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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 167020 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Febbraio 15, 2010, 04:56:00 pm »

L'ANALISI

L'illusione dell'onnipotenza

di MASSIMO GIANNINI


Prima accecato dai suoi deliri di onnipotenza e poi tradito dalla sua stessa tracotanza, il governissimo Berlusconi-Bertolaso prepara un'indecorosa ritirata. L'insano progetto della Protezione civile Spa, con ogni probabilità, non si farà più. Lo lasciano intendere le flautate ma imbarazzate parole di Gianni Letta. Lo confermano quelle meno paludate di Paolo Bonaiuti. Il decreto legge 90/2008 che trasforma la struttura pubblica creata per fronteggiare le grandi emergenze in una società per azioni di natura privatistica sarà riscritto radicalmente alla Camera. In subordine, sarà approvato a Montecitorio, ma poi sarà abbandonato su un binario morto al Senato.

Nel turbine di uno scandalo nello scandalo (il disossamento di un pezzo dello Stato, nel cuore di una Tangentopoli di appalti truccati, costi gonfiati e favori sessuali prestati) arriva finalmente una buona notizia. Il Leviatano delle Spa pubbliche non nascerà. Il nuovo "mostro" che privatizza le istituzioni, con il finto pretesto delle emergenze e la pratica incontrollata delle ordinanze, muore prima ancora di essere nato. Merito della denuncia di questo giornale, che per primo ha acceso i riflettori sul  tentativo del governo, neanche troppo strisciante, di sospendere ancora una volta le garanzie costituzionali e le procedure legali, per trasformare il Paese in un gigantesco "cantiere" autonomo che lavora in deroga permanente a tutte le regole e le normative vigenti. Merito della reazione determinata di una parte delle opposizioni, che ha dato battaglia in Parlamento. Merito dell'indignazione spontanea di tanti cittadini, a partire dagli oltre 30 mila che in un solo giorno hanno aderito all'appello di "Repubblica", per confermare che c'è almeno un pezzo d'Italia pronta, in nome del senso civico e del dissenso democratico, a resistere alle forzature populiste e autoritarie del potere berlusconiano.

Ora il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha un bel dire che nel centrodestra nessuno pensava di "trasformare la Protezione civile in una spa", e che si voleva dotare l'organismo finora guidato da Bertolaso di "uno strumento ulteriore, aggiuntivo". Il centrodestra, in realtà, aveva in mente esattamente questo: un modello di amministrazione della cosa pubblica, gestita da mani fidate per conto di Palazzo Chigi. Il piano prevedeva prima la nascita della Protezione civile Spa, con budget iniziale stimato in 1 miliardo 607 milioni. Poi, per partenogenesi, anche la Difesa Servizi Spa, con un portafoglio di opere calcolabile in 3-5 miliardi. E così via. In un regime di palese sospensione dei controlli ordinari. E in un quadro di palese violazione della sentenza numero 466 della Consulta, che nel '93 stabilì l'imprescindibilità costituzionale del controllo della magistratura contabile su tutti gli atti di una Spa nella quale il potere pubblico detenga la maggioranza.

Questo disegno (ancora una volta tecnicamente "eversivo", nel solco di quella "rivoluzione istituzionale" propria del berlusconismo) si infrange nella rete micidiale del malaffare che lo stesso sistema tende a riprodurre. Una colossale ragnatela di inchieste vere e di complotti inventati, di intercettazioni e di pedinamenti, di autentiche satrapie e di false fisioterapie. Sembra di leggere "L'incanto del lotto 49". Con una sola, decisiva differenza. Nell'irrealtà virtuale raccontata da Thomas Pynchon erano i cittadini ad aver creato, con il "Trystero", un sistema di comunicazione che ingannava il governo. Nella realtà fattuale costruita da Berlusconi è il governo ad aver creato un sistema di gestione che danneggia la democrazia. Ma almeno stavolta non ha funzionato. Qualcuno li ha sorpresi con le mani nella gelatina.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010)
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« Risposta #106 inserito:: Febbraio 17, 2010, 09:13:22 am »

LO SCENARIO

Mediobanca, Geronzi accelera la successione

di MASSIMO GIANNINI


Tra Roma, L'Aquila e Firenze piccole "mosche del capitale" ronzano sulla gelatina della Protezione civile. Intanto, a Nord, i pezzi grossi del capitalismo si riorganizzano. Nel silenzio discreto dei salotti buoni, l'establishment continua a lavorare alla sua blindatura. Al centro dei giochi, ancora una volta, Cesare Geronzi.

Ieri, a Milano, è stata una vorticosa giornata di incontri. Il presidente di Mediobanca ha ricevuto il ceo del Montepaschi Siena Giuseppe Mussari, appena designato al vertice Abi. Poi ha visto Diego Della Valle, patron del gruppo Tod's, membro del patto di sindacato di Piazzetta Cuccia e consigliere delle Generali. Subito dopo, nel suo ufficio è entrato il costruttore romano Pierluigi Toti, patron della Lamaro e titolare di un 5% della controllata Rcs. Nelle stesse ore, in attesa del faccia a faccia tra lo stesso Geronzi e Giovanni Bazoli (annunciato ieri da Repubblica e poi rinviato) il direttore generale di Mediobanca Renato Pagliaro (che è anche consigliere di Telecom) ha varcato la soglia di Cà de Sass, per un incontro con il ceo di Intesa Corrado Passera.

Che sta succedendo? Le partite in corso sono due. La prima riguarda Telecom, ed è la più complicata viste le difficoltà tecniche sorte intorno alla già decisa fusione con Telefonica, soprattutto a proposito del destino della rete che, se scorporata, ridurrebbe il gruppo italiano a una mezza scatola vuota e renderebbe meno conveniente l'operazione per gli spagnoli. La seconda partita riguarda il futuro prossimo della Galassia del Nord, cioè del centro di potere che ruota sull'asse Mediobanca-Generali, crocevia delle partecipazioni (incrociate e non) tra i maggiori gruppi industrial-finanziari del Paese: da Intesa a Rcs, da Telecom a Unicredit, da Fiat a Pirelli, da Fininvest a Ligresti. Su questo fronte, in queste ore si va consolidando il progettato "arrocco" di Geronzi. Il banchiere di Marino è sempre più in difficoltà per le sue vicende giudiziarie: mercoledì scorso l'ex direttore finanziario di Parmalat Fausto Tonna ha dichiarato in tribunale che il gruppo di Collecchio subì forti pressioni dalla Banca di Roma e dallo stesso Geronzi per acquistare Eurolat dalla Cirio di Sergio Cragnotti. A questo punto il suo trasloco a Trieste, sulla plancia di comando delle Generali, viene dato quasi per sicuro. Il tentativo dell'83enne Antoine Bernheim di resistere ancora per un anno è fallito. Persino Francesco Gaetano Caltagirone, sabato scorso, gli ha dato un "benservito" pubblico. È il segnale che l'operazione Geronzi è partita. In questa chiave vanno letti gli incontri di ieri a Piazzetta Cuccia: il sempiterno Cesarone della finanza nazionale ha avviato la sua "campagna elettorale" con i soci di Mediobanca.

Ma mentre per Geronzi alla guida delle Generali non ci dovrebbero essere problemi, qualche problema c'è per la "subordinata" che i Poteri Forti avevano in mente: Marco Tronchetti Provera presidente di Mediobanca. Su questo ulteriore giro di poltrone c'è più di un intoppo. Il primo intoppo si chiama Alessandro Profumo: il ceo delegato di Unicredit, socio principale con l'8,7% del capitale, ha detto a Milano Finanza sabato scorso che se ci fossero cambiamenti in Piazzetta Cuccia "non staremmo certo a guardare e faremmo valere il nostro ruolo di azionisti". Il secondo intoppo si chiama Mario Draghi: il governatore di Bankitalia non vede con favore il moltiplicarsi dei conflitti di interesse che si produrrebbe con il passaggio del controllato Tronchetti al vertice del controllante Mediobanca. Il terzo intoppo si chiama proprio Tronchetti: interrogato sul tema e fiutata l'aria non proprio favorevole per lui, dice lapidario "sto bene in Pirelli, altre ipotesi non esistono". Così Geronzi, che come dice un'autorevole fonte milanese "non può trasferirsi in Generali e poi prendere ordini da chi lo sostituirà in Mediobanca", avrebbe già preparato un "piano B". Il suo candidato per la poltrona che fu di Cuccia e di Maranghi sarebbe proprio Pagliaro, suo attuale direttore generale a fianco all'amministratore delegato Alberto Nagel nella complessa governance dell'istituto.

Ma anche questa candidatura non è così agevole da far ingoiare a tutti i soci del patto, e più in generale ad un sedicente Gotha finanziario abituato a considerare Mediobanca una "istituzione", che dunque richiede al suo vertice (con tutto il rispetto dovuto a Pagliaro) una figura "di più alto profilo". Così, secondo i rumors, i dubbi del "rito ambrosiamo" sarebbero superati dalle certezze del "rito romano". Se Pagliaro non superasse l'esame dei Poteri Forti, l'alternativa sussurrata in un orecchio allo stesso Geronzi dal suo storico padrino politico Gianni Letta sarebbe Lamberto Cardia. L'attuale presidente della Consob è amico intimo del Gran Ciambellano del berlusconismo. Scade nella prossima primavera, e stavolta gli sarà impossibile farsi allungare ulteriormente il mandato. Sarebbe perfetto, per presunta autorevolezza e per sicura tempistica, per un passaggio a Mediobanca. Chi meglio dell'ex controllore della Borsa italiana, per guidare un gigantesco ircocervo che riassume su di sé il controllo di mezzo listino azionario del Paese?

Un'operazione del genere suggellerebbe quella marcia del potere romano sulle roccaforti del Nord della quale si parla da settimane. Ma come sempre, quando si palesa un'avanzata capitolina del già onnipotente Gianni Letta si innesca subito una resistenza uguale e contraria nella truppa padana del governo. Giulio Tremonti, infatti, sta cercando un posto per Vittorio Grilli, stanco di guerra alla direzione generale del Tesoro. Gli aveva promesso la poltrona di governatore di Bankitalia, in caso di vittoria di Draghi nella corsa per la Bce. Ma non appena l'ipotesi è trapelata Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della Banca centrale europea, ha fatto sapere che, semmai SuperMario raggiungesse l'ambita méta a Francoforte, il soglio di Via Nazionale spetterebbe a lui per ovvie ragioni: dal consiglio Bce, per statuto, non ci si può dimettere se non in presenza di un altro e più alto incarico istituzionale. Per questo, al Divo Giulio di Via XX Settembre sarebbe venuta in mente la suggestione: "dirottare" Grilli su Mediobanca. Il che, per questo capace grand commis dello Stato, sarebbe un fior di dirottamento.

Le manovre sono in pieno corso. Non è ancora certo quale sarà l'esito di questa guerra di posizione. Ma qui, nel campo di Agramante dell'anomalia italiana, si sta consumando l'ultimo, grande scontro di potere che mescola interessi economici e rendite politiche. Comunque vada a finire, sembra chiaro l'"utilizzatore finale": Silvio Berlusconi.

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« Risposta #107 inserito:: Febbraio 23, 2010, 03:01:21 pm »

Nello scandalo della protezione civile è racchiusa la parabola del Pdl una felice e astuta intuizione del capo che ne riflette tutti i limiti

Il partito mai nato

di MASSIMO GIANNINI


NELLA massa gelatinosa dello scandalo sulla Protezione civile è racchiusa la parabola di un partito mai nato.
Invischiato tra le logiche politiche di governo e le pratiche affaristiche del sottogoverno, il Pdl si disvela per quello che era ed è rimasto fin dal giorno della famosa "Rivoluzione del predellino": una felice ed astuta intuizione del Capo, che ne riflette tutti i limiti culturali e ne amplifica tutti i vizi individuali. L'ennesima proiezione avventuristica del solito "partito personale", dalla quale non si è mai generato un vero "personale di partito".

Questo dicono i veleni spurgati dalla ferita aperta nel cuore del potere berlusconiano, che macchiano per la prima volta la camicia bianca immacolata di Gianni Letta. Questo dimostrano le vipere uscite improvvisamente dal nido scoperchiato dalle inchieste delle procure, che si mordono tra loro contendendosi quello che Giuliano Ferrara sul Foglio chiama "l'osso della successione". Questo conferma l'ultimo scontro durissimo tra il premier e Fini, sulla lettura della nuova Tangentopoli, sulla natura delle inchieste giudiziarie in corso, sulla fattura delle cosiddette "liste pulite".

Due anni fa la fusione "a caldo" tra Forza Italia e Alleanza Nazionale fu la cosa giusta da fare. Ma il modo in cui è stata prima concepita e poi gestita testimoniano il sostanziale fallimento al quale stiamo assistendo. In quel pomeriggio freddo di Piazza San Babila, a Milano, Berlusconi si è "annesso" un Fini alle corde, alla vigilia del voto del 13 aprile 2008. L'operazione è riuscita perfettamente dal punto di vista elettorale. Il Partito del Popolo delle Libertà, blindato dal rituale patto di sangue con la Lega di Bossi, ottenne allora un successo clamoroso, con una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana. Si disse allora, giustamente, che il Cavaliere aveva compiuto il suo capolavoro. Dopo quasi quindici anni vissuti pericolosamente, tra populismo mediatico e autoritarismo politico, era finalmente riuscito a cementare un blocco sociale largamente maggioritario nel Paese: una nuova destra. Non ancora risolta. Non del tutto europea.

Ma il dado era tratto, e il cantiere ormai aperto. L'originario "partito di plastica" lasciava il campo a un "partito di ferro", articolato negli organigrammi e radicato nei territori. L'anchorman di Arcore non aveva più solo un suo pubblico, aveva finalmente un suo popolo. Su tutto questo, dopo aver fatto Forza Italia, avrebbe dovuto fare i "suoi" italiani. Moderati e conservatori, ma nel cambiamento. Su tutto questo, in altre parole, avrebbe dovuto costruire un nuovo progetto politico, culturale, identitario. Per poi farlo vivere attraverso l'azione di governo e la comunicazione dei ministri, la formazione dei gruppi dirigenti e la selezione degli apparati locali, l'integrazione tra i ceti sociali e l'interazione con le opinioni pubbliche.

Tutto questo, da quel lontano 18 novembre 2007, è clamorosamente mancato. Aveva ed ha ragione Gianfranco Fini, che già allora e poi al congresso fondativo del Pdl avvertì: non basta uscire dalla casa del padre per dire "abbiamo fatto un partito". A quel partito occorreva ed occorre dare una struttura, un'organizzazione e poi una missione. In una parola: a quel partito bisognava e bisogna dare "un'anima". Se tutto questo manca, un partito muore. Oppure, come nel caso del Popolo delle Libertà, nasce all'anagrafe, ma non alla politica, e meno che mai alla società. O meglio: può anche nascere, può persino sopravvivere, ma a tenerlo in vita non è un disegno unitario, non sono valori comuni e ideali condivisi. È invece nella fase statica la pura giustapposizione degli interessi, e nella fase dinamica la strenua difesa dei medesimi. Ma niente più di questo.

Infatti, oggi, è proprio questo nulla ad essere rivelato tangibilmente, nelle pieghe politiche che hanno mandato in crisi, stavolta sì per via giudiziaria, il governissimo Berlusconi-Bertolaso. E in questo nulla, che sembra preludere o sottintendere quello che i giornali di famiglia chiamano un più o meno strutturale "difetto di conduzione che risale al Principe", deflagrano le guerre intestine, il fuoco amico, le veline al curaro "di chiara fabbricazione interna". Esplodono i conflitti tra sub-potentati nazionali e cacicchi locali, tra potenziali "delfini" e sedicenti "successori". Dalle politiche fiscali alle candidature regionali, dalle nomine nell'establishment alle Spa pubbliche: non c'è fronte aperto, dopo la pubblicazione dei materiali d'indagine delle procure di Firenze o di Roma, sul quale non impazzi la lotta fratricida.

È il tutti contro tutti: Fini contro Berlusconi, Tremonti contro Letta, Ghedini contro Verdini, Cicchitto contro Fitto, Cosentino contro Bocchino. E via a scendere, per li rami di un'improbabile albero "dinastico". Qualcosa di più complesso della semplice "degenerazione cortigiana". E di meno nobile dell'antica dialettica interna ad un vero partito di massa come la Dc, dove i leader si scannavano, ma alla fine trovavano una sintesi, più o meno compromissoria, all'insegna di una constituency visibile, ancorché discutibile: lo statalismo assistenziale, il solidarismo cattolico, l'economia sociale di mercato all'italiana, il proporzionalismo clientelare.

Nel Pdl questi ingredienti sono mancati e mancano in radice. C'è un'altra idea della destra, laica e costituzionale, incarnata dal presidente della Camera. Ma le istanze del "co-fondatore" non hanno diritto di cittadinanza, o sono palesemente ininfluenti perché largamente minoritarie. Per il resto c'è l'anchilosi delle politiche e la paralisi delle culture. Questo centrodestra non offre agli italiani un'idea di Paese possibile. Dal Welfare alle tasse, dalla recessione alle istituzioni, non è in grado di proporre riforme, e meno che mai di attuarle. Tutto si gioca e si consuma nel perimetro asfittico, intermittente e inconcludente del vitalismo leaderistico di Berlusconi, che ormai da tempo regna ma non governa. Mentre, sotto di lui, la corte si dilania.

Da questo punto di vista, lo scandalo della Protezione Civile apre uno squarcio ulteriore, e ancora più inquietante, sul futuro che ci aspetta. Quello che ha innescato, in termini politici, è un'illuminante epifania su ciò che potrebbe accadere (o forse accadrà) nel dopo-Berlusconi. Una scissione atomica, dove le "particelle", piccole o grandi che siano, rischieranno di disperdersi nel caos entropico. Per cui - salvo soluzioni "imperiali" e di matrice cesarista, assurde ma coerenti con la biografia dell'uomo, tipo la figlia Marina - la vera domanda da farsi domani non è tanto "chi", ma "che cosa" succederà a Berlusconi. Quanto all'oggi, non resta che constatare l'insostenibile "acedia del potere berlusconiano" (ancora Il Foglio). Il vero "amalgama mal riuscito" sembra il Pdl, persino più che il Pd.

© Riproduzione riservata (23 febbraio 2010)
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« Risposta #108 inserito:: Febbraio 26, 2010, 12:01:25 pm »

L'analisi.

In alto mare le manovre di Geronzi nella galassia Mediobanca.

E il terremoto dell'indagine affossa la fusione con Telefonica: il gruppo spagnolo frena davanti ai guai giudiziari di Telecom

Vincitori e vinti della banda larga

di MASSIMO GIANNINI


Lo scandalo dei furbetti del telefonino, come quello dei furbetti del quartierino del 2005, avrà effetti pesanti sul sistema economico e sugli assetti di potere. Il terremoto giudiziario ha un epicentro visibile nelle telecomunicazioni, ma i danni collaterali si abbatteranno sull'industria, la finanza, la politica, incidendo su alcune partite strategiche nelle più importanti aziende del Paese.

Quali sono le "vittime" finali dell'inchiesta che, tra il carosello delle frodi, la girandola delle fatture false e il riciclaggio del denaro sporco ad opera del nuovo operatore criminal-telefonico già ribattezzato "'Ndranghetel", ha disvelato un'altra, inguardabile faccia del capitalismo italiano?

L'effetto principale dell'operazione Telefoni Puliti riguarda il futuro prossimo delle telecomunicazioni. E qui a subire un contraccolpo è l'asse Berlusconi-Letta-Geronzi. Fino a pochi giorni fa il destino di Telecom Italia sembrava segnato. Gravato da 35 miliardi di debiti, con un ebitda in calo costante, ricavi da telefonia fissa e mobile in progressivo deterioramento, margini di espansione sui mercati esteri ridotti quasi a zero, il non più glorioso marchio delle tlc italiane era avviato verso un matrimonio forzoso con Telefonica. Per due motivi.

Il primo motivo, più opinabile, era industrial-finanziario. Da mesi gli azionisti italiani del gruppo riuniti insieme agli spagnoli nella holding Telco (cioè Mediobanca, Intesa e Generali) chiedevano all'amministratore delegato Franco Bernabè un piano industriale "di sviluppo". La risposta era sempre stata la stessa: "Dove volete che vada Telecom, che nelle condizioni date ha proprio nell'ingombrantissimo socio estero Telefonica uno dei principali fattori di freno alla crescita del business (vedi Sudamerica)"?

Delle due l'una: o il patto con gli spagnoli si rescinde, ma gli azionisti tricolori devono mettere in conto di perderci una barca di soldi, o si arriva all'integrazione totale, e allora si convola a nozze, lasciando il comando industriale agli spagnoli e il controllo della rete a una newco a prevalenza italiana. Mediobanca propendeva decisamente per la soluzione spagnola. Intesa era più cauta: ancora domenica scorsa una fonte vicina a Cà de Sass ripeteva: "Si farà di tutto per evitare una svendita. C'è chi la vorrebbe, ma prima di arrivarci si possono tentare ancora molte strade...". Alle Generali parevano invece rassegnati alla fusione: "Non c'è entusiasmo, ma non c'è alternativa...", sosteneva una settimana fa una fonte vicina alla compagnia triestina.

Il secondo motivo, più cogente, era politico-affaristico. La fusione con gli spagnoli la voleva fortemente Berlusconi. "Non ci occupiamo di queste cose, siamo un governo liberale", aveva detto il 4 febbraio scorso: in realtà, nonostante queste grottesche rassicurazioni, il premier ha lavorato sodo per assecondarla. Già nel luglio 2008 aveva ricevuto il ceo di Telefonica Cesar Alierta, portato ad Arcore grazie alla mediazione di Alejandro Agag, genero di Aznar. Insieme avevano concordato un percorso a tappe, che in due anni avrebbe portato Telecom nelle braccia degli spagnoli, con una ricca contropartita per il presidente del Consiglio. Nel settembre successivo Alierta era venuto a Roma, per mettere a punto i dettagli con il Cavaliere e Letta a Palazzo Chigi, e poi con Cesare Geronzi nella sede romana di Mediobanca, in piazza di Spagna.

Si trattava solo di chiudere il cerchio con Zapatero, nei mesi successivi. Cosa che era avvenuta nella seconda metà del 2009. Prima al vertice italo-spagnolo della Maddalena, il 10 settembre 2009. Poi alla fine dell'anno: il 15 dicembre Zapatero aveva telefonato a Berlusconi, per augurargli pronta guarigione dopo l'aggressione di Piazza Duomo, e il premier aveva approfittato per annunciargli la visita a Madrid del figlio Piersilvio. Così il 17 dicembre il secondogenito del premier, insieme all'inseparabile Fedele Confalonieri, erano stati ricevuti alla Moncloa, per pattuire la famosa "contropartita": il governo italiano dava via libera agli spagnoli su Telecom, e il governo spagnolo dava via libera al Cavaliere sulle tv spagnole.

Per 1 miliardo di euro Mediaset avrebbe comprato dal gruppo editoriale Prisa, sfiancato dai debiti, la controllata Tv Cuatro, più il 22% della tv satellitare Digital Plus (partecipata, guarda caso, proprio con Telefonica titolare del 21%). Così, insieme a Telecinco (controllata con il 50,1%) il Biscione diventava il primo gruppo europeo nella televisione commerciale. L'annuncio ufficiale è arrivato infatti il giorno dopo l'incontro alla Moncloa, poi suggellato da un'intervista di Piersilvio al Corriere della Sera, il 21 dicembre: "In questa operazione la politica non c'entra nulla, ma certo la Spagna si è dimostrata molto moderna...", aveva detto il figlio del Cavaliere. Tutto sembrava fatto. Ai primi di febbraio Palazzo Chigi manifestava l'intenzione di concludere l'accordo con Telefonica, che Repubblica registrava in anteprima.

Ma a questo punto, dopo la scoperta della "madre di tutte le truffe", la fusione finisce in frigorifero. Come sostiene un autorevole esponente dell'establishment del Nord, "solo un illuso può pensare che Telefonica faccia un'Ops su un gruppo oggetto di indagini così pesanti, costretto addirittura a rinviare la presentazione del bilancio". Risultato: le telecomunicazioni italiane resteranno ancora a lungo in un limbo indefinito, mentre i valori di Borsa continuano a svaporare.

L'effetto secondario dell'inchiesta romana riguarda gli assetti futuri della Galassia del Nord e dei suoi satelliti. Ed anche in questo caso a subire un contraccolpo è di nuovo la filiera Berlusconi-Letta-Geronzi. Per altri due motivi. Il primo motivo riguarda l'organigramma di Piazzetta Cuccia. Lo scandalo telefonico può diventare una pietra tombale definitiva sulle ambizioni di Marco Tronchetti Provera. Il patron della Pirelli, anche se ha smentito l'ipotesi, era in corsa per salire sul trono di Mediobanca, secondo i piani originari di Geronzi, prossimo al trasloco alle Generali. Ma anche l'inchiesta su Sparkle, che parte dal 2003 e si aggiunge a quella sullo spionaggio fatta esplodere da Tavaroli e Cipriani, chiama in causa proprio gli anni della gestione Tronchetti dentro Telecom.

Quell'inciso dell'ordinanza del gip di Roma pesa come un macigno: "C'è con evidenza solare il problema della responsabilità dei dirigenti della capogruppo Telecom: c'è stata totale omissione di controllo oppure piena consapevolezza". A questo punto la "pazza idea" di Cesarone, per la sua successione, non è più percorribile. Dovrà insistere con le alternative: Lamberto Cardia o Vittorio Grilli. Con piena soddisfazione di Alessandro Profumo, pronto a dare battaglia su Mediobanca.

Il secondo motivo riguarda di nuovo Telecom Italia: per le ragioni che abbiamo visto, Geronzi ha ingaggiato da mesi un braccio di ferro sotterraneo con Bernabè. Lo considera troppo ostinato nella strategia dello "stand alone" e troppo pignolo su certe partecipazioni (proprio il caso Sparkle, che Bernabè aveva messo tra le prossime dismissioni necessarie per il gruppo, è una di queste). Ecco perché, secondo i ben informati, l'erede di Cuccia auspicava da tempo un ribaltone ai vertici Telecom: via Bernabè, testardo nella difesa della Telecom attuale, e al suo posto Stefano Parisi, pronto ad aprire la porta agli spagnoli. Anche in questo caso, un avvicendamento studiato con la benedizione del Cavaliere e del suo scudiero Letta, che apprezzano da sempre Parisi, già uomo della presidenza del Consiglio a capo dei dipartimenti Affari economici prima, editoria poi.

Ora, per uno strano scherzo del destino, anche l'amministratore delegato di Fastweb, insieme a Scaglia e Ruggiero, è finito nel tritacarne dell'inchiesta sui furbetti del telefonino. Da indagato, è vero, che oltre tutto si dichiara "parte lesa". Ma anche in questo caso le sue aspirazioni, e quelle di chi lo sosteneva nella sua corsa, risultano momentaneamente vanificate. Con parziale soddisfazione di Bernabè, che a questo punto può riprendere fiato nella sua guerriglia interna all'azienda. E di Corrado Passera, che in Telco è il più convinto sostenitore di un "piano B" per Telecom, analogo a quello che Intesa costruì per Alitalia. Ma fino a quando reggeranno, tra queste macerie, le telecomunicazioni italiane? Aspettavamo da tanto tempo la "banda larga". Ma non era quella scoperta dalla Procura di Roma.

m.giannini@repubblica.it
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« Risposta #109 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:07:31 am »

IL COMMENTO

Il vuoto al potere

DI MASSIMO GIANNINI

LA DEMOCRAZIA è in pericolo, tuonano le corti berlusconiane di fronte alla bocciatura dei listini di Roberto Formigoni e di Renata Polverini decretata dalle Corti d'appello di Milano e di Roma. Certo, una tornata decisiva di consultazioni regionali dalla quale mancasse l'insegna del partito di maggioranza relativa in Lombardia e nel Lazio sarebbe un test elettorale assai incompleto e incomprensibile. Ma nell'attesa che i tribunali amministrativi dicano l'ultima parola sui ricorsi presentati dal Pdl, e al di là delle complicate valutazioni giuridiche del caso, una considerazione politica si può e si deve trarre.

In base a quanto si è visto in questi mesi e in questi giorni, ad essere in pericolo non è la vita della democrazia, ma piuttosto la sopravvivenza del Pdl. Cos'altro è questa farsesca tragicommedia delle liste, taroccate o presentate fuori tempo massimo, se non la plastica dimostrazione di un partito che sta morendo in culla? Cos'altro dicono le convulsioni e i veleni interni al mistico Popolo delle libertà, se non il dilettantismo e l'avventurismo di un esperimento identitario che non ha funzionato perché in realtà (come avevamo scritto su questo giornale la settimana scorsa) un centrodestra italiano moderato e moderno non è mai nato, né dal punto di vista politico né dal punto di vista culturale?

Secondo la bugiarda vulgata berlusconiana, dagli anni Novanta in poi i "comunisti" hanno usato le toghe "rosse" per liquidare la vecchia Cdl per via giudiziaria: pm invasati, pool milanesi esagitati, e così via sragionando. Adesso gli stessi "comunisti" starebbero usando le toghe "grigie" per liquidare il nuovo Pdl per via amministrativa: discreti magistrati di Corte d'appello, anonimi giudici di Tar, e via sproloquiando. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Quello che il Cavaliere non dice, e i suoi scudieri non ammettono, è che questa volta non reggono il teorema dell'opposizione barricadera e dei pubblici ministeri torquemadisti né la teoria del "nemico esterno".

Stavolta, molto più semplicemente, questo centrodestra si sta auto-liquidando per via politica. Questa è la pura e semplice verità, disvelata in modo quasi grottesco dal patetico autodafé politico in cui sono involontariamente incappati Formigoni e Polverini. La crisi è tutta interna al Pdl, e nemmeno il collante puramente ideologico del berlusconismo di guerra sembra più reggere. Dal trionfale successo del 13 aprile 2008 in poi, archiviata in troppa fretta la sorprendente parentesi da "federatore" della destra e da "uomo di Stato" dei primi due mesi, il premier si è illuso di poter affrontare e risolvere l'intera legislatura sull'onda del suo autoritarismo populista e plebiscitario. Lui è il "messaggio", tutto il resto non conta niente. L'intera proiezione del governo si esaurisce nell'esibizione della forza e nella manipolazione della propaganda. L'intendenza seguirà, come diceva il generale De Gaulle. Ma questa è la gigantesca, miope illusione, che oggi si infrange e va in frantumi per una banale questione di firme e di timbri. Se non c'è la politica, oltre i decreti urgenti, le ordinanze in deroga e i sondaggi confidenti, l'intendenza non segue affatto. Semmai si auto-tutela, quando addirittura non si auto-distrugge, come dimostrano i sospetti e i veleni che si consumano nella Capitale sulle candidature, tra le correnti  forziste e i luogotenenti finiani.

E senza una solida struttura politica basta una risibile stortura burocratica per smascherare un bluff, per capire che il partito di plastica non è diventato di ferro, e insomma per accorgersi che il re è nudo. Su questo limite genetico dovrebbe riflettere il premier. Su questo deficit originario dovrebbero interrogarsi i suoi accoliti, invece di attaccare e delegittimare l'unico che l'ha capito fin dal primo giorno, cioè il presidente della Camera Gianfranco Fini. Rischia di essere tardi, adesso. Come diceva ieri un ministro, "ormai siamo al capolinea, il Pdl così non regge più e presto ognuno di noi tornerà a fare il mestiere che faceva prima...". Come dire: l'amalgama Forza Italia-An rischia di sciogliersi per sempre. E serve a poco urlare contro i sedicenti "furbi" che vorrebbero alterare il risultato delle elezioni (come fa il ministro per la Semplificazione) o invocare improbabili "prove di forza" (come fa la candidata del Lazio). I "furbi" di Calderoli non esistono: sono fantasmi evocati per confondere e intorbidare le acque. E la "piazza" della Polverini è a dir poco surreale: contro chi marcia, stavolta, il vasto Popolo delle libertà? Contro il Tar del Lazio? Viene da sorridere, solo a pronunciare lo slogan. Senza contare, da ultimo, che i giudici amministrativi applicano, come sempre, solo le regole. E quelle sì, assicurano la vita della democrazia.

Ma questo resta un arcano troppo complesso da far capire a Silvio Berlusconi. Fin dalla sua epica "discesa in campo", il Cavaliere concepisce la democrazia come pura estensione della sua signoria.
(m.giannini@repubblica.it)

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« Risposta #110 inserito:: Marzo 09, 2010, 08:10:55 am »

L'amarezza del presidente emerito della Repubblica Ciampi

"Aberrante episodio di torsione del sistema democratico"

"E' il massacro delle istituzioni ora proteggiamo il Quirinale"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos'altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: "La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...". Ancora una volta, l'ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l'ultimo, "aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico". Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all'ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: "È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...", dice.

Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: "Il risultato, in teoria, sarebbe l'invalidazione dell'intero risultato elettorale. Il rischio c'è, purtroppo. C'è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...". Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l'avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente "interpretativo", ma in realtà effettivamente "innovativo" della legislazione elettorale.

Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: "Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell'irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...". Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo "scempio". Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: "Queste sono cose dette un po' a sproposito". Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull'inquilino del Colle dall'Idv: "Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell'interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".

Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: "Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l'opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l'aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano". I risultati sono sotto gli occhi di tutti: "Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all'integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l'Italia".

Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? "Vede  -  osserva Ciampi  -  proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell'amore per la civiltà, di quell'attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l'esatto opposto". Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l'essenza del berlusconismo  -  secondo l'ex capo dello Stato - "è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese". Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l'antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli "ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini", e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, "non mollare", poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre "resistere, resistere, resistere".

Oggi l'ex presidente torna su queste "urgenze morali", per ribadire che servono ancora tanti "atti di coraggio", se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. "I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni". Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della "palese incostituzionalità" che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull'ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni "no" pesantissimi.

Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di "pedagogia repubblicana", necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. "Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l'Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E' molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d'animo, e soprattutto non deve smettere di lottare". Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: "Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...", dice. Ma chissà: magari con vent'anni di meno ci sarebbe andato anche lui.

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« Risposta #111 inserito:: Marzo 11, 2010, 09:02:38 am »

L'EDITORIALE

Il potere irresponsabile

di MASSIMO GIANNINI

Dall'abuso al "sopruso". Dalle regole violate alle "violenze subite". La vera "lezione" che il presidente del Consiglio ha impartito all'Italia democratica (e non certo alla inesistente "sinistra sovietica") è stata esattamente questa: l'ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono "colpevoli" i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.

Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l'ha varato, ma i legulei "formalisti" del Tar che l'hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l'hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l'hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo "statista" Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l'intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).

Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l'apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L'importante è mischiare le carte, e confondere l'opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.

Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata "arte della contraffazione" manca un elemento essenziale: l'inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima "versione dei fatti" (che ovviamente scagiona gli eroici "militi azzurri" e naturalmente condanna la "gazzarra radicale") stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.

Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione "entro le ore 12 del 27 febbraio 2010". Non solo la famosa "scatola rossa" con le firme è stata "riscontrata" solo alle ore 18 e 30. Ma all'interno di quel vero e proprio "pacco", come scrive il Tar, "non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge". Né "l'atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un'analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l'indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista...".

E così via, una manchevolezza dietro l'altra. "Formalismo giudiziario"? "Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia", come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l'evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla "violazione della legge", alla "penalizzazione ingiusta", addirittura al "sopruso violento". E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j'accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti "sabotatori". I presupposti, se l'accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.

Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell'Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all'aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista "villano e spettinato" e il malmostoso vittimismo riversato contro la "sinistra antidemocratica", lui stesso deve ammettere che "i cittadini sono stanchi" di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d'ora a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all'arditismo, tipici dell'uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all'appello formulato a più voci sulla stampa "cognata": quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.

È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L'intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l'azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l'Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all'assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un'alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
 

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« Risposta #112 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:28:24 am »

Il Quirinale studia il testo ma l'orientamento è di rinviarlo alle Camere

Non convince l'accordo raggiunto fra governo, Confindustria, Uil e Cisl

Lavoro, il no di Napolitano alla legge anti articolo 18

di MASSIMO GIANNINI


"PERTINI non avrebbe firmato", c'era scritto su una decina di magliette fuori ordinanza, esibite sabato scorso, alla manifestazione viola sulle regole. Di fronte a questi sia pure isolati episodi di "fuoco amico", si può immaginare lo stato d'animo di Giorgio Napolitano. Non solo irritazione, ma anche indignazione. Proprio nelle stesse ore, infatti, il presidente della Repubblica sta meditando seriamente di rinviare alle Camere una delle ultime leggi volute dal governo. Si tratta del famigerato ddl 1167-B, quello che introduce la possibilità preventiva di ricorrere all'arbitro, invece che al giudice, in caso di controversie di lavoro.

In quel testo, approvato definitivamente dal Senato la scorsa settimana, c'è una norma che rischia di cambiare radicalmente il profilo del nostro diritto del lavoro, e il suo sistema di garanzie. Dall'articolo 31 in poi c'è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. In sostanza, modificando l'articolo 412 del codice di procedura civile, si prevedono due possibilità alternative per la risoluzione dei conflitti: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. L'innovazione principale è che già al momento della firma del contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, al lavoratore potrebbe essere proposto (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto futuro con l'azienda le parti si affideranno a un arbitro, e non a un giudice. Ebbene questa legge, che il Capo dello Stato ha già visionato sommariamente, suscita in lui forti perplessità. La sta esaminando insieme al "nucleo di valutazione" del Colle, formato da Salvatore Sechi, Donato Marra e Loris D'Ambrosio. Non ha ancora preso una decisione definitiva. Ma, allo stato attuale, sembra intenzionato a non firmare la legge. E a rinviarla al Parlamento con messaggio motivato, per una nuova deliberazione. Secondo i poteri che gli assegna l'articolo 74 della Costituzione e che può attivare anche per provvedimenti non necessariamente inficiati da "vizi palesi" di legittimità costituzionale.

La norma è stata già contestata dalla Cgil. Guglielmo Epifani la considera uno strumento che aggira le tutele previste dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. "Quel testo - osserva - viola chiaramente la Costituzione, e noi siamo pronti a fare ricorso alla Consulta". Non a caso la Cgil ha posto anche questa "aggressione ai diritti dei lavoratori" al centro del suo sciopero di venerdì scorso. Il ragionamento di Epifani è semplice: l'arbitrato è un istituto assai meno garantista per il lavoratore, rispetto alla tutela giurisdizionale assicurata da un magistrato della Repubblica. Oltretutto, se l'opzione per la via arbitrale gli viene prospettata all'atto dell'assunzione, tanto più in una fase di drammatica crisi occupazionale, il lavoratore rischia di essere esposto ad un "ricatto" implicito, che lo coglie nel momento della sua massima debolezza negoziale.
Per questo la Cgil va avanti con il suo appello già firmato da giuslavoristi come Luciano Gallino, Umberto Romagnoli, Massimo Paci, Tiziano Treu e giuristi come Massimo Luciani e Andrea Proto Pisani. E per questo, proprio lunedì della scorsa settimana una delegazione della sinistra guidata da Paolo Ferrero è salita al Quirinale, per chiedere al presidente della Repubblica di respingere l'ennesimo "schiaffo" ai diritti costituzionali. Napolitano ha preso immediatamente a cuore la questione. Forse anche per queste ragioni il ministro del Welfare Sacconi si è affrettato a gettare acqua sul fuoco: "Il diritto sostanziale del lavoro, incluso l'articolo 18 dello Statuto, non è stato minimamente toccato". Per prevenire possibili censure di costituzionalità al provvedimento, e per "disarmare" l'offensiva di Epifani, il governo giovedì scorso ha anche raggiunto un "avviso comune" con gli altri sindacati, Cisl e Uil, e con la Confindustria: "Le parti - si legge nella dichiarazione congiunta - riconoscono l'utilità dell'arbitrato, scelto liberamente e in modo consapevole, in quanto strumento idoneo a garantire una soluzione tempestiva delle controversie in materia di lavoro a favore delle effettività, delle tutele e della certezza del diritto... e si impegnano a definire con tempestività un accordo interconfederale, escludendo che il ricorso delle parti alle clausole compromissorie poste al momento dell'assunzione possa riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro".
Il governo, insomma, ha cercato di giocare d'anticipo. Ma quanto vale un accordo "restrittivo" tra le categorie produttive (e neanche tutte), rispetto a una norma di legge che in linea teorica non pregiudica comunque il ricorso all'arbitrato, in aggiramento dell'articolo 18 e all'atto dell'assunzione? Questo è il dubbio, sul quale si sta esercitando il Colle nell'esame del testo della legge. Un dubbio che è largamente suffragato dai pareri di giuristi e dai costituzionalisti. Come Mario Dogliani, professore emerito di diritto costituzionale all'Università di Torino: "La legge presenta rischi evidentissimi. Se il lavoratore, al momento dell'assunzione, sceglie le modalità con cui il trattamento di fine rapporto verrà effettuato, è chiaro che la tutela legislativa viene svuotata. Il rapporto di lavoro è tutelato, in Italia, dalla legge in primis, quindi dalla legge di fronte a un giudice. Con le nuove norme si può escludere questo tipo di tutela. Mentre il giudice è un soggetto garantito dalla legge, l'arbitro applica principi di giustizia indipendentemente da ciò che stabilisce la legge".
O come Luigi Ferrajoli, docente di teoria generale del diritto all'Università Roma Tre: "Ci sono almeno due profili di incostituzionalità. Il primo è la violazione dell'articolo 24, che stabilisce "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Si tratta di un diritto fondamentale, inalienabile e indisponibile, che la nuova legge viola palesemente, portando un colpo non solo all'articolo 18 ma all'intero diritto del lavoro. Il secondo profilo di incostituzionalità è contenuto nell'articolo 32 della legge, che vincola il giudice a un mero controllo formale sul "presupposto di legittimità" delle clausole generali e dei provvedimenti dei datori di lavoro, escludendone "il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro". Anche qui c'è una forte riduzione degli spazi della giurisdizione e quindi del diritto dei lavoratori alla tutela giudiziaria. È una chiara violazione, oltre che dell'articolo 24 della Costituzione, anche dell'articolo 101, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge". O ancora come Piergiovanni Alleva, docente di diritto del lavoro all'Università Politecnico delle Marche: "Certamente questa legge non è costituzionale". O infine come Tiziano Treu: "Nel settore privato un arbitrato senza regole affidate al singolo è contrario ai principi costituzionali di tutela del lavoro, connessi agli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione. Nel settore pubblico l'arbitrato libero viola l'articolo 97 della Costituzione, perché l'arbitro potrebbe decidere addirittura su assunzioni e promozioni, al di fuori delle regole del concorso pubblico".
Insomma, nel dossier allo studio del Quirinale le opinioni critiche dei giuristi sono tante, e tutte ben argomentate. E non manca, ovviamente, anche un'antologia della giurisprudenza costituzionale. Per esempio una sentenza della Consulta, la 232 del 6-10 giugno 1994: "Come in più occasioni stabilito da questa Corte (da ultimo sentenze n.206 e n. 49 del 1994) l'istituto dell'arbitrato non è costituzionalmente illegittimo, nel nostro ordinamento, esclusivamente nell'ipotesi in cui ad esso si ricorra per concorde volontà delle parti... In tutti gli altri casi... ci si pone in contrasto con l'articolo 102 primo comma della Costituzione, con connesso pregiudizio del diritto di difesa di cui all'articolo 24 della stessa Costituzione". Appunto: nel caso della legge appena approvata il problema è il seguente: se è vero che al momento dell'assunzione il consenso congiunto delle parti sulla via arbitrale ci sarebbe (ancorché condizionato dalla posizione di oggettiva debolezza del lavoratore) è legittimo trasformarlo in un'ipoteca sulle scelte future, precludendo per sempre al lavoratore la via giurisdizionale?
Questi sono i quesiti che potrebbero spingere Napolitano a decidere un rinvio della legge. Sul tema del lavoro, e della difesa dei lavoratori, il Capo dello Stato ha fatto sentire più volte la sua voce: "C'è ragione di essere seriamente preoccupati per l'occupazione, per le condizioni di chi lavora e di chi cerca lavoro... Mi sento perciò vicino ai lavoratori che temono per la loro sorte... così come ai giovani precari che vedono con allarme avvicinarsi la scadenza dei loro contratti, temendo di restare senza tutela. Parti sociali, governo e Parlamento dovranno farsi carico di questa drammatica urgenza, con misure efficaci ispirate a equità e solidarietà... Dalla crisi deve, e può uscire un'Italia più giusta... ". Il presidente l'aveva detto nel messaggio di auguri agli italiani, alla fine dello scorso anno. Il rovello giuridico e politico che lo tormenta, oggi, è proprio questo: la nuova legge sull'arbitrato rientra nelle "misure efficaci ispirate a equità e solidarietà" che lui stesso aveva auspicato? Ed è da norme come quella che può venir fuori "un'Italia più giusta"?. Questione di ore, e lo capiremo. Ma allo stato attuale il presidente una risposta sembra se la sia già data. E quella risposta è no.


m.giannini@repubblica.it

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« Risposta #113 inserito:: Marzo 16, 2010, 08:49:24 am »

Il Quirinale studia il testo ma l'orientamento è di rinviarlo alle Camere

Non convince l'accordo raggiunto fra governo, Confindustria, Uil e Cisl

Lavoro, il no di Napolitano alla legge anti articolo 18

In mattinata la nota del Colle. Ecco la risposta di Repubblica

di MASSIMO GIANNINI


"PERTINI non avrebbe firmato", c'era scritto su una decina di magliette fuori ordinanza, esibite sabato scorso, alla manifestazione viola sulle regole. Di fronte a questi sia pure isolati episodi di "fuoco amico", si può immaginare lo stato d'animo di Giorgio Napolitano. Non solo irritazione, ma anche indignazione. Proprio nelle stesse ore, infatti, il presidente della Repubblica sta meditando seriamente di rinviare alle Camere una delle ultime leggi volute dal governo. Si tratta del famigerato ddl 1167-B, quello che introduce la possibilità preventiva di ricorrere all'arbitro, invece che al giudice, in caso di controversie di lavoro.

In quel testo, approvato definitivamente dal Senato la scorsa settimana, c'è una norma che rischia di cambiare radicalmente il profilo del nostro diritto del lavoro, e il suo sistema di garanzie. Dall'articolo 31 in poi c'è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. In sostanza, modificando l'articolo 412 del codice di procedura civile, si prevedono due possibilità alternative per la risoluzione dei conflitti: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. L'innovazione principale è che già al momento della firma del contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, al lavoratore potrebbe essere proposto (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto futuro con l'azienda le parti si affideranno a un arbitro, e non a un giudice. Ebbene questa legge, che il Capo dello Stato ha già visionato sommariamente, suscita in lui forti perplessità. La sta esaminando insieme al "nucleo di valutazione" del Colle, formato da Salvatore Sechi, Donato Marra e Loris D'Ambrosio. Non ha ancora preso una decisione definitiva. Ma, allo stato attuale, sembra intenzionato a non firmare la legge. E a rinviarla al Parlamento con messaggio motivato, per una nuova deliberazione. Secondo i poteri che gli assegna l'articolo 74 della Costituzione e che può attivare anche per provvedimenti non necessariamente inficiati da "vizi palesi" di legittimità costituzionale.

La norma è stata già contestata dalla Cgil. Guglielmo Epifani la considera uno strumento che aggira le tutele previste dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. "Quel testo - osserva - viola chiaramente la Costituzione, e noi siamo pronti a fare ricorso alla Consulta". Non a caso la Cgil ha posto anche questa "aggressione ai diritti dei lavoratori" al centro del suo sciopero di venerdì scorso. Il ragionamento di Epifani è semplice: l'arbitrato è un istituto assai meno garantista per il lavoratore, rispetto alla tutela giurisdizionale assicurata da un magistrato della Repubblica. Oltretutto, se l'opzione per la via arbitrale gli viene prospettata all'atto dell'assunzione, tanto più in una fase di drammatica crisi occupazionale, il lavoratore rischia di essere esposto ad un "ricatto" implicito, che lo coglie nel momento della sua massima debolezza negoziale.
Per questo la Cgil va avanti con il suo appello già firmato da giuslavoristi come Luciano Gallino, Umberto Romagnoli, Massimo Paci, Tiziano Treu e giuristi come Massimo Luciani e Andrea Proto Pisani. E per questo, proprio lunedì della scorsa settimana una delegazione della sinistra guidata da Paolo Ferrero è salita al Quirinale, per chiedere al presidente della Repubblica di respingere l'ennesimo "schiaffo" ai diritti costituzionali.

Napolitano ha preso immediatamente a cuore la questione. Forse anche per queste ragioni il ministro del Welfare Sacconi si è affrettato a gettare acqua sul fuoco: "Il diritto sostanziale del lavoro, incluso l'articolo 18 dello Statuto, non è stato minimamente toccato". Per prevenire possibili censure di costituzionalità al provvedimento, e per "disarmare" l'offensiva di Epifani, il governo giovedì scorso ha anche raggiunto un "avviso comune" con gli altri sindacati, Cisl e Uil, e con la Confindustria: "Le parti - si legge nella dichiarazione congiunta - riconoscono l'utilità dell'arbitrato, scelto liberamente e in modo consapevole, in quanto strumento idoneo a garantire una soluzione tempestiva delle controversie in materia di lavoro a favore delle effettività, delle tutele e della certezza del diritto... e si impegnano a definire con tempestività un accordo interconfederale, escludendo che il ricorso delle parti alle clausole compromissorie poste al momento dell'assunzione possa riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro".

Il governo, insomma, ha cercato di giocare d'anticipo. Ma quanto vale un accordo "restrittivo" tra le categorie produttive (e neanche tutte), rispetto a una norma di legge che in linea teorica non pregiudica comunque il ricorso all'arbitrato, in aggiramento dell'articolo 18 e all'atto dell'assunzione? Questo è il dubbio, sul quale si sta esercitando il Colle nell'esame del testo della legge. Un dubbio che è largamente suffragato dai pareri di giuristi e dai costituzionalisti. Come Mario Dogliani, professore emerito di diritto costituzionale all'Università di Torino: "La legge presenta rischi evidentissimi. Se il lavoratore, al momento dell'assunzione, sceglie le modalità con cui il trattamento di fine rapporto verrà effettuato, è chiaro che la tutela legislativa viene svuotata. Il rapporto di lavoro è tutelato, in Italia, dalla legge in primis, quindi dalla legge di fronte a un giudice. Con le nuove norme si può escludere questo tipo di tutela. Mentre il giudice è un soggetto garantito dalla legge, l'arbitro applica principi di giustizia indipendentemente da ciò che stabilisce la legge".

O come Luigi Ferrajoli, docente di teoria generale del diritto all'Università Roma Tre: "Ci sono almeno due profili di incostituzionalità. Il primo è la violazione dell'articolo 24, che stabilisce "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Si tratta di un diritto fondamentale, inalienabile e indisponibile, che la nuova legge viola palesemente, portando un colpo non solo all'articolo 18 ma all'intero diritto del lavoro. Il secondo profilo di incostituzionalità è contenuto nell'articolo 32 della legge, che vincola il giudice a un mero controllo formale sul "presupposto di legittimità" delle clausole generali e dei provvedimenti dei datori di lavoro, escludendone "il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro". Anche qui c'è una forte riduzione degli spazi della giurisdizione e quindi del diritto dei lavoratori alla tutela giudiziaria. È una chiara violazione, oltre che dell'articolo 24 della Costituzione, anche dell'articolo 101, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge". O ancora come Piergiovanni Alleva, docente di diritto del lavoro all'Università Politecnico delle Marche: "Certamente questa legge non è costituzionale". O infine come Tiziano Treu: "Nel settore privato un arbitrato senza regole affidate al singolo è contrario ai principi costituzionali di tutela del lavoro, connessi agli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione. Nel settore pubblico l'arbitrato libero viola l'articolo 97 della Costituzione, perché l'arbitro potrebbe decidere addirittura su assunzioni e promozioni, al di fuori delle regole del concorso pubblico".

Insomma, nel dossier allo studio del Quirinale le opinioni critiche dei giuristi sono tante, e tutte ben argomentate. E non manca, ovviamente, anche un'antologia della giurisprudenza costituzionale. Per esempio una sentenza della Consulta, la 232 del 6-10 giugno 1994: "Come in più occasioni stabilito da questa Corte (da ultimo sentenze n.206 e n. 49 del 1994) l'istituto dell'arbitrato non è costituzionalmente illegittimo, nel nostro ordinamento, esclusivamente nell'ipotesi in cui ad esso si ricorra per concorde volontà delle parti... In tutti gli altri casi... ci si pone in contrasto con l'articolo 102 primo comma della Costituzione, con connesso pregiudizio del diritto di difesa di cui all'articolo 24 della stessa Costituzione". Appunto: nel caso della legge appena approvata il problema è il seguente: se è vero che al momento dell'assunzione il consenso congiunto delle parti sulla via arbitrale ci sarebbe (ancorché condizionato dalla posizione di oggettiva debolezza del lavoratore) è legittimo trasformarlo in un'ipoteca sulle scelte future, precludendo per sempre al lavoratore la via giurisdizionale?

Questi sono i quesiti che potrebbero spingere Napolitano a decidere un rinvio della legge. Sul tema del lavoro, e della difesa dei lavoratori, il Capo dello Stato ha fatto sentire più volte la sua voce: "C'è ragione di essere seriamente preoccupati per l'occupazione, per le condizioni di chi lavora e di chi cerca lavoro... Mi sento perciò vicino ai lavoratori che temono per la loro sorte... così come ai giovani precari che vedono con allarme avvicinarsi la scadenza dei loro contratti, temendo di restare senza tutela. Parti sociali, governo e Parlamento dovranno farsi carico di questa drammatica urgenza, con misure efficaci ispirate a equità e solidarietà... Dalla crisi deve, e può uscire un'Italia più giusta... ". Il presidente l'aveva detto nel messaggio di auguri agli italiani, alla fine dello scorso anno. Il rovello giuridico e politico che lo tormenta, oggi, è proprio questo: la nuova legge sull'arbitrato rientra nelle "misure efficaci ispirate a equità e solidarietà" che lui stesso aveva auspicato? Ed è da norme come quella che può venir fuori "un'Italia più giusta"?. Questione di ore, e lo capiremo. Ma allo stato attuale il presidente una risposta sembra se la sia già data. E quella risposta è no.


La nota del Quirinale. Questa mattina intorno alle 11, il Quirinale ha diffuso il seguente comunicato: ""E' priva di fondamento l'indiscrezione di stampa secondo la quale il Presidente della Repubblica avrebbe già assunto un orientamento a proposito della promulgazione del disegno di legge 1167-B approvato dal Parlamento".

"Il Capo dello Stato, nel rigoroso esercizio delle sue prerogative costituzionali, esamina il merito di questo come di ogni altro provvedimento legislativo con scrupolosa attenzione e nei tempi dovuti; e respinge ogni condizionamento che si tenda a esercitare nei suoi confronti anche attraverso scoop giornalistici".


La risposta di Massimo Giannini.  Dopo aver letto la nota del Quirinale, in cui si definiscono "false indiscrezioni" le notizie riportate nel mio articolo odierno sui dubbi del presidente Napolitano in merito alla legge che "aggira" l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, mi premono due rispettose ma doverose precisazioni.

1) La forte contrarietà del Capo dello Stato al testo che era all'esame del Senato mi è stata riferita personalmente da una fonte autorevole, che aveva parlato con il presidente della questione all'inizio della scorsa settimana.

2) Dopo i necessari approfondimenti politici e giuridici sul tema, prima di completare la stesura del mio articolo e di metterlo in pagina, ieri sera alle 20,30 ho verificato quanto stavo scrivendo con un'altra fonte, questa volta del Quirinale, e dunque ufficiale e diretta, che mi ha illustrato al telefono gli orientamenti del Colle in materia.
Dunque, con tutto il massimo rispetto per la più importante e autorevole istituzione del Paese: nessuna "falsità", e soprattuto nessuna "pressione". Come sempre, solo giornalismo.

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« Risposta #114 inserito:: Marzo 18, 2010, 04:09:02 pm »

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Il cinismo assoluto

di MASSIMO GIANNINI


CON un incredibile "blitzkrieg" di prima serata, effettuato come sempre in un format televisivo sicuro perché posto al riparo dalle domande vere e dunque pericolose, il presidente del Consiglio ha varcato l'ennesimo confine. La sua "intervista" al Tg2 è in realtà il livoroso comizio di un capo-popolo che, in nome del plebiscito tributatogli dagli italiani e in forza del suo potere assoluto sacro e inviolabile, è ormai pronto a tutto. Anche a stravolgere quel che resta di un equilibrio istituzionale che lui stesso ha sistematicamente "picconato" nel corso del suo avventuroso Ventennio.

Perché questo ha fatto, ieri sera, Silvio Berlusconi. Per spacciarsi ancora una volta come una "vittima innocente" di fronte all'opinione pubblica, e per rilanciare le sue farneticanti accuse alle procure "scese in campo" contro di lui "dettando i modi e i tempi della campagna elettorale", il premier non ha esitato a piegare a suo uso e consumo le parole misurate del Capo dello Stato. Altro che "tirare la giacchetta" al presidente della Repubblica: Berlusconi gli ha letteralmente strappato di dosso l'abito di "garante sopra le parti" che la Costituzione gli assegna.

Quell'"abito" riluceva sufficientemente chiaro, nel comunicato che Giorgio Napolitano aveva diffuso ieri mattina, per arginare le polemiche sempre più tossiche intorno all'inchiesta della Procura di Trani. Al Csm, di cui è presidente, il Capo dello Stato ricorda che non si deve mai "pronunciare preventivamente sullo svolgimento delle inchieste" perché, "come recita lo stesso regolamento del Csm, quest'ultimo può prendere in esame "le relazioni conclusive delle inchieste amministrative eseguite dall'Ispettorato generale presso il ministero della Giustizia". Ma al governo ricorda come le ispezioni del ministero non possono "interferire nell'attività di indagine di qualsiasi Procura, esistendo nell'ordinamento i rimedi opportuni nei confronti di eventuali violazioni compiute dai magistrati titolari dei procedimenti". Ma fa di più, il Quirinale: precisa che è stata "corretta" la decisione presa dal Comitato di presidenza del Csm di affidare alla VI Commissione la richiesta "sottoscritta da gran parte dei membri del Consiglio per l'apertura di una pratica inerente l'ispezione" disposta dal ministro della Giustizia presso la Procura di Trani. La conclusione del presidente è inequivoca: "È altamente auspicabile che in un periodo di particolari tensioni politiche qual è quello della campagna per le elezioni regionali, si evitino drammatizzazioni e contrapposizioni, come sempre fuorvianti sul piano istituzionale".

Invece di dar prova di quell'equilibrio istituzionale e di quel senso di responsabilità politica invocati proprio da Napolitano, Berlusconi fa l'esatto opposto. Invece di rispettare finalmente le regole del gioco democratico, fa saltare per l'ennesima volta il tavolo. Invece di prendere atto della netta presa di posizione della più alta carica dello Stato, ne strumentalizza e ne distorce radicalmente il messaggio. Il comunicato di Napolitano, declinato secondo il verbo palesemente capzioso e tecnicamente sedizioso del Cavaliere, diventa una pubblica "sconfessione" dell'iniziativa del Csm. E dunque "l'ennesima dimostrazione di un uso intollerabile della giustizia per fini di lotta politica contro di noi".

In questi anni Berlusconi ci ha abituato a tutto. Nella discesa agli inferi della "Repubblica del Male Minore" ce ne ha fatte vedere di tutti i colori. Ma ad un simile abisso di irresponsabilità e di cinismo, probabilmente, non ci aveva ancora precipitato. E invece a questo, ormai, siamo arrivati. All'abuso di potere elevato a metodo di governo. Non c'è altro modo, per definire un'"esegesi" così clamorosamente falsa, e dunque costituzionalmente eversiva, delle dichiarazioni e delle funzioni del presidente della Repubblica. E non è tutto. In questa disperata escalation autoritaria del premier l'abuso si somma ad abuso.

Non c'è solo l'inaccettabile "abuso politico" su Napolitano, nella performance mediatica di ieri sera. C'è anche altro. Molto altro. Il presidente del Consiglio parlava in playback. L'audio ufficiale riproponeva la narrazione artificiale di sempre, che amplifica l'irrealtà dei "fattoidi": il solito "partito dell'amore" che sconfiggerà "il partito dell'odio", i soliti "miracoli fatti all'Aquila e in Abruzzo", i soliti "successi ottenuti in questi due anni di lavoro straordinario" rispetto ai "disastrosi fallimenti" della solita sinistra sovietica e sanguinaria e ai pericolosi intendimenti delle solite toghe politicizzate e assatanate. In realtà, la vera voce che ci sembrava di ascoltare, e che riflette la realtà dei fatti, è quella delle intercettazioni telefoniche agli atti della procura di Trani. Quella che grida "io ho parlato con il direttore Masi" intimandogli la chiusura dei talk show politici "perché non c'è nessuna televisione europea in cui ci sono questi pollai e allora perché noi dobbiamo avere queste fabbriche di fango e di odio". Quella che urla all'orecchio di Giancarlo Innocenzi "quello che adesso bisogna concertare è che l'azione vostra sia da stimolo alla Rai per dire "chiudiamo tutto".

Cos'altro è tutto questo, prima e al di là di ogni implicazione di carattere penale, se non un manifesto abuso di potere? In quale altra democrazia liberale del mondo il presidente del Consiglio (leader di un partito che si definisce prima Casa, poi Popolo "della libertà") può permettersi di trattare come un suo maggiordomo il commissario di un'Autorità amministrativa che per legge dovrebbe essere "indipendente"? In quale altro Zimbabwe del mondo il capo di un governo (già proprietario di un impero mediatico privato) può permettersi di trattare come un suo dipendente il direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo? I tanti, pensosi liberali alle vongole dell'Italia terzista si ostinano a dire che queste sono domande risibili. Ripetono che l'Italia è una magnifica democrazia, perché "è bastato un Tar a fermare il presunto golpe sulle liste" e perché in fondo, di tutti gli "strappi" tentati da Berlusconi, quasi nessuno gli riesce.

Questa sì, è una favola. Le regole sono ormai carta straccia. A pochi giorni dal voto per le regionali, i talk show politici sono stati silenziati, e sugli schermi va in onda, gigantesca e solitaria, l'effigie e la parola del Capo. Qualcuno si è accorto che ieri sera, mentre il premier ammoniva le masse dagli schermi del Tg2, vicino al tricolore e alla bandiera dell'Unione Europea campeggiava il simbolo elettorale del Pdl con lo slogan "Berlusconi presidente"? L'ultimo abuso, dopo quello commesso contro Napolitano. E altri ne verranno. Per nostra sventura, e con buona pace dei teorici del "Male Minore".

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« Risposta #115 inserito:: Marzo 30, 2010, 11:06:48 am »

IL COMMENTO

Il referendum del Cavaliere

di MASSIMO GIANNINI


NON servono i tortuosi giri di parole in uso nella Prima Repubblica. Appannato dagli scandali privati, ossessionato dai guai giudiziari, logorato da due anni di non-governo del Paese, Silvio Berlusconi è riuscito in qualche modo a vincere anche queste regionali. Lo ha fatto nell'unico modo che conosce, dall'epifanica "discesa in campo" del '94: trasformando la contesa elettorale in un altro, esiziale "referendum" sulla sua persona. Lo aveva detto lui stesso, alla vigilia di un test di medio-termine al quale si avvicinava con una ragionevole preoccupazione: "Il voto regionale è politico". Ha avuto ragione lui.

Non ha certo ripetuto il plebiscito del 13 aprile 2008, di cui anzi ha dilapidato tanta parte dei consensi. Il suo partito ha perso centinaia di migliaia di voti, sfiorando il 27% nelle regioni in cui si è votato: 4,5 punti in meno rispetto alle regionali del 2005, e addirittura 7 punti in meno rispetto alle politiche 2008. Quasi un tracollo, per il "partito del predellino", l'"amalgama mal riuscito" nel quale il co-fondatore Gianfranco Fini sopravvive con crescente imbarazzo. Ma pur con tutto il travaglio mediatico di questi ultimi due mesi, e con l'evidente affanno politico di questi due anni, il Cavaliere ha comunque vinto il referendum. Suo malgrado, verrebbe da dire.

Grazie alla Lega ha blindato il Nord, espugnando il Piemonte e spopolando in Veneto. Nonostante il malaffare e il Cosentino-gate ha fatto il pieno anche al Sud, strappando con margini bulgari la Campania e la Calabria. E a dispetto del basso profilo della Polverini e dell'assenza del simbolo alla provincia di Roma, ha conquistato anche il Centro, battendo nel Lazio un avversario di caratura nazionale come Emma Bonino. Al centrosinistra restano le briciole. A settentrione il piccolo presidio della Liguria di Burlando, nel Mezzogiorno la sorprendente enclave della Puglia di Vendola, e in mezzo il solito insediamento appenninico del vecchio Pci, dall'Emilia alla Toscana, dall'Umbria alle Marche.

Questo voto si può leggere in molti modi diversi. Si può decrittare in termini di milioni di cittadini "amministrati" da ciascuno dei due schieramenti. Oppure secondo la valenza "strategica" e politica delle singole regioni in cui hanno vinto l'uno o l'altro dei due poli. Oppure, ancora, in base alle "bandierine" piantate su ognuna delle 13 regioni in cui si è votato. Da qualunque punto di vista lo si osservi, il voto ci consegna un'Italia che vede la maggior parte dei cittadini governati anche a livello locale dal centrodestra, che è sbilanciata a vantaggio del centrodestra in tutte le principali macro-regioni, e che anche in termini di "bandierine" piantate sul territorio fotografa un centrodestra in forte recupero, dall'11 a 2 da cui si partiva al 7 a 6 a cui si è arrivati.

Per il governo è un risultato che va al di là di tutte le aspettative. Berlusconi ha pagato un tributo altissimo all'astensionismo, che si è avvicinato ai livelli francesi. Almeno un milione e mezzo di italiani non si è turato il naso dentro l'urna, ma ha preferito andarsene a respirare altrove. È un segnale chiaro di insoddisfazione verso la maggioranza. Ma lo è allo stesso modo anche per l'opposizione, che non ha beneficiato di alcun travaso di flussi elettorali, ma viceversa ha pagato a suo volta un dazio pesante al non voto. Ora si discuterà a lungo su questo crollo oggettivo dell'affluenza, sulle inevitabili riflessioni alle quali sarà chiamato l'intero ceto politico verboso, rissoso e inconcludente, sulla ricorrente pulsione antipolitica che ha nutrito il successo delle derive grilliste ed estremiste.

Ma per il centrodestra e per l'intero Paese il dato politico più clamoroso non è questo. È invece il trionfo della Lega, che ha compiuto la sua ennesima metamorfosi. Con la sorprendente vittoria piemontese il Carroccio ha sfondato un'immaginaria "linea del Ticino", ridisegnando il paesaggio politico della nazione. In Lombardia non c'è stato il "sorpasso", ma il "pareggio" dei voti con il Pdl ha un valore enorme, se si pensa che alle regionali del 2005 i lumbard avevano meno della metà dei voti dell'allora Cdl. Se a questo successo si sommano il trionfo di Zaia in Veneto e quello di Cota in Piemonte, e poi la pervasiva e costante "infiltrazione" lungo il confine tosco-emiliano, l'esito è inequivocabile.

Un centrodestra a trazione leghista quasi integrale ha messo in cassaforte tutto il Nord. Quello più dinamico e più capace di coiniugare localismo culturale e globalismo economico. Di fronte a questo risultato così netto il pur prezioso "avamposto" conservato dal centrosinistra in Liguria è davvero poca cosa. Da ieri è nata davvero la "Padania", che non è più un'astrazione ideologica partorita dalla mente fertile del Senatur, ma è già una formazione geografica scolpita nel perimetro delle regioni più ricche e produttive del Paese, e dunque una realizzazione politica perseguita e infine perfezionata da una classe dirigente totalmente immersa e integrata nel territorio.

Una nuova generazione di dirigenti leghisti ha cambiato l'abito politico di un partito che è sempre meno di lotta e sempre più di governo. La camicia verde si indossa ormai sotto la grisaglia grigia: nelle cerimonie pagane tra le valli alpine come nei consigli d'amministrazione delle fondazioni bancarie. In pochi anni siamo passati dall'illusione di una Lega "costola della sinistra" al paradosso di un Pdl "costola della Lega". Tutto questo, a dispetto delle dichiarazioni rassicuranti di Bossi, non potrà non avere effetti sull'equilibrio interno alla maggioranza, dalla richiesta di nuovi ministeri nell'eventuale rimpasto alla pretesa di candidare un leghista alle prossime comunali di Milano. Ma gli effetti riguarderanno forse l'intero sistema politico. Chi ne vuole una prova, legga le parole di Zaia: "Con questi risultati il bipolarismo è finito".

Per il centrosinistra, in chiave speculare, il dato politico più doloroso riguarda non solo la perdita del Piemonte al Nord, ma anche la bruciante sconfitta al foto-finish nel Lazio. Erano considerate da tutti le regioni chiave di questa tornata, e il Pd le ha cedute tutte e due. È una realtà su cui di dovrà ragionare a fondo. Soprattutto nel Lazio, dove alla candidatura della Bonino il centrosinistra è arrivato con un percorso a dir poco avventuroso, e il Pd si è acconciato più per necessità che per convinzione. Ha pagato anche questo, nell'urna, oltre all'anatema dei vescovi che, a tre giorni dalle elezioni, deve aver giocato un ruolo ancora una volta cruciale per le scelte di molti moderati, evidentemente non ancora "cattolici adulti". E poi c'è lo schianto in due roccaforti del Sud, la Calabria e soprattutto la Campania, dove non è bastato candidare uno "sceriffo" come De Luca per cancellare troppi anni di sfrontato strapotere del vicerè Bassolino.

Ora il Pd cerca nelle pieghe del voto qualche motivo di conforto. E in parte, legittimamente, lo trova. Il risultato dei "democrats" a livello nazionale non è disprezzabile: nel voto di lista oscilla tra il 26 e il 28%, insidia il primato al Pdl, e se segna una caduta forte rispetto al 34,1% delle politiche del 2008 riflette una flessione di appena un punto rispetto alle europee del 2009. Ma il "partito riformista di massa", se pure tiene, non fa breccia nel cuore degli elettori che vogliono resistere al berlusconismo. Lo prova l'astensionismo, che ha eroso i consensi del Pd anche nei luoghi in cui il risultato non era in discussione (Emilia, Marche e Umbria) dove Errani, Spacca e Marini hanno vinto con percentuali molto più basse rispetto alle precedenti tornate elettorali.

Ma lo prova, oltre alla performance di Di Pietro, anche l'exploit delle liste di Grillo, dove si sono presentate come in Emilia e in Lombardia. Un'emorragia grave, che la radicalizzazione della linea politica voluta da Bersani negli ultimi giorni di campagna elettorale non è bastata ad arginare. Non solo. Anche dove ha vinto, come in Puglia o in Liguria, il Pd deve ringraziare soprattutto l'Udc, che nonostante un risultato nell'insieme negativo per le ambizioni terzaforziste di Casini ha comunque drenato voti preziosi al centrodestra con le candidature di disturbo della Poli Bortone e di Biasotti. Per Bersani, e per la sua leadership, si impone un ripensamento profondo delle strategie: sia sul profilo del partito, sia sul fronte delle alleanze.

Ci sarà tempo per il regolamento dei conti, nel centrodestra come nel centrosinistra. Ma quello che importa, adesso, è capire come sarà riempito l'abisso che separa il Paese dalla fine di questa turbinosa legislatura. "Questo voto non cambierà nulla per il governo", aveva annunciato Berlusconi. Più che una previsione, una maledizione. Vengono i brividi, a immaginare altri tre anni come i due che sono appena trascorsi. C'è da sperare che la vittoria della Lega sia foriera di qualche novità positiva. È stato Bossi a dire che dopo il voto occorrerà ritessere il filo del dialogo tra i poli, tranciato di netto dalle intemerate del Cavaliere. Ed è stato Bossi a dire che adesso è lui "l'arbitro delle riforme". L'Italia, insomma, è nelle mani del Senatur. Il futuro prossimo del Paese dipende da un capo che, fino a qualche anno fa, predicava la secessione, urinava sul Tricolore e imprecava contro Roma Ladrona. Oggi rappresenta invece il nuovo "fattore di stabilità" di questo centrodestra, scosso dalle spallate destabilizzanti e dalle sfuriate eversive del Cavaliere. Persino questo estremo paradosso, ci riserva il lento e carsico declino della leadership berlusconiana.

m.giannini@repubblica.it
 
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« Risposta #116 inserito:: Aprile 01, 2010, 02:59:11 pm »

L'EDITORIALE -

Con il suo primo rinvio alle Camere di un testo di legge il capo dello Stato scrive una bella pagina e insegna sia nel merito che nel metodo

La lezione del colle

di MASSIMO GIANNINI


Con il rinvio alle Camere della legge che aggira l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il capo dello Stato scrive una bella pagina nella storia della democrazia italiana. In questo atto di Giorgio Napolitano (che Repubblica aveva anticipato il 15 marzo scorso) c'è una grande lezione, sul merito e sul metodo. Una lezione che va al di là di tutte le polemiche, le forzature e le strumentalizzazioni con le quali troppo spesso, in questo sciagurato Paese, si accompagnano le scelte e le parole del Quirinale. La lezione sul merito è fortissima. Basta leggere il "titolo", per capire che in quel provvedimento c'è qualcosa che non va: "Deleghe al governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione degli enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi per l'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro".
Un guazzabuglio di norme astruse e incoerenti, nato con 9 articoli e 39 commi, poi gonfiato a dismisura fino a 50 articoli e 140 commi "riferiti alle materie più disparate", come recita testualmente il messaggio con il quale il presidente lo ha rinviato al Parlamento. "Ho già avuto altre volte occasione di sottolineare gli effetti negativi di questo modo di legiferare sulla conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla organicità del sistema normativo e quindi sulla certezza del diritto", osserva il capo dello Stato, nel chiedere alle Camere di rimodellare quel Frankenstein giuridico che gli è piovuto sul tavolo.

Ma il vero aspetto irricevibile di quel "mostro" normativo (come avevamo scritto ampiamente su questo giornale) riguarda l'articolo 31, che introduce l'arbitrato come forma di composizione delle controversie di lavoro alternative al ricorso al giudice, e per questa via, di fatto, consente al datore di lavoro l'aggiramento dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Napolitano non boccia in assoluto l'istituto dell'arbitrato, che merita di essere valutato "con spirito aperto". Ma esige che queste formule di conciliazione "siano pienamente coerenti con i principi di volontarietà dell'arbitrato e della necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente debole", come prevede una consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale. Ebbene, l'articolo 31 della legge non risponde affatto a questa esigenza, e per ragioni che vanno persino al di là dell'implicita "disapplicazione" dell'articolo 18 che comporterebbe. La norma voluta dal governo prevede la possibilità di ricorrere all'arbitro non solo al momento in cui insorga una controversia, ma anche al momento della stipulazione del contratto di lavoro, con un'apposita clausola compromissoria. Questo, per Napolitano, non è accettabile poiché "la fase della costituzione del rapporto è il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro". Non solo. Il capo dello Stato giudica non accettabile anche il ricorso all'arbitrato "secondo equità", cioè "in deroga alle disposizioni di legge", senza precise specificazioni sui cosiddetti "diritti indisponibili", anche "al di là di quelli costituzionalmente garantiti". Per finire, il capo dello Stato respinge anche le norme che riguardano il personale imbarcato su navigli militari, che non prevedono tutele adeguate nell'ipotesi di incidenti causati dal contatto con l'amianto.

Dunque, con questo rinvio alle Camere deciso dal Quirinale hanno vinto i molti giuristi che, nelle settimane scorse, avevano evidenziato l'incostituzionalità della legge. Ha vinto la Cgil di Guglielmo Epifani, che si era mobilitata contro il provvedimento, annunciando un ricorso alla Consulta. E sul fronte opposto ha perso il governo che non ha voluto ascoltare, e insieme la Cisl e la Uil che con troppa solerzia, insieme alla Confindustria, si sono affrettate a sottoscrivere un "avviso comune", nella miope e pretenziosa convinzione che l'ennesimo "accordo separato" potesse supplire alle manchevolezze di una legge. Ha perso il ministro Sacconi, che con troppa arrogante sicumera aveva annunciato che la legge non sarebbe mai cambiata perché era perfetta così. E con lui hanno perso tutti quelli che, usando a sproposito e senza vergogna il nome del povero Marco Biagi, continuano a manipolare a proprio uso e consumo le sue idee, brandendole come arma ideologica nella battaglia sui diritti del lavoro. Volendo, tra i perdenti ci sarebbero da aggiungere anche quegli house-organ della destra che, il giorno dopo l'anticipazione di "Repubblica" sulle intenzioni del capo dello Stato, inocularono le loro solite dosi di veleno nel dibattito pubblico. "Perfino il Quirinale è stufo delle bufale di Repubblica", "Le balle di Repubblica irritano Napolitano": erano i titoli del Giornale e di Libero del 16 marzo. Episodi che suggerirebbero una riflessione più profonda, sullo stato dell'informazione in questo Paese. Ma nel caso specifico non vale la pena: da tempo, in alcune redazioni non si fa più giornalismo, ma solo squadrismo.

La lezione sul metodo è chiarissima. Per la prima volta dall'inizio del suo settennato, il presidente usa i poteri che gli conferisce l'articolo 74 della Costituzione. Rifiuta la promulgazione di una legge, e con messaggio motivato chiede alle Camere una nuova deliberazione, che tenga conto dei suoi rilievi al testo. Siamo dunque all'interno della pura e semplice fisiologia costituzionale, cioè della più naturale e ortodossa dinamica dei rapporti istituzionali. Il governo presenta una legge, il Parlamento la approva, il capo dello Stato solleva dubbi, ravvisa antinomie, e la rinvia chiedendone una revisione. Sarebbe la "normalità", in un Paese normale. Ma in Italia lo è molto meno. Per due ragioni. La prima ragione: a causa delle continue spallate che l'esecutivo assesta a tutti gli altri poteri (il legislativo e il giudiziario, per non parlare delle più alte magistrature dello Stato, dalla Consulta alla stessa presidenza della Repubblica) anche l'usuale esercizio delle prerogative del capo dello Stato viene decrittato, di volta in volta, o come uno "schiaffo", o come un "cedimento" ai voleri del capo del governo. Non è così, e meno che mai in questa circostanza. La seconda ragione: proprio per evitare questa perversa e fuorviante "ermeneutica" politica degli atti presidenziali, da alcuni anni, e in particolare con il settennato di Carlo Azeglio Ciampi, il Colle aveva rilanciato un'altra formula, molto cara a Luigi Einaudi. La cosiddetta "moral suasion", cioè quel meccanismo di gestione e consultazione "preventiva" sulle leggi volute dal governo, rispetto alle quali la presidenza della Repubblica dà consigli e suggerimenti in corso d'opera, prima o durante il dibattito parlamentare. L'obiettivo della "moral suasion" è chiaramente quello di far sì che al Colle, ad approvazione avvenuta, arrivi un testo sicuramente già "compatibile", sul piano della legittimità costituzionale e dell'opportunità politica, e dunque immediatamente promulgabile.

Ebbene questo meccanismo, per poter funzionare e dare frutti, poggia su fondamenta precise: la "leale collaborazione tra le istituzioni". Non si può dire che sia stata e sia questa, la cifra dei rapporti che Berlusconi ha intessuto con gli inquilini del Quirinale. Sia pure con toni e sfumature diverse, da Scalfaro a Ciampi, fino a Napolitano, gli attacchi e i conflitti innescati dal Cavaliere sono stati quasi all'ordine del giorno. Dunque, in questo "no" deciso dal capo dello Stato si potrebbe anche leggere, in traluce, una svolta rispetto al più recente passato. Quasi un ritorno, dalla consuetudine costituzionale, alla Costituzione formale. Cioè dal tentativo non scritto di "co-gestione" ex ante implicito nella "moral suasion", al dispositivo sancito dall'articolo 74 con la formula ex post del rinvio alle Camere. Se così fosse il capo dello Stato, restringendo apparentemente quella che Giuliano Amato definiva "la fisarmonica dei poteri presidenziali", in realtà tornerebbe ad ampliarli fino alla loro massima estensione. Perché questo è il diniego di promulgazione di una legge e la richiesta di una nuova deliberazione: un potere al quale il capo dello Stato può ricorrere non solo per motivi di manifesta incostituzionalità o mancanza di copertura finanziaria, ma anche per ragioni di opportunità politica o coerenza giuridica.

Qui sta la lezione sul metodo di Napolitano. Con questa sua scelta, forse, si chiude una stagione. E ne comincia un'altra, non meno densa di incognite, ma probabilmente caratterizzata da una dialettica istituzionale più chiara. Teoricamente meno serrata, ma potenzialmente perfino più traumatica. Ed è giusto così. Sul cammino impervio delle riforme non possono esserci zone grigie. Tocca al governo assumersi fino in fondo tutte le sue responsabilità.

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« Risposta #117 inserito:: Aprile 16, 2010, 09:08:27 am »

IL COMMENTO

Consenso senza politica

di MASSIMO GIANNINI


Sembra un paradosso, eppure sta accadendo. A poco più di un anno dalla sua fondazione, e a poco meno di un mese da un complicato successo elettorale sbandierato come un trionfo dell'Armata Invincibile, il Partito del Popolo della Libertà vive la sua crisi più acuta, e forse addirittura irreversibile. È ancora presto per trarre conclusioni politiche definitive dal vertice di ieri tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera. Da una parte, Berlusconi è uomo dalle infinite risorse. In tutti i sensi.

Soprattutto nelle condizioni più critiche, sfodera il meglio (e spesso anche il peggio) di sé. È un negoziatore a tutto campo: tra minacce mediatiche a mezzo stampa o tv e campagne acquisti a suon di poltrone o prebende, si è quasi sempre dimostrato capace di "regolare" da par suo i conflitti interni ed esterni alla sua maggioranza. Dall'altra parte, Fini è comunque uomo della destra italiana, e sbaglia o si illude chi lo sospetta in transito verso un "altrove" che, per adesso e fino a prova contraria, esiste solo nella fantasia di qualche sognatore.

Ma nel teso faccia a faccia tra i due sembra essersi consumato qualcosa di molto più profondo di un semplice strappo tattico. Siamo al confine di una vera e propria rottura politica. O forse, salvo sorprese, quel confine è stato già valicato. Si capirà meglio nelle prossime ore. Ma intanto quello che è già chiaro è il "cambio di fase", per la maggioranza e dunque per il governo. Il confronto-scontro tra il fondatore e il co-fondatore del Pdl sancisce ciò che era evidente fin dalla nascita della loro "creatura". Una visione inconciliabile della politica: populista e plebiscitaria per Berlusconi, pluralista e legalitaria per Fini. Un'idea incompatibile della destra: radicale e tecnicamente sediziosa per Berlusconi, laica e costituzionalmente repubblicana per Fini. Questa irriducibile distanza tra i due, emersa con assoluta chiarezza al congresso fondativo del partito, non si è mai colmata in questi lunghi mesi di "coabitazione".

Anzi, si è estesa fino al limite più estremo. E non poteva che essere così. Dalle regionali, al di là della propaganda di regime, è uscita una coalizione totalmente squilibrata, nella quale il Pdl perde oltre due milioni di voti mentre la Lega ne ha persi "solo" 177 mila ma ha blindato il Nord. Bossi è passato immediatamente all'incasso: si è intestato la vittoria, ha preso in mano il timone delle riforme, ha prenotato la premiership per il 2013 ed ha annunciato la conquista delle banche del Nord. In pochi giorni, il Senatur ha spostato sul Carroccio l'intero asse dell'alleanza. Per Fini, che prima delle elezioni aveva ripetuto al Cavaliere "stai attento a non trasformare il Pdl in una fotocopia della Lega", questo non poteva essere accettabile. Per ragioni politiche: lui è il co-fondatore, e vuole legittimamente pesare nelle scelte del partito di maggioranza. Per ragioni identitarie: lui è la destra nazionale, e non può tollerare che le sue radici vengano divelte tra la secessione nordista dei padani agguerriti la leghizzazione sudista dei forzitalioti pentiti. E per ragioni istituzionali: lui è la terza carica dello Stato, può svolgere un ruolo prezioso per il premier sul cammino delle riforme, e non può invece ritrovarsi fuori dal tavolo della trattativa, scalzato da un Calderoli che senza avvertire nessuno sale al Quirinale con una sua bozza di nuova Costituzione.

Era chiaro che questa corda, tesa fino al suo massimo, doveva prima o poi rompersi. Ora ci siamo. Fini è pronto a creare il suo gruppo parlamentare. Meno di un nuovo partito, ma molto più che una fondazione o una corrente. Se Berlusconi non riuscisse a ritrovare l'accordo con il suo alleato, e se l'autonomizzazione finiana andasse in porto, il Pdl sarebbe un'altra cosa, anche rispetto all'"amalgama mal riuscito" che abbiamo conosciuto finora. Nel centrodestra berlusconiano non ha mai avuto diritto di cittadinanza una concezione "altra", rispetto a quella autoritaria e cesarista del Cavaliere. Ora questa "alterità", per la prima volta, trova un luogo fisico, e politico, nel quale esprimersi. Con quali effetti destabilizzanti, per la maggioranza e per il governo, è facile immaginare. Anche al di là della portata numerica della "divisione" finiana in Parlamento.

Questo è il paesaggio italiano di metà legislatura. Questo è il travagliato "mid-term" berlusconiano, quello di un sovrano che regna ma non governa. Si verifica quanto avevamo più volte previsto: il grande "partito di massa dei moderati" non è mai nato. Quel progetto, per stare in piedi, aveva bisogno di una politica. E Berlusconi una vera politica non l'ha mai costruita. Ha assemblato schegge di partito, tenendole insieme con il cemento degli interessi. Questo è il risultato. Altro che "la nave va", secondo il vecchio adagio di Craxi. Altro che tre anni di navigazione con il vento in poppa, libero dalle tempeste elettorali e sulla rotta delle grandi riforme istituzionali, come i berluscones avevano gridato con bugiarda prosopopea dopo le regionali del 28 marzo. Oggi, a meno di tre settimane da quel posticcio trionfo, persino il presidente del Senato Schifani, da sempre più realista del re, deve avvertire la corte che "quando una maggioranza si divide non resta che tornare alle urne". Magari non si arriverà alle elezioni anticipate. Ma la "corazzata" di Berlusconi fa acqua da tutte le parti, e naviga a vista in mezzo agli scogli. Ha il consenso, ma non ha più una politica. Solo un Pd irresoluto e irresponsabile poteva pensare di offrirgli una sponda sulle riforme, rimettendo persino in discussione l'obbligatorietà dell'azione penale. Non si capisce cosa ci sia di così "dolce" a naufragare in questo mare.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (16 aprile 2010)
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« Risposta #118 inserito:: Aprile 21, 2010, 07:41:59 am »

Legge ad corporationem

di Massimo Giannini

Angelino Alfano è ministro operoso e fantasioso. I suoi "Lodi" passeranno alla storia di questa legislatura. Il dinamico Guardasigilli non ha inventato solo il Lodo per proteggere il Cavalier Berlusconi dai processi penali che lo inseguono da oltre quindici anni.
Ora sta progettando anche un Lodo per proteggere gli ordini professionali dalla crisi economica che li deprime da almeno due anni. L'intenzione è lodevole: di riforma organica delle professioni si discute, inutilmente, da trent'anni. Ma la concezione è discutibile: la proposta che circola, più che a tutelare queste categorie dalla recessione, sembra finalizzata ad escluderle dalla concorrenza.

Avvocati e notai, ingegneri e architetti, commercialisti e consulenti del lavoro: quello degli ordini professionali è un universo economico importante, almeno 2 milioni di addetti, che produce il 12,5% del Pil. Le richieste vanno ascoltate, le difficoltà vanno affrontate.
Ma c'è una cosa che non si può e non si deve fare: confondere la riforma complessiva con l'autodifesa corporativa. E invece è esattamente quello che Alfano farà, disponendo la reintroduzione delle tariffe minime. L'abolizione di questo vincolo, che soffoca il mercato e penalizza soprattutto i giovani, era stata quattro anni fa una delle principali conquiste della "lenzuolata" di Bersani.

Non a caso, adesso, proprio questo è il cuore della battaglia dei professionisti, che chiedono a gran voce il ripristino di quello strumento di selezione degli accessi e di conservazione dello status quo. Il centrodestra, anche in questo caso, conferma la visione protezionista delle sue politiche. E il ministro Alfano, anche in questo caso, conferma la sua inguaribile propensione per le norme tagliate a misura di pochi beneficiari. Il vero obiettivo della riforma è "l'Ordine dei cittadini", ha scritto in un aulico intervento sul Sole 24 Ore.

Niente di più falso. Siamo invece alle solite. Leggi ad personam, nel caso del presidente del Consiglio. Leggi ad corporationem, nel caso dei professionisti. Alla faccia del Popolo delle Libertà.

m. giannini@repubblica. it

(19 aprile 2010)
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« Risposta #119 inserito:: Aprile 21, 2010, 03:21:59 pm »

IL COMMENTO

La stagione della diaspora

di MASSIMO GIANNINI

LA diaspora finiana si è dunque compiuta. Non è una rottura che prelude a una scissione, ma neanche un'abiura che prepara una capitolazione. La nascita formale di una componente di minoranza guidata da Gianfranco Fini dentro il Pdl rappresenta comunque una svolta politica importante. Segna la fine del Popolo della Libertà come lo abbiamo conosciuto finora.

Lo "spirito del Predellino", nell'ottica del co-fondatore, non c'è più. Il partito personale si trasforma in un partito (quasi) normale.

Nella logica finiana, questa svolta sancisce l'avvio di un lunghissimo e complicatissimo processo di autonomizzazione. Personale, nei confronti dell'uomo che lo ha sdoganato nel lontano 1993. Politico, nei confronti di un centrodestra ormai a esclusiva trazione forzaleghista. Bisogna dare atto al presidente della Camera di non aver ceduto, e di aver difeso con coerenza la sua posizione, difficile e a tratti quasi insostenibile. Dentro un Pdl forgiato nel freddo di Piazza San Babila dall'"unico fondatore" (Berlusconi) e poi modellato nel fuoco della vandea nordista sui bisogni dell'"unico alleato" (Bossi), per Fini non era semplice far valere e far vivere un'idea radicalmente diversa. Un altro modo di intendere la politica in nome del bene comune. Di rappresentare la cultura di una moderna destra europea. Di convivere dentro un partito autenticamente libero, plurale, democratico.

Con la sua "corrente del Presidente", almeno Fini ci prova. Citando Ezra Pound, cioè rischiando l'osso del collo in nome di quell'"idea diversa". Qui ed ora l'operazione appare quasi temeraria. A giustificare la diaspora manca una vera pietra d'inciampo politico. Manca un "casus belli" chiaro, riconosciuto e riconoscibile (a meno di voler considerare tale, e così non è, la presenza di una poltrona in più nell'organigramma o la mancanza di una politica per il Sud). I suoi ex colonnelli, nella stragrande maggioranza, non lo seguono. E forse i suoi elettori, nella stragrande maggioranza, non lo capiscono.

Ma quella di Fini non è e non può essere una guerra lampo. Sarà piuttosto una guerra di logoramento. Come annunciano nei corridoi i cinquanta "fedelissimi" del presidente, si consumerà nei rapporti istituzionali, nelle aule parlamentari, negli organismi del partito. E questo la dice lunga su cosa sta diventando il glorioso Partito del popolo della Libertà. E su cosa diventeranno i prossimi tre anni di legislatura. Altro che le verdi vallate delle riforme. Piuttosto il Vietnam delle imboscate.

Nella logica berlusconiana, tutto questo è sufficiente per comprendere la portata "eversiva" della metamorfosi in atto. Il battesimo di una "corrente del Presidente" dentro il Pdl, nella visione cesarista del premier, è intollerabile perché incomprensibile. Lo scriveva ieri "Il Foglio" di Giuliano Ferrara (che sa di cosa parla) citando il commento di Wellington, capo di governo di Sua Maestà britannica, alla fine della sua prima riunione del gabinetto: "Non capisco. Ho dato un ordine, e tutti si sono messi a discutere". Questo deve essere lo stato d'animo del Cavaliere, di fronte alle "discussioni" alle quali vuole inchiodarlo il co-fondatore. Lui ha dato e dà i suoi ordini: che bisogno c'è di discutere?

E infatti Berlusconi non vuole discutere. Né con Fini, né con chiunque altro. Il solo interlocutore con il quale accetta il dialogo alla pari è e continuerà ad essere il Senatur, che gli porta in dote la Padania ormai nata. Per questo non farà sconti al presidente della Camera. Ignorerà le sue richieste e le sue proteste. E continuerà a indicargli il ritorno alla "casa del padre" (la vecchia Alleanza nazionale) se della nuova casa non condivide le regole e le gerarchie. Ma è proprio per questo che la diaspora che si è aperta nella coalizione, anche se non sfocerà in una scissione, non potrà mai finire. La "coabitazione" si tradurrà in un equilibrio destabilizzante. La maggioranza sarà costretta a una mediazione estenuante. Il governo sarà condannato a un galleggiamento paralizzante. I danni per il Paese saranno incalcolabili.

Fini sta chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi. Questa è la sfida impossibile del co-fondatore. Sta proponendo al fondatore del Pdl di fare il "segretario", mentre lui è sicuro di esserne il "proprietario". Il presidente della Camera affronta questa battaglia quasi a mani nude: ha molte idee, ma pochi soldati. La sua vera arma è l'anagrafe. Ma non è detto che gli basti, contro quello che i giornali di famiglia ormai definiscono "Cav. Il Sung".

(21 aprile 2010) © Riproduzione riservata
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