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« Risposta #225 inserito:: Ottobre 29, 2011, 06:27:23 pm » |
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Il retroscena Bini Smaghi in trincea "Solo la Bce può decidere" Tre punti del parere Bce danno ragiona a Bini Smaghi. "Devono avvenire in momenti diversi dalle nomine, non devono ledere reputazione e credibilità della Bce e devono 'libera volontà'" di MASSIMO GIANNINI DALLA COMMEDIA di Palazzo Koch alla farsa dell'Eurotower. Dopo aver gestito in modo penoso il "dossier" della Banca d'Italia, il governo sta gestendo anche peggio la "pratica" della Banca Centrale Europea. "Lorenzo Bini Smaghi si deve dimettere", ripete pubblicamente e ossessivamente Berlusconi, davanti agli allibiti partner europei e agli addomesticati microfoni di Canale 5. Il presidente del Consiglio non fa mistero della sua frustrata indignazione, per un caso che mette ancora una volta in cattiva luce l'Italia e inasprisce i già compromessi rapporti con la Francia. Ne parla a tutti. Meno che al diretto interessato. Bini Smaghi, infatti, per ora va dritto per la sua strada. "Non mi ha chiamato nessuno, non ho parlato con nessuno. Dunque, non ci sono novità". E invece almeno una novità c'è. È importante, perché rappresenta plasticamente l'anomalia del caso italiano. Ma non è risolutiva, perché alla soluzione del rebus manca ancora il contributo chiave del premier. La novità è la solita: di fronte alla conclamata latitanza del capo del governo (impegnato a raccontare barzellette agli stati generali del Commercio estero) e alla spazientita iattanza del portavoce di Sarkozy (convinto che una soluzione vada trovata "entro domani") è toccato ancora una volta al presidente della Repubblica farsi carico, suo malgrado, del problema. Giorgio Napolitano ha ricevuto Bini Smaghi al Quirinale. Quasi un'ora di colloquio. Con la consegna di un rigoroso e rispettoso silenzio sui contenuti. Ma con la consapevolezza che il nodo è tutt'altro che sciolto. È anzi più ingarbugliato che mai, e ci vorrà tempo per venirne a capo. Ma non è difficile capire quale sia l'orientamento del membro italiano nel board della Bce, e quale sia il ragionamento del Capo dello Stato. Dopo un'ultima riunione a Francoforte in mattinata, di rientro verso Roma per l'incontro sul Colle Bini Smaghi continua a ripetere quello che va dicendo ormai da quattro mesi. "Qualunque decisione io prenda, dovrà essere definita e concordata a livello di Banca centrale europea". Come dire: non prendo ordini dalla politica, nazionale o internazionale. E se devo dimettermi dal consiglio dell'Eurotower, questa deve essere una scelta autonoma, che matura in quella sede e in nessun'altra. Dunque, a poco servono le urla alla luna del Cavaliere, o le grida stizzite dell'Eliseo. Bini Smaghi, sul piano politico, è in una posizione insostenibile. Già dal giugno scorso, quando Mario Draghi è stato designato ufficialmente alla guida della Bce al posto di Jean Claude Trichet, il membro italiano ha rifiutato ostinatamente di liberare il suo posto, come esige l'Eliseo. Due italiani e nessun francese, nel Consiglio direttivo della più importante istituzione europea: impensabile, a Parigi e non solo lì. Berlusconi, da allora, non è stato in grado di districare la matassa, intrecciandola addirittura a quella della nomina del nuovo governatore di Bankitalia. Il gelo con Sarkozy è nato da quella prolungata, estenuante inettitudine del premier. I tentativi di trovare una soluzione sono stati vaghi e vani: Berlusconi, per convincerlo a lasciare libera la poltrona a Francoforte, gli ha proposto la presidenza dell'Autorità Antitrust, e continua tuttora a ventilargliela per vie traverse. Ma Bini Smaghi ha rifiutato e continua a rifiutare. "Da Statuto - ribadisce ormai da tempo, e lo ha fatto anche ieri nel faccia a faccia con Napolitano - posso lasciare solo per un incarico di pari livello: bisogna tener presente che nel Consiglio direttivo della Bce il mio voto vale quanto quello di Draghi...". Un'impuntatura riprovevole. Una pretesa personale. Ma Bini Smaghi, sul piano giuridico, ha una freccia al suo arco. È il parere che la Direzione generale servizi giuridici della Bce ha inviato al board dell'Eurotower il 24 maggio scorso. In quel testo c'è scritto chiaro e tondo che un membro del board non può disporre come vuole del suo incarico, e meno che mai possono disporne i governi, pena "la reputazione e la credibilità della Bce". "Qualunque gesto di dimissione deve essere compatibile con il principio di indipendenza personale... Dimissioni di fatto imposte con l'obiettivo di evitare che due membri del Comitato esecutivo abbiano la stessa nazionalità sarebbero incompatibili con quel principio". Dunque, secondo questo parere, Bini Smaghi avrebbe una sorta di diritto-dovere a resistere alla "moral suasion" di Roma e di Parigi. Non solo. Avrebbe lo stesso diritto-dovere di resistere anche alle offerte di altri incarichi. "L'incompatibilità con il principio di indipendenza - recita il testo della Banca - emergerebbe se la nuova posizione esterna non fosse commisurata allo status di membro del Comitato esecutivo e del Consiglio direttivo della Bce, rendendo evidente l'esistenza di pressioni esterne". Non varrebbe, secondo questa tesi, neanche il "fatto nuovo" dell'ingresso di un altro italiano (Draghi) al vertice degli organismi direttivi dell'Eurotower. Non può essere quello l'elemento che induce un altro membro a rassegnare contestualmente le sue dimissioni. Queste ultime "non possono coincidere nel tempo, né possono essere legate apertamente con la nomina di un altro membro del Comitato esecutivo, ma devono essere gestite con procedure e in momenti totalmente separati". Questa, sotto il profilo "tecnico", è la linea Maginot di Bini Smaghi. L'ha riconfermata anche al presidente della Repubblica, ricordando tra l'altro (e non a caso) il precedente del francese Christian Noyer, che dal giugno 2002, prima di passare alla guida della Banca di Francia, restò nel board della Bce insieme al presidente Trichet (francese a sua volta) per un anno e mezzo. Anche per questo, oggi, servirà tempo prima di arrivare alle eventuali dimissioni del membro italiano. Di fronte a questi argomenti, il ragionamento di Napolitano è quello che ha già svolto in diverse conversazioni riservate, dedicate proprio ai casi incrociati della Banca d'Italia e della Bce. L'autonomia di queste istituzioni è sacra. Ma il dovere di un vero "grand commis" è sempre e comunque quello di servire il suo Paese, tutelandone l'interesse nazionale. È evidente, allora, che Bini Smaghi presto o tardi dovrà lasciare il suo incarico. Comunque prima della scadenza naturale, fissata al maggio 2013. Ma è altrettanto evidente che, per raggiungere questo obiettivo, si dovrà ricostruire la tela strappata dei rapporti personali, delle procedure istituzionali e delle relazioni internazionali. A farlo dovrà essere il presidente del Consiglio. Tocca a Berlusconi parlare con Bini Smaghi, cercando una via d'uscita dal vicolo cieco politico e giuridico nel quale tutto si è bloccato. Tocca a Berlusconi riflettere insieme a Draghi, individuando una exit strategy che non pregiudichi l'indipendenza della Bce. Tocca a Berlusconi, infine, ricucire il dialogo con Sarkozy, tentando un compromesso sui tempi e una possibile collocazione del membro italiano in un eventuale, altro organismo sovra-nazionale di pari livello (dalla Bei alla Bers, per esempio). Napolitano fa la sua parte. Da il suo contributo, nei limiti che la Costituzione gli assegna. Ma è irritato per questa assurda "supplenza". Non vuole più togliere le castagne dal fuoco a un governo che non governa, e a un premier che ormai agisce costantemente "sotto tutela". Un premier "a responsabilità limitata". (29 ottobre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/10/29/news/bini_smaghi_trincea-24069749/
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« Risposta #226 inserito:: Novembre 07, 2011, 05:30:16 pm » |
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Polis Il voto politico dei mercati Massimo GIANNINI In attesa che la formalizzi il Parlamento, la mozione di sfiducia al governo Berlusconi è stata votata dai mercati. Com'era largamente prevedibile, la settimana finanziaria comincia nel peggiore dei modi per l'Italia, colpita al cuore dalla crisi di credibilità che affonda i Btp e la Borsa. Lo spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi misura la drammaticità del momento. Sfondata la soglia aritmetica e psicologica dei 400 punti, il differenziale viaggia senza freni verso quota 500 e oltre. Livelli impensabili, almeno dai tempi dell'ingresso nell'euro. Siamo su un crinale che ci riporta al 1992, alla bancarotta del Paese, all'iper-svalutazione della liretta, poi alla cacciata dallo Sme e alla maxi-manovra di Giuliano Amato, con tanto di scippo notturno sui depositi bancari. I numeri lo confermano, oltre che le valutazioni degli analisti finanziari (uno per tutti, Jim Reid, "strategist" della Deutsche Bank): sul mercato secondario è rimasta praticamente la sola Bce a comprare i Btp italiani. Se non ci fosse il "cordone sanitario" di Francoforte, intorno alla povera Italia, il default del nostro debito sovrano sarebbe forse inevitabile. Tutti sanno la ragione di questa Caporetto. Silvio Berlusconi, pessima versione di un generale Cadorna senza truppe e senza armi, resiste nel bunker di Palazzo Grazioli, e trascina nel baratro non solo il suo governo, ma la sua nazione. E basta che il suo "cerchio magico" faccia filtrare l'ipotesi di dimissioni imminenti, per dare alla business community uno spunto per invertire la tendenza. Giuliano Ferrara annuncia che il Cavaliere potrebbe recarsi al Quirinale già questa sera: Piazza Affari azzera le perdite e comincia a guadagnare, il premio di rischio sui Btp italiani si riduce immediatamente. È un altro "voto politico" dei mercati: prima votano la sfiducia, quando il Cavaliere giura di voler restare a combattere, poi votano la fiducia, quando si profila la sua capitolazione e dunque si apre finalmente la prospettiva di una discontinuità di governo. È la prova plastica di quanto sia giusto il cosiddetto "teorema Roubini": la "liquidazione" di Berlusconi, di per sé, ha un valore di mercato positivo, stimabile in 100 punti di differenziale del costo del debito. È la "Papi Tax", che paghiamo per ogni giorno di permanenza del premier a Palazzo Chigi. A dispetto di questi segnali chiarissimi che arrivano dal mondo, il Cavaliere si affretta a smentire le voci di dimissioni. Cos'altro deve succedere, perché il presidente del Consiglio prenda atto che la sua battaglia è perduta, e che la resistenza non distrugge solo lui e il suo partito, ma l'intero Paese? Quanti altri Maroni dovranno dire pubblicamente in televisione che "è finita ed è inutile accanirsi"? Quante altre Carlucci dovranno fare le valigie, e lasciare l'armata disperata del Popolo delle Libertà? Quello che colpisce, e indigna, è che mentre il "lunedì nero" si consuma sulle piazze finanziarie e nei Palazzi romani, il Cavaliere si ritira ad Arcore. Pranza con i suoi figli e con Fedele Confalonieri, l'amico chansonnier dei tempi belli. Forse deve sistemare i gioielli di famiglia, prima che tutto crolli. Come il generale nel suo labirinto di Marquez. Come il re in ascolto di Calvino. Si allontana dall'epicentro del sisma. Fugge da se stesso, dai suoi fantasmo, dalle sue responsabilità definitive. È una "fuga per la sconfitta", che purtroppo, nostro malgrado, ci travolge tutti. (07 novembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/11/07/news/prima_del_parlamento_votano_i_mercati-24584977/
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« Risposta #227 inserito:: Novembre 09, 2011, 05:48:46 pm » |
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IL COMMENTO Sulle orme di Atene di MASSIMO GIANNINI Mentre a Roma si chiacchiera, l'Europa celebra la fine dell'Italia con un funerale di "rito greco". Tito Livio è abusato, ma rende plasticamente l'idea del disastro in pieno corso. Il corto circuito tra l'accidiosa trattativa di Palazzo intorno al maxi-emendamento alla legge di stabilità e la vorticosa deriva dei mercati intorno alla "carta italiana" dà la misura della nostra provinciale inadeguatezza. Prima di tutto a comprendere i fenomeni. E poi a prevenirli, a guidarli, a gestirli. Berlusconi consuma le sue ultime ore con la logica nota del "muoia Sansone". Le opposizioni chiedono un'accelerazione. Il Quirinale sonda, sollecita, media. Ma intanto la comunità finanziaria non aspetta. Lo spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi brucia tutte le soglie, aritmetiche e psicologiche. A quota 600 punti, siamo già abbondantemente in zona Grecia, Irlanda e Portogallo. Gli esecrati speculatori (così continua a chiamarli la Casta, presa dalla sindrome mussoliniana del planetario "complotto giudo-pluto-massonico") hanno emesso la loro sentenza, senza aspettare l'esito delle febbrili trattative capitoline. L'Italia non ce la fa, il vecchio governo fatica a morire, quello nuovo è difficile che nasca. Ce n'è abbastanza per fuggire da tutto quello che, sulla piazza finanziaria, ricorda il tricolore. Titoli a lunga scadenza, ma adesso anche a breve. Non solo Btp a 5 e 10 anni, ma anche Bot trimestrali, semestrali, annuali. Le banche internazionali (dalla Rbs alla Ubs) dimezzano il loro portafoglio di titoli italiani. Le grandi banche d'affari (da Goldman Sachs a Jp Morgan) vendono o non ricomprano i titoli del Belpaese. Sul mercato, da giorni, è attiva solo la Bce, che fa quel che può per evitare il collasso definitivo del Sistema. Ma ormai non basta più. Sulla "carta italiana" domanda e offerta non si incontrano praticamente più. Per questo, dopo il frenetico raid cominciato questa mattina, l'impennata dei differenziali (e dei relativi premi di rischio) si è fermata a metà giornata. Chi prova a vendere non trova compratori. È il segno che siamo vicini al punto di non ritorno. Tra gli operatori (da Barclays a Witan Investment Trust) si moltiplicano quelli che considerano addirittura inutile, a questo punto, il ricorso alle fatidiche "misure d'urgenza" invocate da mesi dalla Ue, dall'Fmi, dalla Bce. Ormai non serve più né un maxi-emendamento né un decreto legge. La crisi è già troppo avanti. Una crisi di liquidità, che sta per diventare una crisi di solvibilità. Ed è troppo tardi per rimettere il dentifricio nel tubetto. Naturalmente speriamo che non sia vero. E che il cinico fatalismo del mercato lasci ancora qualche margine a un residuo ottimismo della politica. Ma la precondizione è che chi deve decidere capisca, una volta per tutte, che stiamo correndo un rischio mortale. Ripetere "non siamo come la Grecia" è un penoso esorcismo: serve a mettere l'anima in pace a qualche parvenu, incosciente e incompetente. Ma sta condannando Roma a seguire il destino di Atene. m.giannini@repubblica.it (09 novembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/09/news/commento_giannini-24721210/?ref=HREA-1
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« Risposta #228 inserito:: Novembre 17, 2011, 04:56:05 pm » |
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COMMENTO Il miracolo di mister spread di MASSIMO GIANNINI LA "DEMOCRAZIA dello spread", tra storture e paure, ha generato un piccolo miracolo. Quello che nasce dalle macerie del berlusconismo è un buon governo del Presidente. La sua qualità tecnica è da elogiare. La sua intensità politica è da dimostrare. Ma se l'Italia ha ancora una chance per salvarsi, quella si chiama Mario Monti. La formula migliore, per definire il suo esecutivo, la conia lui stesso. "Un governo innovativo": così dice il presidente del Consiglio. Il nuovo governo che ha giurato ieri nelle mani del Capo dello Stato nasce effettivamente nel segno di una forte discontinuità. Per almeno tre motivi. Il primo motivo: un governo formato interamente da tecnici non ha precedenti nella storia repubblicana. Per trovare qualche analogia si deve risalire al governo Ciampi del '93 (quando il premier incaricato e non eletto, in piena tempesta di Tangentopoli, fu prelevato direttamente dalla Banca d'Italia) e al governo Dini del '95 (quando l'ex direttore generale di Via Nazionale ed ex ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi fu chiamato a supplire al patente disarmo bilaterale dei due poli). Ma in quei casi si trattò di governi "misti": molti tecnici, ma anche diversi esponenti dei partiti. Questa volta è diverso. Monti è stato costretto ad optare per un governo costruito interamente al di fuori del perimetro della politica. Una scelta imposta dal gioco dei veti incrociati tra Pdl e Pd, che alla fine ha portato all'elisione congiunta delle candidature di Gianni Letta e di Giuliano Amato. Ma il nuovo premier ha fatto di questa necessità una virtù. Il profilo dei ministri che ha scelto è oggettivamente elevato, per autorevolezza e per competenza. E questo fa giustizia delle facili ironie di chi aveva parlato di un "governo del Preside", per irridere un team costituito da modesti professorini universitari e da grigi uomini d'apparato. Nella squadra di Monti ci sono sì professori, ma di eccellente livello: da Ornaghi a Profumo. Ci sono grand commis dello Stato, ma di sicuro valore: da Barca a Giarda. Il secondo motivo è il rilievo che, nel nuovo governo, avrà l'economia. Il presidente del Consiglio, come previsto, tiene l'interim del Tesoro. Toccherà a lui il lavoro più duro: scrivere un'"agenda Monti" per il rientro dal debito pubblico. Ma al suo fianco, con un ruolo da superministro dello Sviluppo, che assomma anche le deleghe delle Infrastrutture e dei Trasporti, ci sarà Corrado Passera. All'ex banchiere di Intesa, in sostanza, spetterà l'altro compito speculare a quello del premier: mentre Monti si occuperà delle misure di risanamento dei conti, Passera si occuperà delle misure di sostegno alla crescita. È una scelta che indica fin da ora la priorità e l'emergenza che il nuovo governo si prepara ad affrontare. E anche questo fa giustizia delle sguaiate polemiche sulle "congiure giudo-pluto-massoniche" del "direttorio franco-tedesco" e sul "governo dei banchieri". Una critica stupida, autarchica e provinciale, che alligna non solo in certe aree più radicali della sinistra, ma soprattutto in certe nicchie della destra sconfitta e sedicente "liberale". Come se Tremonti fosse stato meglio di Passera. Come se al Tesoro, nelle condizioni politiche attuali, potesse andare Nichi Vendola. Oppure, sul fronte opposto: come se fosse stato "liberale" il gigantesco conflitto di interessi di Berlusconi. O come se il tanto lodato Gianni Letta non fosse a sua volta advisor della "Spectre" della Goldman Sachs, esattamente come Monti. Il terzo motivo è la presenza femminile. Tre donne sono poche, rispetto a diciassette incarichi ministeriali. Ma la Cancellieri, la Severino e la Fornero vanno ad occupare ministeri-chiave, come gli Interni, la Giustizia e il Welfare. Enrico Cuccia, ai tempi dei consigli di amministrazione dei Salotti Buoni, diceva che "i voti si pesano e non si contano". In questo caso si può dire la stessa cosa. Quei tre ministeri "pesano" infinitamente di più del loro valore numerico. Basti pensare al compito che aspetta la Fornero, esposta sul fronte cruciale della riforma delle pensioni, che la vedrà in campo probabilmente contrapposta a un'altra donna di peso, come il segretario della Cgil Susanna Camusso. Il governo Monti, dunque, può prendere il largo. È un governo allo stesso tempo forte e fragile. È forte della sua autonomia e delle sue competenze. E questa è una garanzia al cospetto delle cancellerie europee (che hanno già dato al premier un riscontro più che positivo) e dei mercati finanziari (che speriamo gli concedano nelle prossime ore una tangibile "apertura di credito"). Ma è anche fragile, per ragioni uguali e contrarie. I partiti (ad eccezione della Lega) lo sorreggono dall'esterno ma non lo innervano dall'interno. Questo fa una qualche differenza, sul piano della piena e incondizionata corresponsabilità delle scelte necessarie, nei prossimi mesi, per uscire dalla crisi che, insieme all'Italia, rischia di portare alla bancarotta anche l'euro. Il governo di "Mister Spread" può contare sul sigillo istituzionale di Giorgio Napolitano, il vero, straordinario regista di questo "miracolo" realizzato in due giorni e mezzo, dentro i principi del patto costituzionale e della democrazia parlamentare (a dispetto dei queruli urlatori del "golpe in guanti bianchi" e dell'"Italia declassata a democrazia minore"). Ma non può contare su una specifica maggioranza politica: deve appoggiarsi a una generica convergenza parlamentare. Questo ne rende più difficile il cammino. Il suo orizzonte, che si vuole giustamente di fine legislatura, è affidato alle larghe, ma instabili intese raggiunte dai partiti in questi giorni difficili. È appeso alla responsabilità del Pd, pronto a impiegare tutte le sue energie al servizio di una transizione che, ancora una volta, trascende o prescinde dalla sinistra. Alla fedeltà del Terzo Polo, che rinuncia provvisoriamente a lucrare rendite di posizione estranee alla logica bipolare. E infine all'affidabilità del Pdl, che dopo la caduta del suo Padre-padrone minaccia di sfasciarsi in mille pezzi, a conferma della natura proprietaria di un partito nato dalla pura giustapposizione degli interessi e cementato solo dal berlusconismo, almeno quanto i suoi avversari lo sono stati dall'anti-berlusconismo. Questa volatilità politica (al pari di quella finanziaria) può complicare la vita del nuovo esecutivo. Ma dobbiamo sapere che a questa soluzione, qui ed ora, non c'è alternativa. Dobbiamo sapere che il governo del Professore non è neanche lontanamente paragonabile al governo del Cavaliere. E dobbiamo sapere che, se fallisse anche questo tentativo di traghettare il Paese fuori dalla tempesta, oltre al default politico ci toccherebbe anche quello economico. Resta un'incognita, insita nella natura e nella cultura del governo appena nato. Nonostante la qualità indiscutibile delle persone che lo compongono (o forse proprio in ragione di questa qualità), questo è un "governo delle élite". Rettori e banchieri, giuristi e avvocati, prefetti e professori. C'è da chiedersi se questo "corpo" selezionato della migliore élite nazionale saprà dare voce e rappresentanza anche alla "gente normale". Obiettivamente (e fortunatamente) il governo Monti è l'esatto contrario del governo Berlusconi. Da tutti i punti di vista. Compreso questo: che il primo, a differenza del secondo, nasce senza popolo. La sfida di Monti, proiettata sulla primavera del 2013, sta tutta qui. Deve riempire di politica il vuoto che può aprirsi tra una nuova oligarchia tecnicista e la vecchia autocrazia populista. Deve conquistarsi, voto per voto, il sostegno parlamentare. Ma soprattutto deve costruirsi, legge per legge, il consenso popolare. m.giannini@repubblica.it(17 novembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/17/news/miracolo_mister_spread-25136773/?ref=HREA-1
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« Risposta #229 inserito:: Novembre 24, 2011, 06:37:39 pm » |
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IL COMMENTO La crisi non aspetta di MASSIMO GIANNINI Dall'"uomo dei sogni" all'"uomo dei miracoli"? Nessuno si era illuso: il passaggio dal Venditore di Arcore al Professore della Bocconi non poteva bastare a risolvere i guai dell'Italia. Ma ora che la "dittatura dello spread" pesa sulla democrazia dei popoli, Monti non può esitare: serve una svolta immediata, per uscire da questa crisi. La tempesta finanziaria è globale. Squassa l'Europa. Non più solo i paesi lassisti del Club Med: ormai persino la virtuosa Germania paga dazio, come dimostra l'inaudito insuccesso dell'asta dei Bund disertata dagli investitori internazionali (e soprattutto asiatici) in fuga dai titoli dell'intera Eurozona. Ma l'Italia torna a pagare il prezzo più alto. Il differenziale sul Btp a due anni è salito a 700 punti, il più alto da quando esiste l'euro. È un segnale chiarissimo: i mercati cominciano a dubitare non più solo della sostenibilità del debito a lungo periodo, ma anche di quello a breve. È anche un costo elevatissimo: stavolta il Tesoro dovrà pagare agli investitori un premio di rischio del 7,2% a scadenza biennale, e non decennale. C'è una destra, provinciale e irresponsabile, che ora si frega le mani. Il manipolo degli "irriducibili" della ex maggioranza, Mibtel e spread alla mano, sostiene che il problema "non era Berlusconi". È l'ennesimo tentativo di mistificare la verità. L'"effetto Monti", sui mercati, c'è stato eccome. Per una settimana, dal giorno dell'incarico al nuovo premier domenica 13 novembre fino a domenica scorsa, i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato sono scesi stabilmente da circa 570 a poco meno di 480 punti base rispetto ai titoli tedeschi. Il solo cambio di governo, dunque, è stato salutato positivamente dalla business community. È la prova che il "teorema Roubini" non era affatto sbagliato: la semplice uscita di scena del Cavaliere comporta per l'Italia un risparmio secco di 100 punti base. La "Papi tax" è esistita, insomma. E noi l'abbiamo pagata. Ma ora c'è un problema. Negli ultimi tre giorni si è insinuato il dubbio che il nuovo governo abbia scontato una partenza troppo lenta. Non solo rispetto alle attese dei mercati e dell'opinione pubblica, che erano e restano altissime. Ma anche rispetto alle urgenze dell'economia e della finanza, che erano e diventano sempre più drammatiche. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere sulla fiducia, è stato impeccabile nella sua sobria fermezza, che è bastata a trasformare il pollaio di Montecitorio nell'emiciclo di Westminster: "L'Europa vive i giorni più difficili dal secondo dopoguerra... L'Italia vive una situazione di seria emergenza... dobbiamo evitare che qualcuno ci consideri l'anello debole dell'Europa... Il mio è un tentativo difficilissimo: ma se sapremo superare i problemi, avremo l'occasione per riscattare il Paese". Da allora sono passati dieci giorni. Monti ha fatto al meglio tutto quello che doveva. Prima di tutto la formazione del governo, con una squadra di ministri scelti in un'élite tecnocratica di alta qualità. E poi la "missione fiducia" nel consesso internazionale: l'altro ieri l'Eurogruppo e l'incontro con Barroso e Van Rompuy, oggi il vertice trilaterale con Merkel e Sarkozy. Una scelta felice, che in tre giorni ha miracolosamente riportato l'Italia nell'unico luogo fisico e politico nel quale deve stare e dal quale Berlusconi l'aveva inopinatamente sradicata: l'Europa dei costituenti, dei paesi fondatori e della moneta unica. I partner europei hanno apprezzato. Monti è stato accolto a Palazzo Justus Lipsius non come un "battutista" che racconta barzellette, ma come uno statista che torna a casa sua. Ma i problemi italiani restano tutti, uguali se non più gravi di prima. Questo lo sa il governo di Bruxelles. Barroso premette: "Non ci aspettiamo miracoli", "il risanamento non è una corsa sprint, è una maratona". Ma poi avverte: "La situazione italiana rimane difficilissima", "il governo Monti ha di fronte a sé una responsabilità storica e una sfida immensa". Questo lo sa anche il governo di Roma. Giustamente il premier, anche se ripropone il tema della rivalutazione del disavanzo in funzione del ciclo e degli investimenti, conferma l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 Ma i giorni passano. E il dubbio è che ci sia uno scarto tra la comunicazione, giustamente allarmata, e l'azione, sorprendentemente misurata. Il primo Consiglio dei ministri "operativo", lunedì scorso, ha prodotto solo il via libera al decreto legislativo su Roma Capitale. Per quanto simbolico, un atto che non marchierà a fuoco questo pericoloso tornante della storia repubblicana. L'Agenda Monti, così come il premier l'ha illustrata nel suo discorso programmatico, è già chiara nelle sue grandi linee. Dalla reintroduzione di un'Ici progressiva in base al reddito alla correzione delle pensioni d'anzianità. Dalla lotta all'evasione fiscale alla riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Dalla razionalizzazione del mercato del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali. Le misure da varare sono sufficientemente note. Investono materie socialmente sensibili. Il premier, oltre all'imperativo della crescita, ha promesso rigore ed equità: stavolta "chi ha di più, dovrà dare di più". Sarà misurato anche sul rispetto di questa irrinunciabile promessa. È comprensibile che voglia calibrare gli interventi e comporli in un disegno organico, nel quale la somministrazione dei sacrifici sia accompagnata, per quanto possibile, dalla redistribuzione dei benefici. La coesione politica impone prudenza. Il consenso sociale richiede pazienza. Ma anche per Monti il "fattore tempo" sta diventando cruciale. È il momento di accelerare, e di sfruttare la "luna di miele" che il nuovo governo sta ancora vivendo con il Paese. Il presidente del Consiglio ne è consapevole, come lo è il presidente della Repubblica. Anche questa volta, i tempi della transizione italiana rischiano di non coincidere con quelli della crisi internazionale. Sta a Monti colmare, con la politica, anche questo deficit. Il Professore ha in tasca un doppio, prezioso "dividendo": la discontinuità e la credibilità. Non può sprecarlo. Prima ancora dei mercati, non glielo perdonerebbero gli italiani. m.giannini@repubblica.it(24 novembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/24/news/crisi_non_aspetta-25498970/?ref=HREA-1
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« Risposta #230 inserito:: Dicembre 03, 2011, 11:09:38 am » |
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COMMENTO Il dovere dell'equità di MASSIMO GIANNINI LA PAROLA-chiave della manovra che Monti presenterà lunedì agli italiani è una sola: equità. È questa l'unica "password", etica e politica, che potrà consentire al Parlamento, alle forze sociali e all'opinione pubblica di "accedere" a un programma di sacrifici inevitabili, ma altrimenti intollerabili. Tutti parlano di equità. L'ha invocata il presidente della Repubblica il 13 novembre, quando ha conferito a Monti l'incarico di formare un nuovo governo, "su scelte urgenti di consolidamento della nostra situazione finanziaria e di miglioramento delle prospettive di crescita e di equità sociale". L'ha promessa il presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia il 14 novembre: "I sacrifici necessari dovranno essere equi". La chiede ora il leader del Pd Bersani, che oggi incontrerà il premier, alla ricerca di "soluzioni che coniughino il rigore con equità e consenso sociale". Ma l'equità rischia di essere una parola vuota, e dunque la password rischia di non funzionare, se la manovra di Monti non si riempie di un significato politico chiaro, che vada oltre la pura tecnica dei numeri, dei fabbisogni, dei saldi. È evidente: al nuovo governo si chiedono riforme strutturali ambiziose, di durata lunga e di orizzonte vasto. Ma anche misure congiunturali pesanti, capaci di generare cassa subito. Potrà esserci uno scarto, nel trade-off tra i sacrifici immediati e i benefici futuri: 25 miliardi di euro in due anni non si mettono insieme senza affondare il bisturi nella carne viva della società italiana. Il nodo è come, dove e perché si affonda quel bisturi. L'equità si può declinare in molti modi. Con un metodo consociativo da Prima Repubblica, si può colpire in modo indistinto su tutte le fasce sociali: siamo in emergenza, dunque tutti devono dare qualcosa. Ma ora si richiede un approccio diverso. L'Italia di oggi è provata da un ciclo estenuante di conflitti. Durante i governi Berlusconi, cui si deve un aumento del debito pubblico di 546 miliardi, il senso delle manovre è stato unidirezionale: colpire le constituency socio-politiche del campo avverso. Quindi stangate su lavoro dipendente, pubblico impiego, scuola. Oggi, per essere davvero "equa", una manovra deve dunque pretendere molto da chi in questi anni ha dato nulla, e nulla a chi in questi anni ha dato molto. Questo principio, nelle 48 ore che mancano alla riunione del Consiglio dei ministri, dovrebbe guidare le scelte di Monti. Se partiamo da qui, si può già ragionare (e in qualche caso dubitare) delle ipotesi di intervento che circolano. Qualche esempio. Si parla di costi della politica: è giusto chiedere un tributo al risanamento a milioni di cittadini-elettori, ma non c'è equità se gli eletti non pagano per primi, qui ed ora, e non nella prossima legislatura. Si parla di previdenza: è giusto correggere gli squilibri generazionali per chi deve avere ancora accesso ai trattamenti d'anzianità, ma non c'è equità se si bloccano gli automatismi per tutti i 17 milioni di pensionati, compreso quel 48% di anziani che percepisce un assegno inferiore ai mille euro al mese, e quel 15% che ne percepisce uno inferiore ai 500. Altri esempi. Si parla di un nuovo aumento delle aliquote Irpef: è giusto prevedere qualche inasprimento fiscale, ma non c'è equità se si continua a colpire il reddito piuttosto che il patrimonio. Si parla di un aumento degli ultimi due scaglioni più alti, quelli al 41 e al 43%: è giusto che i "ricchi" paghino di più, ma non c'è equità se si continua a considerare "ricco" il ceto medio e a prendere come base imponibile da colpire la categoria di reddito da lavoro dipendente con 55 mila euro l'anno, salvando ancora una volta la zona grigia del lavoro autonomo che denuncia meno di 20 mila euro l'anno. Si parla di provvedimenti sulla sanità: è giusto ridurre gli sprechi del servizio sanitario nazionale, ma non c'è equità se si torna al ticket sui ricoveri ospedalieri, cui ricorrono ormai solo le fasce sociali più povere. Si potrebbe continuare. L'elenco delle ipotesi intorno alla manovra è lungo, e in ogni capitolo si può annidare la ripetizione dell'iniquità, che è stata la cifra dei governi ideologici berlusconiani. Oppure la rinuncia all'equità, che può essere la cifra dei governi tecnici, se e quando affrontano una manovra economica con una visione ragionieristica e con in dosso il solo "saio fiscale". Guardando il grafico del disavanzo pubblico, senza colmare il deficit politico che rischiano di produrre. Guardando ai mercati e alla Bce, senza vedere le persone in carne ed ossa, i corpi intermedi che gli danno voce e i Parlamenti che le rappresentano. Quello di Monti è nato come un "governo di scopo". Ed è vero: il risanamento dei conti e il rilancio della crescita sono uno "scopo" tecnico. Ma hanno dentro un potenziale politico enorme. Monti deve avere il coraggio di "scoprirlo". I partiti, in questa tregua solo apparentemente tecnocratica, devono ritrovare la forza di dispiegarlo. La password c'è: basta usarla bene. m.giannini@repubblica.it(03 dicembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/03/news/monti_equit-25999580/?ref=HREA-1
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« Risposta #231 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:46:55 pm » |
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L'ANALISI Molte tasse poca crescita Le misure presentate dal governo Monti: norme che colpiranno milioni di persone, facendo meno 'macelleria sociale' di quella prevista. Ma dall'esecutivo dei professori ci si attendeva qualcosa si più di MASSIMO GIANNINI LE LACRIME di Elsa Fornero sono una buona metafora di questo "decreto salva-Italia". Un'operazione chirurgica di tasse e di tagli senza anestesia, sul corpo vivo della società italiana. Farà piangere alcuni milioni di persone, anche se farà un po' meno "macelleria sociale" di quanto si temeva. Diciamo la verità. Dal governo dei Professori ci saremmo aspettati qualcosa di più. In termini di qualità e di equità. Non serviva un autorevolissimo tecnico prestato alla politica come Monti, che con i suoi atti ha combattuto in Europa i grandi trust del pianeta e che con i suoi articoli si batte da anni per la modernizzazione del Paese, per varare una manovra che ha comunque un vago sapore di stangata vecchio stile. Non serviva una squadra d'élite per mettere insieme un pacchetto di misure che comprendono la solita infornata di imposte per i contribuenti e la solita carestia di risorse per gli enti locali. Su questa "cura" grava in parte la stessa ipoteca che aveva pesato sulle ultime due manovre del governo Berlusconi-Tremonti, che tra luglio e agosto avevano razzolato la quasi totalità del gettito sulle tasse, e solo per una quota marginale sulle spese (di cui l'80% sulle riduzioni per ministeri, enti locali e sanità). Ora, il pacchetto di misure varato dal Consiglio dei ministri ripete parzialmente lo schema: su un totale di 30 miliardi "lordi", 17 sono aumenti d'imposta, 13 sono riduzioni della spesa. Ancora una volta, la necessità di fare cassa fa premio sull'opportunità di ripensare più a fondo la natura e la struttura del bilancio pubblico. È vero che urgeva ed urge una terapia d'urto, e che come dice il premier "il debito pubblico non è colpa dell'Europa, ma è colpa di noi italiani". Ma se è vero quello che la Banca d'Italia ripete da tempo, e cioè che nel prossimo biennio la pressione fiscale viaggia verso il record del 43,7% del Pil e la spesa primaria al netto degli interessi corre verso il 43,3%, allora la manovra resta ancora troppo squilibrata dal lato delle entrate. Sul fronte fiscale, il "saio" cucito addosso ai contribuenti è pesante. Monti (come del resto Tremonti) aveva promesso il passaggio della tassazione dalle persone alle cose. Nella sua manovra di questa traslazione c'è una traccia ancora insufficiente. Le "cose" vengono ri-tassate. La casa subisce un duplice, gravosissimo colpo: l'introduzione dell'Imu e l'aggiornamento degli estimi catastali. I beni di consumo subiscono un'altra frustata: l'aliquota Iva aumenterà di altri 2 punti nel secondo semestre 2012, dopo il rialzo agostano già decretato dal governo forzaleghista, con un'alea difficile da calcolare sul possibile "propellente" inflazionistico che può generare. In compenso, con una scelta saggia propiziata anche dalla moral suasion dei partiti della "Grosse Koalition" all'italiana, le "persone" vengono tassate un po' meno del previsto. Il cospicuo ritocco dell'ultima aliquota Irpef, dal 43 al 46%, è stato opportunamente rimosso dal menù. Si è risparmiato così l'ennesimo tributo sul ceto medio, e si è archiviata l'idea, non del tutto realistica, che i "ricchi" in Italia siano quelli che dichiarano più di 75 mila euro l'anno. In realtà questo è anche il bacino sociale del lavoro dipendente che paga le tasse fino all'ultimo centesimo, mentre il lavoro autonomo continua a ripararsi dietro dichiarazioni dei redditi scandalose, che non superano i 25-30 mila euro l'anno. In compenso, salirà l'addizionale Irpef delle regioni. La manovra di Monti ha recuperato in extremis un barlume di equità. Con la pistola del Cavaliere alla tempia, il premier ha dovuto rinunciare a spostare drasticamente il prelievo, dal reddito al patrimonio. È deludente che un governo tecnico non sia stato in grado di varare un'imposta sulle grandi fortune sul modello francese, e non abbia nemmeno tentato di riequilibrare l'imposizione sulle rendite finanziarie (ferma al 20%) rispetto a quella sul lavoro (ormai a quota 36%). Ed è deludente che abbia rinunciato a tentare un affondo più convinto contro gli "invisibili" del sistema tributario, che ogni anno nascondono al Fisco 120 miliardi di euro: si poteva osare di più, e non limitarsi a reintrodurre la tracciabilità del contante solo dai 1.000 euro, dopo aver annunciato alle Camere l'intenzione di "chiedere di più a chi ha di più" e la volontà di "colpire l'evasione fiscale" per impiegare il maggior gettito per abbattere le imposte sui lavoratori e sulle imprese. Ma in compenso, grazie alle pressioni del Pd, uno sforzo di giustizia sociale è stato fatto grazie alla tassa una tantum dell'1,5% sui capitali rientrati con l'ultimo scudo fiscale di Tremonti. E sulla stessa linea si iscrivono l'estensione dell'imposta di bollo su diverse operazioni finanziarie (e non più solo sui conti correnti bancari), la tassa di stazionamento aggravata sugli yacht e i rincari del bollo sulle auto di lusso. Misure che incidono effettivamente sulle categorie più benestanti, risparmiate in tutti questi anni dai sacrifici. Tuttavia, anche in questo campo si poteva fare di più e di meglio, per rendere socialmente più tollerabile la distribuzione del prelievo. Nel "decreto salva Italia" c'è comunque un elemento di qualità. Sul fronte della spesa, l'intervento sulle pensioni è serio e strutturale. È giusto correggere le iniquità del sistema dell'anzianità, anomalia tutta italiana nella quale si frantuma una parte del patto tra le generazioni. È giusto superare la disparità del metodo di calcolo (retributivo o contributivo) a seconda che si sia stati assunti prima o dopo il 1978. È giusto equilibrare le aliquote contributive delle categorie autonome che in questi decenni sono state abbondantemente al di sotto della media. È anche giusto, benché doloroso, accelerare l'innalzamento ed equiparare l'età di vecchiaia per uomini e donne, anche se non si può non accompagnare un vero e proprio "scalone" sull'accesso alla pensione femminile con un sistema di Welfare finalmente inclusivo per chi deve coniugare lavoro e cura della famiglia e dei figli. Ma il blocco della rivalutazione degli assegni, sia pure salvando quelli al minimo e fino al limite dei 940 euro al mese, è a tutti gli effetti una "tassa sul pensionato", che oltre tutto non risparmia i trattamenti compresi tra i 1.000 e i 2.000 euro al mese. Il 48% del totale, e in questa fascia sociale non si tratta certo di "pensioni d'oro". Per il resto, sui tagli di spesa non c'è molto altro di veramente "qualificante". L'abbattimento dei costi della politica è ancora allo stadio iniziale, a dispetto del gesto di buona volontà del premier che rinuncia al suo stipendio. Il colpo di scure sulle Autority e sulle Province, oppure la soppressione dell'Enit o dell'Agenzia per il nucleare, aiutano ma non risolvono. Volendo amputare sul serio la spesa improduttiva e gli enti inutili si sarebbe potuto e si potrebbe affondare la lama molto più in profondità. La stessa cosa si può dire per il pacchetto di misure sulla crescita presentate dal ministro Passera. Le liberalizzazioni si limitano ai farmaci di fascia C nelle parafarmacie, e con una serie dettagliata di vincoli. Il credito d'imposta per la ricerca è troppo basso. La deduzione Irap sui costi del lavoro, a vantaggio delle imprese, è solo un primo passo, ancora troppo timido. Monti, in queste settimane, aveva costruito la sua manovra su una "triade" inscindibile: rigore, equità, crescita. Dei tre assi, per ora ne ha calato davvero uno solo, cioè il primo. Era necessario. Ma se il premier non si affretta a giocare fino in fondo anche gli altri due, la sua partita sarà difficilissima. In Parlamento, e soprattutto nel Paese. m.giannini@repubblica.it http://www.repubblica.it/economia/2011/12/05/news/molte_tasse_poca_crescita-26099701/?ref=HREA-1
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« Risposta #232 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:19:30 pm » |
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IL COMMENTO Il bisogno di giustizia sociale di MASSIMO GIANNINI MONTI l'aveva annunciato: questo governo sarà costretto a rinunciare a certe liturgie, molto gradite nel passato. Ma la rottura che si è consumata con i sindacati è qualcosa di più di un semplice strappo al metodo della concertazione. È una lesione del principio dell'equità. Il governo, dunque, ha ascoltato ma non ha raccolto le richieste formulate da Cgil, Cisl e Uil, e le proteste sollevate da tante parti della società italiana. Non era obbligatorio dal punto di vista politico: l'emergenza economico-finanziaria impone decisioni urgenti e, per quanto dolorose, non necessariamente condivise. Forse non era opportuno dal punto di vista istituzionale: mentre sulle modifiche alla manovra si sta trattando in Commissione alla Camera, non si possono fare concessioni al sindacato su altri tavoli. Ma era doveroso dal punto di vista della giustizia sociale. Graduare l'Ici-Imu sulla casa secondo i redditi e i carichi familiari, e innalzare almeno a 1500 euro al mese il tetto al di sotto del quale non scatta il blocco della rivalutazione delle pensioni, sono esigenze sacrosante di imparzialità redistributiva, e non pretese di autotutela corporativa. Si capisce la difficoltà del governo, che sul decreto Salva-Italia è stretto tra la comprensibile domanda di equità che si coglie nel Paese e l'irresistibile "assalto alla diligenza" che si rischia in Parlamento. Tenere insieme le due cose non è semplice, con le confederazioni che scendono in piazza da una parte e i 1.400 emendamenti che stazionano in Commissione dall'altra. Ma una quadra, senza intaccare i saldi finali di una manovra che non deve cedere un centesimo sul terreno del rigore, andava e andrebbe trovata. Cinque miliardi non sono semplici da reperire, per far fronte al mancato gettito che deriverebbe dall'accoglimento delle proposte di modifica al testo sulla parte che riguarda casa e previdenza. Ma se è vero che l'azzeramento del "beauty contest" e il lancio di un'asta vera sulle frequenze tv non darebbero risorse immediate, è altrettanto vero che tra un ritocco dell'aliquota sull'una tantum a carico dei capitali scudati e un anticipo dell'aumento dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori autonomi, parecchia "cassa" si potrebbe fare subito. In caso contrario, il cammino del governo si fa più impervio. Ogni discorso sull'equità perde di senso, quando deputati e senatori scoprono la Grosse Koalition solo per difendere i propri emolumenti, che ogni mese cumulano 5.246 euro di indennità, 3.503 euro di diaria, 3.690 euro di rimborsi forfettari, 3.323 euro di rimborso viaggi. In gioco non c'è più il rispetto giuridico-costituzionale dell'equilibrio tra governo e Parlamento, ma la decenza etico-morale del rapporto tra eletti ed elettori. Sia detto senza cedere alle derive populiste e qualunquiste: gli onorevoli si conquistano sul campo la pessima reputazione di cui godono nel Paese. Così il Parlamento della Repubblica diventa la Casta dei bramini. Di fronte a tanta impudenza, il governo non può limitarsi a ripetere che "il Parlamento è sovrano". C'era una via, e l'ha indicata Tito Boeri: senza intervenire sulle indennità, la manovra avrebbe potuto tagliare i fondi di Camera e Senato, e i tagli sarebbero arrivati di conseguenza. Ogni discorso sull'equità perde di senso, quando la manovra non incide sulla vergognosa metastasi italiana dell'evasione fiscale e sulla scandalosa distribuzione tra il reddito e il patrimonio. Cioè quando il 42,4% delle barche di lusso, il 31,7% delle automobili oltre i 185 cavalli e il 25% degli aerei da diporto risultano intestati a contribuenti che dichiarano meno di 20 mila euro l'anno. Quando l'aumento degli estimi, che ammonta al 60% per le case di milioni di italiani, si riduce al 20% per gli immobili delle banche, per gli alberghi e per i porti e quando si rinuncia ad innalzare le rendite (ferme al 2006) per gli immobili della Chiesa "non destinati all'esercizio del culto". Di fronte a tanta disparità, il governo non può limitarsi a dire "non abbiamo ancora studiato il dossier". C'era una via, e l'ha aperta addirittura il Cardinal Bagnasco: rivedere la formula troppo ambigua della legge, che esenta dall'Ici i cespiti ecclesiastici di natura "non esclusivamente commerciale". Monti ha già acquisito un merito oggettivo: con la credibilità del suo governo, ha riportato l'Italia agli onori del mondo. Ora gli è richiesto uno sforzo in più. Con l'equità della sua manovra, deve riportare gli italiani a credere nella politica. Se non lo farà, i cittadini onesti pagheranno, ma non capiranno. m.giannini@repubblica.it(12 dicembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/12/news/giannini_equit-26456172/?ref=HREA-1
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« Risposta #233 inserito:: Dicembre 24, 2011, 07:20:34 pm » |
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L'analisi Crisi, lo spread non torna più giù il rischio di un circolo vizioso Il governatore di Bankitalia, Visco, ha segnalato al presidente del Consiglio che l'attività produttiva frenerà ancora. Passera rilancia: rigore e sviluppo insieme. Ma il premier Monti non è ancora riuscito ad attivare il circolo virtuoso che consentì a Ciampi di portare l'Italia nell'euro di MASSIMO GIANNINI È PASSATO il decreto Salva-Italia, ma l'Italia non è affatto salva. La dura legge dello spread ci inchioda ancora una volta alle nostre debolezze. Ieri, 23 dicembre, il differenziale tra i tassi dei Btp e quelli del Bund tedesco è risalito a 515 punti. Il 16 novembre, giorno del giuramento del nuovo governo, era a quota 518. Mario Monti torna così alla casella di partenza. È un problema serio, che spaventa il Palazzo e disorienta il Paese: in mezzo a queste due date c'è stata la manovra da oltre 20 miliardi, che ha inciso sulla carne viva degli italiani. I mercati l'avevano salutata con entusiasmo: il 6 dicembre lo spread era sceso a 368 punti, il minimo da luglio. "Questa manovra ci dà speranza", aveva detto il premier. Oggi la speranza si affievolisce: al borsino di fine d'anno vince la paura. Se migliorano i differenziali degli Stati "periferici" dell'Eurozona, a partire dalla Spagna, e peggiora solo il nostro, il segnale è inequivoco, e insieme drammatico: nonostante l'ultima stangata, la comunità degli affari non crede ancora che l'Italia riuscirà ad abbattere il debito e a rilanciare la crescita. Detta più brutalmente: i sacrifici appena imposti al Paese rischiano di essere inutili. Questa è la constatazione che rende amaro il Natale degli italiani. Siamo in zona-pericolo. Per l'incertezza internazionale, ma anche e soprattutto per la debolezza interna. Il governo ne è consapevole. Il tentativo è quello di gettare il cuore oltre l'ostacolo, lanciando la famosa "fase due". Quella dello sviluppo economico, che dovrebbe accompagnare il rigore finanziario. Ma il cuore è leggero, e l'ostacolo è molto più alto del previsto. Nell'ultimo Consiglio dei ministri prima della sosta natalizia il premier ha affrontato la questione, ragionando sui numeri della "Relazione generale sulla situazione economica del Paese". "Le prospettive non sono affatto buone". Basta sentire i ministri, per averne la conferma. Elsa Fornero avverte: "La manovra appena approvata era assolutamente necessaria. Sapevamo che avrebbe avuto un impatto sulla crescita, e ora sappiamo che è proprio la crescita la leva da azionare. Ma purtroppo dal territorio ci arrivano segnali preoccupanti". Piero Giarda è più esplicito: "Il risanamento l'abbiamo avviato, ma il quadro macro-economico sta peggiorando. Dal fronte delle imprese giungono notizie allarmanti, su ordinativi e occupazione". Corrado Passera non si arrende: "Con il "Salva-Italia" abbiamo evitato la fine della Grecia. Ora dobbiamo uscire dalla sindrome delle fasi: non c'è una fase uno e una fase due, il rigore e lo sviluppo li dobbiamo fare insieme. La congiuntura è negativa, non possiamo aspettarci i fuochi d'artificio: ogni ministero deve fare la sua parte, giorno per giorno, per tagliare le spese e sostenere la crescita". Ma far correre il Pil di un Paese che si porta sulle spalle una montagna di debito pubblico è una missione quasi impossibile, come purtroppo certifica l'impennata dello spread. È ancora Giarda, ad affondare il coltello nella piaga: "Non c'è dubbio, il debito è il nostro gigantesco problema. E i mercati sembrano orientati a scommettere sul fatto che noi potremmo non farcela". È la stessa inquietudine di Passera: "Ne parlavo poco fa con un grande banchiere americano. È ovvio che il differenziale ci penalizza: l'Europa non ritrova un equilibrio, e noi abbiamo il debito pubblico più grande del mondo...". L'Italia, in definitiva, sta entrando in una spirale micidiale. Deve risanare i suoi conti, e quindi fare manovre correttive sempre più pesanti. Ma lacrime e sangue scorrono in un Paese che è già in recessione, come dimostrano il calo dello 0,2% del prodotto lordo nel terzo trimestre (che riflette la caduta degli investimenti delle imprese) e il crollo delle retribuzioni rispetto all'inflazione (che blocca i consumi delle famiglie). Così i tagli e le tasse deprimono ancora di più l'economia. Il rapporto debito/Pil non si riduce mai, perché le manovre fanno decrescere il numeratore, ma continuano a far decrescere anche il denominatore. E se non si riduce il rapporto debito/Pil i mercati continuano a liberarsi dei titoli di Stato italiani, o a sottoscriverli chiedendo rendimenti sempre più alti. In questo modo il costo del debito pubblico, per lo Stato, continua a lievitare, rendendo necessarie altre manovre, che soffocano ancora di più l'economia. E via così, in un "loop" che finisce per uccidere un Paese. Questo, dunque, è il vero abisso nel quale rischiamo di precipitare. All'Italia di Monti, per ora, non sta riuscendo il miracolo che riuscì a Ciampi nel 1996/1998, quando tagliammo il traguardo dell'euro grazie all'attivazione di quello che l'ex presidente della Repubblica definisce il "circolo virtuoso". L'aggancio al più importante dei parametri di Maastricht (un rapporto non superiore al 3% nel rapporto deficit/Pil) fu possibile grazie all'enorme "dividendo" che l'allora ministro del Tesoro riuscì a riscuotere in Europa. Un dividendo fatto di credibilità personale, di "cultura della stabilità" politica e di manovre di rigore finanziario, che gli consentì di abbattere lo spread sui titoli tedeschi dai 530 punti del 1995 al minimo storico di sempre, meno di 30 punti base, nel dicembre 1997. Questo gli permise di risparmiare quasi 100 miliardi di interessi. Di somministrare al Paese manovre correttive severe ma non recessive. Di piegare il debito senza deprimere il Pil. Di ottenere per questo la fiducia dei mercati, e quindi di ricominciare il percorso dentro al "circolo virtuoso". Il "miracolo Ciampi", per Monti, è molto più complesso. Sullo sfondo c'è la crisi di Eurolandia. Ma in primo piano resta l'instabilità dello scenario politico e la fragilità di un governo sostenuto da una maggioranza di "azionisti riluttanti". In queste condizioni, infondere fiducia negli investitori è tutt'altro che agevole. L'agenda del Tesoro fa tremare i polsi. Il 28 dicembre andranno in asta Bot a sei mesi per 8,8 miliardi, il giorno dopo toccherà ai Btp a 3 e a 10 anni. Da Capodanno in poi sarà una roulette russa: solo per titoli a medio-lungo termine, 1 miliardo a gennaio, 46 a febbraio, 35 a marzo e 30 ad aprile. Totale: 112 miliardi in un solo quadrimestre, esclusi i Bot. Il presidente del Consiglio non può dormire sonni tranquilli. Al contrario di Ciampi, è costretto a girare in "circolo vizioso". La vera sfida è invertire il ciclo, e convincere i mercati che l'Italia fa sul serio. "Serve una terapia d'urto per la crescita, che possa innescare un effetto shock", sostiene la Fornero. Passera ci sta lavorando. Ma con poche risorse a disposizione la "terapia d'urto" ha un impatto incerto: "Sbloccheremo le infrastrutture, sia a livello normativo sia a livello di cantieri. E faremo le nuove liberalizzazioni con la legge annuale sulla concorrenza". Monti deve coniugare la famosa "triade", rigore-crescita-equità, con la sponda di un Parlamento malpancista e di un sindacato antagonista. Per questo cerca l'appoggio della più importante istituzione economica del Paese, cioè la Banca d'Italia. Nell'ennesimo faccia a faccia a Palazzo Chigi, il governatore Ignazio Visco ha tratteggiato al premier un orizzonte tutt'altro che incoraggiante: "Per il quarto trimestre c'è un ulteriore indebolimento dell'attività produttiva". Secondo Via Nazionale, occorrerà un lavoro "chirurgico" sui tagli di spesa, nell'ottica della "spending review". E poi serviranno interventi mirati per "rimuovere gli ostacoli che frenano il sistema", dalle liberalizzazioni in tutti i settori alle misure per l'efficienza degli enti locali, dalla formazione e la scuola alla velocizzazione della giustizia civile. La Banca d'Italia ha già fornito al premier una serie di indicazioni concrete, su ciascuno di questi capitoli. Toccherà al governo tradurle in misure legislative. La via è strettissima. Ma un'alternativa non c'è. Anzi, ce n'è una sola: il default dell'Italia. Come ha spiegato Visco a Monti, questo significherebbe "10 milioni di poveri in più, dall'oggi al domani". Buon Natale a tutti. m.giannini@repubblica.it (24 dicembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2011/12/24/news/circolo_vizioso_giannini-27141364/?ref=HREA-1
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« Risposta #234 inserito:: Dicembre 30, 2011, 10:47:19 pm » |
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IL COMMENTO La lingua del disincanto di MASSIMO GIANNINI IN QUESTO gelido inverno del nostro scontento, è quasi inutile chiedere a Mario Monti conforto e calore. Il suo governo "di scopo" non è nato per questo. La sua forza, che è anche la sua debolezza, deriva dal vuoto pneumatico della politica che si autosospende momentaneamente per manifesta incapacità. Il suo compito è dire l'amara verità a un Paese che per tre anni e mezzo è vissuto nel Truman Show berlusconiano, convinto che la crisi non ci avrebbe colpito, o che l'avremmo superata senza traumi, prima e meglio degli altri. La sua missione principale è risanare un bilancio pubblico martoriato da una mistura di diffuso lassismo finanziario e di ottuso rigorismo da tagli lineari. Tutto il resto verrà dopo. Le riforme e la crescita, l'equità e le grandi opere. Nella sua prima conferenza stampa di fine d'anno, il presidente del Consiglio parla il linguaggio ruvido del disincanto. Il decreto Salva-Italia ha raggiunto l'obiettivo. "Eravamo sull'orlo del burrone, ma non ci siamo caduti". "Ora non siamo più vicini alla Grecia". "L'alternativa non era tra una manovra recessiva e una manovra espansiva, ma tra fare questa manovra e non fare nulla, cosa che avrebbe avuto un effetto esplosivo". Sono tante le frasi che restano impresse, e che danno la misura del baratro per adesso evitato. Ma al di là degli sforzi che il premier ha fatto per tenere le porte del 2012 aperte alla speranza, resta la sensazione che la cura da oltre 20 miliardi appena somministrata al Paese siamo solo il primo stadio di una terapia ancora lunga e dolorosa. "Spero non servano altre manovre", si affretta a precisare Monti. Ma restano parole. Come furono parole quelle che Berlusconi pronunciò il 23 dicembre di un anno fa, e che il suo successore ha voluto ricordare: "Non servirà una manovra correttiva", disse allora il Cavaliere. "Nel frattempo ne sono servite altre cinque", ha chiosato il Professore. Comincia un anno terribile. Il ciclo economico mondiale evidenzia un arretramento della crescita ovunque (comprese le aree finora più emergenti dei Bric) e un azzeramento della dinamica del Pil in Italia. Il ciclo politico europeo registra un'ulteriore cessione di sovranità nazionale alle istituzioni comunitarie. Se ha avuto un effetto, il vertice europeo dell'8-9 dicembre scorso è servito a ridurre ancora di più l'autonomia delle politiche fiscali teritoriali. Con una scelta tanto incomprensibile quanto velleitaria, Tremonti ha inchiodato l'Italia a una promessa impossibile con Bruxelles: il pareggio di bilancio entro il 2013. Monti lo sottolinea con una vena lievemente polemica, nella sua conferenza stampa: "Signori, quell'impegno non l'ha sottoscritto il mio governo". Semmai l'ha ereditato. Ma l'impegno c'è, e ora va onorato. Pena la definitiva sfiducia nei confronti di un Paese già fortemente screditato. Per questo, con ogni probabilità, verranno altre manovre, e verranno altri sacrifici. Si può insistere finché si vuole, sull'ormai famosa triade che deve concretizzarsi in un'ipotetica unità di spazio e di tempo: rigore, crescita, equità. Si può ripetere fino alla noia che: "Non esistono una fase uno e una fase due". Ma i fatti contano più delle parole. E i fatti dicono che oggi paghiamo per raggiungere il risanamento finanziario, mentre nessuno può sapere se e quando incasseremo i dividendi dello sviluppo economico e della giustizia sociale. Forse non c'è alternativa, a questa road-map che ci impone in appena due anni di abbattere il deficit di 3 punti e il debito di 10 punti di Pil. Forse non possiamo far altro, per placare l'ira funesta dello spread, quel dio mercatista e pagano che pure non va "demonizzato", ma semmai va capito, anche se in questo momento ci penalizza più di quanto non meritino i nostri "fondamentali". "Non ci è dato lavorare con calma", come sostiene il premier. L'Unione ci aspetta, il 23 gennaio con l'Eurogruppo e il 30 con il Consiglio Europeo. Ma mentre sappiamo tutto dell'"atto dovuto", cioè la manovra di tasse e di tagli, sappiamo ancora poco o niente degli "atti voluti", cioè la strategia della crescita e dell'equità. Su questo fronte il governo Monti non ha altro da offrire, se non un operoso ma ancora fumoso "cantiere". Le riforme del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali "sono in lavorazione". Sul "contratto unico" il ministro Fornero "sta ragionando". Sullo snellimento dei tempi e delle procedure per aprire nuove imprese: "È allo studio un provvedimento". Sul gigantesco problema dei crediti vantati dalle piccole imprese nei confronti della Pubblica Amministrazione "ci stiamo lavorando". Sull'accordo con la Svizzera per tassare i capitali esportati, secondo il modello già adottato da Germania e Regno Unito, "è allo studio un'ipotesi di accordo". Sulla lotta all'evasione fiscale "abbiamo piantato i primi semi". Sarebbe assurdo pretendere che il governo Monti facesse in tre mesi quello che il governo Berlusconi non ha neanche provato a fare in tre anni. (30 dicembre 2011) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/30/news/la_lingua_del_disincanto-27380681/
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« Risposta #235 inserito:: Gennaio 08, 2012, 10:32:24 am » |
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Il colloquio Befera rilancia: "Serviamo lo Stato e non ci fermeremo" "L'Italia deve tornare alla legalità. da febbraio nuovi blitz stile Cortina". Le imposte servono a pagare i servizi di cui tutti i cittadini beneficiano, dagli ospedali alle scuole. Chi le evade commette un vero furto ai danni di tutti noi, è bene ricordarlo. Grazie all'incrocio con i dati del Pra sui proprietari di auto di lusso, abbiamo fatto emergere 160 milioni di imposte evase. E circa mille contribuenti controllati hanno pagato oltre 60 milioni di tasse in più" di MASSIMO GIANNINI "LO RINGRAZIO, ce n'era davvero bisogno...". Per una volta, Attilio Befera può dismettere i panni di San Sebastiano. Nella guerra agli evasori fiscali il presidente del Consiglio si schiera senza se e senza ma a difesa dell'Agenzia delle Entrate e di Equitalia. E l'uomo che riscuote i tributi per conto dello Stato, contestato dai furbetti delle tante Cortine d'Italia, bersagliato dai reietti dell'eversione violenta e accusato dagli inetti di una destra anti-borghese e illiberale, sente finalmente lo Stato dalla sua parte. "Noi facciamo solo il nostro dovere. E lo facciamo sulla base delle leggi votate all'unanimità, da tutto il Parlamento. E continueremo a farlo, perché questo Paese deve decidere da che parte stare: con o contro lo Stato di diritto". Il 42% dei possessori di barche di lusso, il 31,7% di proprietari di auto di altissima cilindrata e il 25,7% degli intestatari di aerei da diporto dichiarano redditi inferiori ai 20 mila euro l'anno. Le categorie del lavoro autonomo denunciano in media 18 mila euro l'anno, contro i 25 mila euro denunciato dal lavoro dipendente. La Guardia di Finanza fa un blitz a Cortina, scopre che su 133 possessori di auto di lusso 100 dichiarano meno di 30 mila euro e fa lievitare fino al 400% il volume dei ricavi di negozi e commercianti certificati dall'emissione di scontrini e ricevute fiscali. Di fronte a questo scandalo della democrazia, che destabilizza le fondamenta del patto sociale e altera le basi del libero mercato, succedono due cose incredibili. Un pezzo di Paese grida all'"oppressione fiscale". E un pezzo di Parlamento difende i "ladri" e accusa le "guardie". Ancora una volta, come sempre accade quando l'Italia si sporge sull'abisso della bancarotta finanziaria e il governo di turno costringe gli italiani alla penitenza tributaria, la questione fiscale diventa il cuore di un'irrisolta frattura politica e di un'impossibile coesione sociale. Befera è un capro espiatorio perfetto. Monti chiede sacrifici pesanti agli italiani, e aumenta le tasse per accelerare il pareggio di bilancio. L'amministrazione finanziaria prova a stringere la morsa intorno all'evasione fiscale, con qualche accanimento eccessivo non contro chi non paga perché è disonesto, ma contro chi non ce la fa a pagare perché c'è la crisi. Ma intorno a questo disagio, oggettivo ma circoscritto, monta una colossale e paradossale campagna contro gli "strozzini" di Equitalia. Si evoca lo "stato di polizia". Si denunciano le "inutili operazioni ad effetto" nelle località dei vip. E qualche delinquente tira le sue "conclusioni": bombe carta contro i servitori dello Stato, proiettili per posta nelle sedi dell'Agenzia delle Entrate. Nel Pdl, da Cicchitto a Gasparri, le parole volano comne pietre. Befera è preoccupato: "C'è stata tanta, troppa leggerezza in questi giorni, nel commentare questi episodi. Per questo ora ringrazio il presidente del Consiglio, per la posizione molto forte che ha preso a Reggio Emilia. Noi facciamo solo il nostro dovere, nei confronti di contribuenti che spesso non lo fanno". La vergogna della "Gomorra delle Dolomiti", come Francesco Merlo ha provocatoriamente definito Cortina d'Ampezzo, sta lì a dimostrarlo. "Diciamo che con la nostra operazione abbiamo fatto andar bene gli affari...", ripete Befera con un po' d'ironia. Ma la questione è invece molto seria. "Vede, questo Paese deve davvero scegliere se continuare sulla strada di questi ultimi anni, o tornare a praticare la legalità e il senso civico. Prima di tutto, dobbiamo ricordarci sempre che le imposte servono a finanziare i servizi di cui tutti i cittadini beneficiano, dagli ospedali alle scuole. E per questo io credo che chi evade le tasse commette un vero e proprio furto nei confronti di tutti noi. E aggiungo che chi non paga tasse e contributi viola la concorrenza, e fa un danno enorme agli imprenditori onesti, e quindi all'intero sistema economico". Per questo i "blitz" in stile Cortina "non si fermeranno, ma anzi andranno avanti", come annuncia Befera. Le prossime missioni della Guardia di Finanza scatteranno non subito (perché gennaio "è mese di bassa stagione"), ma da febbraio. E si concentreranno nelle località turistiche più rinomate, soprattutto quelle invernali, a caccia dei "soliti ignoti" del Fisco. Altro che "azioni demagogiche e spettacolari", come strepita la Santanché, chiedendo i danni per l'amata Cortina e le dimissioni per l'odiato Befera. "Facciamo il nostro lavoro, e abbiamo dimostrato che dà risultati". Li dà sul territorio, ma li dà anche negli uffici. E qui il numero uno di Equitalia ci tiene a dare un'altra risposta a chi, da destra, critica l'invio di tanti "operativi" delle Fiamme Gialle per scoprire fenomeni di occultamento delle imposte che si potevano scoprire consultando semplicemente gli elenchi del Pubblico Registro Automobilistico. "Noi non facciamo solo operazioni sul territorio. Di controlli incrociati, attraverso il supporto informatico, ne abbiamo sempre fatti". C'è un dato, ancora inedito, che da la misura di questa attività ispettiva e dei suoi risultati: nel 2011, grazie a 3 mila controlli effettuati con l'incrocio tra i dati del Pra sui proprietari di auto di lusso e le dichiarazioni dei redditi, l'Agenzia delle Entrate ha fatto emergere 160 milioni di imposte evase. Circa 1.000 contribuenti controllati hanno aderito all'accertamento fiscale, e hanno pagato oltre 60 milioni di tasse aggiuntive. Anche questa è l'Italia, purtroppo. È il raccolto avvelenato della semina di questi anni, che hanno visto un presidente del Consiglio inquinare il discorso pubblico con i germi della Vandea fiscale permanente. "Se lo Stato mi chiede il 50% di quello che guadagno mi sento autorizzato ad evadere". Oppure "non metterò le mani nelle tasche degli italiani". Silvio Berlusconi ha "diseducato" così i suoi elettori, di fronte al rispetto dei doveri del civismo, della legalità, della solidarietà. "È la peggiore espressione che si possa immaginare", commenta Befera, che risponde facendo appello al "senso dello Stato, e al senso di appartenenza a quella comunità che si chiama Italia, alla quale tutti apparteniamo, con gli stessi diritti e gli stessi doveri". Resta da dire che anche Equitalia ha commesso e commette molti errori, dalle "cartelle pazze" ai pignoramenti indiscriminati, spesso a danno di contribuenti non possono pagare per le difficoltà economiche in cui si trovano e per l'avidità delle banche che chiudono i rubinetti del credito. Sono problemi seri, anche questi, che non possono essere sottovalutati. Befera non si sottrae, ma ripete che "su 10 milioni di cartelle esattoriali emesse ogni anno, i casi di errore non sono più di 1.000". Vanno evitati, Equitalia si impegna a farlo. Ma considerare queste "eccezioni come un sistema è ingiusto e sbagliato". Per questo i controlli andranno avanti. Quelli a tavolino, che si sono sempre fatti e si continueranno a fare. Ma anche quelli sul territorio, perché hanno "un evidente effetto-deterrenza", come dimostra il blitz cortinese, che ha convinto decine di esercenti e ristoratori a fare quello che altrimenti non avrebbero mai fatto: battere uno scontrino, emettere una ricevuta fiscale. Gesti normali, in una sana democrazia politica ed economica. "Atti sovversivi", nel Paese dei tanti, troppi Cetto Laqualunque nati nella Prima Repubblica del Caf e cresciuti nella Seconda Repubblica berlusconiana. (08 gennaio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/economia/2012/01/08/news/befera_rilancia_serviamo_lo_stato_e_non_ci_fermeremo-27751485/?ref=HREA-1
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« Risposta #236 inserito:: Gennaio 09, 2012, 05:43:37 pm » |
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IL COLLOQUIO Giarda lancia la spending review "Entro gennaio il piano taglia-spese" Il ministro prepara per fine mese il rigore selettivo: si parte da Palazzo Chigi poi tocca ai ministeri. Previsti risparmi tra i cinque e i quindici miliardi di euro di MASSIMO GIANNINI MAI più nuove tasse. Mai più tagli lineari. Se la fase uno del risanamento finanziario è stata incardinata sugli aumenti d'imposta, la fase due ruoterà intorno al "rigore selettivo" nella spesa pubblica. "Entro fine mese - annuncia il ministro Piero Giarda - sarà pronto il piano per la "spending review" e scatteranno i primi interventi di razionalizzazione delle risorse statali". Si parte da Palazzo Chigi, e in primavera toccherà ai ministeri. Un'operazione massiccia, ma "chirurgica". Servirà a superare l'epoca dei colpi d'ascia indiscriminati della gestione Tremonti, che hanno "schiantato l'economia", per passare a interventi tarati con il "bisturi", per eliminare gli sprechi senza deprimere investimenti, consumi e servizi. La "via alta" alla riqualificazione della spesa pubblica, che tentò meritoriamente Tommaso Padoa-Schioppa nel 2008, ma che non potè percorrere fino in fondo a causa della caduta del governo Prodi. Oggi la rilancia Monti, che ha affidato proprio a Giarda, insieme al viceministro dell'Economia Vittorio Grilli, il compito di portare finalmente a compimento quel progetto. Ambizioso. Ai limiti del temerario. Secondo le stime, potrebbe fruttare tra i 5 e i 15 miliardi di risparmi di spesa. "Dipende dall'intensità e dalla serietà che i soggetti interessati dimostreranno". Ma dipende anche da come evolverà il quadro complessivo, non solo italiano, sul quale incombono incognite difficili da calcolare. Secondo Giarda, le "variabili fondamentali" sono essenzialmente due. La prima è l'Europa. "L'obiettivo, in questo momento, è riuscire a convincere l'Unione che i nostri sforzi sono seri e strutturali, e che il vincolo di un rientro del debito pubblico in rapporto al Pil dal 120 al 60% in 20 anni è impensabile. Significa ridurre in misura meccanica il debito di 3 punti di Pil ogni anno, qualunque sia il tasso di crescita dell'economia. Questo è assurdo. Per questo il presidente del Consiglio Monti, nella missione che è iniziata la settimana scorsa con il vertice da Sarkozy e che culminerà con l'Eurogruppo e il vertice dei capi di Stato e di governo di fine mese, cercherà di convincere i partner europei ad accettare l'emendamento all'articolo 4 della bozza di nuovo Trattato intergovernativo". La seconda variabile è la congiuntura. "Parliamoci chiaro - ragiona il ministro - qui si tratta di capire come va l'economia, quest'anno. Se continua il ciclo negativo di questi mesi, nel 2013 il pareggio di bilancio rischiamo di non raggiungerlo. I segnali, purtroppo, sono tutti negativi. Confindustria stima un calo della crescita nell'ordine dell'1,6%. Ora aspettiamo le previsioni di Prometeia. Ma lo scenario non è confortante". La fase due può aiutare il ciclo e invertire la direzione di marcia. "Monti vuole provvedimenti operativi già entro la fine di questo mese. Le liberalizzazioni sono al primo punto dell'agenda. Saranno importanti soprattutto come segnale all'Europa, perché poi bisognerà vedere in concreto quale impulso potranno dare al Pil nel breve periodo, e quale invece nel lungo". L'intera azione di governo ruota intorno a quello che Giarda chiama "lo stramaledetto spread". Se non si riesce a innescare il "circolo virtuoso", abbattendo la curva dei rendimenti e quindi riducendo l'onere per interessi e il costo del debito, allora i sacrifici rischiano di diventare inutili. E le manovre che si susseguono, nel tentativo di trasmettere ai mercati la sensazione di una stabilità di lungo periodo, finiscono per bruciare risorse, deprimere redditi, cancellare posti di lavoro, prosciugare consumi, bloccare investimenti. E alla fine soffocano l'economia reale. Per questo è importante che l'Europa si convinca che quanto abbiamo fatto è il massimo possibile, nelle condizioni date. "I compiti a casa - dice Giarda - li stiamo facendo con impegno e serietà. Altre manovre non vogliamo farne, dopo quella di fine 2011. Altri aumenti di imposta sono impensabili, siamo già al limite adesso", con una pressione fiscale che è arrivata a superare il 46% del Pil. A questo punto, insieme all'auspicata riduzione della spesa per gli interessi sul debito, la chiave del risanamento si chiama "spending review". E in questa "missione" Giarda è davvero il "predestinato". Pur essendo ministro per i Rapporti con il Parlamento, il Professore è forse il massimo esperto della materia. E Monti ha affidato a lui il compito. "Il presidente mi ha chiesto un rapporto complessivo entro la fine di gennaio, e io ci sto lavorando. Ne discuteremo in uno dei prossimi Consigli dei ministri. Si tratta di capire cosa si può fare subito e cosa invece può dare frutti più in là. Non è un compito facile: si tratta di passare dai tagli lineari di Tremonti, di cui ancora dobbiamo capire bene gli effetti, a interventi di riduzione chirurgica della spesa, settore per settore, ministero per ministero". Si parte dal "centro": tra le cose che si possono fare subito, infatti, c'è sicuramente la razionalizzazione delle strutture di Palazzo Chigi, con la soppressione di alcuni uffici e l'accorpamento di alcune direzioni generali. Poi, in primavera, nel quadro del Piano Nazionale di Riforme da presentare a Bruxelles, scatterà la cura più significativa, che riguarda la "periferia" del sistema pubblico, cioè i tagli alle spese e alle forniture dei ministeri. Far dimagrire questo Leviatano di Hobbes è impresa immane, perché il "grasso" non è facile da trovare, e va cercato negli interstizi. "Al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, la nostra spesa pubblica è nella media europea. Ma va resa più efficiente, perché stiamo parlando di denaro che riguarda i servizi al cittadino e il sostegno alle imprese. Noi abbiamo assunto un impegno senza precedenti, nella storia repubblicana: l'invarianza della spesa corrente nel prossimo triennio. L'abbiamo scritto nella Nota di aggiornamento presentata in Parlamento il 4 dicembre: tra 2010 e 2014 prevediamo 726 miliardi di euro di spesa primaria, che è "flat" in termini monetari per l'intero periodo. Calcolando un'inflazione media del 2%, è come se noi riducessimo la spesa pubblica corrente di 2 punti percentuali di qui al 2014. Vuole dire un taglio del 10% in cinque anni. Un'operazione mai tentata prima. Ma non è scontato che ci si riesca. Serve l'impegno di tutti. L'obiettivo finale è quello di far sì che i risparmi prodotti dalla "spending review" sostituiscano i tagli lineari, che tanto male hanno fatto alla nostra economia". Su questo, serve l'impegno rigoroso di tutti. In Parlamento, nel governo, nelle strutture ministeriali, negli enti decentrati. Ma è un tentativo che non può e non deve fallire. "Si tratta di ridurre in modo selettivo la spesa improduttiva, rinunciando una volta per tutte alla scorciatoia del taglio dei fondi per la benzina delle volanti della Polizia o del congelamento degli aumenti contrattuali nel pubblico impiego. Vale la pena, e sa perché? I risparmi fatti finora sono stati ottenuti nel modo più brutale: sospendendo i pagamenti della Pubblica Amministrazione, o tagliando del 20-30% la spesa in conto capitale, cioè gli investimenti. Questo ha avuto una ripercussione micidiale sull'economia e sull'occupazione. Così non possiamo e non vogliamo più andare avanti. Così non torneremo mai sul sentiero della crescita". Per questo la "spending review" è essenziale. Per ragioni tecniche, ma anche e soprattutto per questioni di opportunità politica. La spesa pubblica - sostiene Giarda, esperto e cultore di opera lirica - ricorda la "Anna Bolena di Donizetti, secondo la visione che ne ha il coro di popolo: ora si compone "in un sorriso", ora appare "triste e pallida". La spesa pubblica, cioè, può essere al tempo stesso espressione della coscienza collettiva e ostacolo alla crescita economica. Scelta di democrazia e fonte di pratiche improprie. Sta a noi, d'ora in poi, decidere cosa debba essere". m.giannini@repubblica.it(09 gennaio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/09/news/giarda_spending_review-27785432/?ref=HREA-1
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« Risposta #237 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:11:11 pm » |
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IL COMMENTO La frustrazione e la democrazia di MASSIMO GIANNINI UN BRUTTO giorno per la democrazia. La tentazione di liquidare così la decisione della Consulta sui referendum elettorali c'è, ed è forte. È comprensibile la delusione di quel milione e 217 mila cittadini: pur avendo firmato per l'abrogazione del "Porcellum", ora si sentono defraudati di un diritto che rende unica la nostra Costituzione e deprivati di uno strumento partecipativo che esalta la democrazia diretta. È legittima la "disperanza" di molti altri milioni di italiani: pur non avendo aderito alla raccolta delle firme, guardavano ai quesiti referendari come a una "leva" fondamentale, per sbloccare finalmente le resistenze conservative della famigerata casta, altrimenti immobile e irresponsabile. L'ultima chance per il cambiamento, ancora una volta, è affidata alla credibilità istituzionale e alla persuasione morale del presidente della Repubblica. Tocca di nuovo a Giorgio Napolitano, dopo la decisione della Corte, scuotere i partiti dal torpore, e inchiodarli alle loro responsabilità di fronte al Paese. Il vertice sul Colle con i presidenti di Camera e Senato, e il comunicato ufficiale che ne è scaturito subito dopo la pronuncia dei giudici costituzionali, testimonia l'urgenza di questo impegno che il Capo dello Stato esige adesso dal Parlamento. E conferma che il Quirinale è in campo, anche sul tema della riforma elettorale, e non assisterà in silenzio a questa accidiosa "vacanza" della politica. Ci sarà modo e tempo per riflettere sugli aspetti tecnici che hanno convinto i giudici ad assumere questa decisione. Le ragioni giuridiche che spingevano verso un sì ai quesiti non mancavano. Molti costituzionalisti, in assenza di precedenti specifici che la escludono, ritenevano e ritengono fondata la cosiddetta "reviviscenza" delle norme precedenti a quelle abrogate per via referendaria. Dunque, cancellato il "Porcellum", sarebbe tornato in vita il "Mattarellum". La Consulta, evidentemente, ha raggiunto una conclusione diversa: in caso di abrogazione della legge attuale, la cosiddetta "normativa di risulta" non sarebbe stata né chiara né coerente. E un pericolo di "vuoto normativo", in materia elettorale, non è sostenibile. C'è solo da chiedersi se quello che i giuristi definiscono l'"horror vacui", nel caso concreto, non fosse comunque preferibile all'"orrore puro" costituito dal sistema elettorale vigente. Nel frattempo, si deve comunque rispetto per il verdetto della Corte. La frase è retorica, ma le sentenze si rispettano anche se non si condividono. Noi non la condividiamo, ma non per questo la bolliamo come un "atto di regime", meno che mai riconducibile a una "regia occulta" del Capo dello Stato. Certo, è una "sentenza politica", ma come lo sono tutte quelle che interpretano le leggi, nelle quali si riflette qui ed ora la volontà del popolo sovrano, le inquadrano o le aggiornano al contesto storico e le misurano con i parametri della Costituzione. In questo senso, è possibile che ai margini abbia influito sui giudici un condizionamento meta-giuridico, cioè il sospetto di un qualche legame politico tra l'esistenza del "governo strano" di Monti e la sopravvivenza della legge elettorale più "strana" del mondo. Ma se anche esistesse o fosse esistito, questo è un nesso improprio, che non tiene di fronte a una verifica contro-fattuale. Corte o non Corte, il sistema elettorale vigente resta una vergogna italiana, che ha privato gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti, ed è servito solo a garantire quello che i costituenti di Filadelfia avrebbero definito un vero e proprio "dispotismo elettivo". C'è un nome e cognome, al quale imputare questa vergogna: Silvio Berlusconi, l'ultimo giapponese del "Porcellum". Insieme al povero Bossi, non a caso, è l'unico a dire ancora oggi che quella "è una buona legge". Si capisce perché. La legge-truffa di fine 2005 nasce nel rozzo laboratorio padano di Lorenzago e porta la firma simbolica di Calderoli. Ma origina dal delirio di onnipotenza del Cavaliere, che ne ha bisogno per non perdere le elezioni del 2006 per stravincere quelle del 2008. Questa curvatura personalistica delle regole del gioco elettorale, costruite a misura dell'urgenza politica di un solo uomo, marchia a fuoco le sorti della Seconda Repubblica, e ora rischia di condizionare anche i destini della Terza. Il centrodestra berlusconiano aveva ed ha tuttora l'esigenza di eliminare lo svantaggio competitivo che soffre con il sistema dei collegi uninominali (nelle elezioni del 1996 e del 2001, con il "Mattarellum", ottenne alla Camera un milione e mezzo di voti in meno tra la parte maggioritaria e quella proporzionale). Il pessimo rendimento "coalizionale" di allora (riflesso della scarsa coesione del suo elettorato) è un handicap che il centrodestra non ha mai colmato, ma semmai ha accentuato in questi ultimi anni. Per questo Berlusconi e Bossi, a dispetto delle sortite di propaganda dei figuranti Alfano e Maroni, continuano a preferire il "Porcellum" a qualunque altra formula. Piuttosto che perdere, quell'amalgama mal riuscito di Pdl e Lega preferisce tenersi una legge elettorale schifosa. Un mostro giuridico che, dietro allo specchietto per le allodole di un apparente bipolarismo, produce più frammentazione tra i partiti (rendendo fragile la governabilità in virtù del potere di ricatto attribuito ai "minori") e meno partecipazione tra i cittadini (cancellando il diritto di scegliere i candidati in virtù dell'abominio delle liste bloccate). Questa è la gigantesca ipoteca che grava su quest'ultimo anno e mezzo di legislatura. I partiti convergono, a chiacchiere, sull'urgenza di riformare il sistema. Tutti si accodano ai richiami solenni di Napolitano che, come aveva già fatto nel discorso alle Alte Cariche del 20 dicembre e poi nel messaggio televisivo di Capodanno, frusta i partiti e il Parlamento e li esorta a "non sprecare" il tempo che ci separa dal voto del 2013 per varare le grandi "riforme istituzionali" utili al Paese. Proprio a partire da quella elettorale. Ma le condizioni politiche per riuscirci restano tuttora labilissime. Le proposte non mancano. Dalla porcata di Calderoli si può uscire con l'adesione a un sistema compiutamente proporzionale, attraverso l'abolizione di un assurdo premio di maggioranza, e senza troppi sofismi intorno alle differenze tra modello tedesco o modello spagnolo. Oppure se ne può uscire con l'adesione a un modello compiutamente maggioritario, attraverso la reintroduzione dei collegi uninominali e senza troppi cavilli intorno alle differenze tra modello inglese a un turno o modello francese a due turni. Quello che manca è la convenienza del Cavaliere e la convergenza di tutti su una piattaforma comune e condivisa. La legge Berlusconi-Calderoli è un Frankenstein da abbattere. Oggi, in Occidente, non esistono democrazie consolidate che miscelano sistemi proporzionali e premi di maggioranza. Solo a Malta esiste qualcosa che si avvicina all'obbrobrio italiano. Il Parlamento può ancora sanare questa anomalia. Avrebbe il dovere morale e politico di farlo. Servirebbe un sussulto di dignità e di responsabilità. Un sì della Consulta avrebbe trasformato quel sussulto in un obbligo. Il no lo ridimensiona a una "facoltà". Per questo, purtroppo, il pessimismo della ragione prevale ancora una volta sull'ottimismo della volontà. I partiti italiani, colpevolmente auto-sospesi, sono ridotti a ectoplasma della Repubblica. Il sondaggio di Ilvo Diamanti, uscito su questo giornale lunedì scorso, li retrocede a un miserabile 4% di "indice di fiducia" da parte dei cittadini. In questo clima, come ha avvertito Gustavo Zagrebelsky, la pronuncia della Corte può alimentare la "frustrazione" degli elettori, e ingrossare l'onda già altissima dell'anti-politica. Sta agli eletti decidere se lasciarsi travolgere, o provare a domarla con le riforme. Solo così un brutto giorno per la democrazia potrà trasformarsi nella sua grande occasione. m.giannini@repubblica.it(13 gennaio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/13/news/giannini_referendum-28017890/?ref=HREC1-4
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« Risposta #238 inserito:: Gennaio 21, 2012, 12:16:32 pm » |
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L'EDITORIALE La resistenza del professore di MASSIMO GIANNINI ORA LA FASE DUE è cominciata davvero. Il maxi-decreto sulle liberalizzazioni ha un "valore economico" opinabile. Non sappiamo se davvero potrà far risparmiare 1.800 euro l'anno per ogni famiglia come stima l'Adiconsum, far crescere il Pil dell'1,4% come sostiene il Cermes-Bocconi, far aumentare dell'8% l'occupazione e del 12% i salari reali come prevede la Banca d'Italia. Ma sappiamo che la lenzuolata di Monti e Passera ha una "cifra politica" altissima. Si può discutere finché si vuole sui vuoti e sui pieni di questo provvedimento. Si possono criticare le concessioni sui farmaci e sul commercio, le rinunce sulle reti ferroviarie e sull'agenda digitale, le retromarce sulle assicurazioni e sulle banche: più coraggio non avrebbe guastato. Ma quello che non si può discutere è che per la prima volta, ormai da molti anni, un governo ha l'ambizione di proporre agli italiani una prima "riforma di sistema", improntata ai principi dell'economia liberale. Una riscrittura complessiva delle regole di funzionamento del mercato, incardinata sul primato del cittadino-consumatore, e non sul potere della rendita corporativa. Un colpo d'ala che, per una volta, supera la maledizione che assillava Ugo La Malfa, quando ai tempi della Nota Aggiuntiva sosteneva che "l'Italia fa sempre riforme corporative, quindi fa controriforme". Questa, pur con tutti i suoi limiti, non lo è. Non era affatto scontato che un'operazione di questa portata potesse riuscire a un governo tecnico che attinge la sua forza da una momentanea "convergenza" di sigle, piuttosto che da una strutturale maggioranza di partiti, e che è reduce da una prova difficile come il decreto Salva-Italia, convincente sul piano della quantità ma tutt'altro che esaltante sul piano dell'equità. C'era il rischio, elevatissimo, che il premier fosse costretto a una disonorevole ritirata. E che la sua lenzuolata diventasse un fazzoletto prima ancora di approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri. La Vandea delle grandi e piccole lobby è risuonata da giorni, alta e forte, nelle piazze metropolitane. L'inopinata fuga di notizie sui contenuti del maxi-decreto ha allarmato le segreterie di partito, mai insensibili alle grida di dolore che si levano dalle nicchie protette della società italiana. Le pressioni esterne sono state fortissime, trasformando le liberalizzazioni in un campo di battaglia prima ancora che il testo definitivo approdasse a Palazzo Chigi. La prova sta nella lunga notte di trattative tra ministri e capigruppo, e poi nella maratona di otto ore che si è resa necessaria perché il governo licenziasse il decreto nella sua versione definitiva. Monti ha resistito all'assedio, riducendo al minimo possibile i cedimenti alle piazze e ai palazzi. Il pacchetto di misure per la concorrenza è sicuramente parziale, senz'altro incompleto e mai abbastanza esaustivo. Ma stavolta c'è un fondo di verità nelle parole del premier, quando afferma che "ogni categoria è stata chiamata a uno sforzo di riforma", che "nessuno potrà dire che ce la siamo presa con i Poteri deboli lasciando tranquilli i Poteri forti" e che "scontentiamo tutti nella stessa misura perché in futuro siano tutti più contenti". Su questo decreto Cresci-Italia Monti si giocava e si gioca tutte le sue carte. Se avesse perso questa partita, cedendo dall'inizio all'offensiva delle categorie sociali e finendo stritolato dalla "cinghia di trasmissione" dei partiti, avrebbe firmato il certificato di morte del suo governo. Con la preziosa copertura del presidente della Repubblica, il premier è riuscito invece a reggere l'urto. Ora può giocare le sue carte mantenendo una posizione di forza, sottraendosi ai veti politici e ai ricatti corporativi. Può affrontare la nuova fase della legislatura parlando direttamente al Paese. Aprendo finalmente l'agenda (finora miseramente vuota) della crescita e dello sviluppo. Ha le carte in regola per provarci: il suo governo si dimostra in grado di tentare quella scomposizione e ricomposizione degli interessi diffusi che in una democrazia "normale" spetterebbe ai partiti, ma che i partiti in questo momento non sono in grado di fare. L'intera vita di questo governo si regge sul filo di questo paradosso. Le vicende di questa lenzuolata lo confermano una volta di più. È un'anomalia che andrebbe sanata. Per una prima ragione, che è "congiunturale": il decreto va ora in Parlamento, e sarebbe un suicidio se nella fase di conversione i partiti assecondassero il rituale assalto alla diligenza. Il conflitto sociale che accompagna inevitabilmente il tentativo di modernizzare il Paese non può essere lasciato tutto intero sulle spalle di un "governo strano" e di una "maggioranza riluttante". Per vincere questa battaglia occorrono una totale assunzione di responsabilità sulle singole misure e una piena condivisione sugli obiettivi di fondo. È davvero finita, se il Parlamento di oggi diventa quello che Luigi Einaudi raccontava nel '37: "La borsa nella quale gli avvocati dei grandi capi dell'industria, della finanza, del commercio, della navigazione, dell'agricoltura contrattano i rispettivi privilegi". E poi per una seconda ragione, che è strutturale: l'azione di governo, per quanto o in quanto "supplente", lascia uno spazio enorme alla politica, che deve solo avere il coraggio di prenderselo. Lo invoca Napolitano, che scuote i partiti e inchioda i presidenti delle due Camere a un calendario dei lavori intorno a una nuova legge elettorale che ci consenta di superare l'ignobile "Porcellum". Lo chiede lo stesso Monti, che sollecita i leader della sua impropria e involontaria "Grosse Koalition" a "rafforzare il dialogo", a farlo fruttare e magari a non viverlo come una consultazione carbonara di cui vergognarsi di fronte al proprio elettorato. Ma mentre su questo terreno è possibile trovare d'accordo Bersani e Casini, purtroppo resta in campo, irrisolta, la gigantesca incognita di Berlusconi. La politica, nonostante i suoi bizantinismi, è semplice geometria: non è un caso se, proprio nel giorno in cui il Professore trova una più che accettabile "quadra" sul decreto Cresci-Italia, il Cavaliere torna a palesare uno dei suoi cortocircuiti tra pancia e cervello, oscura la sua vena "di governo" e riscopre la sua vena di lotta. "La cura Monti non funziona": questo dice Berlusconi, dimostrando il suo nervosismo per una stagione che ormai lo vede ai margini, e svelando la debolezza della sua Pdl, che sbiadisce ogni giorno di più dietro l'immagine impalpabile di Alfano. Poi aggiunge: "Presto gli italiani ci richiameranno". L'illusione è dura a morire, anche per il più patetico degli illusionisti. m.giannini@repubblica.it(21 gennaio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/21/news/resistenza_professore-28508798/?ref=HREA-1
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« Risposta #239 inserito:: Gennaio 22, 2012, 10:11:28 am » |
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L'INTERVISTA Passera: "Nostra proposta non si snaturi Ora il piano crescita e lavoro" A colloquio con il ministro dello Sviluppo sul decreto liberalizzazioni e le tappe future del piano di rilancio dell'economia italiana. "In due mesi abbiamo fatto ciò che non era stato fatto in due decenni". "Il cammino per una crescita strutturale è stato tracciato". E avverte: "Guai a pensare che il pericolo sia scampato, sarebbe un tragico errore" di MASSIMO GIANNINI ROMA - "La proposta è questa, e non può essere né annacquata, né snaturata. Ci sono proteste, ma sono convinto che il Paese capirà. Per questo contiamo anche in questo caso sul senso di responsabilità del Parlamento: c'è in gioco un bene comune superiore, che si chiama crescita sostenibile. Perseguiamolo, tutti insieme, andando oltre gli interessi particolari". Nel suo ufficio al ministero dello Sviluppo, Corrado Passera scorre le prime pagine dei giornali, titolate sulla sua "lenzuolata" di liberalizzazioni. "Non lo nego: sono molto soddisfatto, un gran lavoro di squadra. Venerdì è stata una bella giornata, per il governo e per l'Italia". E annuncia le prossime tappe del piano su crescita e lavoro. Un Consiglio dei ministri di otto ore non si ricordava da tempo. Avete litigato di brutto, o avete dovuto arginare le pressioni dei partiti? "Abbiamo semplicemente lavorato a fondo, con la voglia di ciascun ministro di contribuire anche alle proposte non di sua diretta pertinenza. Dopo il decreto Salva-Italia, che doveva fermare la caduta verso il baratro e convincere i mercati e l'Europa sulla nostra determinazione a perseguire il rigore finanziario, abbiamo avviato un grande piano per la crescita. Bisogna fare in modo che l'Italia si apra, come mercato e come società, in settori fino ad oggi rimasti chiusi: dall'energia ai servizi pubblici locali, dal commercio alle professioni. Bisogna dimostrare che questo Paese vuole sbloccare le sue tante paralisi e vuole imboccare il cammino delle riforme. Abbiamo messo in campo un disegno organico e strutturale, che valorizza molto le liberalizzazioni, ma poi si estenderà a tutte le leve dello sviluppo: la riforma del mercato del lavoro e le semplificazioni, le infrastrutture con lo sblocco di altri 5 miliardi di lavori che portano il totale a 20 in meno di due mesi, i 6 miliardi di incentivi Ace e Irap per le imprese che investono e assumono, i 20 miliardi per il fondo di garanzia dei crediti alle pmi. Insomma, non misure estemporanee, ma un insieme di provvedimenti collegati che non si vedevano da tempo". Ma su molti punti serviva più coraggio. Le ferrovie: perché avete rinunciato a intervenire sulla rete? "Non è vero che abbiamo rinunciato. Già nel decreto Salva-Italia, con la creazione dell'Autority per i trasporti, abbiamo creato le garanzie per regolare meglio i rapporti tra chi gestisce la rete e chi offre i servizi. Ma non escludiamo affatto, in futuro, di separare ulteriormente queste due realtà. Approfondiremo con l'Autority, studieremo anche i modelli adottati all'estero. Nessuna scelta è preclusa". Potevate fare di più su assicurazioni e banche. "Considero un bel passo avanti la nuova disciplina sui contratti della Rc auto e sulle agenzie, con l'obbligo di dare raffronti tra offerte di compagnie concorrenti. E cosi pure nel caso di polizze vita per i mutui casa. Quanto alle banche, abbiamo rafforzato i conti correnti di base. Certo, si può sempre fare di più, ma la concorrenza nel credito è già diventata fortissima. La Posta ha dato un grande contributo". Avete ceduto sulle farmacie, rinunciando a liberalizzare i farmaci di fascia C. "Avevamo già provato a varare questa norma, nel primo giro del decreto Salva-Italia. Il Parlamento ha rifiutato, e per questo non l'abbiamo riproposta. Ma abbiamo rilanciato con una norma di portata anche maggiore: 5 mila farmacie in più su 18.000 vuol dire mettere una pressione più forte sui prezzi ai cittadini, anche per i farmaci di fascia A. Non solo: il concorso unico apre il mercato anche a chi non è figlio di farmacisti. Mi pare un enorme passo avanti". Diciamo allora che vi siete arresi alla frangia più dura, quella dei tassisti. "Sui taxi eravamo partiti con idee più larghe. Ma anche qui il compromesso finale è positivo. Non trovo obiettive le critiche dei "benaltristi": non era affatto scontato che riuscissimo ad aprire tante aree di rendita. Tutti gli italiani ne dovranno avere un beneficio tangibile". A proposito di compromessi. La sospensione del beauty contest sulle frequenze tv non è una soluzione minimale? Avreste potuto decidere subito la revoca delle concessioni, nonostante gli attacchi di Mediaset. "Le critiche di Mediaset le ho messe nel conto, ma mi paiono tutto sommato misurate. Sono convinto che la soluzione che abbiamo scelto sia la migliore, e non un escamotage per prendere tempo. Dobbiamo tener conto delle leggi, delle delibere dell'Agcom, delle direttive europee. La sospensione ci consente di decidere alla luce di questi elementi, e senza incappare nelle infrazioni Ue. Abbiamo comunque evitato che un bene pubblico venisse regalato, in un momento in cui chiediamo enormi sacrifici ai cittadini, ad un settore che di frequenze ne ha già moltissime". La lenzuolata l'avete approvata. Ma ora comincia la fase più difficile: la Vandea delle corporazioni, la rivolta dei "100 forconi" che squassa l'Italia. Ne terrete conto? "Speriamo che il fatto di aver chiesto qualcosa a tutti i settori, grandi e piccoli, pubblici e privati, convinca ciascuno ad accettare un pezzo di sacrificio, in nome di un bene comune superiore, cioè la crescita. Le proteste ci sono, le resistenze continueranno. Ma al di là di qualche eccesso, abbiamo anche trovato collaborazione in molte categorie. Mi creda, con il decreto Cresci-Italia abbiamo fatto la cosa giusta. Siamo convinti che una parte rilevante del Paese è con noi: ci saranno pure i "100 forconi", in giro per la penisola, ma ci sono alcuni milioni di cittadini che ci dicono "bene, non vi fermate". Si rendono conto che così, in Italia, non si può più andare avanti. Serve una scossa, e noi stiamo cercando di darla". Oltre alla protesta sociale, c'è il malpancismo politico. La lenzuolata, già criticata prima del varo, va in Parlamento: non teme che i partiti la riducano in stracci? "È vero, nei giorni scorsi c'era chi ci diceva "perché colpisci questa categoria, che fa parte della nostra base elettorale, e non altre?". Ma ora che si vede l'ampiezza e l'equità del nostro intervento riformatore, credo che tutti possano convincersi a sostenerlo. Se mai auspico che dalle Camere ci vengano idee e stimoli ad allargare ulteriormente l'operazione di apertura alla concorrenza". Questo vuole dire che il decreto è immodificabile? Prendere o lasciare? "Valuterà il presidente Monti nelle sedi opportune. Il Parlamento è sovrano, ma questa è la nostra proposta: pensiamo non debba essere né annacquata, né snaturata". Berlusconi freme. Dice "la cura Monti non funziona, presto ci richiameranno". Non è un problema, per voi, questa maggioranza riluttante? "Non sono dentro le vicende del Pdl. In generale, mi pare che i partiti finora non ci abbiano fatto mancare l'appoggio necessario. È ovvio che ci sia qualche disagio di fronte a un governo "strano", come lo ha definito Monti, e a una soluzione istituzionale anomala. L'importante è che il disagio non si traduca in sfiducia". Quindi secondo lei dopo la lenzuolata le elezioni anticipate si allontanano? "Questo non so dirlo. Spero che le forze politiche dimostrino lo stesso senso di responsabilità manifestato finora. Attenzione: in poco tempo abbiamo fatto grandi passi avanti, ma l'Italia resta sempre in "zona mortale": dobbiamo fare ancora molto per convincere i mercati e l'Europa. I primi segnali cominciamo a vederli sullo spread, malgrado un ingiustificato declassamento del rating. Ma guai a pensare che il lavoro sia finito, e che il pericolo sia scampato. Sarebbe un tragico errore". Finora su crescita e occupazione non avete fatto granché. Non state sottovalutando il disagio sociale che cresce, soprattutto tra i giovani? "Intanto, in appena due mesi abbiamo fatto quanto non era mai stato fatto in quasi due decenni. Quanto al disagio sociale, io lo sento e lo vedo, ma credo sia stato sottovalutato da molti negli ultimi anni. Tra disoccupati, inattivi, sottoccupati, stiamo parlando di almeno 6/7 milioni di persone: dobbiamo loro risposte urgenti, e queste risposte arrivano solo con un grande progetto di sistema per far crescere l'economia. Non si crea occupazione senza crescita e da mesi il nostro Paese con mezza Europa è invece in piena recessione". E allora mi dica: qual è il piano? "Il cammino per ricostruire crescita strutturale, a questo punto, l'abbiamo tracciato. Le liberalizzazioni sono un pezzo importante, ma puntiamo a far crescere la competitività delle aziende e la competitività del Sistema-Paese. Per la competitività delle aziende, abbiamo già dato un forte contributo alla crescita dimensionale con l'Irap e l'Ace, faremo proposte con il ministero dell'Università per la formazione e il ridisegno degli incentivi per l'innovazione e la ricerca, rafforzeremo la strumentazione per l'internazionalizzazione coinvolgendo con la nuova Ice le ambasciate e le camere di commercio, porteremo avanti le politiche di riduzione del costo dell'energia, e poi lanceremo la prossima settimana un decreto molto corposo sulla semplificazione, con decine di interventi per snellire gli adempimenti e i costi della burocrazia, e appena possibile, predisporremo un piano per smaltire i pagamenti sospesi della Pubblica Amministrazione". Le imprese aspettano 60-80 miliardi di rimborsi. Perché avete archiviato la norma che prevedeva di restituirli in Bot e Btp? "Non abbiamo archiviato nulla. Intanto nel decreto abbiamo stanziato i primi 5 miliardi per avviare lo smaltimento. Il pagamento in titoli di Stato è una delle ipotesi, ma ce ne sono altre che stiamo valutando. Dobbiamo recepire la direttiva Ue che impone pagamenti entro 30/60 giorni, sia per pubblici che per privati, e dobbiamo abbattere il pregresso in fretta, per aiutare le imprese senza venire meno ai nostri impegni sul rientro del debito pubblico. Garantito, lo faremo". Domani si apre il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro. Lei che ne pensa? "Dobbiamo individuare meccanismi che facilitino l'ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, e che eliminino la piaga del precariato. Sono convinto che al tavolo della trattativa il ministro Fornero troverà la formula più adatta. Nessuna ipotesi deve essere esclusa in via pregiudiziale. Questo vale sia per i modelli contrattuali sia per la flessibilità, in entrata, in uscita e nell'uso degli impianti". Mi sta dicendo che secondo lei si deve discutere anche di articolo 18? "Di articolo 18 in questi giorni si è parlato fin troppo. Io dico solo che dobbiamo far crescere, allo stesso tempo, la produttività dei fattori, il tasso di occupazione e i redditi delle famiglie. Lo spazio per farlo c'è, si tratta solo di volerlo riempire, con il coraggio di innovare e di imparare dalle migliori esperienze internazionali". Ma il metodo della concertazione è finito, con il governo dei tecnici? "Concertazione è un termine che ognuno declina a modo suo. Io sostengo che in momenti di crisi bisogna lavorare tutti insieme, governo e parti sociali, imprese e sindacato. E per esperienza personale aggiungo che farlo con un sindacato forte, e soprattutto unito, è un grande vantaggio e produce grandi risultati". Lei cosa farà, nel 2013? In molti la indicano come il vero "candidato" forte della prossima sfida elettorale, non si sa bene in quale metà del campo. È tentato? "Non voglio essere reticente, ma non so proprio cosa dirle. Io sto facendo il ministro dello Sviluppo. Ho accettato con entusiasmo di partecipare a un progetto fortemente voluto dal presidente Napolitano e dal presidente Monti. Spero solo che funzioni. Tutto il resto si vedrà. Non è la prima volta che lavoro per lo Stato: lo faccio con grande orgoglio". (22 gennaio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/22/news/intervista_passera-28555296/
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