e la destra che ama quelli che la destra europea non ama. Putin, per esempio. Fosse per la destra italiana la linea contro l’attacco della Russia all’Ucraina sarebbe facilissima: non fare niente e avanti senza esitazioni con i contratti. Naturalmente sono discutibili le sanzioni, e anche una certa fretta nell’allungare l’ombra della Nato a Est. Ma qui è un dogma l’amicizia indistruttibile tra Putin e Berlusconi. Piace l’uomo della tradizione, dell’autoritarismo, della grande potenza che riscopre se stessa e le proprie antiche radici. Per cui se la destra italiana oggi fosse al governo, la destra che un tempo era atlantica e atlantista, avremmo un’Italia che nello scontro tra gli Stati Uniti e la Russia non avrebbe esitazioni a stare con la Russia. Che poi la Russia, chissà come mai, non è neanche meta delle masse di profughi che da Budapest prendono immancabilmente la strada dell’Ovest anziché dell’Est. Forse è per questo che Putin piace tanto a Salvini: tiene lontani i profughi (però bisognerebbe dire al leader della Lega che apre anche una grande moschea a Mosca). L’Italia del caos in politica estera. Era così imprevedibile?

9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 08:59)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_09/i-paradossi-partiti-politica-estera-d9da2de6-56bd-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:15:19 pm »

Regole d’ingaggio
I tormenti della Sinistra quando l’Italia fa la guerra
Moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra nella Seconda Repubblica nei confronti della partecipazione alle cosiddette «missioni di pace» o «peacekeeping»

Di Pierluigi Battista

«Senza se e senza ma», si usava dire con espressione che voleva alludere a una ferrea volontà di coerenza. Tuttavia, moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra, il modello di comportamento della sinistra nella Seconda Repubblica nei confronti della nostra partecipazione alle guerre, anzi, pudicamente, «missioni di pace», o «peacekeeping» per stare nei consessi internazionali. Per colpa delle «regole di ingaggio», per esempio, il governo Prodi rischiava ogni volta di smottare e venir giù. Ci si impratichì con termini come «caveat», che poi sarebbero i codicilli che avrebbero dovuto regolare le modalità di azione o non-azione delle nostre truppe in Afghanistan, per la formulazione dei quali c’era sempre un senatore della sinistra «radicale», Turigliatto in primis, disposto a far cadere il governo. Bisognava starci, ma in modo limitato, circoscritto, con «regole d’ingaggio» rigidissime. Come sta avvenendo in questi giorni. Nella comunità internazionale, ma pur sempre con distinguo, codicilli, caveat di impossibile oltrepassamento. In Iraq, ma non in Siria, anche se l’Isis sta sia in Siria che in Iraq. E con la sinistra «radicale», o chi ne fa le veci come Beppe Grillo in questa occasione, a gridare contro la «subalternità» del governo italiano ai dettami della Nato.

C’è sempre un contorcimento, una precisazione una condizione nel rapporto tra la sinistra e la guerra guerreggiata. Quando è un no secco, come nell’Iraq del 2003, allora è un no secco. Ma il no non diventa mai un sì squillante, piuttosto sempre un nì. Come nella guerra del Kosovo. Il governo D’Alema, con l’appoggio dei ribaltonisti che attraverso Francesco Cossiga trasmigrarono dalla destra all’Ulivo, era ovviamente favorevole alla guerra contro Milosevic. Non la chiamavano guerra, la chiamavano «ingerenza umanitaria», ma comunque ci stavano. Ma mai del tutto, sempre tenendo un piede sull’uscio. D’accordo con il sostegno delle basi in Italia da dove sarebbero partiti i raid destinati a colpire Belgrado. Ma senza partecipare direttamente ai raid. Poi, ogni volta che i raid colpivano duro, subito arrivava dall’Italia la proposta di un rapido cessate il fuoco. Eravamo a pieno titolo nella guerra, ma non potevamo dirlo. Una sinistra che citava la sacralità della Costituzione a ogni passo non se la sentiva di sfidare troppo la lettera dell’articolo 11 della Carta Costituzionale, quello che ripudiava la guerra come soluzione dei conflitti. Nella guerra, ma con tanti se e tanti ma.

La sinistra italiana e la guerra si erano già fronteggiate nel 1991, quando la Nato decise di scatenare la guerra del Golfo per punire Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait nell’agosto del 1990. Era in corso la trasformazione del Pci in Pds e l’atto primo del partito di Occhetto non poteva essere il sì a una guerra che avrebbe dovuto garantire il nuovo «ordine internazionale»

scaturito dalla caduta di Berlino e dalla fine della guerra fredda per estinzione dell’Urss, uno dei due contendenti. Ma una parte della sinistra, quella di matrice socialista, ma anche quella di Vittorio Foa, vedeva in quel conflitto baciato dall’Onu addirittura una riedizione della guerra civile spagnola con le sue Brigate internazionali chiamate a colpire il nuovo tiranno Saddam Hussein. Poi, dopo tanti anni, e dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle, rinasce la questione con la spedizione di truppe italiane a Kabul. All’inizio, sull’onda emotiva di quell’attentato storico, la vista delle torri che crollavano, il cuore dell’Occidente colpito a morte, la sinistra non se la sentì di mettere ostacoli. Sottolineava che quella guerra doveva essere condotta nel nome del venerato «multilateralismo», che doveva essere certificata e vidimata come un’iniziativa «sotto l’egida dell’Onu», ma insomma le distinzioni non potevano superare una certa soglia pena l’accusa di fare ostruzionismo in un’emergenza tanto drammatica del mondo in cui l’obiettivo numero uno era la sconfitta dei talebani e di Osama Bin Laden. Ma negli anni successivi la guerra dei caveat rimpiazzò quella della guerra vera: e ogni volta i finanziamenti della missione italiana diventavano la scintilla di uno psicodramma. Sempre dentro, ma anche un po’ fuori. In Iraq, ma non in Siria. Mille se e mille ma.

8 ottobre 2015 (modifica il 8 ottobre 2015 | 08:07)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_08/i-tormenti-sinistra-quando-l-italia-fa-guerra-667e7c06-6d7b-11e5-8aec-36d78f2dc604.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Ottobre 24, 2015, 12:21:05 pm »

I temi degli avversari
La strategia del premier pigliatutto
Matteo Renzi che scatena la guerra preventiva contro l’euroburocrazia di Bruxelles, che sbandiera l’orgoglio nazionale rivendicando una manovra che abbassa le tasse in conto deficit, si intesta una battaglia che piace molto all’elettorato leghista eurofobico


Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi che scatena la guerra preventiva contro l’euroburocrazia di Bruxelles, che sbandiera l’orgoglio nazionale rivendicando una manovra che abbassa le tasse in conto deficit e non con uno spietato taglio delle spese come vorrebbe l’Europa, si intesta una battaglia che piace molto all’elettorato leghista eurofobico. È l’ultima fetta di quello che un tempo fu il centrodestra italiano che il presidente del Consiglio potrebbe inglobare e fare sua. Renzi pigliatutto piglia soprattutto alla sua destra.

Berlusconi dice che è un «copione». Ma è una reazione speculare alle lamentazioni di chi, nella sinistra residuale, lamenta che Renzi sia un clone della destra. Renzi piglia infatti alla sua destra dove non c’è più resistenza, trincea, argine politico e culturale.

Anche l’euroscetticismo diventa suo. Un tempo la sinistra era eurodogmatica e la destra aveva campo libero nell’area degli euromalpancismi. Ora lo schema si è rovesciato. L’ennesimo. Renzi pigliatutto tende a scardinare il bipolarismo che ha contrassegnato l’intera stagione della Seconda Repubblica. Resta l’antagonismo del Movimento 5 Stelle che, dato frettolosamente in via di estinzione dopo le elezioni europee del 2014, ha dimostrato una forza attrattiva ancora molto attiva. La battaglia «antipolitica» miete ancora consensi e la presenza del «nuovo» Renzi non ne ha disinnescato la potenza magnetica.

Certi scivoloni come la fulminea approvazione in Senato delle norme che mettono nella cassaforte dei partiti una somma cospicua di finanziamento pubblico (che si proclamava addirittura «abolito» nelle dichiarazioni renziane) esasperano l’elettorato 5 Stelle e annullano l’effetto simbolico di quel poco di risparmi legato alla riforma del Senato. La triste vicenda di Roma, inoltre, apre al movimento di Grillo insperati orizzonti nell’evidente difficoltà del Pd. Ma se si eccettua l’anomalia grillina, tutto il resto del sistema politico sembra oscurato da una presenza renziana che incorpora i temi degli avversari, li assimila in un nuovo linguaggio, spunta le ali nemiche, devitalizza la vis polemica di chi potrebbe farle ombra.

L’euroscetticismo leghista viene declinato in senso renziano e anche la campagna di Salvini sull’immigrazione appare un po’ sbiadita dopo che l’emergenza si è spostata da Lampedusa alle frontiere europee del Nordest: come si potrà dire che sia colpa dell’imbelle governo italiano l’invasione degli immigrati? Con l’abolizione della Tasi e dell’Imu, il vessillo per eccellenza della destra berlusconiana, la detassazione della prima casa come bene di tutti gli italiani che la possiedono e che sono la stragrande maggioranza, viene afferrato da quello che Berlusconi chiama il «copione».

Come potrebbe ora il centrodestra opporsi alla misura-simbolo di un’intera fase politica? Come faranno i vari Renato Brunetta a contestare una misura che è tipicamente del centrodestra? Del resto, persino i super-polemici giornali della destra sono sembrati molto meno aggressivi del previsto con la legge di Stabilità di Renzi. Il Nuovo centrodestra di Alfano appare oramai compiutamente fagocitato, non più solo satellizzato, nell’orbita renziana. Rimane al Ncd la bandiera dell’opposizione sulle unioni civili delle coppie dello stesso sesso, ma Renzi gestisce con abilità la tempistica, prima accelerando, poi frenando, tenendo in apprensione gli alleati di governo, ma ritardando strategicamente il momento in cui dovranno cedere anche su quest’ultima trincea. In Parlamento, poi, lo stillicidio di tradimenti nelle file di Forza Italia tentate dalla sirena di Renzi non sembra aver fine. Non è ben chiaro se questo inglobamento pigliatutto sia esattamente lo schema di un ipotetico «Partito della nazione» che dovrebbe superare il Pd. Certo, la disfatta durissima della sinistra interna ed esterna al Pd sulla riforma del Senato lascia campo libero a Renzi. Che oramai sembra che dovrà vedersela con un Movimento 5 Stelle vigoroso ma con un centrodestra che, se non correrà con urgenza ai ripari, rischia la marginalità politica e anche un clamoroso autogol a Milano e a Roma mentre i vertici si dilaniano sulle candidature. Un nuovo e inedito bipolarismo che il bulimico Renzi pigliatutto sta costruendo ogni giorno. Accelerando.

17 ottobre 2015 (modifica il 17 ottobre 2015 | 06:54)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_17/renzi-premier-pigliatutto-824ba8b2-748a-11e5-a7e5-eb91e72d7db2.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:03:11 pm »

Perché il canone Rai (anche nella bolletta della luce) è una tassa ingiusta
È un residuo di un’epoca finita: senza telecomando, smartphone né pc.
Va contro il principio della libertà di scelta. E introduce un principio di concorrenza sleale

Di Pierluigi Battista

Va bene, pagheremo quell’odioso balzello denominato «canone Rai» con la bolletta dell’elettricità. Ciò non toglie che saremo costretti a pagare una tassa iniqua e ingiustificata. Perché è un residuo di un’epoca finita, quella in cui non esisteva il telecomando, lo smartphone, il tablet, e non esisteva nemmeno il computer. Di un’epoca in cui possedere un apparecchio televisivo era un privilegio e la gente andava a vedere «Lascia o raddoppia» con Mike Bongiorno al bar. Un’epoca in cui esisteva il monopolio della tv e della radio di Stato, con un solo telegiornale e un solo radiogiornale, più o meno nel Medioevo. Perché l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di Stato se la scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria.

Il canone introduce un principio di concorrenza sleale, come se in una gara di corsa un concorrente privilegiato, perché si chiama Stato, potesse cominciare con trenta metri di vantaggio. Dicono che un canone televisivo è misura comune all’Europa. Non è vero, solo in due terzi, l’Italia potrebbe raggiungere il terzo virtuoso. Inoltre quasi sempre le tv pubbliche che usufruiscono di una tassa pongono dei limiti molto stretti alla pubblicità, e la Bbc addirittura la vieta. La permanenza indiscussa di un canone impedisce, tranne casi rari come quello del nostro Aldo Grasso, di interrogarsi su cosa sia «servizio pubblico». Stabilisce un’arbitraria e ideologicamente polverosa equiparazione tra «pubblico» e «di Stato» (mentre molte trasmissioni di reti private fanno più «servizio pubblico» della Rai). Crea assuefazione all’idea che «servizio pubblico», che magari potrebbe limitarsi a una sola rete sottratta al mercato, debba dotarsi di un apparato elefantiaco, pletorico, terreno di caccia e di conquista dei partiti che continuano ad esserne i veri «editori». L’indiscutibilità del canone, ancora, ignora per sempre la volontà popolare espressa in un referendum promosso dai Radicali nel 1995 in cui il 54,9% degli italiani (13 milioni e 736 mila) si proclamava favorevole a una pur parziale privatizzazione della Rai. Paghiamo tutti, certo, ma paghiamo una cosa ingiusta.

19 ottobre 2015 (modifica il 19 ottobre 2015 | 16:14)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_19/perche-canone-rai-anche-bolletta-luce-tassa-ingiusta-bfa1b92c-766a-11e5-9086-b57baad6b3f4.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:14:26 pm »

Il CORSIVO DEL GIORNO
L’Esibizionismo di Stato sui social network del giudice che condanna le nozze gay

Di Pierluigi Battista

Un giudice dovrebbe parlare solo con le sentenze.
Ora invece parla anche sui social network, come Carlo Deodato, cui si deve la sentenza che ha bocciato la registrazione delle nozze gay celebrate all’estero.


Un giudice, si diceva un tempo, dovrebbe parlare solo con le sentenze. E invece no, adesso parla a ruota libera dei temi in cui viene chiamato in causa con interviste, dichiarazioni, interventi nei talk-show, nelle inaugurazioni degli anni giudiziari diventate oramai ribalte mediatiche, ma soprattutto, questa è la novità, sui social network: anticipando su Twitter e su Facebook quello che pensa nella materia che invece dovrebbe giudicare limitandosi a compulsare codici, giurisprudenza e testi di diritto. E invece il giudice Carlo Deodato, cui si deve la sentenza del Consiglio di Stato che stabilisce la non trascrivibilità in Italia dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, aveva già ampiamente anticipato sui social network tutto il male possibile che pensava attorno alle nozze gay, cioè esattamente sul punto su cui doveva pronunciarsi. Si diceva un tempo che un giudice non solo deve essere imparziale, ma deve anche apparire imparziale. Ma che imparzialità, che terzietà può mai dimostrare un giudice che intrattiene i suoi amici su Facebook non sulle vacanze appena trascorse ma sulla sua ostilità ai matrimoni tra persone dello stesso sesso che sta per riversare in una sentenza del Consiglio di Stato?

Tra l’altro, nella motivazione della sentenza il giudice motiva la sua personale contrarietà alle nozze gay non solo con argomenti giuridici ma inerpicandosi sui sentieri impervi della discussione filosofica e disquisendo sullo scandalo «ontologico che i matrimoni tra omosessuali alimenterebbero. L’ontologia dovrebbe essere lasciata ai maestri della morale. Il diritto è un’altra cosa.

E al Consiglio di Stato si richiedono argomenti giuridici e non dissertazioni religiose e filosofiche, né nelle sentenze e nemmeno su Facebook. Dove si postano le foto della propria, di famiglia, senza sentenziare su quelle altrui.

28 ottobre 2015 (modifica il 28 ottobre 2015 | 08:54)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_28/esibizionismo-stato-social-network-giudice-che-condanna-nozze-gay-abb79c2e-7d3b-11e5-b7c2-dc3f32997c8b.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Novembre 02, 2015, 08:40:37 pm »

Il commento
Marino, chi grida alle Idi di ottobre: la sindrome (contagiosa) del complotto

Di Pierluigi Battista

Le Idi di Marzo, che nobile precedente. Ignazio Marino pugnalato come Giulio Cesare. Manca solo uno Shakespeare per fare dire a un nuovo Marco Antonio nella sua orazione funebre che «Matteo Renzi è un uomo d’onore» e poi siamo all’apoteosi del complottismo.
Invece ci sono solo i fan di Marino e i giornali di estrema sinistra e dunque l’accusa del complotto appare un po’ spuntata. Si chiama politica, manovra politica, scelta politica. Che può essere giusta o sbagliata ma resta essenzialmente una scelta politica. Anche candidarsi a sindaco, vincere le primarie, vincere le elezioni al ballottaggio è politica. E se la maggioranza politica sfiducia il sindaco che ha sostenuto fino al giorno prima, la tragedia fosca della grande cospirazione non c’entra più, è una spiegazione troppo facile. Troppo rassicurante. Troppo autoassolutoria.
E del resto i complottisti non possono essere complottisti a zig zag, a singhiozzo, a giorni alterni. Quando le defezioni nel campo del centrodestra indebolirono Berlusconi, partirono dalla destra come al solito accuse di tradimento e di complotto, ma in quel caso i giornali oggi filo Marino si guardarono bene da espressioni che potessero ricordare qualcosa di simile alla congiura. Anzi, magari presero anche in giro i berlusconiani quando Berlusconi alla fine gettò la spugna e si recò al Quirinale per dimettersi. Era politica, appunto.
Se un premier non sa più tenere la sua maggioranza, subisce una sconfitta politica, ovviamente con il concorso (democraticamente legittimo) dei suoi avversari. E la stessa cosa vale per il sindaco di Roma che adesso deve portarsi a casa le sue «scatole preziose». Non ha saputo tenere il suo governo della città. Giulio Cesare non c’entra niente. E neanche Bruto. E neanche le solite litanie sui «poteri forti» che sono «forti» solo se ti stanno contro, gli altri giorni invece no.
Ma il complottismo è una malattia forte e contagiosa, colpisce e destra e a manca. È molto facile da maneggiare. Addirittura è molto popolare perché trasforma in vittima chi subisce una sconfitta politica. Le Idi di ottobre fanno sempre il loro effetto.

1 novembre 2015 (modifica il 1 novembre 2015 | 10:51)
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