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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166975 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:14:20 am »

IL COMMENTO /

Giustizia, il "lodo" Berlusconi-Fini è l'ennesima, scandalosa legge che copre gli interessi di una singola persona, un patto scellerato e indecente

Lo stato d'eccezione della nostra democrazia

di MASSIMO GIANNINI


ORA ce la racconteranno come una grande riforma "erga omnes", che tutela l'interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo "stato di diritto" finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il "lodo" Berlusconi-Fini sulla giustizia è l'ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo "stato di eccezione" in cui è precipitata la nostra democrazia.

I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.

Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l'opportunità di uscire dall'angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L'accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l'ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.

Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà "breve". Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all'insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a "riforma" approvata decade nel marzo 2010).
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Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una "riforma", per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del "processo breve".

L'opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l'abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l'abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo "scambio". Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.

Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l'intero pacchetto. Il "processo breve" porta all'estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La "prescrizione breve" porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell'emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l'esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il "Lodo Minzolini", cioè la reintroduzione dell'immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.

Eccolo, il "paesaggio" di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l'applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della "volontà di potenza" di un singolo, e di un'idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della "ragion politica" di un sistema: non c'è altro premier all'infuori di me, dunque io e solo io devo governare.

Questo c'è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo "stato di eccezione", appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell'autoritarismo poiché sempre lo "decide il sovrano". Che si presenta "come la forma legale di ciò che non può avere forma legale". Che è "la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi". Che costituisce un "punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico", poiché precipita la democrazia in una "terra di nessuno".

Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all'altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la "sua" riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all'opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un'altra emanazione della sua "auctoritas", che ormai sovrasta ed assorbe la "potestas" dello Stato e del Parlamento.

La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno "stato di eccezione" sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora "il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale". Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.

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« Risposta #91 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:08:45 am »

L'EDITORIALE

La minaccia di fine impero

di MASSIMO GIANNINI


In una "normale" democrazia, bipolare e liberale, le parole di Renato Schifani suonerebbero come un'ovvietà. La maggioranza degli eletti è garante del patto programmatico sottoscritto con gli elettori attraverso il voto. Se quella garanzia salta, la parola torna al popolo sovrano. Nell'autocrazia berlusconiana, plebiscitaria e illiberale, questi concetti elementari diventano un'enormità.

Probabilmente è ancora presto per considerare il discorso del presidente del Senato come un "certificato di morte" del governo. Più verosimilmente quel testo riflette un male incurabile di questo centrodestra, ma non ancora la sua crisi finale. Va catalogato sotto la voce "minacce". Minacce alle istituzioni "nemiche": il capo dello Stato non si illuda, in caso di caduta di questo governo, di ripercorrere le orme di Scalfaro e di evitare le elezioni anticipate cercando altre maggioranze. Minacce alle istituzioni "amiche": Gianfranco Fini non si illuda, la sua idea di una destra laica, istituzionale, repubblicana, cioè "alta" e "altra" rispetto a quella da bassa macelleria costituzionale incarnata dal Cavaliere, non avrà diritto di cittadinanza fuori dal berlusconismo. Minacce alle opposizioni "interne": tutti coloro che, dentro la coalizione, sono tentati di seguire il presidente della Camera sui paletti alla legge-vergogna del processo breve, sulla bioetica, sull'immigrazione, magari anche sulla sfiducia a Cosentino, non avranno più un posto dove sedersi in Parlamento, in una quarta legislatura berlusconiana. Minacce alle opposizioni "esterne": il Pd non coltivi ambizioni neo-proporzionaliste, in uno schieramento che aggreghi tutti, dall'Udc all'Idv, perché in una nuova campagna elettorale il premier asfalterebbe qualunque "Comitato di liberazione nazionale".

C'è tutto questo, nel monito che il Cavaliere ha lanciato per interposto Schifani. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non leggere, in quelle parole, anche qualcosa di più serio e più grave. Per due ragioni. La prima ragione è tattica. Il ricatto delle elezioni anticipate, da tempo ventilato nei corridoi e adesso gridato dalla seconda carica dello Stato, rischia di non essere "un'arma fine di mondo", ma "una freccia spuntata". Intanto perché, a dispetto delle sue certezze ufficiali, il premier non è più così sicuro di vincere le elezioni. E poi perché, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, svanirebbe per lui qualunque possibilità di costruirsi l'ennesimo "scudo" legislativo contro i processi Mills e diritti tv Mediaset. E lui di quella "protezione" ha un bisogno vitale. Anche a costo di far ingoiare al Parlamento un'altra dose di "ghedinate". Anche a costo di far riesplodere un conflitto istituzionale con il Quirinale e con la Consulta.

La seconda ragione è strategica. Se dopo appena venti mesi dal clamoroso trionfo del 13 aprile 2008 questa maggioranza è chiamata ogni giorno ad interrogarsi sulla sua sopravvivenza e ad esorcizzare lo spettro delle elezioni anticipate, vuol dire che un destino sta per compiersi. Nell'avvertimento del presidente del Senato di oggi si sente un'eco sinistra di quello che lanciò l'allora presidente della Camera nell'autunno del 2007. All'epoca Fausto Bertinotti definì Prodi, capo del governo unionista, "il più grande poeta morente", rubando la celebre definizione che Ennio Flaiano usò per Cardarelli. Per il Berlusconi attuale vale la stessa immagine. Anche il Cavaliere, ormai, appare come "il più grande poeta morente". Da mesi ha smesso di governare l'Italia. Da settimane mena solo fendenti contro alleati e avversari. Da giorni non riesce più neanche a parlare al Paese.

Sabato scorso il suo esegeta più fine, Giuliano Ferrara, si chiedeva sul Foglio: "L'avvenire del berlusconismo è forse alle nostre spalle?". La risposta è sì. Assisteremo ad altre scosse. Magari vedremo altri "predellini". Ma il Cavaliere, ormai, potrà solo sopravvivere a se stesso.

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« Risposta #92 inserito:: Novembre 23, 2009, 10:38:09 am »

L'ex presidente: "Io non uso aderire ad appelli, ma condivido quello di Saviano"

Preoccupato per la salute della nostra democrazia: "Manipolazione delle regole"

Ciampi: "Basta leggi ad personam Berlusconi delegittima le istituzioni"

di MASSIMO GIANNINI


«Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell'azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto...». La prima cosa che colpisce, nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi, è l'amarezza. Un'amarezza profonda, sul destino dell´Italia e sulle condizioni della nostra democrazia.

E mai come in questa occasione l'ex capo dello Stato, da vero "padre nobile" della Repubblica, lancia il suo atto d'accusa contro chi è responsabile di questo "imbarbarimento" e di questa "aggressione": Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a "colpi di piccone" i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè "la nostra Bibbia civile".

"Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile". Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L'intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un'opera di progressiva "destrutturazione". "Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell'edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...".

Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo "paesaggio in decomposizione". "Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d'anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l'uomo che difende le istituzioni, e dall'altra parte Berlusconi, l'uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...".

L'ultimo capitolo di questa nefasta "riscrittura" della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell'intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: "Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L'ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare". Fa di più, l'ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all'opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l'unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti".

Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell'ordinamento giudiziario di Castelli: "È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C'è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell'informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza".

Ma in tanto buio, secondo Ciampi c'è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l'appello lanciato su "Repubblica" da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull'abbreviazione dei processi, la "norma del privilegio". "Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all'ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c'è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c'è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare".

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« Risposta #93 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:34:42 pm »

IL COMMENTO

L'abisso della Repubblica

di MASSIMO GIANNINI

Trenta metri, per coprire la distanza che separa la Sala della Protomoteca dalla Lancia blindata che aspetta il capo dello Stato per riportarlo al Quirinale. Ma in quei trenta metri, che Giorgio Napolitano e Gianni Letta percorrono insieme parlando del berlusconiano "editto di Bonn", si apre l'abisso della Repubblica.

Dottor Letta, come mai? Cosa sta succedendo?", chiede il Capo dello Stato, commentando il violento attacco alle istituzioni pronunciato dal premier al congresso del Ppe. "Presidente, da parte di Berlusconi non c'è nessun attacco nei suoi confronti, ci mancherebbe. Il suo è stato uno sfogo, e si può capire: si sente accerchiato, assediato dalle inchieste giudiziarie, braccato dagli avversari politici e dai giornali. Ha reagito, in modo duro. Ma non c'è nessuna intenzione di sfasciare le istituzioni...". E questo è tutto. Di più il sottosegretario alla presidenza del Consiglio non sa e non può dire.

Dunque neanche il "dottor Letta", l'uomo del dialogo, è in grado di spiegare a Napolitano qual è il demone che agita il Cavaliere, e fino a che punto voglia spingersi in questo suo dissennato "conflitto istituzionale permanente". Neanche il tenace tessitore di mille accordi riusciti o falliti (vedi patto della crostata) riesce a rispondere alla domanda cruciale che il Capo dello Stato gli ha rivolto, e continua a rivolgersi in queste ore di preoccupata, amareggiata riflessione sul Colle: cos'ha in testa, Berlusconi? Cosa spera di ottenere, da questo scontro sistematico con il Quirinale, la Consulta, la magistratura, il Parlamento, l'opposizione, la carta stampata? Qual è lo sbocco di questa guerra "eversiva", condotta nel cuore delle istituzioni e combattuta dall'esecutivo, contro il giudiziario e il legislativo? Letta non ha una risposta. E per questo Napolitano, oggi, non da altro fuoco alle polveri. Dopo la durissima "censura" dell'altro ieri, il presidente non raccoglie l'ennesima provocazione di Berlusconi, che da Bruxelles lo invita espressamente a preoccuparsi non delle sue mattane, ma piuttosto "dell'uso politico della giustizia", che è "il contrario della democrazia".

Il Capo dello Stato si limita a ribadire un appello, già troppe volte respinto: "Basta con le contrapposizioni esasperate".

Un esorcismo, o poco più. Napolitano è il primo a sapere che questa linea, che i costituzionalisti classici chiamerebbero da "magistratura d'influenza", con il Cavaliere non serve più. E probabilmente è il primo a sapere che anche la "moral suasion", che ha operato dai tempi di Einaudi, è ormai inutilizzabile: può funzionare quando c'è "leale collaborazione" tra le istituzioni, e quando c'è "piena condivisione" dei valori costituzionali. Ma tutto questo, nel turbine del "berlusconismo da combattimento", non esiste più. Il circuito repubblicano, se mai ha funzionato in questa legislatura, è andato irrimediabilmente in "corto".

A farlo saltare per sempre è stata la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. Quella sì, una "bomba atomica", per usare una metafora cara al presidente della Camera. Da quel momento, il premier ha ritirato fuori il suo peggiore armamentario culturale e temperamentale, rafforzato dalla solita visione plebiscitaria e populista del potere: spallate al sistema e frustate alle elite, teorema dell'anticomunismo e teoria del complotto.

"Bisogna capirlo...", è il mantra di Letta. E Napolitano l'ha capito allora, anche se non l'ha giustificato: quella pronuncia della Consulta, a caldo, poteva anche spiegare la "reazione violenta" che in effetti ci fu. Fu dopo quel terribile 7 ottobre che il premier sparò per la prima volta ad alzo zero sul presidente della Repubblica, "che si sa da che parte sta", e sui giudici della Corte "tutti in mano alla sinistra". Ma il dubbio che rimbalza sul Colle, adesso, è il seguente: che senso ha riportare l'orologio della politica indietro di due mesi e mezzo, e riaprire il fuoco con la stessa violenza, tanto più in un alto consesso internazionale come il Partito popolare europeo, e al cospetto di capi di governo del prestigio di Angela Merkel. Anche questo dubbio è tornato in ballo, nel breve colloquio con Letta. Condito da una postilla: possibile che il premier, in questi due mesi e mezzo, sulla giustizia non sia stato in grado di elaborare una "strategia minima", diversa da quella dello scontro frontale? Una riforma del sistema giudiziario è cosa buona e giusta, nell'interesse dei cittadini e dello Stato. Ma qui, di riforma, non c'è traccia. A meno che non si voglia considerare tale, e Napolitano non lo fa, l'inaccettabile "processo breve" o l'ingestibile "legittimo impedimento allargato".

"Chi svolge attività politica non solo ha il diritto di difendersi e di esigere garanzie quando sia chiamato personalmente in causa... Ha però il dovere di non abbandonarsi a forme di contestazione sommaria e generalizzata dell'operato della magistratura, e deve liberarsi dalla tendenza a considerare la politica in quanto tale, o la politica di una parte, bersaglio di un complotto della magistratura". In queste ore difficili, il presidente della Repubblica invita a rileggere l'intervento che pronunciò il 14 febbraio 2008, nella seduta plenaria del Consiglio superiore della magistratura, quando parlò dell'opportunità di una riforma della giustizia, ma fissò paletti molto precisi alla politica, chiamata a costruire il terreno propizio al cambiamento, senza logiche punitive o, peggio ancora, ritorsive. "Prediche inutili", purtroppo, se ascoltate in questi giorni di straordinaria "macelleria costituzionale".

Ma Napolitano, anche se il Cavaliere ha ricominciato a "sparare sul quartier generale", non intende arretrare dalla sua trincea del Piave. Per fortuna, con lui regge l'urto anche Gianfranco Fini che da terza carica dello Stato (più che da co-fondatore del Pdl) continua a fronteggiare l'offensiva scomposta del Cavaliere. Anche di fronte all'omertoso silenzio di Renato Schifani, che ha svilito il Senato a banale propaggine di Palazzo Grazioli. Anche di fronte allo scandaloso editoriale di Augusto Minzolini, che ha ridotto il Tg1 a volgare Agenzia Stefani di Palazzo Chigi.

Resta la domanda, sospesa e irrisolta: cos'ha in mente Berlusconi? Se davvero punta a far saltare il tavolo, e a portare il Paese alle elezioni anticipate, deve sapere che al Quirinale non c'è un "notaio" pronto ad eseguire i suoi lasciti. Intanto dovrebbe spiegare agli italiani perché si dovrebbe tornare a votare, compito tutt'altro che agevole anche per un "venditore" come lui. E poi Napolitano rimanda alle sue parole del 27 novembre: "Nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto il consenso dei cittadini-elettori". Tocca al Capo dello Stato verificare se quella fiducia è venuta meno, se esistono maggioranze alternative o se non resta altra via che lo scioglimento delle Camere. Questo prevede la nostra Costituzione, l'unica "bibbia civile" riconosciuta dalla Repubblica italiana. Almeno fino a quando Berlusconi non sarà riuscito a sfasciare anche quella.

© Riproduzione riservata (12 dicembre 2009)
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« Risposta #94 inserito:: Dicembre 15, 2009, 04:07:46 pm »

IL COMMENTO

Richiamo alla democrazia

di MASSIMO GIANNINI


QUANDO la violenza fisica deflagra e corrompe la contesa politica, non c'è spazio per rimpallarsi la responsabilità delle colpe e rinfacciarsi la contabilità degli errori. Di fronte al dramma di Berlusconi sanguinante e sofferente in Piazza Duomo, viene in mente la celebre frase che John Kennedy disse di fronte alla tragedia del Muro di Berlino: siamo tutti italiani.
A ricordarcelo, con le parole più semplici ma più efficaci, è il capo dello Stato.

Ancora una volta, a dispetto di chi lo ha descritto come uomo "di parte", Giorgio Napolitano si conferma davvero il "presidente di tutti". Dobbiamo alla sua saggezza un messaggio che politici e cittadini farebbero bene a scolpire nella mente, in questi giorni difficili. Basta con l'esasperazione della lotta politica, non si alimentino le tensioni, ognuno misuri le parole dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv. Ciascuno faccia la sua parte: non ha senso, adesso, che gli uni accusino gli altri per il clima che si creato. Sembrano banalità. Lo sarebbero, in una democrazia bipolare risolta e compiuta. Non lo sono in Italia, purtroppo, dove da anni viviamo immersi nell'eterna transizione e sommersi dalla tenace contrapposizione tra una metastorica "pregiudiziale anticomunista" e una stoica "resistenza antiberlusconiana".

Alla prima categoria appartengono tutti coloro che nella maggioranza, invece di apprezzare il gesto di Bersani in visita al San Raffaele, si avventurano già nella caccia rancorosa ai "mandanti morali" e nella ricerca livorosa dei "cattivi maestri". Non solo a sinistra (da Di Pietro a Rosy Bindi) ma persino a destra (da Fini a Casini). Come se qualcuno, per terrorismo involontario, avesse "armato" con le sue parole o le sue critiche a Berlusconi la mano impazzita di Massimo Tartaglia. Come se quella maledetta statuina del Duomo scagliata sul volto del premier fosse la prosecuzione del dissenso politico con altri mezzi. Non pare così, per fortuna. Quell'aggressione, per quanto gravissima e ingiustificabile, resta fino a prova contraria il gesto folle di un povero disgraziato. Questo non attenua l'allarme.

Per quanto squilibrato, quell'uomo ha respirato il "clima d'odio" che opprime il Paese. Per questo è prezioso l'appello bipartisan del presidente della Repubblica ad abbassare i toni, per evitare che l'Italia ricada nella spirale di violenza che ha già conosciuto e pagato negli anni di piombo. Ma mai come oggi le reazioni vanno commisurate alle azioni.

Alla seconda categoria appartengono tutti coloro che nell'opposizione, invece di limitarsi a condannare senza appello e senza distinguo quel gesto di insopportabile violenza contro il premier, si avventurano nell'esegesi psicologica del "movente" ("Berlusconi istiga", dice il leader dell'Idv) o peggio ancora si lanciano nell'apoteosi politica del "gesto".
Questo è senz'altro l'effetto più vergognoso e intollerabile dell'aggressione di Piazza Duomo: la "comunità" che in rete condivide irresponsabilmente lo slogan "13 dicembre festa nazionale", o che si riunisce gioiosamente su Facebook nel gruppo "Tartaglia Santo subito", non suscita soltanto l'inevitabile "sdegno". Fa letteralmente schifo. Non consuma soltanto la strage delle idee: celebra la morte della politica. Fa da amplificatore, stavolta non solo nel Palazzo ma nel Paese, di quell'aria mefitica che intossica il discorso pubblico.
E genera riflessi condizionati, uguali e contrari. Con la stessa rapidità con la quale nascono i gruppi che riecheggiano il sito "Uccidiamo Berlusconi", proliferano siti contrapposti che vaneggiano "Uccidiamo a sprangate Antonio Di Pietro". Questi non sono errori. Sono orrori. Qui non ci sono "compagni" o "camerati" che sbagliano. Qui ci sono imbecilli che scherzano col fuoco.

Le parole sono pietre. A volte diventano persino pallottole. Per questo Napolitano dice giustamente "dobbiamo essere tutti allarmati". E aggiunge "quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile". Ma proprio la ferma consapevolezza di questo allarme, e la ferrea nettezza con la quale si denuncia e si rifiuta il germe criminogeno della violenza fisica e verbale, non devono e non possono diventare un alibi per cancellare il dovere della critica e il diritto al dissenso. La politica vive di questo. Si alimenta di questa capacità di discernere tra la barbarie terroristica e la valutazione politica. Ha ragione, una volta tanto, Fabrizio Cicchitto: a proposito dei siti che inneggiano all'uccisione di Di Pietro, l'esponente del Pdl ha detto "va condannato senza se e senza ma anche chi ha scritto quelle cose. Non so chi è stato e con quali motivazioni, ma cose del genere non vanno ne scritte né pensate. Ciò evidentemente non ha nulla a che vedere con il giudizio politico che do di Di Pietro, che è totalmente negativo da ogni punto di vista".

Ci sembra un principio sacrosanto. Ma deve valere sempre, e deve valere per tutti. Non solo per un leader dell'opposizione, ma anche e a maggior ragione per il capo del governo.
 
Proprio perché "siamo tutti italiani", oggi siamo solidali con lui. Ma la solidarietà umana e istituzionale non coincide con la sensibilità politica e culturale.
Noi, come tutti gli italiani ricordati dal Capo dello Stato "che credono nella democrazia", vorremmo poter continuare ad esercitare il nostro spirito critico.

Liberamente, nel rispetto delle persone e dei ruoli. Ma senza essere accusati, per questo, di "terrorismo".

m.giannini@repubblica.it

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« Risposta #95 inserito:: Dicembre 18, 2009, 04:42:29 pm »

Due lezioni dallo Scudo

Massimo Giannini


Uno Scudo da cinque punti di Pil. Si capisce l'esultanza di Giulio Tremonti, per il clamoroso successo della manovra di "rientro dei capitali dall'estero". Se è vero che frutterà tra gli 80 e i 100 miliardi di euro in soli tre mesi (contro i 78 miliardi accumulati nei tre anni 2001/2003) il ministro del Tesoro ha ragione a compiacersi. E il Consiglio dei ministri ha ragione di riaprire, con una sorta di "Scudo quattro", i termini per consentire un ulteriore rimpatrio di fondi detenuti oltre frontiera almeno fino ad aprile 2010. Ma da questa criticabile operazione si può trarre qualche utile lezione.

La prima lezione. Gli italiani, purtroppo, sono un popolo di formidabili evasori fiscali. Un flusso di denaro così imponente, stabilmente trasferito nei conti bancari dei paradisi fiscali e dei Paesi offshore, non ha forse analoghi riscontri tra i nostri partner europei. Questo è il frutto del vero "compromesso storico" della Prima Repubblica, quando il consenso elettorale alle forze dell'allora maggioranza invariabile (mono o pentapartitica) e la penosa condizione dei servizi pubblici del Paese si scambiava con l'assoluta tolleranza nei confronti di chi non paga le tasse e l'incondizionata munificenza nei confronti di chi compra i Bot. Ma è anche il frutto delle politiche recenti del centrodestra. Quale effetto si crea, quando si introducono norme che, invece di rafforzare il contrasto all'evasione, sembrano indebolirlo in modo clamoroso (come nel caso della tracciabilità dei pagamenti o dell'eliminazione dell'obbligo di tenuta dell'elenco clienti e fornitori)?

La seconda lezione. Proprio nella chiave della riemersione del gettito sommerso, una gestione più severa dello strumento dello Scudo fiscale sarebbe stata decisiva. Sia dal punto di vista tecnico: un'aliquota ben più pesante del simbolico 5% sul totale dei capitali rimpatriati e il versamento pieno di tutte le imposte dovute su quelle stesse somme (come avviene nel tanto declamato "modello inglese") avrebbero portato molto più denaro nelle casse dello Stato. Sia dal punto di vista civico: uno Scudo così congegnato, più tosto e dunque più equo, non avrebbe trasmesso all'opinione pubblica l'inaccettabile messaggio secondo cui, ancora una volta, si premiano i furbi a danno degli onesti.

Qui è il punto debole della soddisfazione tremontiana. Il successo dello Scudo, a suo giudizio, "vuol dire che c'è fiducia verso l'Italia e il governo. Si diceva che i capitali votano con le gambe: prima votavano uscendo, ora rientrando". Il punto non è questo: solo uno sciocco, per quanto disonesto, si sarebbe lasciato sfuggire un'occasione così ghiotta per riportare a casa praticamente gratis un bel po' di soldi, in tempi di vacche magrissime come quelli che stiamo vivendo. E qui c'è un altro punto discutibile del compiacimento del ministro: lo Scudo, secondo lui, è "una colossale manovra di potenziamento della nostra economia". Ci permettiamo di dubitare, purtroppo. Vorremmo essere informati su quanti dei capitali illeciti tornati in Italia sono e saranno reinvestiti nelle imprese, nelle attività professionali, negli investimenti produttivi, e quanti invece rifluiranno nella rendita, mobiliare o immobiliare. Purtroppo non lo sapremo mai. Il vero "motore" di questo Scudo è l'anonimato. Tu, cittadino, hai evaso. Io, Stato, non voglio neanche sapere chi sei. Paga un obolo, e amici come prima.

(17 dicembre 2009)
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« Risposta #96 inserito:: Dicembre 22, 2009, 04:22:19 pm »

IL COMMENTO

Patto scellerato e pessimismo del Colle

di MASSIMO GIANNINI


Come Benedetto Croce, che nel '48 invocava il suo celebre "Veni, creator spiritus" sull'assemblea convocata per scrivere la tavola delle leggi della Repubblica, così Giorgio Napolitano oggi sembra rievocare il ritorno di un impossibile "spirito costituente". Ma nelle parole del capo dello Stato c'è in realtà l'eco nostalgica per un tempo che non ritornerà.

È necessario auspicare che dall'aggressione al premier in Piazza Duomo possa nascere un "ripensamento collettivo". È giusto richiamare ancora una volta le forze politiche al senso di responsabilità e al "massimo di condivisione e di continuità nel tempo" che la gravità della fase economica e sociale richiederebbero. È doveroso appellarsi alle aspettative di quell'Italia sana che lavora e fatica, e all'esigenza di non lacerare quel "tessuto unitario" così solido e vitale.

È scontato, infine, rinnovare l'invito a fermare "la spirale di una crescente drammatizzazione delle tensioni tra le parti politiche e tra le istituzioni". Ma cosa può germogliare da tanta speranza, nel discorso pubblico italiano? Al di là della retorica sul "dialogo" e della polemica sull'"inciucio", maggioranza e opposizione parlano linguaggi incompatibili e alludono a scenari inconciliabili. Il presidente della Repubblica, da politico idealista ma realista, è il primo a rendersene conto, se si costringe ad ammettere che per le grandi riforme, economiche e politiche, non si vede "un clima propizio nella nostra vita pubblica". La ragione è più semplice di quello che la propaganda dominante vorrebbe far credere. Per il centrodestra, nella versione bellica di Berlusconi e a dispetto della sua fresca ispirazione "ghandiana", la parola "riforme" è una fantomatica esigenza collettiva che serve per vestire di qualche dignità una drammatica urgenza privata.

Questo è l'assioma intorno al quale il presidente del Consiglio dispiega la sua geometrica potenza: una legge ad personam, che salvandolo dai processi pendenti, trasformi lo stato di diritto in "stato di eccezione". Tutto il resto, dall'elezione diretta del premier al Senato federale, viene dopo. Sono semplici corollari, utili alla sua biografia personale o alla sua geografia coalizionale. Se non c'è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell'immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura. Per il centrosinistra, nella versione pragmatica di Bersani e a dispetto della controversa esegesi dell'intenzione dalemiana, si tratta di scegliere, molto semplicemente, se accedere o meno al "patto scellerato": fidarsi del Cavaliere, ingoiando la diciassettesima legge-vergogna per tentare uno sbocco all'eterna transizione italiana.

Per ora il Pd sembra resistere al canto delle sirene berlusconiane. Dice no allo scambio nelle camere oscure, e opportunamente rilancia una sua agenda di riforme politiche, istituzionali e sociali nelle Camere parlamentari. E fa bene: le riforme appartengono al patrimonio genetico e culturale della sinistra italiana. Sono il suo dna storico e politico. Non bisogna aver paura di avere coraggio, come diceva Aldo Moro negli anni di confronto più serrato con Enrico Berlinguer. Napolitano tutte queste cose le sa, anche se non può dirle in chiaro. Ma da questa consapevolezza nasce il suo attuale pessimismo della ragione. Che lo costringe a tamponare per l'ennesima volta le forzature costituzionali di Berlusconi e le storture politiche della sua maggioranza. La farsa di un "governo che non può governare", e che invece in questi due anni, con la clava di ben 47 decreti legge, "ha esercitato intensamente i suoi poteri e non ha trovato alcun impedimento" finendo con l'umiliare il Parlamento. La leggenda di una giustizia che non funziona solo perché abitata da toghe rosse e pm politicizzati, mentre il giusto processo riformato nell'articolo 111 della Costituzione esigerebbe ben altri interventi a beneficio dei cittadini. Nel rispetto dell'"intangibile principio di autonomia e indipendenza della magistratura", ma anche di quel "senso del limite" che dovrebbe caratterizzare sempre i magistrati, chiamati a non esorbitare mai dai propri compiti e a non sentirsi mai investiti di "missioni improprie" (come forse è accaduto ad esempio in qualche passaggio del parere rilasciato dal Csm sul processo breve).

Poi il romanzo del "presidenzialismo di fatto" e della sedicente "costituzione materiale" che ormai sopravanzerebbe la Costituzione formale: Napolitano, su questo, è stato netto come mai era stato, ripescando "l'illusione ottica" denunciata a suo tempo da Leopoldo Elia in quelli che scambiano "per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico", e aggiornandola con un esplicito riferimento alla modificazione della legge elettorale. E infine l'opera buffa del"complotto", tante volte messa in scena dal presidente del Consiglio e mai come stavolta sconfessata senza pietà dal presidente della Repubblica. Non c'è complotto possibile, di fronte a un governo che ha una maggioranza schiacciante. E persino di fronte alla tanto esecrata Costituzione, che per Berlusconi è un "ferrovecchio sovietico", mentre è il presidio più forte per le regole democratiche e per le istituzioni repubblicane.

Quale può essere il terreno per "riforme condivise", in questo abisso di sensibilità politica e di cultura costituzionale? Oggi non c'è risposta. O meglio, ce ne sarebbe una sola, da non confondere con il conservatorismo costituzionale. Nel suo discorso alle alte cariche Napolitano vi accenna, quando parla di una "visione costituzionale" che dovrebbe accomunarci tutti e di un "gioco politico democratico" che andrebbe ancorato alla stabilità delle istituzioni.

Nel suo "Intorno alla legge" Gustavo Zagrebelski è più esplicito, quando scrive di "volontà di Costituzione o il nulla". La Costituzione come "pactum societatis", presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva.

Se manca questo presupposto, si precipita nella kantiana "repubblica dei diavoli". La Costituzione diventa campo di battaglia e di sopraffazione. Non è forse questa la deriva italiana di questi ultimi anni?

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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 02, 2010, 11:51:05 am »

La dottrina del Quirinale

di MASSIMO GIANNINI


Come ogni Capodanno il "cuore d'Italia", da Palermo ad Aosta, batte all'unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un'opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano "presepe italiano" di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l'assolutoria epifania del Partito dell'Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso "Inno alla serenità" pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La "Dottrina Napolitano" si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L'Italia, dopo mesi "molto agitati", ha un drammatico bisogno di essere governata.

Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell'occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l'assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: "invisibili" del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto "invisibili" del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta "interamente aperto", vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l'ha fatto. Ci sono riforme "non più rinviabili". Non regge più l'alibi biblico del Qoelet (c'è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d'altro.

La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che "non possono essere tenute in sospeso" o bloccate dalle "opposte pregiudiziali". Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell'articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano "ispirate solo all'interesse generale", cioè all'esclusivo "servizio dei cittadini". Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un "radicato ancoraggio" a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti "poteri neutri". La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della "condivisione più larga possibile", nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di "patto scellerato", e ricolloca il confronto nell'unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.

La "Dottrina Napolitano" fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente "rivoluzione liberale" che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell'idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma "hobbesiano" che, nella visione berlusconiana, lega l'esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l'origine dell'ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l'esistenza dell'ordine politico e dove perciò l'unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in "Fine del diritto", Il Mulino).

"Io non desisterò", promette il presidente della Repubblica agli italiani, all'alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.

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« Risposta #98 inserito:: Gennaio 10, 2010, 03:54:24 pm »

RETROSCENA

Il ministro pronto al confronto con il Pd: serietà e rigore

I tempi del "meno tasse per tutti" sono finiti: "Questa è una partita enorme"

"Con Berlusconi accordo al 100%"

Tremonti prepara la Grande Riforma

Il Tesoro cauto: un annuncio sbagliato potrebbe creare difficoltà al nostro debito pubblico

di MASSIMO GIANNINI


 ROMA - Mi riconosco al 100% nelle parole del Primo ministro...". Anche Giulio Tremonti, come Silvio Berlusconi, su gode l'ultimo week-end prima della "campagna d'inverno" del governo e delle elezioni regionali di primavera. E anche il ministro dell'Economia è convinto che il 2010 sarà l'anno delle riforme". Proprio a partire dalla riforma fiscale. Ci sta lavorando, come gli ha chiesto il Cavaliere nel pranzo a Arcore. Ma a due precise condizioni: serietà e rigore.

Tremonti non fornisce dettagli. A chi gli parla, in queste ore, il ministro non rilascia anticipazioni ufficiali. Si limita a una considerazione, che tuttavia ha una rilevante portata politica: condivide in pieno i contenuti dell'intervista che Berlusconi ha rilasciato ieri a Repubblica. Dunque, stavolta non ci sono scontri né bracci di ferro: la riforma fiscale sarà ai primi posti nell'agenda dei prossimi mesi di governo. Ma sarà una "riforma complessiva": sulla scia del Libro Bianco presentato dallo stesso Tremonti nel '94, non riguarderà solo l'imposta sui redditi ma l'intero sistema fiscale, che in prospettiva dovrà ruotare intorno a non più di otto tributi. E la parola chiave, dal punto di vista del ministro dell'Economia, sembra essere proprio questa: "in prospettiva". Una riforma di portata così ampia, che a regime porterebbe all'introduzione di due sole aliquote Irpef al 23 e al 33 per cento, non si improvvisa né si introduce dall'oggi al domani. Servirà piuttosto un percorso a tappe, che attraverso misure di sgravi graduali e di semplificazioni progressive, e secondo un antico "pallino" di Tremonti, dovrà trasformare il Fisco in "amico" dei cittadini e in "socio positivo" delle imprese.

"La riforma fiscale è una cosa seria", è il mantra che Tremonti si ripete da tempo. Stavolta non si può svilire in una raffica di misure estemporanee, e meno che mai in un fuoco d'artificio pre-elettorale, in vista delle prossime regionali. Per questo il ministro dell'Economia, quando ieri ha letto su alcuni giornali i retroscena che raccontano di una possibile una tantum di riduzione fiscale usata per l'appunto come spot propagandistico da spendere alla vigilia delle elezioni di primavera ha immediatamente contattato Paolo Bonaiuti, per "dettargli" la dichiarazione che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha poi diffuso alle agenzie. Dunque, è la linea del ministro, non ci saranno una tantum, non ci saranno mance fiscali un giorno prima del voto. Ci sarà invece "una riforma vera, seria e di lungo periodo" che, in tempi ragionevoli e nel rigoroso rispetto degli equilibri di bilancio, porti finalmente l'Italia all'approdo di un sistema tributario più equo, più efficiente e più moderno.

È una sfida difficilissima. Ma superata la fase più acuta della crisi globale, anche per il nostro Paese è arrivato il momento di raccoglierla. Se non ora, quando? Tremonti è il primo a saperlo. Per questo, a costo di essere accusato di "conservatorismo" economico o di "minimalismo" fiscale, in tutti questi mesi non solo ha rifiutato di allargare i cordoni della borsa e ha respinto gli assalti alla diligenza, ma in molti casi ha addirittura inasprito i tagli alla spesa dei ministeri, facendo infuriare i suoi colleghi di governo. Una scelta opinabile, ma non incomprensibile. L'Italia non è la Grecia o l'Islanda, ma sul mercato interno e internazionale il Tesoro si gioca l'osso del collo per piazzare in media un miliardo e mezzo di titoli di Stato al giorno. Quest'anno, tra Bot e Btp, dovranno essere collocati 480 miliardi di euro: una cifra da far tremare i polsi. Intanto, come ha ricordato lo stesso Berlusconi a Repubblica, tutto questo per l'Erario si traduce in una "tassa" fissa pari a oltre 8 miliardi di interessi passivi: tanti, per un bilancio pubblico gravato da un debito che viaggia a grandi passi verso il 120 per cento del Pil. E poi, in queste condizioni basta sbagliare un annuncio di politica economica, o tarare male una misura di sgravio fiscale, per far fallire un'asta. Con tutte le incognite del caso, dalla bocciatura delle agenzie di rating fino al "rischio-default" del Paese.

Per questo Tremonti vuole la riforma fiscale, ci sta lavorando, ma al tempo stesso fa di tutto per sottrarsi alla logica suicida della propaganda pre-elettorale. Condivide la road map del presidente del Consiglio. Ma non vuole cedere dalla linea del rigore contabile, né allentare gli impegni assunti con l'Unione europea. Il 2009 dovrebbe chiudere con un deficit al 5,2% del Pil: un dato "per fortuna migliore delle previsioni", come ripete in questi giorni il ministro, ma pur sempre elevato. E tale da indurre alla massima prudenza nell'azionare la leva delle tasse. Quella fiscale è una riforma potenzialmente costosissima. Basti pensare che sul piano del gettito un accorpamento delle aliquote Irpef, in più o in meno, può valere fino a due punti di Prodotto interno lordo. E poi, a meno che non si adotti il modello improvviso della "flat tax", bisognerà comunque trovare il modo di garantire la progressività dell'imposta. E anche questo costa.

Dunque, sì a una Grande Riforma del fisco su base triennale, ma no ai micro-tagli d'imposta varati per decreto. Su questa impostazione, il ministro dell'Economia è pronto ad andare in Parlamento nei prossimi mesi, a cercare un terreno di confronto finalmente bipartisan con l'opposizione. Ne ha parlato con Bersani, e prima ancora anche con il presidente della Repubblica Napolitano, che non a caso nel suo messaggio di fine d'anno ha indicato la riforma fiscale come "priorità", ma inquadrandola in un "progetto d'insieme", che porti a semplificare il sistema e soprattutto ad alleggerire il carico fiscale, prima di tutto sulle famiglie e sul lavoro dipendente. È quello che, senza fretta e senza demagogia, ha in testa Tremonti: "La riforma fiscale è una partita di enorme rilievo politico, sociale, filosofico, culturale", dice. Questa volta non si può bluffare: il governo la deve giocare con serietà e responsabilità. In quindici anni, sul fisco, il Cavaliere ha seminato solo false promesse. "Meno tasse per tutti" fu uno dei cardini del famoso "contratto con gli italiani" del 2001. Una colossale fregatura, che non si può ripetere.
 
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« Risposta #99 inserito:: Gennaio 11, 2010, 06:10:26 pm »

Massimo Giannini


Il tempo della disuguaglianza


La crisi non è uguale per tutti. Tito Boeri, economista della Voce.info ha scritto un libro per dimostrarlo. Ora arrivano nuovi dati dell'Istat, sul terribile 2009, a confermare quanto già temevamo. Il crollo del potere d'acquisto delle famiglie italiane, nel periodo ottobre 2008-settembre 2009, è più che proporzionale rispetto all'andamento del tasso di inflazione. È il segno che i numeri ufficiali non dicono tutta la verità sulle condizioni reali del Paese. La recessione, come è già accaduto in altre fasi storiche, colpisce in modo trasversale ma agisce in modo selettivo. Ma la costante, passato presente e futura, è che con le crisi economiche si accrescono ulteriormente le disuguaglianze dei redditi. Nel periodo 1991-1992 questi divari aumentarono in Italia del 5 per cento, e la povertà crebbe del 4 per cento. Nel periodo 2008-2009 l'economia finanziaria, industriale e domestica ha subìto un trauma molto più profondo e complesso rispetto a quindici anni fa. E dunque, per effetto della crisi, più estese e potenzialmente incolmabili saranno le distanze tra le varie fasce sociali e le diverse categorie di reddito.

Il governo Berlusconi porta la responsabilità di non aver voluto riconoscere per tempo questo dramma, e dunque di non averlo voluto affrontare con il necessario coraggio politico. Si è colpevolmente baloccato nella fantasiosa convinzione che il Belpaese ne sarebbe uscito meglio di altri, e che il nostro sistema di Welfare e di ammortizzatori sociali era il migliore del mondo. Ora sappiamo che non è così. E anche l'esecutivo, forse, se ne rende conto. Per questo Tremonti rilancia la riforma fiscale. E fa bene a farlo. I dati dell'Istat confermano quanto ci sia bisogno, in questa scellerata nazione, di un po' di cara, vecchia, keynesiana redistribuzione del reddito. Ma proprio per questo, quando si parla di rimettere mano alle aliquote Irpef secondo i dettami del Libro Bianco del '94, servirebbe un'estrema cautela.

Come dimostrano le simulazioni della Cgia di Mestre, il sistema delle due sole aliquote (23 e 33 per cento) rischia di ampliare ulteriormente la forbice il piano basso e quello alto della piramide sociale. Se con la nuova "curva" impositiva una famiglia con un figlio a carico e due redditi per un totale di 21.500 euro risparmia solo 520 euro l'anno, mentre la stessa famiglia senza figlio a carico risparmia la bellezza di 2.320 euro, vuol dire che non siamo sulla buona strada. Meno tasse per tutti è un principio sacrosanto. Ma lo è ancora di più quello della progressività dell'imposta, sancito anche dalla Costituzione. L'Italia ha un tragico problema che riguarda i salari del lavoro dipendente, falcidiati dal carico fiscale e contributivo. È lì che deve agire la riforma fiscale, come ha detto il presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine d'anno. Ed è lì che deve muoversi il governo di centrodestra. Anche se non è quello il suo bacino politico-elettorale, quello dovrebbe essere il suo dovere etico-morale.

(11 gennaio 2010)
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« Risposta #100 inserito:: Gennaio 13, 2010, 05:16:26 pm »

IL COMMENTO

L'eterno ritorno

di MASSIMO GIANNINI


La "fase due" del governo, che contemplava la "rivoluzione fiscale" e le "grandi riforme nell'interesse del Paese", corre sullo stesso binario dal quale si è mossa la terza legislatura berlusconiana. All'indomani del trionfo del 13 aprile 2008 il primo atto dell'esecutivo fu il Lodo Alfano. Oggi, venti mesi dopo, il primo atto della "ripartenza" è un decreto legge che sospende i processi del presidente del Consiglio. Nella parabola del Cavaliere non esiste un nuovo inizio, ma solo un eterno ritorno. Oggi, il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare quella che, ad un parziale e sommarissimo esame, appare come l'ennesima "ghedinata", benché concepita molto meglio delle precedenti.

Il provvedimento ha una tortuosa discendenza giuridica. Congelerà i procedimenti penali nei quali il pm abbia chiesto e ottenuto, durante il dibattimento, "contestazioni suppletive" a carico dell'imputato (Berlusconi rientra nella fattispecie, avendone subite sia nel processo Mills che in quello sui diritti tv Mediaset). La norma "sospensiva", studiata come sempre dagli avvocati-parlamentari del premier, si renderebbe necessaria per consentire allo stesso imputato, sottoposto ai nuovi addebiti, di scegliere il rito abbreviato (che in base al codice attuale gli sarebbe permesso solo nella fase precedente, cioè nell'udienza preliminare). Il tutto, sulla base di un principio di "parità" di trattamento del cittadino di fronte alla legge fissato dalla Corte costituzionale in una sentenza pubblicata giusto il 14 dicembre scorso, passata inosservata ma foriera di effetti "straordinari" (nel senso letterale, cioè "non ordinari").

È sulla base di questa sentenza, infatti, che Berlusconi può sperare in un via libera al decreto da parte del presidente della Repubblica. Volendo seguire le sue false promesse di riconciliazione disseminate in queste ultime settimane, verrebbe da chiedere al premier perché non ha anticipato a Giorgio Napolitano l'intenzione di presentare questo provvedimento nel suo incontro al Quirinale di due sere fa. Oppure, volendo seguire le sue eversive minacce di strumentalizzazione formulate in questi ultimi mesi, si potrebbe chiedere al premier perché oggi gli torna utile la pronuncia di quel "covo di comunisti" rinchiusi nel palazzo della Consulta, e se anche quella costituzionale, stavolta, si possa definire "giustizia a orologeria". Ma mettiamo da parte la correttezza istituzionale e la coerenza personale, che è materia indisponibile nel presidente del Consiglio.

Mai come in questo caso, di fronte ad una vicenda così delicata, ci rimettiamo alla saggezza del Capo dello Stato. Al suo ruolo di custode delle regole e di garante delle istituzioni. Sta a lui valutare se una misura "straordinaria" come questa (sia pure finalizzata a colmare una lacuna dell'ordinamento vigente già rilevata dalla Consulta) possieda effettivamente i requisiti di "necessità e urgenza" richiesti dalla Costituzione. Sta a lui giudicare se una sospensione dei processi, che consenta all'imputato di esercitare anche in fase dibattimentale il diritto al rito abbreviato, si possa raggiungere anche attraverso la semplice "fisiologia" della procedura penale (cioè le decisioni dei singoli giudici, attraverso le istanze di remissione), oppure attraverso il ricorso alla legislazione ordinaria (cioè le decisioni del Parlamento, attraverso un disegno di legge).

Ma di questo provvedimento, nel frattempo, possiamo denunciare senz'altro la rovinosa conseguenza politica. Ancora una volta, il Paese e il Parlamento sono paralizzati dalla permanente ossessione giudiziaria del presidente del Consiglio. Le istituzioni sono ostaggio della sua costante emergenza processuale. In questo clima (come dimostra il surreale annuncio sulle tasse e su due sole aliquote Irpef) per il governo non esiste un'altra "agenda". Non esistono altre "priorità". Soprattutto, non esistono "riforme". Com'è logico e giusto, di fronte all'ennesima forzatura del Cavaliere il Pd chiude tutte le porte al confronto. Anche quelle poche che erano state aperte, con troppa fretta e troppa approssimazione.
Bersani, legittimamente, aveva detto: discutiamo di tutto, a patto che il premier rinunci alle leggi "ad personam". È successo l'esatto contrario, ed ora l'opposizione annuncia l'ostruzionismo, com'è suo dovere in una democrazia degna di questo nome. Così finisce il gigantesco equivoco del "dialogo", che in realtà era solo una colossale trappola. Così svaniscono i propositi gandhiani del premier. A prenderla sullo scherzo, torna in mente un vecchio film di Massimo Troisi: pensavo fosse amore, invece era un calesse. Ma nell'Italia berlusconiana, ormai, non c'è proprio niente da ridere.

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« Risposta #101 inserito:: Gennaio 21, 2010, 06:10:55 pm »

IL COMMENTO

Il cimitero del diritto

di MASSIMO GIANNINI


Con un tocco di comicità involontaria, il presidente del Consiglio dice l'indicibile: non si presenta nelle aule dei processi Mills e diritti tv Mediatrade perché il tribunale di Milano è "un plotone di esecuzione". Ma nello stesso giorno in cui si lascia andare all'ennesimo attacco contro la magistratura, lui stesso trasforma le aule del Parlamento nella "camera a gas" del diritto. Non c'è altro modo per definire il via libera del Senato alla riforma del cosiddetto "processo breve". Oggi si celebra la morte della giurisdizione, violata e uccisa in nome di tutti, ma per salvare la vita di uno solo. Un'altra legge ad personam, la ventesima in quindici anni, che fingendo di stabilire termini rigorosi per l'avvio e la conclusione dei processi, e nel rispetto apparente del riformato articolo 111 della Costituzione, ha come unico scopo quello di considerare automaticamente "estinti" i due processi che vedono ancora coinvolto Silvio Berlusconi. La micidiale "norma transitoria" stabilisce che i limiti temporali ridotti riguardano tutti quei processi in corso "per reati coperti dall'indulto e puniti con pena pecuniara o detentiva inferiore ai 10 anni". In questi casi, con la nuova legge il giudice dichiara il "non doversi procedere per estinzione" del processo se sono decorsi 2 anni da quando il pm ha avviato l'azione penale e se non è stato definito ancora il primo grado di giudizio.

È qui l'ennesima "ghedinata". Il cavillo inventato dai Dottor Stranamore del diritto che assistono Silvio Berlusconi, e che hanno ritagliato a misura per lui l'ultima norma-vestitino, grazie alla quale gli ultimi due processi che ancora lo riguardano finiranno sepolti nel cimitero della giustizia. Può tuonare quanto vuole, il premier, contro l'opposizione che sale sulle barricate e l'intero corpo delle toghe civili e penali che rilancia il suo allarme. Può ripetere all'infinito, con l'impudenza di Don Rodrigo, che questa "non è una legge ad personam". Lo smentisce, per paradosso, uno dei suoi "bravi" più truci e fedeli. Maurizio Gasparri afferma sicuro: "La legge non cancellerà la giustizia, e infatti riguarderà solo l'1 per cento dei processi". È la prova regina che serviva, per dimostrare che siamo ancora una volta allo "stato di eccezione" decretato nell'interesse esclusivo del premier. Delle due l'una. O c'è un'esigenza pubblica di abbreviare i processi che riguarda tutti i cittadini, e allora è necessario che la nuova legge incida su tutte le cause pendenti. Oppure c'è un'urgenza privata che riguarda solo un cittadino, e allora è sufficiente che la nuova legge incida solo sui suoi e su pochi altri processi. "L'1 per cento", secondo Gasparri. È questa la posta in gioco della pretesa "riformatrice" del centrodestra. È in nome di questa che si fa scempio delle regole costituzionali, a partire dal principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Poco importa se, in quell'1 per cento, con la nuova legge si farà strage di processi enormi come Cirio-Parmalat, Antonveneta-Bnl ed Eni Power. La sola cosa che importa è che, con quell'1 per cento, muoiano i due processi pendenti del Cavaliere. È un brutto giorno per la nostra democrazia, che si indebolisce ogni giorno di più. Ma è anche una bella lezione per il Pd, che si illude di "trattare" sulle riforme con Berlusconi. Se nel campo di battaglia della giustizia c'è davvero un "plotone di esecuzione", non lo comandano certo le "toghe rosse" del Tribunale di Milano, ma semmai le "anime nere" del Partito delle Libertà.

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« Risposta #102 inserito:: Febbraio 01, 2010, 10:32:28 am »

LO SCENARIO

Geronzi verso le Generali il potere economico si blinda

di MASSIMO GIANNINI


Nel capitalismo italiano c'è una "bomba" innescata. Se esplodesse rivoluzionerebbe in modo profondo, anche se gattopardesco, la fisionomia del potere economico del Paese. Nella prossima primavera Cesare Geronzi potrebbe diventare presidente delle Generali. Con la soddisfazione dei "soliti noti" del Salotto Buono, che possono continuare a dormire sonni tranquilli al riparo dei patti di sindacato e a dispetto dei conflitti di interesse. E con la benedizione di Silvio Berlusconi, che può contare su un riassetto dell'establishment per lui tutt'altro che sfavorevole. Se n'era parlato più volte, dopo l'estate. Poi l'ipotesi era stata accantonata. Ora è invece tornata d'attualità, nei palazzi che contano a Roma e a Milano. Anche se, con ogni probabilità, i diretti interessati la smentiranno. Il momento è propizio. L'opinione pubblica è distratta. Da una parte le faide sulle regionali e lo scontro sulla giustizia. Dall'altra la grottesca "corrida spagnola" su Telecom, che adesso il governo di centrodestra sta per vendere sottobanco a Telefonica, dopo aver costruito nel 2008 una campagna elettorale populista e sciovinista per salvare l'Alitalia "tricolore".

Nel frattempo, le "casematte" della finanza si riorganizzano. Per consolidare gli assetti azionari, e tenere lontani gli outsider. Per conservare gli organigrammi, e garantire le catene di comando.
Geronzi, dunque, si prepara all'"arrocco" perfetto. La prima mossa, nella grande scacchiera del credito, fu la "variante di Luneburg": nel maggio 2007 lascia Roma e se ne va a Milano. "Sacrifica" il suo pezzo più pregiato, Capitalia (creatura plasmata attraverso la fusione da Prima Repubblica tra Cassa di Risparmio, Banco di Roma e Banco di Santo Spirito) per approdare a Mediobanca. Ascende al trono che fu del Grande Vecchio del capitalismo italiano, Enrico Cuccia, e apre la partita a nuovi scenari, nuove combinazioni. Ora potrebbe scattare la seconda mossa. Per salvare se stesso, e per blindare gli equilibri di un sistema finanziario sempre più cristallizzato, sarebbe pronto a fare un altro salto. Lasciare Milano, e andarsene a Trieste. Al vertice della più grande compagnia d'assicurazione italiana, una delle "prede" più ambite per la finanza internazionale.

Tutto ruota intorno ai suoi problemi giudiziari. L'attuale presidente di Mediobanca è stato prosciolto per il crac Federconsorzi. È stato assolto in appello per il crac Italcase, dopo esser stato condannato in primo grado. È indagato per usura aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac Parmalat-Ciappazzi, e il processo in corso a Parma è molto insidioso. È stato rinviato a giudizio per estorsione e bancarotta societaria per il filone Eurolat, e il processo è stato trasferito a Roma. È indagato per frode nel crac Cirio. La sua posizione di banchiere, che presuppone precisi requisiti di onorabilità, diventerebbe insostenibile se qualcuno dei procedimenti in corso dovesse portare ad un'altra condanna. La legge bancaria non perdona, secondo la declinazione severa del governatore della Banca d'Italia Draghi. Nelle assicurazioni la legislazione è più lasca. Per questo Geronzi, smentendo tutto in pubblico, da mesi in privato si tiene aperta la porta delle Generali. Nella compagnia del Leone Alato il presidente attuale è Antoine Bernheim, un signore di 83 anni suonati che viene dalla Banque Lazard del mitico Andrè Meyer. Non proprio un ragazzino, anche se in teoria dovrebbe restare in carica anche il prossimo anno. Ma nessuno gli ha assicurato la riconferma, come ha detto lui stesso ai primi di settembre. Qualche amico, oltrefrontiera, gli ha dato una mano. L'11 settembre Emilio Botin, presidente del Banco Santander azionista di Generali con lo 0,3%, ha azzardato: "Per me Bernheim è un presidente fantastico". Il 18 settembre Vincent Bollorè, azionista di Mediobanca, ha ribadito "Antoine è un ottimo presidente".

Ma i grandi azionisti italiani, quelli che decidono sul serio, hanno taciuto tutti. E ora, da Trieste, una fonte qualificata conferma: "Il destino di Bernheim è segnato". All'assemblea di primavera, suo malgrado, l'ottuagenario Bernheim se ne andrà in pensione. "Antoine si metta l'anima in pace  -  dicono fonti vicine alla compagnia - quel posto è di Geronzi". Questo avrebbe deciso il patron di Mediobanca, insieme agli amici del Salotto Buono. Così il primo eviterebbe contraccolpi di natura giudiziaria, e i secondi preverrebbero fastidi di origine finanziaria. Ma come in ogni partita a scacchi, una mossa ne innesca molte altre. L'intreccio azionario della vecchia Galassia del Nord è micidiale. È impossibile muovere una pedina senza che l'intera scacchiera si metta in movimento. E così, se Geronzi andasse in Generali, lascerebbe sguarnita la poltrona di Mediobanca. E Piazzetta Cuccia è il cuore del sistema, la cassaforte dov'è racchiuso quel tanto o poco che ancora conta in Italia.

Mediobanca, con una quota del 14,75%, è il primo azionista di Generali. Con un 14,2% di capitale è anche primo azionista nel patto di sindacato Rcs Mediagroup (con la Fiat, la Pirelli, le stesse Generali, Intesa San Paolo, Fonsai, Italmobiliare e Dorint) e insieme a Generali controlla Telecom, con un 11,6% detenuto nella holding Telco. A sua volta Generali, con un 2% controllato direttamente e un altro 2% attraverso le partecipate, è uno dei soci forti del patto di sindacato Mediobanca. È secondo azionista di Banca Intesa con oltre il 5%, dopo la Compagnia di San Paolo e insieme ai francesi di Credit Agricole, e partecipa al patto di sindacato di Pirelli con il 4,4%, insieme alla stessa Mediobanca, alla stessa Intesa San Paolo e alla Fonsai di Ligresti.
Un groviglio spaventoso, dove i controllati controllano i controllanti, e ovviamente viceversa. Per questo, per un Geronzi che traslocasse a Trieste, ci sarebbe bisogno di un presidio sicuro a Milano. E qui, secondo fonti finanziarie milanesi, entrerebbe in partita Marco Tronchetti Provera, attuale vice di Geronzi insieme a Dieter Rampl (in quota Unicredit). Nel rito geronziano toccherebbe a lui il passaggio da presidente della Pirelli (controllata da Mediobanca-Generali e a sua volta azionista di Mediobanca) a presidente di Piazzetta Cuccia. "Per l'establishment sarebbe la scelta più sicura  -  dice un banchiere  -  perché arrivando da una Pirelli non proprio in salute garantirebbe tutti i soci forti della Galassia e rimetterebbe in gioco lui dopo i guai di Telecom". Sarebbe un doppio salto mortale. Oltre tutto, a quanto si sa, per niente gradito a Draghi. Ma bastano i dubbi di Via Nazionale a bloccare questi numeri da circo? Lo show-down, oltre tutto, non si fermerebbe qui. Geronzi, stavolta secondo fonti romane, benché traslocato a Trieste nel più ricco e prestigioso "satellite" della Galassia, vorrebbe continuare ad esserne il centro. Per questo starebbe orchestrando un'operazione ancora più ambiziosa, ancorché macchinosa. Mediobanca annacquerebbe la sua quota in Generali, per far posto nel patto di sindacato ai francesi di Axa (secondo colosso assicurativo europeo) ai quali cederebbe una parte delle sue azioni (ora pari al 2%) anche Francesco Gaetano Caltagirone. Così Geronzi sarebbe più forte e più autonomo. C'è chi dice addirittura al punto di portare in dote alle Generali un maxi-accordo con gli americani di Aig. Ma ci sarebbe una contropartita anche per Caltagirone: per ricambiare il favore fatto ad Axa, i francesi di Suez-Gdf toglierebbero il disturbo da Acea (a sua volta partecipata da Generali con l'1,9%) lasciando definitivamente campo libero nel settore delle acque al costruttore romano, tuttora tra i più "liquidi" in circolazione. Non può essere un caso se, proprio in questi giorni, il sindaco di Roma Alemanno, smentendo clamorosamente quello che aveva giurato un anno fa, ha annunciato l'intenzione del Comune di cedere la quota del 20% detenuta in Acea a "imprenditori legati al territorio". E chi altri, se non Caltagirone, il suocero di Pierferdinando Casini che alle regionali del Lazio venderà il suo pane, guarda caso, al forno della Pdl per sostenere Renata Polverini?

Così si chiuderebbe la partita. Il Sistema sarebbe al sicuro. È a dir poco "barocco". Può esistere solo in un Paese come l'Italia. Tende a preservare se stesso. Ma è un sistema che conviene a molti. A chi ne fa parte (come imprenditore) e a chi se ne serve (come politico). Per questo Berlusconi avallerebbe l'intera operazione di Geronzi su Generali e Mediobanca attraverso Gianni Letta, che in questi mesi non ha mai interrotto i contatti con "l'amico Cesare". Senza considerare che il Cavaliere, in Piazzetta Cuccia, ha ormai un peso fortissimo: è nel patto di sindacato con un 1% intestato direttamente a Fininvest (che per questo un anno fa ha potuto piazzare in cda la sua "presidentessa" Marina, primogenita di Silvio) e un 3,3% controllato attraverso la Mediolanum di Ennio Doris.

Nel blocco di potere politico-economico-finanziario che si cementa nel triangolo Roma-Milano-Trieste tutto si tiene. Completato l'"arrocco", Geronzi e le sue pedine, dietro la regia interessata di Palazzo Grazioli, finirebbero per avere in mano un "caveau" nel quale sono custoditi, nell'ordine, uno dei più grandi giganti assicurativi d'Europa (Generali), la prima merchant bank italiana (Mediobanca), una delle prime due banche commerciali del Paese (Intesa San Paolo), la rete delle telecomunicazioni e il broadband (via Telecom e Pirelli), uno dei primi due giornali nazionali (il Corriere della Sera), le costruzioni (gruppo Ligresti), i servizi idrici ed energetici (Acea). Sarà per questo che chi sembra coltivare progetti alternativi alla Galassia (Luca di Montezemolo) o chi per scelta ne è sempre più ai margini (Alessandro Profumo) viene visto come una "minaccia". E sarà per questo che chi coltiva progetti per il dopo-Berlusconi, come Giulio Tremonti, sta mettendo in piedi un blocco di contro-potere misto, metà pubblico e metà privato, che spazia dalle banche locali alla futura Banca del Sud, dalla Cassa depositi e prestiti alle Poste, dalla Consip alla moltiplicazione delle Spa di Stato nella Difesa e nella Protezione Civile. Ma sarà molto difficile scalfire l'acciaio col quale l'establishment del Grande Nord protegge se stesso e sorregge l'"ordine politico costituito". Alla faccia delle "élite che complottano" contro il Cavaliere, e dei "Poteri Forti che congiurano" contro il governo.

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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 02, 2010, 02:27:23 pm »

L'ANALISI

I falsi cadornisti di Palazzo Chigi

di MASSIMO GIANNINI


UNA POLITICA industriale cervellotica e schizofrenica. Non c'è altro modo per giudicare le non-scelte del governo sugli asset stretegici del Paese. Due anni fa, in piena campagna per le elezioni politiche, Berlusconi costruì una sua dissennata linea del Piave per difendere Alitalia dall'assalto dei francesi. Oggi, alla confusa vigilia delle elezioni regionali, il premier sbaracca la sua disastrata linea Maginot per regalare Telecom agli spagnoli.

Non sarà certo "Repubblica" a gridare allo scandalo perché un altro pezzo importante del nostro Sistema-Paese finisce in mani straniere. Certo non si può gioire per questo. Ma già due anni fa considerammo strumentale e anti-storica la difesa sciovinista dell'"italianità" della compagnia di bandiera, e sbagliata perché più incerta e costosa la nascita della "Fenice", la famosa cordata tricolore di Colaninno&soci. Se l'opzione autarchica era di per sé discutibile allora nel trasporto aereo, lo è altrettanto oggi nelle telecomunicazioni. Ma nell'affare Telecom-Telefonica, come giustamente anticipava Paolo Gentiloni su "Affari & Finanza" di ieri, ci sono buchi neri clamorosi.

Il primo buco nero è politico. Se il centrodestra considera l'italianità delle aziende un valore in sé, allora deve farlo valere sempre e non a corrente alternata. Ma ci rendiamo conto che è impossibile esigere coerenza da chi ha costruito la sua intera biografia personale sulle bugie. Tuttavia qui una domanda è d'obbligo: che ruolo avrà Mediaset? C'è qualche nuovo interesse in conflitto, tra la decisione sul destino di un "bene pubblico" come le tlc e la posizione del presidente del Consiglio-proprietario di un impero radiotelevisivo privato? Non sarebbe la prima volta. Ma sarebbe gravissimo se per qualche ragione segreta o per qualche via traversa anche "l'azienda di famiglia" partecipasse alla festa di matrimonio, magari anche solo attraverso partite di scambio lucrate in terra spagnola.

Il secondo buco nero è finanziario. Come si celebreranno le nozze non è affatto chiaro. Telecom è controlata da Telco, la holding che possiede il 22,5% del capitale, suddiviso in quote paritetiche tra Telefonica e i soci italiani (Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo). Il resto è polverizzato tra migliaia di piccoli azionisti. Qui le domande sono tante. Come avverrà la fusione? Con un'Offerta pubblica di acquisto e scambio? A quali prezzi e con quali valori di concambio? E come saranno tutelate le minoranze? Sarà importante capirlo, per avere la certezza di chi ha vinto la partita (sicuramente Carlos Alierta) e chi potrebbe perderla più di altri (i risparmiatori in Borsa).
Il terzo buco nero è economico.

Nelle condizioni attuali Telecom non può reggere. Ha debiti per 35.185 milioni di euro, deve ridurre il suo perimetro operativo (vedi vicenda Argentina), è costretta a dimezzare gli investimenti. Quando fu privatizzata valeva il triplo di Telefonica: oggi è il contrario. Ma Telecom ha in pancia una risorsa straordinaria: la rete, sulla quale non transitano più solo i telefoni, ma Internet, la banda stretta, quella larga e in prospettiva anche quella ultra-larga. Cioè tutto ciò che serve a modernizzare e a connettere un Paese. La rete è un monopolio naturale, e come sostiene Franco Bernabè non può essere scorporata dall'azienda, senza decretarne l'"eutanasia" industriale.

Qui la domande sono due. Che ne sarà della rete? Chi la controllerà e con quali risorse? Secondo le indiscrezioni, il governo punta a ottenere dagli spagnoli garanzie attraverso clausole e patti para-sociali. Sarebbe bene conoscerli. Già quando nacque Telco agli spagnoli furono imposte ben 28 condizioni. Se ne potranno aggiungere altre 28, o magari 128. Ma alla fine quello che importa sapere non è solo chi sarà il vero "padrone" della rete, ma come potrà farla fruttare, potenziandola e portandola ovunque c'è bisogno.
Speriamo che Berlusconi, Scajola e Romani colmino presto questi buchi neri. Quello che difficilmente riusciranno a dimostrare è che il Paese sta facendo l'affare del secolo. È vero, da questa fusione può nascere il più grande player delle telecomunicazioni globali. Ma l'Italia, ancora una volta, arriva all'altare sconfitta. Per l'insipienza dei politici, molto più che dei manager, è costretta ad arrendersi a un "matrimonio riparatore". La stessa cosa, temiamo, succederà molto presto all'Alitalia con Air France. Ma è questo che piace, evidentemente, ai falsi "cadornisti" di Palazzo Chigi.
m.gianninirepubblica.it
 

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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 10, 2010, 12:18:47 pm »

L'ANALISI.

Per Bini Smaghi il vero nodo della crisi è politico la moneta unica resiste e l'effetto domino non ci sarà

La Bce lancia un appello ai governi "A Bruxelles serve un segnale forte"

di MASSIMO GIANNINI


"LA crisi peggiore da quando esiste l'euro è anche la prova che l'euro resiste alla crisi...". Con un gioco di parole Lorenzo Bini Smaghi prova a girare in positivo il monito di Joaquin Almunia.

Il membro italiano della Banca centrale europea, dal grattacielo dell'Eurotower, trasmette un messaggio preoccupato, ma non un allarme da "economia di guerra". Nel fortino assediato di Eurolandia sta succedendo di tutto. Il Financial Times evoca una gigantesca ondata speculativa in avvicinamento sulla moneta unica: hedge funds e traders scommettono al ribasso sul collasso debitorio dell'eurozona con posizioni a breve per quasi 8 miliardi di dollari. La Grecia annaspa paurosamente, sommersa da un deficit che supera il 10% del Pil, e per allentare le tensioni sui cambi il governo Papandreu annuncia il pannicello caldo di un aumento di due anni (da 61 a 63) dell'età pensionabile. La Spagna soffre pericolosamente, e per convincere i mercati che Madrid non rischia un default il governo Zapatero spedisce il suo ministro delle Finanze Elena Salgado nella City di Londra, mentre il suo delegato Manuel Campa grida al complotto: "Niente di quello che sta accadendo nel mondo, compresi certi editoriali di giornali stranieri, è casuale e innocente...". Gli spread, per i Paesi del Club Med, sono incandescenti: nei titoli di Stato i differenziali sul bund tedesco fotografano la Grecia a una distanza di 350 punti base e la Spagna a 95, mentre nei "credit default swaps" la Grecia è a quota 390, il Portogallo a 230, la Spagna a 160.

Alla Bce c'è preoccupazione. Non solo per il bradisismo attuale dei mercati, ma anche per l'andamento generale dell'economia: "Le prospettive di ripresa congiunturale del 2010 sembrano meno rosee di come apparivano qualche mese fa...", avverte Bini Smaghi. Ma nelle stesse ore in cui Wolfgang Munchau rievoca il crac del '92, quando l'attacco concentrico della speculazione sulla sterlina e sulla lira mise in ginocchio il Sistema monetario europeo, a Francoforte si ripete come un esorcismo che proprio per questa ragione, se oggi non ci fosse lo scudo dell'euro, il disastro sarebbe molto peggiore di quello di 17 anni fa. "Questa  -  dicono all'Eurotower  -  è una lezione da trarre dalla crisi: siamo di fronte al primo, difficile test sulla tenuta dell'euro, ma l'euro sta dimostrando di poter reggere l'urto". Detto questo, nessuno sottovaluta le criticità che ci sono, e sono tante. Ma mai come oggi, si dice a Francoforte, occorrono nervi saldi e "capacità di cogliere le differenze". La traduzione è semplice: i banchieri centrali al momento non vedono agitarsi per il mondo il fantasma dell'"effetto-domino", ma vedono aggirarsi per l'Eurozona un vero grande malato, che è la Grecia. Un Paese "con un deficit al 12,7% del Pil, che si è permesso il lusso di raddoppiare gli stipendi nel pubblico impiego". La Spagna ha un deficit altrettanto alto, "ma per esempio ha un debito inferiore al 50% del Pil". La stessa Irlanda, nonostante i disastri bancari, "ha preso il toro per le corna e ha varato interventi severi che i mercati hanno registrato positivamente". Ma ad Atene la situazione è molto più grave. Soprattutto per la debolezza politica del governo, che non sembra in grado di imporre al Paese le cure draconiane di cui avrebbe bisogno.

Questo, soprattutto, spaventa la Bce, dove si ripropone l'antico e irrisolto peccato originale di Eurolandia: un'area che può contare sull'unità monetaria ma non sulla sovranità politica. Uno strano pezzo di mondo in cui, come sostiene l'economista della Goldman Sachs Thomas Stolper, un insieme di stati nazionali battono la stessa moneta ma non praticano la stessa disciplina fiscale. Anche in questo momento di acuta fibrillazione monetaria e finanziaria, ripete Bini Smaghi, "il nodo è interamente politico". E non serve invocare la "congiura mercatista", come fanno in alcune capitali europee. "Speculazione sì, cospirazione no", ammonisce opportunamente Miguel Jiménez sul Pais. Accusare i mercati, per la politica, è solo una via di fuga dalla propria "mission". Può sembrare il solito mantra autoassolutorio caro a tutte le tecnocrazie, culturalmente apolidi e politicamente irresponsabili. Ma anche stavolta ha un oggettivo fondo di verità.

Per questo, da Francoforte, si guarda con grande attesa al meeting europeo di domani, a Bruxelles. "Lo scorso anno, dal vertice convocato da Sarkozy sulle banche, arrivò un segnale forte da parte dei governi, che servì a placare i mercati in una fase di grande difficoltà per le crisi creditizie. Dal summit di giovedì ci aspettiamo un esito analogo". I segnali sembrano propizi. Il vertice sarà un battesimo di fuoco per la leadership del neo-presidente europeo Van Rompuy. La Commissione non esclude una forma di aiuto alla Grecia. La stessa Germania, sempre restia a lanciare ciambelle di salvataggio ai paesi lassisti, apre spiragli sugli aiuti bilaterali. Anche la Francia appare possibilista alla vigilia dell'arrivo a Parigi del premier greco, che oggi sarà ospite all'Eliseo. Sul tema dei "bailouts" la Bce è invece molto cauta: si tratta di capire di che aiuti si tratta, e quali vincoli si impongono a chi li riceve. Non si può dare a un Paese l'impressione che si possa derogare ai vincoli di bilancio nella convinzione che altrove esista sempre un pagatore di ultima istanza. Ma soprattutto quello che non si deve fare è chiedere il "soccorso esterno" all'Fmi. Se alla prima difficoltà della moneta unica si fa ricorso al sostegno di un'istituzione esterna all'eurozona si lancia un messaggio politico rovinoso.

In un paesaggio globale così inquietante, per puro paradosso, la piccola Italia sembra quasi un'oasi di pace. Il differenziale dei Btp sul Bund tedesco si è mantenuto intorno agli 86 punti base: poca roba rispetto alla forbice che tormenta i "Pigs". Finora il Tesoro non ha avuto difficoltà a gestire il collocamento dei suoi titoli, e non si prevedono rischi per l'asta di Bot annuali da 7 miliardi in programma per oggi. Bini Smaghi traccia un quadro tutto sommato rassicurante: "Il debito resta molto alto, ma il deficit si mantiene entro livelli accettabili. Certo, le riforme strutturali sono più che mai urgenti e ancora non si vedono, ma in un ciclo di grande turbolenza come questo anche l'eccesso di prudenza può sembrare una virtù...". Di qui a vantarsene come fa Berlusconi, tuttavia, ce ne corre. Nel Belpaese gli italiani cantano "meno male che Silvio c'è". A Francoforte non si uniscono al coro: ripetono "meno male che l'euro c'è".

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