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Autore Discussione: D’ALEMA.  (Letto 50135 volte)
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« inserito:: Luglio 06, 2007, 09:27:09 am »

L'instabilità delle coalizioni, problema drammatico della nostra transizione «All'Italia mancano grandi scelte bipartisan»

D'Alema: «Per continuare ad avere peso nel mondo, legge elettorale e riforme costituzionali».

Con gli Stati Uniti raporti leali 

 
ROMA — Il mondo cambia e il sistema Italia rischia di pagar cari i suoi ritardi. Ne è convinto il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, che indica nelle riforme istituzionali la via da seguire per non perdere peso sulla scena internazionale.

Ministro, la crisi del multilateralismo ci obbliga a una presa di coscienza delle nuove responsabilità nazionali?
«Siamo in una fase che è segnata dalla crisi della politica unilaterale americana e di un certo approccio ideologico al tema della lotta al terrorismo. Ma ciò non sta portando a un multilateralismo ordinato e idilliaco. Oggi prevale quella che chiamerei una caotica molteplicità, accentuata dalla debolezza degli organismi internazionali. Si pensi alle difficoltà incontrate nella riforma dell'Onu, e alla Wto che non riesce a portare a termine il negoziato di Doha sul commercio mondiale. In realtà, anche come risposta alle spinte omologanti della globalizzazione, noi assistiamo a un forte ritorno degli Stati nazionali. Lo Stato e le relazioni tra Stati ridiventano dimensioni cruciali della politica estera. Anche della politica estera italiana» .

Ne abbiamo avuto un esempio all'ultimo vertice europeo?
«Certamente. Io considero positivo il faticoso compromesso raggiunto, anche se giustamente chi si aspettava di più sulla via dell'integrazione è rimasto deluso. Nell'Europa a ventisette il peso dei singoli Stati è cresciuto, soprattutto quello dei maggiori Paesi. Come è cresciuto il peso delle coalizioni di Stati. In questa situazione siamo riusciti a difendere le principali innovazioni istituzionali, e questo è un passo avanti importante. È vero che Germania, Francia e Gran Bretagna hanno svolto un ruolo particolare, ma è anche vero che una coalizione di Paesi più europeisti guidata dall'Italia e dalla Spagna ha avuto un peso sull'esito finale. Questa per noi è una lezione interessante. Dobbiamo avere la capacità di costruire coalizioni attorno a obbiettivi concreti, soprattutto ora che non siamo più al cospetto della tradizionale locomotiva franco-tedesca».

Andiamo verso l'Europa delle due velocità o delle cooperazioni rafforzate: l'Italia è pronta a farsi valere?
«Intanto voglio dire che oggi in Europa e nel mondo l'Italia conta più di quanto contasse un anno fa. Siamo stati eletti nel Consiglio di sicurezza e nel Consiglio dei diritti umani, abbiamo svolto un ruolo centrale nell'operazione Onu in Libano, siamo interlocutori ascoltati su tutte le principali questioni internazionali. In Europa, dopo la conferenza intergovernativa, si porrà il grande problema di come rafforzare la cooperazione tra i Paesi che lo vogliono fare. All'insegna di una necessaria flessibilità avremo tavoli diversi su temi diversi, e importante non sarà la partecipazione di tutti bensì che ci sia un gruppo di Paesi presenti a tutti i tavoli. Tre saranno cruciali: quello sui contenuti di politica economica nell'area dell'euro, quello sulla giustizia, la sicurezza e l'immigrazione, e quello sulla difesa e la lotta al terrorismo globale».

Abbiamo dunque il ritorno degli Stati sulla scena internazionale e una Europa nella quale avanzeranno gli Stati e le coalizioni di Stati. Ma l'Italia, è pronta?
«Bisogna ricordare che in Italia il multilateralismo è stato tradizionalmente un modo di ingessare le difficoltà del Paese. Come quando ti rompi una gamba e metti un tutore esterno. Ora che il sistema multilaterale diventa fragile e meno vincolante, noi diventiamo più liberi. Ma anche più liberi di sbagliare e di evidenziare le nostre debolezze. Nel nuovo sistema che va prevalendo nel mondo come in Europa per essere coinvolti e ascoltati bisogna essere in grado di dare, di offrire qualcosa di concreto. Una volta ci bastava la collocazione geopolitica che ci rendeva necessari. Oggi siamo meno necessari, le relazioni diventano variabili e noi conteremo soltanto per quello che sapremo portare. Ecco allora che sorgono gli ostacoli e che diventano evidenti le nostre debolezze: la fragilità del nostro sistema politico, l'assenza di grandi scelte bipartisan in grado di dare indirizzi durevoli alla politica estera, la mancanza di stabilità e dunque di prevedibilità. Altri Paesi hanno istituzioni che rappresentano da sole una garanzia. Si pensi al presidente francese Sarkozy: lui sarà sicuramente il capo della politica estera francese per i prossimi cinque anni, forse per i prossimi dieci. Esiste qualcosa di paragonabile, in Italia? Noi abbiamo un sistema politico estremamente frammentato che rischiamo di pagare caro sulla scena internazionale ».

Come se ne esce?
«Quello dell'instabilità delle coalizioni è il problema più drammaticamente irrisolto della transizione italiana. Se noi vogliamo continuare ad avere un peso in politica estera dobbiamo capire che l'Italia è come una provinciale di lusso che combatte per non retrocedere e nella migliore delle ipotesi può arrivare in zona Uefa. Per passare dalla parte bassa alla parte alta della classifica occorre che l'intera nostra classe dirigente, i politici, ma anche gli imprenditori, gli uomini di cultura, i responsabili della scuola e della ricerca, insomma tutta la classe dirigente maturi una consapevolezza nuova delle responsabilità nazionali. E poi serve la stabilità. Che si può ottenere con una riforma elettorale, ma che richiede anche un minimo pacchetto di riforme costituzionali in grado di rafforzare il governo e di rendere il rapporto tra governo e parlamento meno confuso e meno paralizzante. Soltanto così si può arrivare a correggere il processo decisionale, che è la chiave di tutto. Una democrazia che non decide è una democrazia svuotata».

Ministro, abbiamo qualche carta da giocare accanto alle molte debolezze?
«Certo che le abbiamo. Alcune le ho citate, ma voglio soffermarmi qui sulle relazioni con gli Usa. Contrariamente a quanto alcuni pensano il nostro rapporto con gli Stati Uniti, pur nell'ambito di una normale dialettica che talvolta rende esplicitamente diverse le nostre opinioni, è rimasto un rapporto speciale. L'America apprezza le responsabilità internazionali che l'Italia si è assunta. E aggiungo che vengono apprezzate anche le relazioni amichevoli che abbiamo con il Mondo arabo o con la Russia: se noi utilizziamo queste capacità di dialogo non in funzione antiamericana ma al contrario per dare una mano all'America, possiamo svolgere una funzione utile. Quel che conta è la piena lealtà: non tutti in Italia se ne rendono conto, ma per gli Usa la lealtà nei rapporti è più importante dell'essere sempre d'accordo. E noi con l'America siamo amici leali».

Potremmo essere utili in Siria, per esempio?
«Io non mi nascondo le responsabilità della Siria e l'ambiguità della sua politica in Libano. Ma credo che dobbiamo cercare di capire anche tutta la difficoltà della posizione siriana. Gli equilibri interni sono sconvolti dall'afflusso di un milione e mezzo di profughi dall'Iraq, e una destabilizzazione della Siria non gioverebbe certo all'insieme della situazione mediorientale. Dunque, nessuno sconto e noi non ne abbiamo fatti. Ma alla Siria occorre offrire anche una prospettiva che serva da incentivo. Le politiche di isolamento non hanno mai dato risultati positivi».

A cosa porterà il divorzio tra Gaza e Cisgiordania?
«Io avevo salutato come un fatto molto positivo il governo palestinese di unità nazionale. Mi sembrava e mi sembra che senza una collaborazione tra le forze principali della società palestinese non si costruisce alcuno Stato palestinese. La guerra civile non serve ai palestinesi, e spingerli in questa direzione è un errore anche per la sicurezza di Israele. In questo momento va sostenuto Abu Mazen, ma il problema è come lo si sostiene. Bisogna offrirgli i mezzi per migliorare la qualità della vita dei palestinesi, e non soltanto con strumenti finanziari. Va allentata la morsa dell'occupazione e della colonizzazione, e gli va offerto un accordo di pace plausibile per tutte le parti in causa. Se non si fa questo in realtà non lo si aiuta, perché non lo si mette in condizione di dare una prospettiva nuova ai palestinesi. Se invece Abu Mazen avesse le carte giuste nelle sue mani, i moderati si troverebbero in una posizione di forza e potrebbero tornare a un processo di conciliazione con Hamas».

Torniamo al multilateralismo: il Kosovo lo metterà alla prova?
«Le modalità dell'indipendenza del Kosovo sono un test cruciale per l'Europa e per il multilateralismo. Se in una realtà che è vitale per la sicurezza dell'Europa e totalmente sulle sue spalle dal punto di vista finanziario l'Ue non riesce a farsi sentire, tanto vale dichiarare fallimento. Dobbiamo convincere gli americani che una proclamazione unilaterale di indipendenza sarebbe lacerante, i serbi che la loro battaglia è anacronistica, e i russi che la loro contrarietà a una risoluzione Onu mette seriamente a rischio i rapporti con l'Europa. Io penso che una delegazione europea dovrebbe andare a Mosca per spiegarlo a Vladimir Putin».

E sullo scuso anti missile, come vede le proposte di Putin?
«La vicenda era nata male, anche la Nato era stata emarginata dai piani Usa. Ora stiamo tornando sulla via giusta, che è quella di coinvolgere tutti, Russia compresa, in un sistema di sicurezza contro le minacce missilistiche».

Franco Venturini
06 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 06, 2007, 09:41:16 am »

Il trionfo dei veti

Perché la concertazione si è impantanata
 di MAURIZIO FERRERA


La lunga trattativa sulle pensioni ha di nuovo acceso i riflettori sulla cosiddetta «concertazione» e in particolare sul potere di veto di cui sembrano godere i sindacati quando si cerca di riformare il welfare. Questo dibattito non è solo italiano. Toccare i diritti previdenziali è un'operazione delicatissima, che ha provocato turbolenze politiche e sociali in molti Paesi, spesso a causa delle intransigenze sindacali. L'osservazione comparata rivela tuttavia che il metodo seguito nell'attuale vertenza sullo scalone è decisamente anomalo rispetto alle esperienze straniere. In che cosa consiste l'anomalia? Nel fatto che governo e sindacati non stanno in realtà facendo nessuna concertazione. Ciò a cui stiamo assistendo è piuttosto un caso di contrattazione «bruta» fra una moltitudine di soggetti (esponenti del governo, della maggioranza, del mondo sindacale) che si muovono in ordine sparso, che trattano fra loro in forme assai poco trasparenti, che promuovono o difendono interessi dichiaratamente di parte. Concertare una riforma pensionistica non vuol dire «aprire un tavolo » fra governo e parti sociali e poi vedere che succede. Significa partire da una diagnosi sufficientemente condivisa dei problemi da affrontare, considerando gli interessi di tutti coloro che sono toccati anche indirettamente dalle decisioni (compresi i giovani, ovviamente).

Significa predisporre un’adeguata base di informazioni, accessibile a tutti, per identificare con chiarezza gli scenari alternativi e le loro implicazioni. Nei processi decisionali concertati i sindacati sono gli interlocutori più importanti del governo. Ma essi non possono sottrarsi al dovere di motivare le proprie posizioni con buoni argomenti e buoni dati, di giustificare ciò che propongono in chiave di «interesse generale ». Se mancano queste condizioni, perché un sistema democratico dovrebbe delegare responsabilità decisionali (o addirittura riconoscere potere di interdizione) a soggetti privi di legittimità elettorale, espliciti portatori di interessi particolari? Come emerge da un ampio studio appena pubblicato da Oxford University Press (lo «Handbook of Pension Politics»), i casi dell'Austria, dell'Olanda, della Spagna e della Finlandia offrono numerosi esempi di riforme concertate (nel senso stretto e autentico del termine). La riforma pensionistica finlandese del 2005 costituisce forse l'esempio più riuscito: le parti sociali hanno fatto quasi tutto da sole, con l'aiuto di una commissione di esperti.

Occorre però notare che la concertazione non è l'unico metodo per cambiare il welfare. In Svezia le pensioni sono state riformate grazie a un accordo bipartisan fra governo e opposizione, che ha consentito di superare le resistenze sindacali. La distanza che ci separa da queste esperienze è enorme. Il problema italiano è che sulle grandi questioni che riguardano tutti i cittadini (come appunto le pensioni) il sistema politico non è capace di seguire né la strada della concertazione né quella degli accordi bipartisan. Non avendo i numeri e la compattezza per decidere da solo, il governo si trova così impantanato in un logorante e improduttivo tiro alla fune fra interessi contrapposti, anche al proprio interno. Altro chemetodo della concertazione: sulla riforma dello scalone la politica italiana sta rapidamente degenerando verso il metodo del conflitto di tutti contro tutti. Il quale certo non produrrà alcun provvedimento serio, ma solo ulteriore disorientamento e sfiducia nella «politica» da parte dei cittadini, soprattutto quelli più giovani.

06 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 08, 2007, 09:37:17 pm »

2007-11-08 16:51

FORLEO: D'ALEMA, MAI PRESSIONI, MI TUTELERO'


 ROMA - "Non ho mai esercitato pressioni di alcun genere sulla magistratura". Massimo D'Alema, in una nota, interviene dopo le notizie pubblicate in questi giorni circa "presunti timori o pressioni che avrei esercitato in relazione alle indagini giudiziarie", per chiarire la sua posizione e annunciare che, comunque, di fronte a quanto pubblicato stamattina dai giornali, ha dato mandato ai suoi legali "di compiere gli atti giudiziari necessari per ristabilire la verità e tutelare la mia onorabilità".

"A proposito di notizie relative a presunti timori o pressioni che avrei esercitato in relazione alle indagini giudiziarie - afferma il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri - intendo chiarire che:1. le intercettazioni telefoniche che mi riguardano sono depositate presso il Tribunale di Milano e ognuno può constatare che esse, peraltro già rese pubbliche, non contengono alcun giudizio su personalità politiche; 2. non conosco il Procuratore generale Blandini né ho avuto contatti con alcun magistrato milanese né ho mai esercitato pressioni di alcun genere sulla magistratura; 3. non conosco il contenuto delle dichiarazioni della dottoressa Forleo di fronte al Csm che d'altro canto sono, o dovrebbero essere, secretate". "Visti tuttavia i giornali - conclude D'Alema - ho dato mandato ai miei legali di compiere gli atti giudiziari necessari per ristabilire la verità e tutelare la mia onorabilità".

BLANDINI SMENTISCE FORLEO, NESSUNA TELEFONATA DAL MINISTRO
Al Gip Clementina Forleo il Procuratore Generale di Milano Mario Blandini ha sempre dato "consigli richiesti da lei". L'alto magistrato ha così commentato le dichiarazioni che il Gip milanese ha fatto al Csm. Clementina Forleo aveva parlato di consigli da parte di Blandini a proposito del deposito delle intercettazioni nel caso Antonveneta e avrebbe detto che il Pg gli aveva manifestato timori del ministro degli Esteri Massimo D'Alema sul fatto che potessero essere rese note alcune sue conversazioni con apprezzamenti relativi a colleghi di partito. "Non ho mai ricevuto nessuna telefonata da D'Alema e da nessun altro - ha spiegato Blandini - e mi lamenterò presso il Csm in quanto ciò che avrebbe detto la dottoressa Forleo mi è stato reso noto dagli organi di stampa".

PG BLANDINI, SUO MOMENTO DI DIFFICOLTA' PSICOLOGICA
Il Procuratore Generale di Milano Mario Blandini ha spiegato, in riferimento alle dichiarazioni fatte dal Gip di Milano Clementina Forleo al Csm, che i consigli chiesti dalla collega derivavano "dal rapporto instauratosi negli anni quando ero presidente dell'ufficio Gip". "E' accaduto molto spesso negli anni - ha detto Blandini - e, a proposito di Antonveneta, cominciò a chiedermi consigli quando divenne assegnataria del procedimento". Il procuratore generale di Milano attribuisce a un "momento di sua difficoltà psicologica" il fatto che la Forleo, stando a quanto si è appreso, davanti al Csm avrebbe sostanzialmente smentito d'aver mai parlato di pressioni da parte di ambienti istituzionali. "Nell' ultimo anno e mezzo è stata sottoposta a un fuoco di fila di accadimenti- ha detto Blandini -. E questo é umanamente comprensibile".

IL CSM AI PM DI BRESCIA, TRASMETTETECI LA DEPOSIZIONE DEL GIP
Il Csm chiederà alla procura di Brescia la trasmissione dei verbali della deposizione del gip di Milano Clementina Forleo sulla pressioni che avrebbe ricevuto mentre conduceva l'inchiesta sulle scalate bancarie. Lo ha stabilito la Prima Commissione di Palazzo dei marescialli. E' slittata, invece ,a lunedì prossimo la decisione su nuove audizioni, che secondo la proposta della vice presidente della Commissione Letizia Vacca, dovrebbero riguardare il pg di Milano Mario Blandini, il presidente del tribunale Livia Pomodoro e i due pm di Brindisi chiamati in causa da Forleo Santacaterina e Negro. 

da ansa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 19, 2008, 04:52:40 pm »

Il Pd L’intervista

«Politici e giudici, non è scontro tra caste»

D’Alema: un errore buttare all’aria il lavoro sulla bozza Bianco.

Il referendum? Non risolve


Lancia l’idea di un grande patto tra le principali forze sociali del Paese; evita accuratamente di bollare le nuove tensioni tra magistrati e politici come scontro tra caste — «piuttosto esiste un problema comune di classi dirigenti» —;rilancia la necessità delle riforme sulla base della bozza Bianco e del progetto costituzionale di cui si discute alla Camera; richiama al dialogo il mondo laico e quello cattolico.

Ministro D’Alema chi ha ragione, Mastella o i magistrati? Stiamo tornando al ’92, alla crisi della prima Repubblica?
«Io credo sia stato completamente sbagliato in questi anni il modo di impostare il confronto tra politica e magistratura, tra mondo economico e magistratura e così via. La chiave di interpretazione della crisi come conflitto tra poteri, corporazioni, caste — in cui quella più debole è la casta eletta dal popolo, quella politica — è sbagliata. Ed un’analisi errata, che per di più eccita uno scontro corporativo, impedisce di trovare vie d’uscita. Io credo, viceversa, che ci sia una crisi della classe dirigente del Paese, un prevalere di particolarismi, a volte un venir meno della misura che è anche un venir meno del senso della responsabilità. Il problema, dunque, mi pare più ampio e profondo. Da questo punto di vista, mentre nel ’92 la magistratura appariva come l’indice del senso dello Stato contro l’arroganza del ceto politico, oggi questa raffigurazione apparirebbe semplicistica e spesso non vera».

Questa inchiesta, quella che ha coinvolto la famiglia del ministro Mastella, la convince o no?
«Non conosco le carte. Dalle ricostruzioni e dalle dichiarazioni che ho ascoltato, gli arresti effettuati mi sembrano una forzatura incomprensibile ».

Aveva ragione Berlusconi quando voleva la separazione delle carriere dei magistrati?
«Il punto non è questo. Anche perché la magistratura giudicante ha sempre dimostrato una notevole autonomia e senso dell’equilibrio. Non dimentichiamo che molti di questi casi di cui si discute finiscono con clamorose assoluzioni. Naturalmente, a volte, senza che lo si sappia e dopo aver rovinato la vita di una persona».

Stavolta, il ministro della Giustizia ci ha rimesso il posto.
«Un atto di serietà e responsabilità, tenuto conto che Mastella aveva avuto una grande solidarietà in Parlamento, ben al di là dei confini della maggioranza. Ha dimostrato, come in altre circostanze, di essere una persona seria».

Per il governo, comunque, è un duro colpo in una situazione già difficile di una maggioranza provata.
«La maggioranza è provata dal fatto di avere numeri ristretti al Senato. Proprio per questa condizione di partenza, la sua tenuta finora risulta eccezionale. E certo c’è una difficoltà del governo, c’è un’opposizione divisa, c’è una legge elettorale sub iudice. Ma io credo che l’emergenza più grave che dobbiamo affrontare, pena il rinchiudersi in un atteggiamento autoreferenziale, sia il malessere sociale del Paese. C’è una sofferenza di tante famiglie, in particolare quelle monoreddito e comunque di lavoratori dipendenti. Questa situazione rappresenta anche il più grande freno allo sviluppo e al rilancio dell’economia. Mentre recuperiamo competitività internazionale, anche in settori di tecnologia avanzata—fenomeno che impressiona all’estero— soffriamo di una contrazione dei consumi e di una caduta di aspettative. Allora è essenziale un rilancio dell’azione di governo, che coinvolga le forze fondamentali del Paese, non in una logica di contrapposizione. Occorre intervenire sul potere d’acquisto, migliorare la condizione delle famiglie, puntare sulla crescita della produttività. Il governo dovrebbe promuovere un nuovo Patto tra le forze fondamentali del Paese, mettendoci di suo una riduzione della fiscalità sul lavoro, che consenta un miglioramento delle retribuzioni e un rilancio dell’innovazione e della formazione, essenziali proprio per vincere la sfida della competizione internazionale ».

Con quali energie e risorse?
«Si tratta di chiamare a raccolta il mondo della cultura, dell’impresa, del lavoro. Si possono mobilitare grandi risorse, penso ad esempio ad istituzioni come le Fondazioni bancarie, che già investono nella ricerca e potrebbero farlo in modo più coordinato ed efficace intorno a grandi progetti nazionali, volti a sostenere le nostre eccellenze, a potenziare le posizioni di leadership. Un’azione forte di questo tipo potrebbe consentirci di affrontare meglio i rischi di una crisi internazionale di cui si avvertono le avvisaglie ».

E la riforma elettorale? Il momento delle schermaglie è finito: ora, o si fa o si va al referendum.
«Certo. Anche se il referendum non risolverebbe, non è il giudizio di Dio. Il sistema elettorale che ne verrebbe fuori rischia di creare ulteriore confusione».

Meglio fare la legge, dunque.
«Certamente, ma comunque anche in caso di referendum, il Parlamento dovrebbe intervenire. La Camera ha approvato in commissione una riforma costituzionale che si ispira al modello tedesco, con il voto favorevole della maggioranza e l’astensione dell’opposizione. Il che lascia pensare che ci sia un certo grado di convergenza, se le cose hanno un senso. Questa riforma non prevede il presidenzialismo, prevede il rafforzamento dei poteri del premier e vi è inoltre un’intesa per introdurre la sfiducia costruttiva. Ora ci si aspetterebbe, in un Paese ben ordinato, dove c’è un minimo di logica, che il Senato lavori su una riforma elettorale coerente come quella delineata nella bozza Bianco, la quale non è affatto una fotocopia del sistema tedesco, ma il tentativo di adattare quel sistema al nostro Paese, alle caratteristiche del nostro sistema politico. Operazione che ho sempre sostenuto e sostengo, essendo favorevole, ad esempio, ad un voto unico per il collegio uninominale e per il proporzionale, piuttosto che ad un doppio voto. Adesso sarebbe un errore sprecare questa opportunità, buttando all’aria il lavoro fatto alla Camera e al Senato in modo ragionevole e coerente».

Ma Berlusconi non ne vuole sentire parlare.
«In realtà, il problema è che non si capisce se Berlusconi voglia fare le riforme o le elezioni, non tanto il merito della legge elettorale, tema sul quale ha espresso cinque opinioni diverse nelle ultime settimane. Inviterei Berlusconi a continuare in modo costruttivo il dialogo per le riforme nell’interesse del Paese».

Se ci si avvierà al referendum, Rifondazione comunista minaccia la crisi.
«Non ho sentito questa minaccia e non credo si arriverebbe a questo. Una ritorsione contro il governo sarebbe solo autolesionismo ».

Se ci sarà crisi, esiste l’ipotesi di un governo istituzionale?
«Chi sta in un governo non fa scenari di nuovi esecutivi, è eticamente incompatibile. Stiamo lavorando per rilanciare l’azione di questo governo».

Anche se tanti la considerano sempre l’uomo che trama. Sabato prossimo c’è il decennale della sua Fondazione, Italianieuropei, e in molti ci vedono la nascita della corrente nel Partito democratico...
«Sono un complottatore talmente raffinato che abbiamo progettato dieci anni fa questo evento allo scopo di creare oggi una nuova corrente. Si direbbe un complotto lungimirante... ».

Le prime mosse del Pd l’hanno convinta?
«Stiamo lavorando, discutendo, ci stiamo confrontando».

Litigando...
«Sbaglia e di molto chi continua a descrivere un Veltroni accerchiato da "emissari dei vecchi partiti", peraltro gente eletta democraticamente. Una raffigurazione dannosa anche per Veltroni perché lo rappresenta in balia di complottardi ».

Ma neanche si può parlare di una brigata di vecchi amici...
«C’è discussione su molti temi come è normale nel momento in cui nasce il nuovo partito ».

Uno dei punti delicati della discussione riguarda il concetto di laicità e, più in particolare, i rapporti con la Chiesa. Il cardinal Bertone si è spinto a dire che si trattava meglio con l’ex Pci.
«È un errore raffigurare questi problemi come esclusivamente italiani. In realtà il tema del rapporto tra agire politico, scelte legislative e fedi religiose è un problema mondiale. Basta pensare a quello che succede negli Stati Uniti o, per altri aspetti, nel mondo musulmano. Sono la stessa crisi e insicurezza nel tempo in cui viviamo e la caduta delle grandi "visioni laiche" del mondo, che hanno sorretto l’agire politico, a proporre in modo nuovo questo tema. Bisogna rifuggire dalla tentazione dell’integrismo da una parte e dall’altra. Questo vale per i laici ma anche per la Chiesa. Guai se non vedessimo quale straordinaria risorsa etica e politica sia la presenza cristiana nella società italiana, ma sarebbe anche un grave errore da parte dei cattolici considerarsi come i monopolisti dell’etica. C’è un’etica laica della responsabilità e della libertà con cui si deve dialogare. Ma proprio per questo, i laici sbaglierebbero a chiudersi in una posizione minoritaria e rancorosa. Inoltre, il legislatore non può mai dimenticare che le leggi sono per tutti e devono quindi riflettere un compromesso accettabile per tutti».

Domani alcuni esponenti del Pd saranno in piazza San Pietro in risposta alla chiamata del cardinal Ruini.
«Anche io una volta ho risposto all’appello ad andare in piazza San Pietro, in quel caso era per la pace. Laicamente e liberamente si può scegliere l’appello al quale aderire».

Antonio Macaluso
19 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 31, 2008, 04:27:10 pm »

Così si andrebbe al voto non prima nel 2009. E si metterebbe in difficoltà la Cdl

La carta di D'Alema: subito il referendum

La strategia del vicepremier: alle urne ad aprile per modificare con il sì la legge elettorale

 
ROMA - E' la carta segreta che spiazzerà il centrodestra. L'idea l'ha avuta Massimo D'Alema. Una mossa degna di un politico abile qual è lui per sparigliare la partita che si sta giocando con Berlusconi. Non riesce il tentativo Marini? O comunque riesce per il rotto della cuffia? Bene, il ministro degli Esteri ha in serbo un'iniziativa che difficilmente il Cavaliere potrà contrastare. D'Alema l'ha suggerita a Giorgio Napolitano, che in queste ore la sta vagliando: indire il referendum elettorale in aprile. Dopodiché si vada pure alle elezioni. Ovviamente, come minimo in giugno, se non oltre.

La Corte costituzionale ha annunciato che il sistema elettorale vigente ha delle «carenze». Il che, tradotto in parole povere, significa che secondo la Consulta la legge aveva bisogno di aggiustamenti anche a prescindere dal referendum. Una spinta in più per fare una riforma: e per centrare l'obiettivo di un sistema elettorale compiuto si potrebbe arrivare fino al 2009.

Una mossa, quella di D'Alema, che creerà qualche problema nel centrosinistra (anche se Rifondazione ha già lasciato intendere che è pronta anche ad affrontare questo appuntamento). Ma che, sicuramente, provocherà uno sconquasso dall'altra parte della barricata. Nella Casa delle Libertà, infatti, c'è Fini, che quel referendum l'ha firmato. C'è Berlusconi, che finora è riuscito a non esprimersi in proposito. C'è la Lega che è contraria. Ma, soprattutto, c'è quell'Udc che avrebbe dovuto essere l'interlocutore del centrosinistra sulle riforme — e sul prolungamento della legislatura — che vede nel referendum la certificazione della fine della propria autonomia (e, forse, anche, della propria sopravvivenza).

Non è un caso che appena il tam tam sulla mossa escogitata da D'Alema giunge alle orecchie di Berlusconi, il Cavaliere resti interdetto: «Certamente questa è una mossa insidiosa», dice Berlusconi a Fini e Letta. Non è la prima volta e non sarà l'ultima che D'Alema prende in mano le redini del gioco per scongiurare una fine prematura per il centrosinistra. E Veltroni, che pure teme che questa operazione serva ad andare avanti e a indebolirlo, non può certo contrastarla. Qualche mese in più serve soprattutto a lui. E comunque un referendario della prima ora come il sindaco deve comportarsi di conseguenza. Perché è vero che il leader del Pd non ha firmato il referendum, come invece hanno fatto Parisi e Bindi, ma è anche vero che non può essere colui che lo ostacola. La sua storia politica non lo permette.

Il che non significa che Veltroni non abbia dei dubbi. Primo, «anche se passerà la legge del referendum io mi rifiuto di fare un'ammucchiata in cui tutti stanno con tutti, con le conseguenze che si sono viste con questa coalizione e questo governo». Per Veltroni questo è un punto fermo. Di più. Il sindaco aveva sfidato Berlusconi, anche nel loro secondo incontro riservato, ad andare da solo alle elezioni, anche nel caso in cui si fosse fatto il referendum. Ma c'è un altro dubbio che assilla Veltroni, il quale è scettico sulla riuscita della consultazione. E' già accaduto per gli altri due referendum elettorali: il quorum non è stato raggiunto. Chi ha detto che questa volta accada il contrario?

Eppure, tra scetticismi, dubbi e tentativi di Marini, quella di D'Alema si rivela come l'unica mossa capace di mettere in difficoltà il Cavaliere e di dare del filo da torcere al centrodestra. «Perché — è il ragionamento del ministro degli Esteri — dovremmo togliere agli italiani questa occasione per esprimersi? ». Dunque, forte di 800 mila firme in calce ai quesiti referendari, il Quirinale potrebbe indire la data del referendum. E non è un caso che i vertici del Prc, avvertiti anzitempo di questa eventualità, non alzino le barricate, ma facciano sapere: «In fondo con il referendum non andrebbe tanto male neanche a noi». E soprattutto non andrebbe male al centrosinistra che prenderebbe fiato e tempo per rinserrare le fila e tentare una campagna elettorale che altrimenti sarebbe persa in partenza.

Maria Teresa Meli
31 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 04, 2008, 09:46:42 pm »

D'Alema in tv: «Per il Pd ora sbagliato isolarsi»


Quella del 13 e 14 aprile è stata «una sconfitta grave e di lungo periodo», dovuta a «quella sintonia tra Berlusconi, il berlusconismo e il Paese cominciata nel '94 e mai finita».
Massimo D'Alema appare domenica in tv nel programma post-tg di Lucia Annunziata, "In mezz'ora" e racconta la sua versione dell'accaduto e le sue ricette per il futuro. Un futuro che vede ancora targato centrosinistra, con la ricostruzione di un rapporto più largo di forze, oltre il Pd. Mentre appare scettico sulla volontà di dialogo sulle riforme della nuova maggioranza di destra.

L'analisi di D'Alema parte da quella che segnala come «una lacerazione tra istituzioni, partiti e società civile», di cui in effetti aveva già parlato tra i primi molti mesi prima del voto. Questo vuoto, sostiene, è stato in qualche modo colmato da Berlusconi e dal berlusconismo, mentre il centrosinistra - «noi», dice - «non siamo riusciti a dare risposte persuasive».

«Le risposte della destra sono illusorie, ma sono apparse più persuasive delle nostre», anche perchè «abbiamo scontato le difficoltà per le resistenze della sinistra più radicale».

La formula del Pd «è molto più competitiva di quanto non sia stata quella dei Progressisti nel '94, perché più spostata al centro, ma il bipolarismo non significa necessariamente bipartitismo» e qui la riflessione si concentra sulle scelte elettorali. «Neppure quello di Berlusconi è un modello bipartitico, tant'è vero che senza la Lega perse, proprio come oggi non avrebbe vinto senza la Lega. Allora, la più grande forza dell'opposizione deve stabilire un buon rapporto con tutte le forze d'opposizione al governo Berlusconi, anche per le elezioni locali. Dove si vota con un sistema basato sulle coalizioni - rimarca - chi ha il 33 per cento sbaglierebbe se alla vigilia del voto sostenesse l'autosufficienza...».

Lucia Annunziata lo invita a tracciare una sorta di "road map" per il Partito Democratico. Ma D'Alema in questo caso non è super partes come dalla Farnesina rispetto agli attori in gioco nella politica mediorientale.

Le alleanze per lui «non si fanno su base sociologica ma politica e programmatica». Quindi «è doveroso realizzarle tra le forze che si oppongono alla destra ma senza snaturare il senso del nostro partito». Certo, «guai se ci si rifugiasse nel settarismo», ma il canale deve restare aperto.

Così sul partito nuovo, l'ex vicepremier rivendica l'indicazione di «una struttura federale», che però non abbia nel territorio «dei fiduciari ma dei leader, che devono quindi avere un peso nella vita politica nazionale».

Quanto al rapporto con la maggioranza berlusconiana per le riforme, D'Alema esprime forti perplessità. «Se guardo al passato - afferma ricordando il suo passato come presidente della Bicamerale - l'esperienza del dialogo sulle riforme è stata molto negativa». Certamente, precisa «ciò che riserva il futuro non è sempre ciò che arriva dal passato». Ma, avverte, «la destra ha una concezione padronale delle istituzioni, quella per cui chi vince ne è padrone. Quell'istinto c'è ancora, spero che la destra riesca stavolta a dominarlo». « Si può sperare, ma non è facile», conclude. Tentare è doveroso, dunque, anche perché « alcune grandi riforme si possono fare solo con un certo grado di convergenza». Ma con prudenza.

D'Alema durante la mezz'ora di colloquio in diretta con la sua interlocutrice tocca anche altri temi, di attualità. Come la vicenda delle dichiarazioni dei redditi messe online. Una vicenda su cui non si sente molto indignato di fronte alla possibile violazione della privacy. «Sinceramente, si può ragionare sull'opportunità ma non mi sembra una violazione così paurosa», dice.

La Annunziata gli pone una domanda sul tasso di coerenza dei critici della «casta» misurato sul loro reddito, e l'ex ministro risponde con una frecciata verso i giornalisti: «Sapevo già che alcuni di quei moralisti che scrivono sui giornali guadagnano 10 volte quello che guadagniamo noi politici, malgrado che questo non corrisponda minimamente a un valore di mercato, visto - sottolinea - che i giornali in Italia non si vendono. È una casta anche quella, ma molto meglio protetta della nostra».

Ma la sua non è la crociata di Beppe Grillo contro la «casta dei giornalisti». «Grillo non lo seguo, esprimo opinioni fondate su dati di fatto», rivendica D'Alema che comunque rinnova la stoccata quando si tocca il tema dei poteri forti che «utilizzano i mezzi di informazione per tenere la politica sotto scopa».

A D'Alema in tv, risponde da Chianciano nella giornata conclusiva dell'assise dei Mille, Marco Pannella, che a proposito della riflessione sulla necessità del Pd ora di non isolarsi, dice: «Se otto mesi fa fosse stata fatta una riflessione simile, ci saremmo risparmiati la sconfitta». Per Pannellala «sconfitta è figlia della inadeguatezza del Pd». E se D'Alema ha prospettato di «cercare di coalizzare tutte le forze che si oppongono alla destra», il leader dei Radicali va oltre apprezzando invece l'intervento di Cesare Salvi di Sd per aver proposto a Chianciano di costruire «un nuovo centrosinistra».


Pubblicato il: 04.05.08
Modificato il: 04.05.08 alle ore 18.53   
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 04, 2008, 09:47:28 pm »

4/5/2008 (17:55) - L'EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO A TUTTO CAMPO


D'Alema: la destra impari dagli errori
 
Il ministro degli Esteri: ingerenze intollerabili, Calderoli fu inopportuno


ROMA
«Il vero problema italiano è che da noi i poteri forti non ci sono» e Silvio Berlusconi «è l’espressione di questo capitalismo, è il capo, ne è il rappresentante più significativo». Massimo D’Alema, ospite del programma "In mezz'ora", sferza il premier in pectore, spiegando che- quello italiano- è un capitalismo che «ha bisogno del potere politico, anche per le sue debolezze, che è scarsamente competitivo su scala internazionale, che ha bisogno di protezione».

L'ex presidente del Consiglio è scettico sulla possibilità di un dialogo con il Pdl. «Essendo io uno degli uomini politici che hanno cercato di più il dialogo, in particolare sulle riforme costituzionali, devo ammettere che l’esperienza è stata molto negativa. Naturalmente - dice - quello che ci riserva il futuro non sempre è la ripetizione di ciò che è stato in passato. Si può sperare, ma non è facile». Poi, apre alle alleanze.«Credo che un partito di opposizione debba cercare di stabilire un buon rapporto con tutte le forze che sono all’opposizione- spiega- c’è una forza elettorale di circa tre milioni di voti, che si è dispersa in gran parte nell’astensione, alla sinistra del Pd. Ma c’è, non è scomparsa. Le cose che hanno radici nel Paese non scompaiono: la sinistra più radicale non ha trovato un’espressione politica convincente e quindi si è dispersa, ma non è scomparsa, c’è sempre».

D'Alema non nasconde la delusione elettorale: «È necessaria una riflessione approfondita, la sconfitta è stata grave» e, a parziale spiegazione del risultato, mette sul tavolo la questione sicurezza. «Noi abbiamo avuto difficoltà a prendere decisioni efficaci a livello di governo anche per le resistenze di una sinistra più radicale, che da questo punto di vista ha mostrato scarsa sensibilità su questo tema ed è rimasta arroccata in una visione a mio giudizio non realistica».

Il ministro degli Esteri difende la posizione già espressa sul "caso Calderoli"- «se un paese straniero cerca di influire nella formazione del governo italiano, ritengo doveroso, come ministro degli Esteri, reagire a tutela della nostra autonomia nazionale e anche un principio costituzionale»- ma non rinuncia ad affondare contro il nuovo governo: «Se riengo intollerabili le ingerenze di un paese straniero nella formazione del governo italiano non ho considerato però opportuno che un uomo politico che abbia responsabilità istituzionali faccia quello che ha fatto Calderoli».

«Ognuno deve comportarsi rispettando le regole e augurarsi che lo facciano anche gli altri» -aggiunge D’Alema- «Calderoli indossando la maglietta offensiva nei confronti dell’Islaminnescò una catena di provocazioni molto negativa. Bisogna sempre sperare che l’esperienza del passato serva a questa destra che torna al governo del paese per evitare gli stessi errori».


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« Risposta #7 inserito:: Maggio 04, 2008, 09:50:41 pm »

Intervistato da lucia annunziata su raitre

D'alema: «Sul fisco parlano i moralisti dei giornali, che non si vendono»

«Alcuni di loro guadagnano 10 volte di più di noi politici». «E' una casta meglio protetta»

 
ROMA - «Della questione si sta occupando la magistratura, per vedere se questa modalità possa essere considerata violazione delle norme sulla privacy. Non entro quindi su questo aspetto giuridico. Politicamente, non capisco perchè si debba nascondere il proprio reddito. In grandi Paesi come gli Usa il reddito viene ostentato e da noi era già consultabile».

Massimo D'Alema parla della bufera sulle dichiarazioni dei redditi sul web introducendo una severa riflessione sul mondo dei media. «Sinceramente, si può ragionare sull'opportunità ma non mi sembra una violazione così paurosa», dice, ospite di Lucia Annunziata su RaiTre, e alla domanda sul tasso di coerenza dei critici della «Casta» misurato sul loro reddito, l'esponente Pd risponde così: «Sapevo già che alcuni di quei moralisti che scrivono sui giornali guadagnano 10 volte quello che guadagniamo noi politici, malgrado che questo non corrisponda minimamente a un valore di mercato, visto - sottolinea - che i giornali in Italia non si vendono.

È una casta anche quella, ma molto meglio protetta della nostra». «Grillo non lo seguo, esprimo opinioni fondate su dati di fatto», rivendica D'Alema che rinnova una stoccata quando si tocca il tema dei «poteri fortì» che «utilizzano i mezzi di informazione per tenere la politica sotto scopa».


04 maggio 2008

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« Risposta #8 inserito:: Maggio 07, 2008, 11:48:29 pm »

Strategie Nel Pd

D'Alema riunisce i suoi parlamentari

Ticket Bersani-Letta. E allarga la corrente

Stop dai veltroniani: no alle parrocchiette

 
 
Detto e fatto. Massimo D'Alema aveva preannunciato che si sarebbe occupato della Fondazione Italianieuropei: così è stato. E Walter Veltroni non ha gradito. La reazione del segretario è presto spiegata.

Veltroni non ha gradito perché la «nuova» attività del ministro degli Esteri non è il segnale di un «autopensionamento », né tanto meno della fine delle ostilità. Anzi. Infatti a breve nascerà un'associazione di parlamentari del Pd che si rifanno alla Fondazione di D'Alema. Ieri c'è stata una prima riunione in un albergo ricavato da un convento di frati, vicino a piazza Farnese: D'Alema, Bersani, Latorre, Minniti, Pollastrini, Ventura e altri ex Ds. Detta così sembrerebbe un incontro tra dalemiani. Con Minniti che abbandona Veltroni e la riunione dei segretari regionali per prendere parte a questo appuntamento. E con la Pollastrini che fa altrettanto, alla Camera, senza aspettare lo spoglio dei voti delle vicepresidenze.

Ma la vicenda è un po' più complicata. E ben più interessante. Al convento di Maria Immacolata c'erano anche dei parlamentari che finora non hanno mai partecipato alle riunioni dei dalemiani, anche perché provengono non dai Ds ma dalla Margherita. C'erano i lettiani Francesco Boccia e il ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro. Già, perché D'Alema in questi giorni ha fatto un gran pressing sul sottosegretario alla presidenza del Consiglio e alla fine gli ha strappato un "sì". Letta è interessato all'operazione del ministro degli Esteri, con cui ha avuto un colloquio anche ieri. Del resto, di un eventuale tandem Bersani-Letta in sostituzione di quello Veltroni- Franceschini si parla ormai da qualche tempo. Dunque, per dirla in parole povere, la corrente di D'Alema si allarga. Ed è probabile che altri deputati e senatori di provenienza non diessina verranno coinvolti in futuro. Era scontato, perciò, che Veltroni non gradisse. Il segretario non ha mai nascosto di pensare che le correnti «facciano parte di vecchie pratiche».

Tant'è vero che finora ha opposto un "no" a quei sostenitori che gli hanno suggerito di formare una sua componente. Ora i supporter del leader del Pd raccontano che D'Alema ha messo in atto questa iniziativa dopo essersi accorto, in occasione della mancata candidatura di Bersani a capogruppo, che la maggior parte dei parlamentari del partito sono di rito veltroniano. Secondo questa versione il ministro degli Esteri avrebbe perciò in animo di allargare la sua sfera di influenza a quegli esponenti che non provengono dai Ds. Veltroni quindi è sul chi va là. E lo sono anche i suoi. Andrea Orlando, responsabile organizzativo del Pd, è molto chiaro sull'argomento: «Le fondazioni vanno bene, e sono previste dallo statuto, ma le correnti frenano l'attività del partito. Dividersi in parrocchiette rappresenta un regresso».

E il segretario del Pd veneto, l'ex margheritino Paolo Giarretta, osserva: «D'Alema non può pensare di continuare ad affibbiare le parti in commedia a tutti». Perciò, anche se ufficialmente D'Alema tiene riunioni di Fondazione e non di corrente, mentre Veltroni evita l'attacco diretto agli avversari interni, l'atmosfera nel Pd non è delle migliori. Lo testimonia anche il fatto che l'altro ieri qualche veltroniano abbia pensato di bocciare la riconferma di Latorre a vicepresidente del gruppo del Senato. Raccontano che sia stato Marini a spiegare che non aveva senso fare una cosa del genere per dare un colpo a D'Alema. Unico segnale di compromesso la decisione di indire sì un congresso anticipato in autunno, ma un congresso esclusivamente tematico in cui non ci saranno le elezioni degli organismi dirigenti. Se questi sono i rapporti interni, quelli con l'alleato Di Pietro non vanno certo meglio.

Il leader dell'Italia dei Valori, fatto fuori dal gioco delle vicepresidenze, ha chiesto la guida della Commissione di Vigilanza Rai per Leoluca Orlando. Veltroni gli ha risposto: per noi non c'è problema, ma guarda che deve essere votato anche dalla maggioranza... Il colloquio tra il segretario Pd e Di Pietro è stato più che teso e si è concluso con questa affermazione dell'ex pm di Mani Pulite: se non c'è neanche la presidenza della Vigilanza, io rompo. Di Pietro L'ex pm chiede la presidenza della Vigilanza Rai: se non c'è neanche quella, io rompo

Maria Teresa Meli
07 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:46:50 pm »

8/5/2008  - DOPO LA SCONFITTA ALLE URNE

D'Alema-Veltroni: il Pd a nervi tesi
 
Il ministro degli Esteri uscente: «Le correnti? Non le ho create io»


ROMA
Sale ancora la tensione tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Il giorno dopo la riunione di Italianieuropei che ha di fatto «ufficializzato» la corrente dalemiana nel partito, il ministro degli Esteri uscente parla al Tg3 e rincara la dose: «Le correnti? Non le ho create io, il Pd è un partito fatto di molte componenti, ed è una cosa visibile nella vita del partito, a cominciare da come si distribuiscono gli incarichi parlamentari...». Parole che, se possibile, hanno ulteriormente irritato il segretario del Pd che, racconta ci ci ha parlato, già ieri non aveva accolto affatto bene la notizia della riunione dalemiana: sanno solo fare correnti, si sarebbe sfogato ieri, ma io non li seguo su questa strada.

Peraltro, se ufficialmente nessuno vuole replicare, a microfoni spenti i veltroniani non lesinano giudizi sprezzanti: «Erano una quarantina, tra deputati e senatori... Circa il 20%, come sui capigruppo. Se voleva essere un cenacolo culturale, bene. Ma se voleva essere una prova di forza... è stata un fallimento».

Veltroni, però, sa che si tratta di un’apertura di ostilità, a stento rimandata durante la prima assemblea dei parlamentari di lunedì scorso. Del resto, la presenza di Pierluigi Bersani ieri è stata letta come la conferma dell’asse con D’Alema, anche se lo stesso Bersani, al telefono con Veltroni, avrebbe poi negato la sua adesione alla «corrente». Anzi, avrebbe spiegato Bersani, quello che è accaduto ieri è solo la dimostrazione di ciò che accade quando nel partito non ci sono sedi di discussione. D’altro canto, chi parla con Bersani in queste ore lo descrive assai compiaciuto del fatto che, dal partito radicato alla conferenza programmatica, molti temi da lui sollevati stanno trovando spazio anche nell’agenda di Veltroni. Bersani, peraltro, sta valutando se aderire o no alla proposta del segretari di entrare nel governo ombra.

Il segretario si prepara insomma ad una guerra nemmeno troppo fredda con il fronte dalemiano e punta innanzitutto sulla sponda degli ex Ppi di Marini e Fioroni, che non gradiscono affatto la linea dalemian-bersaniana sulle alleanze. «Che significa insistere tanto sull’Udc? Noi non intendiamo affatto delegare a Casini il presidio dell’elettorato moderato», ripetono i popolari. Non solo, gli ex Ppi assicurano di non volere ritrovarsi a vivere «la stessa saga (la rivalità tra Veltroni e D’Alema, ndr) che accompagna i diessini da ormai 15 anni». Non a caso Fioroni ha fatto sapere oggi che i popolari si troveranno di nuovo ad Assisi a settembre, bissando l’appuntamento dello scorso anno. E forse anche per questo secondo alcune voci starebbe prendendo quota l’idea di affiancare proprio Fioroni a Goffredo Bettini, nel ruolo di coordinamento del partito.

Una soluzione che permetterebbe di saldare una sorta di asse con i popolari e di blindare quindi la segreteria Veltroni. C’è però il problema dello sbilanciamento eccessivo a favore dei popolari, visto che Marini resta in pole-position per la presidenza del partito. Importante sarà anche capire come si posizioneranno Parisi e Bindi in questa disputa. Oggi, intanto, Veltroni ha pranzato con Romano Prodi per quasi due ore, dopo il brindisi di commiato da palazzo Chigi del permier uscente. Un colloquio «a 360 gradi», spiegano al loft, durante il quale Veltroni avrebbe chiesto a Prodi un’uscita ’soft’: in pratica, il segretario avrebbe chiesto a Prodi di continuare, nelle forme che riterrà opportune, a dare un suo contributo al partito.
Impegno che, assicurano al loft, Prodi avrebbe garantito.

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« Risposta #10 inserito:: Maggio 15, 2008, 12:01:31 am »

D'Alema annuncia: «Farò una struttura politica»


Massimo D'Alema annuncia sul principale giornale italiano - in una intervista concessa a Maria Teresa Meli - la creazione di una struttura politica nuova.
Qualcosa che vada oltre la fondazione Italiani Europei, ma che da essa germini come da una costola. «Ci sono già e continueranno a esserci gruppi di ricerca... abbiamo già una rivista, vogliamo poi creare un'associazione di personalità politiche, del mondo della cultura e della società civile che affianchi il lavoro della fondazione. Vogliamo arricchire il patrimonio di collegamenti internazionali con i Think Thank progressisti e riformisti dell'Europa, degli Usa e di altri continenti». D'Alema vuole rivolgersi anche alle nuove generazioni con un approccio formativo, tipo scuola di politica, e inoltre dice di aver avviato una collaborazione con l'emittente satellitare Nessuno tv.

«Insomma - dice - daremo vita a una struttura che sarà un pezzo di politica nuova rispetto ai partiti tradizionali». Qualcosa di trasversale, non una vecchia corrente, «lontano da vecchie logiche di appartenenza e di cordata». Sì, perché la struttura nuova che D'Alema intende creare intende «mettere insieme trasversalmente persone di diversa provenienza, magari anche con diverse opinioni politiche su determinati temi ma che sono interessate a un progetto di ricerca, di formazione e di informazione».

D'Alema nega di essere interessato a «una resa dei conti», smentisce di essersi dedicato a uno scontro interno al Pd «che non era interesse di nessuno, che nessuno ricercava e di cui non si capirebbe il senso». E non si considera estromesso da dirigenza e governo ombra perché è stato lui stesso a volersi impegnare in questo nuovo progetto. L'unica cosa su cui ha insistito e insiste è l'apertura di una discussione «seria», «vera», «all'altezza della portata della sconfitta». Una discussione «non riduttiva del risultato, legata semplicemente agli errori del governo», che affronti il tema del bipartitismo ad esempio.

E aggiunge: «Ci dovrà pur essere una possibilità di discutere senza che questo debba essere interpretato come contrapposizione, dualismo, guerra».

Per il resto l'ex capo della Farnesina riconosce nel Pd un recente «cambiamento di rotta», un rimescolamento di carte, uno sforzo di apertura e rinnovamento nella creazione del governo ombra. Il riferimento è all'inserimento di personalità come Pierluigi Bersani o Marco Minniti, sempre accreditati come "dalemiani doc".

Lo stesso Bersani commentando l'intervista di D'Alema ci tiene a smentire che si tratti di un capo-corrente. «D'Alema il capo dei dalemiani? Troppo riduttivo», dice l'ex ministro dello Sviluppo. E sostiene che uno degli obiettivi della fondazione "allargata" è proprio dare impulso a «quel rimescolamento che ci permetta di andare oltre i trattini: laici-cattolici, Nord-Sud, Veltronian-dalemiani, fassinian-bersaniani».

Al loft di Veltroni l'intervista è stata presa bene. L'idea della fondazione viene giudicata «positiva purchè non rivolta al passato» da Ermete Realacci. Nella lettura di Realacci quella di cui parla D'Alema sembra più che altro una fondazione strutturata e forte come accade nei grandi paesi del mondo quando hai formazioni politiche delle dimensioni del Pd. Negli Usa di cose come quelle che annuncia D'Alema ce ne sono tantissime. Questo vale anche per la presenza Radicale nel Pd».

Non esistendo più centralismi democratici e articolazioni pesanti, il rapporto di appartenenza e di discussione nel Pd è necessariamente più libero, fatto di centri culturali, di fondazioni, di organi di informazione che hanno una dialettica. Per Realacci l'unica sottolineatura doverosa è che questa dialettica «sia coniugata al futuro e non al passato. Guai se continuasse una dialettica legata alle vecchie correnti dei Ds o della Margherita, dei Popolari piuttosto che ad altro, questo sarebbe negativo».

Insomma, per dirla invece con un vecchio detto maoista: che cento fiori fioriscano.


Pubblicato il: 14.05.08
Modificato il: 14.05.08 alle ore 17.07   
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 29, 2008, 12:12:22 pm »

Massimo D'Alema scrive al Corriere

«Difendo la laicità dello Stato»

Nel pluralismo c'è anche la garanzia più forte della libertà della Chiesa



Caro direttore,
non può che essere motivo di soddisfazione per noi organizzatori, con la Fondazione Italianieuropei, del corso estivo di formazione dedicato a «Religione e democrazia», che i temi sollevati nella tre-giorni cilentana abbiano suscitato interesse, dibattito e prese di posizione nel mondo politico e intellettuale.

Desta tuttavia un qualche stupore la perentorietà dei commenti da parte di chi non ha potuto valutare che spezzoni, frammenti o frasi separate da ogni contesto senza potere più approfonditamente valutare un confronto che ha impegnato un gruppo di intellettuali tra i più prestigiosi, italiani e stranieri. Non un raduno anticlericale, dunque, o una riunione di nostalgici, ma un confronto che ha coinvolto, di fronte a una platea attenta di giovani, personalità di diversa cultura, molti cattolici tra i quali il presidente dell'Associazione teologica italiana. Vorrei ricordare che, nel dibattito contemporaneo, vengono proprio dall'interno del mondo cattolico le espressioni più inquiete e preoccupate per una possibile commistione tra fede e politica, tra religione e potere. Ha scritto Gustavo Zagrebelsky nel suo «Contro l'etica della verità»: «La Chiesa cattolica è direttamente coinvolta. Le si offre l'occasione di una rivincita con un aspetto costitutivo del "mondo moderno", la democrazia: una rivincita che una parte di essa forse ha sempre desiderato e aspettato.

I nostri procacciatori di identità sono i nuovi teologi politici. Essi, in mancanza di chiese d'altro genere — ideologie forti e globali, filosofie della storia, promesse messianiche —, si rivolgono a quella che pare loro l'odierna depositaria di valori identitari utili alla loro battaglia, la Chiesa cattolica, e le offrono un'alleanza. È la grande tentazione del nostro tempo, una delle tre tentazioni sataniche di Gesù di Nazareth nel deserto, la tentazione del potere». Nella stessa lezione di padre Coda vi è stata una forte riproposizione di una visione post conciliare dell'impegno pubblico dei cattolici, «sale e lievito» all'interno di una società pluralistica, in contrapposizione a una ben presente tentazione egemonica. Questo nodo del rapporto tra religione e potere non è certo un tema nuovo. Ha assunto una rinnovata centralità nel confronto culturale e politico proprio di questo tempo a seguito della crisi delle società occidentali di fronte ai mutamenti rapidi e sconvolgenti e alle drammatiche sfide legate alla globalizzazione. C'è una nuova destra politica e intellettuale che si volge ai valori religiosi della tradizione giudaico-cristiana come condizione perché l'Occidente ritrovi l'orgoglio di una propria identità nella sfida o persino nel conflitto con altre civiltà, con altri mondi.

Vi sono molte testimonianze di questa sovrapposizione crescente fra discorso politico e valori religiosi. Tzvetan Todorov ci ha offerto una acuta analisi critica di una testo esemplare di Nicolas Sarkozy sulla religione cristiana come fondamento della convivenza nella laicissima Francia. O, per venire a una fonte più vicina a noi, nel brillante saggio di Giulio Tremonti «La paura e la speranza» si legge «la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori delle nostre democrazie …». E ancora «per identificare i valori serve un'anima, per difendere i valori serve il potere politico». Davvero, allora, come è stato scritto, lo stato laico secolarizzato prigioniero ormai del relativismo etico ha bisogno di un fondamento religioso per giustificare se stesso? Questo interrogativo posto da un grande giurista tedesco molti anni fa è evocato da un più recente dialogo tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. È lo stesso futuro Pontefice a cogliere il rischio di una aporia: «Se lo Stato accetta il fondamento religioso — egli scrive — smette di essere pluralistico. Così sia lo Stato che la Chiesa perdono se stessi». Non mi ha mai convinto il dibattito sul cosiddetto relativismo etico. Continuo a pensare che la nostra convivenza poggia su un insieme di valori morali (pace, tolleranza, pluralismo, libertà, solidarietà sociale…), di diritti riconosciuti e di norme giuridiche che hanno la loro genesi nella storia e nella civiltà europee; che comprendono anche la tradizione giudaico-cristiana, ma non si riducono a questa. Solo il riconoscimento di questo pluralismo può fondare la laicità dello Stato e liberare la responsabilità della politica.

Nel pluralismo c'è anche la garanzia più forte della libertà della Chiesa: libertà di parlare all'insieme delle nostre società e non solo di una parte; libertà di sprigionare la carica di universalità del messaggio cristiano che non può ridursi a «ideologia dell'Occidente ». Non a caso nella mia conferenza non ho rivolto accuse alla Chiesa (così come risulta chiaro dalla cronaca del Corriere) ma l'invito a non cadere nella tentazione di un patto con il potere politico, di una commistione tra politica e fede, tra norma giuridica e convinzione etica-religiosa. Un invito, non un'accusa. L'invito di un laico che crede nella laicità della politica, ma che è nello stesso tempo ben consapevole del ruolo essenziale che i cristiani hanno nella vita pubblica e del contributo che da essi può venire a una visione alta e nobile dell'agire politico.

Sono stato accusato di parlare come se ci fosse sempre il Pci. Si potrebbe discutere a lungo del rapporto che fu sempre intenso e rispettoso tra il Pci e il mondo cattolico. Ma sinceramente il Pci non c'entra niente con questa riflessione. Semmai, in materia di difesa della laicità dello Stato, nel nostro seminario sono stati ricordati alcuni momenti cruciali della storia della Dc. Penso alla fermezza e anche alla sofferenza personale con cui Alcide De Gasperi seppe difendere dalle pressioni ecclesiastiche la scelta antifascista della Dc (Andrea Riccardi ci ha ricordato la pagina straordinaria delle elezioni romane) e la collaborazione con i partiti laici contro l'idea di un monopolio cattolico del potere. Penso alla testimonianza di Aldo Moro che rivolgendosi al consiglio nazionale della Dc all'indomani del referendum sul divorzio diceva: «Settori dell'opinione pubblica sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l'autorità del potere al modo comune di intendere e disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una grande lezione di laicità da parte di un leader politico cattolico che rispetta appunto il fatto che lo Stato è di tutti e che il potere non può essere posto al servizio delle convinzioni pure nobili di una parte. Resto convinto che anche di fronte ai delicati problemi di oggi che toccano, di fronte ai progressi della scienza e delle tecniche, i temi della vita e della dignità umana, resti tuttavia valida la visione dello Stato testimoniata da Aldo Moro. E spero davvero che questo sia un patrimonio comune di quanti si sono uniti nel Partito democratico.


Massimo D'Alema
28 maggio 2008

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« Risposta #12 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:19:26 am »

D'Alema: il Pd è forte ma è ancora un progetto

Simone Collini


«Berlusconi era riuscito a dare un'immagine, in parte accreditata dalla stampa, di un suo profilo nuovo, di uomo attento ai problemi del Paese. In pochi giorni è riuscito, anche con una certa furia, a demolire questa immagine e a ripresentarci quella di uomo di potere dominato da problemi suoi, e che concepisce l'uso del governo come funzionale a risolverli». Massimo D'Alema parla alla Festa dell'Unità di Roma negli stessi minuti in cui sarebbe dovuta andare in onda la puntata di Matrix con il premier come ospite. «Importante - dice rispondendo ad Antonio Padellaro che lo intervista - non è la rinuncia a una trasmissione televisiva, ma se verrà confermata la rinuncia all'uso del decreto legge per affrontare una questione che per sua natura non può essere affrontata con un simile strumento».

L'oggetto della discussione è un provvedimento legislativo sulle intercettazioni (e D'Alema sottolinea che «la sistematica pubblicazione di materiali coperti da segreto istruttorio e' un problema in uno Stato di diritto») in una giornata in cui le indiscrezioni su colloqui pruriginosi riguardanti il premier si sprecano. «La Costituzione non prevede urgenze personali, quelle ognuno se le risolve da sé. Altre sono le urgenze del Paese, e l'uso di un decreto legge per regolamentare le intercettazione sarebbe inaccettabile e gravissimo, il rischio di un conflitto istituzionale sarebbe molto forte. Se sarà confermata la marcia indietro di Berlusconi sarebbe segno di saggezza».

D'Alema difende il dialogo sulle regole tra maggioranza e opposizione, dice che è "obbligatorio" con chi rappresenta la maggioranza degli elettori e che «se la destra dice no se ne deve assumere la responsabilità», e però precisa che il dialogo è «uno strumento, non una politica». Poi una frecciata a Gianfranco Fini: «Daccia il presidente della Camera anzichè continuare a fare il leader della maggioranza». Critica l’«orribile» proposta di Maroni di prendere le impronte digitali ai bambini rom e il reato di immigrazione clandestina, che «mina i fondamenti costituzionali perché la legge punisce degli atti, non delle condizioni», insiste sul concetto che l'opposizione «si fa con grandi campagne popolari» e sul fatto che «il Pd ha dimostrato di essere forte ma per ora è largamente ancora soltanto un progetto, bisogna radicarlo». Il che vuol dire, aggiunge l'ex vicepremier, procedere rapidamente col tesseramento: «Attendo trepidamente la tessera. Per ora in mano ho soltanto un attestato. Ecco perché ho fatto la battuta: sono un simpatizzante del Pd. Altro che partito liquido. Io sono per la rapida solidificazione».

L'area dibattiti della Festa dell'Unità (nome difeso da D'Alema) è affollata. In prima, seduto sul prato, l’ex esponente di An Gustavo Selva. Anche quando l'ex ministro degli Esteri dice che il governo ombra del Pd «è un modo di organizzare l'opposizione» e che però «c'è un problema»: «Il governo ombra siamo solo noi, mentre non solo noi siamo all'opposizione», dice ribadendo la critica alla tentazione all'autosufficienza, in cui può sconfinare l'impegno nella vocazione maggioritaria. «Dobbiamo studiare forme di collaborazione tra tutte le forze dell'opposizione». Stando attenti, aggiunge però, a non farsi trascinare da altri partiti in "risse" che alla fine dei conti avvantaggiano Berlusconi e la destra, non il centrosinistra.

Il riferimento tutt'altro che casuale è alla manifestazione dell'8 luglio e alle esternazioni di Antonio Di Pietro. «Non si può fare il giochino di convocarsi a vicenda. E non ci si può fare attirare da Berlusconi nell'ennesima rissa sulla giustizia, sentendoci poi dire proprio da lui che non sono questi i problemi del Paese» (sorriso sul palco e risata della platea). «Conosciamo il piazze piene urne vuote. Una manifestazione serve non per far sfogare gli umori, ma se il giorno dopo almeno un italiano in più viene convinto delle nostre ragioni».

Pubblicato il: 04.07.08
Modificato il: 04.07.08 alle ore 17.28   
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 17, 2008, 07:32:41 pm »

L’intervista. «Nessuna lite con Walter»

D’Alema: colpo di reni sulle riforme

Sì a ragionevoli convergenze

L’ex premier: Sì a ragionevoli convergenze.

Ognuno si assuma le sue responsabilità. Il sistema tedesco? Ha più consensi

 
 
ROMA—Onorevole D’Alema, lei ripropone il sistema elettorale tedesco e tutti pensano male. Un sistema contro Veltroni?
«Innanzitutto non sono io: sono 15 istituzioni e fondazioni culturali, con il concorso di prestigiosi giuristi e costituzionalisti, tra cui tre ex presidenti della Corte, che hanno elaborato una proposta organica di riforma della legge elettorale e della forma di governo, allo scopo di disegnare un assetto più efficiente e democratico per le nostre istituzioni. È ridicolo che tutto questo venga letto nella chiave di un conflitto D’Alema- Veltroni».

Dicono che lei usi la riforma ai fini congressuali...
«Non ci sarà alcun congresso né alcuna resa dei conti, ma una conferenza programmatica per mettere a punto le nostre proposte ed è esattamente a questa riflessione che io cerco di dare un contributo».

Fatto sta che il Pd non si è schierato per il tedesco.
«Noi non abbiamo scelto un sistema. Abbiamo sempre detto che preferiremmo il sistema francese a doppio turno, ma sappiamo anche che in Italia nessuno lo sostiene. Il francese è una posizione di scuola».

Anche il tedesco.
«Non è così. Nella scorsa legislatura abbiamo partecipato a un confronto parlamentare sulla base di proposte di tipo proporzionale a partire dal modello tedesco o dal modello spagnolo: non mi pare che ci siano diversità tali da giustificare una guerra di religione».

A Forza Italia non piace...
«Quel che noi abbiamo proposto ha trovato il consenso di tutte le forze di opposizione: è una proposta condivisa dalla sinistra e dall’Udc, e accettata da Di Pietro. Se è vero che è venuta una reazione negativa da parte di Cicchitto, è anche vero che la Lega ha detto: "Noi non siamo contrari". Allo stato delle cose nessuna proposta è condivisa in modo prevalente, ma il tedesco è quello che ha il maggior numero di consensi o di accettazioni. Potrebbe essere veramente la riforma che alla fine si fa».

Sicuro che il tedesco non serva a destabilizzare il Pd?
«La verità è l’opposto. Del resto, il 24 febbraio del 2007, quando non c’era il Pd e Veltroni non era il leader, io feci una lunga intervista per spiegare perché il sistema tedesco poteva essere un modo per portare a compimento la transizione italiana. Quindi pensare che io lo abbia tirato fuori adesso strumentalmente per dare fastidio a Veltroni è evidentemente falso».

Insomma, non sta pugnalando alle spalle il segretario?
«Non ho alcun interesse a mettere in discussione la leadership di Veltroni, né sono candidato a nessuna leadership. Non pugnalo alle spalle: posso apparire spigoloso ma sono diretto e leale: se pensassi che ci deve essere un cambio di gruppo dirigente e di leadership lo direi innanzitutto al diretto interessato. Ma non è questo il problema, abbiamo semmai il bisogno di rafforzare la leadership, di coinvolgere più persone rispetto al rischio di un certo restringimento...».

Tornando al tedesco, nel Pd c’è chi ha storto il naso.
«Il Pd deciderà quel che deve fare nelle sedi proprie, le fondazioni culturali non sono un partito ma servono per approfondire i problemi e mettere la politica in contatto con ilmondo della cultura e con la società civile: guai se un partito come il Pd non interloquisse in modo aperto con questa proposta. E non mi riferisco a Veltroni che comunque ha interloquito, e non in modo negativo ».

Be’, questo lo dice lei...
«No, è quello è quello abbiamo ascoltato al convegno di lunedì».

Il tedesco non dispiace alla sinistra. Come sono ora i rapporti con Rifondazione?
«Vedo che stanno discutendo e spero che escano da questa riflessione critica e autocritica rinnovandosi e mettendo in campo una proposta politica compatibile con una prospettiva di governo».

Ferrero non sembra volere questa prospettiva, mentre Vendola non la esclude.
«Non voglio entrare nel merito della loro discussione ma auspico che si possa riaprire un dialogo tra la sinistra e i riformisti. Tra di loro ci sono alcuni che lo vogliono fare, vedremo chi prevarrà...».

Ma questa riforma, secondo lei, aiuta il dialogo con il centrodestra? E questo dialogo è poi tanto necessario?
«La parola dialogo è foriera di equivoci. Il problema è che noi siamo in Parlamento e dobbiamo confrontarci per trovare soluzioni ai problemi del Paese. E la legge elettorale è un problema: è un sistema cattivo, incostituzionale e oggetto di un referendum popolare, perciò va cambiata. Quindi non si tratta di volere l’inciucio. Facciamo un esempio che non riguarda il centrosinistra: il federalismo fa parte del programma di governo, ma mica si può pensare di innestarlo su questo sistema, senza che prima sia stato fatto un riordino completo del sistema istituzionale ed elettorale. Che ci si confronti su questi problemi è la normalità della vita democratica. Non so se si raggiungerà un accordo, perché questo non dipenderà solo da noi. Ma se Berlusconi dovesse impedirlo si assumerebbe un’ulteriore, grave, responsabilità di fronte al Paese».

C’è chi sostiene: «Si dice tedesco perché si pensa alla grande coalizione»...
«La grande coalizione è una scelta politica che si può realizzare con qualsiasi sistema elettorale. Comunque oggi in Italia non ci sono le condizioni per una coalizione di questo tipo, anzitutto per responsabilità della destra e delle sue scelte per il governo del Paese. Anziché fantasticare sulle grandi coalizioni sarebbe necessario cercare di trovare un accordo per le riforme indispensabili al Paese».

Il tentativo di riformare il sistema istituzionale ed elettorale va avanti da anni senza risultati.
«Il fatto è che l’enormità della crisi del Paese viene sottovalutata. O noi usciamo con un colpo di reni da questa situazione, creando le condizioni, sia pure nella diversità dei ruoli, per dare risposte e dimostrare che siamo in grado di tirare l’Italia fuori da una fase drammatica, o rischiamo alla fine di pagare tutti un prezzo. La destra si illude se pensa che ci sarà solo la crisi della sinistra e la sinistra si illude se pensa che ci sarà soltanto la crisi della destra. Lo ripeto da tempo: siamo di fronte a una crisi ben più profonda e complessiva del sistema politico. L’Italia sta male e vede che la politica è incapace di accordarsi per trovare soluzioni utili: se andiamo avanti così la gente reagirà mandandoci tutti a quel paese. Ci si adopera più a distruggere quel che propongono gli altri che a cercare prospettive su cui ci può essere una ragionevole convergenza, come è giusto fare in una situazione come questa».

Fa la Cassandra, onorevole D’Alema?
«Voglio mettere in guardia dal rischio di far fallire di nuovo un disegno di riforma costituzionale ed elettorale perché questo darebbe veramente il senso dell’impotenza del sistema politico. E siccome stavolta ci misuriamo con una crisi economica e sociale molto grave, come dimostra anche l’analisi di Bankitalia, questo fallimento potrebbe avere effetti molto pesanti nel rapporto tra cittadini e istituzioni. Tant’è che vedo il calo della popolarità di Berlusconi nei sondaggi, che potrebbe farmi contento in quanto esponente dell’opposizione, come un ulteriore elemento di scollamento del Paese, perché alla fine la gente dirà: «La sinistra non ce l’ha fatta, Berlusconi pensa agli affari suoi»... Il rischio è che si determini veramente una frattura nel rapporto tra cittadini e sistema politico».

Nel frattempo il Pd torna ad agitare la questione morale proprio quando esplode il caso Del Turco.
«Per quanto riguarda le concrete vicende giudiziarie, come lei sa, sono garantista e nello stesso tempo rispettoso della magistratura e del suo lavoro. Tuttavia è evidente che questi scandali, in particolare quando toccano il sistema sanitario, creano un grande e comprensibile turbamento tra i cittadini e un grande allarme sociale. Anche in questo caso è la politica che deve tornare a dare delle risposte, mettendo mano a tutto il meccanismo del rapporto tra il pubblico e il privato nel sistema sanitario. Altrimenti, poi, non ci si lamenti della pervasività del potere giudiziario».

Maria Teresa Meli
17 luglio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Luglio 18, 2008, 11:03:19 am da Admin » Registrato
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 31, 2008, 03:05:38 pm »

D'Alema: gelo col Prc, intesa con Fini per le riforme


Non sembra destinata a risorgere una liaison, una simpatia, insomma uno sguardo di favore, tra Massimo D'Alema e la nuova Rifondazione uscita dal congresso di Chianciano con alla testa Paolo Ferrero.
I due sono ex colleghi - entrambi erano ministri del governo Prodi - e pare non si siano mai stati molto simpatici. Ma qui non c'entrano le preferenze personali. Quanto quelle politiche. E in prospettiva elettorali. Nel senso che sullo sfondo della tela dei rapporti di Massimo D'Alema e della sua nuova associazione Red restano le elezioni europee dell'anno prossimo.

Ferrero ha vinto il congresso del Prc con una linea di netta rottura con il Pd. In una intervista sul quotidiano Il Riformista in edicola, il nuovo segretario di Rifondazione prova a affrancare Bersani e D'Alema dal giudizio negativo dato a Chianciano sul "veltronismo". Dice Ferrero al quotidiano diretto da Antonio Polito che «Bersani e D'Alema sono più realisti di Nichi» Vendola a proposito di socialdemocrazia e giustizia sociale.

Dall'altra sponda però il giudizio sul nuovo corso del Prc resta negativo. D'Alema lo aveva tracciato due giorni fa intervistato da Liberazione, organo del partito ma diretto dal "vendoliano" Piero Sansonetti. E lo attenua solo un po', in attesa di fatti concreti, al settimanale di Comunione e Liberazione, Tempi. «I partiti vanno giudicati per quello che fanno», è la sua unica apertura di credito. L'esito di Chianciano comunque «lascia aperti molti interrogativi, sia per l'asprezza dello scontro interno, sia per la conclusione cui si è giunti».

Poi è sopraggiunta la nuova fase di D'Alema, inaugurata con un invito a pranzo - menù di pesce, spigola per la precisione - a Montecitorio da parte del "padrone di casa" Gianfranco Fini. L'ex presidente dei Ds e l'ex leader di An ufficialmente si sono visti solo per coordinare le rispettive fondazioni - ItalianiEuropei e FareFuturo - in vista di un seminario comune sul federalismo fiscale da fare in autunno.

L'incontro - trattandosi di fondazioni, al loft del Pd non se ne sapeva niente - si è protratto fino a metà pomeriggio, mercoledì. E non ha riguardato solo il federalismo fiscale. D'Alema ha smentito che si sia trattato di un "patto della spigola", come quello "della crostata", insomma. Ci ha tenuto a precisare che non è sua intenzione fare un'altra "Bicamerale" con Fini. O meglio, dallo staff dalemiano si precisa che lo scopo era quello di «aiutare le riforme con un dialogo a geometrie variabili, che non sia solo tra i capi degli schieramenti ma tra i vari protagonisti, per avviare un processo a tappe e quindi diverso dal blocco unico della Bicamerale».

Cosa si siano detti tra una lisca e l'altra, essendo un rendez vous a porte chiuse, non è certo. Ma quello che è trapelato è l'inizio di una discussione sulla riforma della legge elettorale. Non solo e non tanto quella delle politiche, che com'è noto, vede i due ex ministri degli Esteri propendere per due diverse soluzioni: sistema proporzionale alla tedesca per D'Alema e semipresidenzialismo per Fini.

Ma prima di tutto per le europee. E qui, se è vero ciò che risulta dalle cronache riportate dell'incontro, pare che i due si siano trovati d'accordo per introdurre una nuova legge con una sostanziosa soglia di sbarramento, dal 3 al 4 percento, nell'unico sistema di voto rimasto con il proporzionale puro. Per la sinistra finita fuori dal Parlamento, sarebbe il rischio di non vedersi rapprtesentata neanche questa volta, neanche a Strasburgo.

E infatti su questo il segretario del Prc Ferrero già promette: «Faremo i diavoli a quattro se mettono lo sbarramento, anche al tre percento, o se tolgono le preferenze». E forse è meglio che si prepari a far capire cosa intende perché pare che D'Alema e Fini si siano anche simpatici. E di preferenza a loro gliene basterebbe una.


Pubblicato il: 31.07.08
Modificato il: 31.07.08 alle ore 13.46   
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