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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 165433 volte)
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« Risposta #315 inserito:: Aprile 09, 2014, 06:33:37 pm »

Bentornati nel mondo reale

di MASSIMO GIANNINI
09 aprile 2014
   
Stavolta, a Palazzo Chigi, niente slide e pesciolini rossi. Il Def è un documento cruciale. Impegna il governo non solo di fronte al Paese e al Parlamento, ma anche e soprattutto di fronte alla Commissione Europea e poi all'Ecofin, che dovranno esaminarlo, approvarlo o correggerlo nel prossimo mese di giugno. Per questo, in attesa di leggere il testo definitivo varato dal governo, la prima e la più importante valutazione da fare è che la fase delle televendite è conclusa, o quanto meno sospesa. Matteo Renzi rinuncia ad usare le sue abituali "armi di persuasione di massa".

Pier Carlo Padoan comincia ad usare le sue essenziali "strategie di contenimento". Il risultato è un Documento di Economia e Finanza ancora denso di zone d'ombra, ma sufficientemente credibile sul piano numerico, e sostanzialmente condivisibile sul piano politico. Il roboante esordio nella stanza dei bottoni e l'ubriacante tour nelle capitali europee ci avevano restituito un presidente del Consiglio fin troppo convinto che "l'Europa cambia verso" e che l'Italia può "forzare" la griglia degli impegni comunitari. La conferenza stampa di ieri, volitiva ma non certo pirotecnica come la precedente, ci restituisce invece un premier che per fortuna ha imparato a fare qualche conto con la realtà. E la realtà, purtroppo, è che non siamo in condizione di sottrarci ai vincoli di bilancio che abbiamo volontariamente sottoscritto.

Li rispetteremo, ora è nero su bianco. E questa è già un'ottima notizia, che ci mette al riparo dai pericolosi avventurismi e dai penosi velleitarismi delle ultime settimane. Questo non significa morire di austerità. La scommessa del Def è raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica non solo attraverso le manovre di contenimento del deficit e del debito, ma soprattutto attraverso la crescita del Pil sostenuta dalle riforme strutturali da approvare nel frattempo.

Nessuno, nemmeno Renzi-Mandrake che gioca al "rullo compressore" e Padoan-Lothar che fa il severo controllore, può escludere che il piano di riforme fallisca. Ma obiettivamente, in attesa di convincere la signora Merkel e l'intera Eurozona a rivedere le basi economiche della sua convivenza, questo è l'unico modo per disinnescare la gigantesca mannaia del Fiscal Compact e del Six Pack, che dal 2016 ci obbligherebbero a rientrare di un ventesimo l'anno della parte di debito che eccede il 60% del Pil. Vuol dire stangate da 50 miliardi l'anno per i prossimi 15 anni. Cioè la pura e semplice macelleria sociale.

Viceversa, come ha spiegato Padoan, ci basterebbe ottenere di qui ai prossimi tre anni una crescita nominale del 3%, di cui un 1% di aumento del Pil e un 2% di aumento dell'inflazione, e la ghigliottina ci sarebbe risparmiata, perché il debito si ridurrebbe in automatico per il solo effetto della crescita del Prodotto lordo. La scommessa è tutta qui. Ricorda quella che fecero Prodi e Ciampi sugli spread tra il '96 e il '99, quando l'ingresso nell'euro senza uccidere l'economia nazionale fu assicurato dall'enorme risparmio di spesa per interessi e dall'avanzo primario cumulato in quegli anni: grazie alla "cura" e alla credibilità di quel governo, il differenziale con i tassi tedeschi scese in due anni da 600 a zero punti.

La storia non si ripete mai due volte. E quando lo fa o è tragedia o è farsa. Tuttavia, nelle condizioni date, è l'unico azzardo che si può tentare. Tutto ruota intorno alle riforme, alla loro praticabilità e alla loro incisività. I chiaroscuri sono ancora tanti, e Renzi non li ha affatto illuminati. Non è chiaro come sarà articolato il taglio del cuneo fiscale nella busta paga di maggio, e come sarà applicato ai cosiddetti "incapienti". Non è chiaro dove calerà la scure della Spending Review che rischia di riprodurre il nefasto schema tremontiano dei tagli lineari. Non è chiaro quando la riduzione dell'Irap, e dunque il contestuale aumento dell'imposta sulle rendite finanziarie. Non è chiaro quanto e quando saranno saldati i crediti dello Stato verso le imprese. E nulla si sa ancora di come saranno davvero riformati il fisco, la Pubblica Amministrazione e il mercato del lavoro.

Nell'immediato restano due cose buone, purché non si rivelino una tantum. Gli 80 euro mensili di sgravio Irpef, che Renzi chiama la "quattordicesima nelle tasche degli italiani", è una bella boccata d'ossigeno per molte famiglie. Il miliardo in più di tassazione sulle banche, per le plusvalenze realizzate con la rivalutazione delle quote di Bankitalia, è una scelta di equità che riequilibra il prelievo tra chi ha molto e chi ha poco. Se a questo si aggiungono il tetto agli stipendi dei manager e il rilancio dei tagli a tutte le caste, viene fuori un pacchetto di misure dal forte sapore elettorale. Riflettono quella vena di "populismo dolce" di cui Renzi è obiettivamente portatore. Ma incrociano un sentimento fortemente radicato nella società italiana.

Per questo il premier cresce nell'indice di fiducia e il Pd vola nei sondaggi. Ogni giorno che passa - tra la battaglia sul Senato e questo stesso Def - diventa sempre più evidente che il voto europeo del 25 maggio sarà lo snodo esiziale della legislatura. Renzi cerca lì il suo "lavacro", per purificarsi del peccato originale commesso ai danni di Enrico Letta. Ce la può fare, con Grillo fiaccato dalle risse tra "cittadini" e Berlusconi affidato ai servizi sociali. Ma dal 26 maggio la stagione delle promesse deve finire. Bentornati nel mondo reale.

m. giannini@repubblica. it
© Riproduzione riservata 09 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/09/news/bentornati_nel_mondo_reale-83101077/?ref=HREA-1
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« Risposta #316 inserito:: Giugno 01, 2014, 05:58:00 pm »

La sfida keynesiana di via Nazionale

di MASSIMO GIANNINI
31 maggio 2014
   
SAREBBE fin troppo facile mettere in sequenza le parole di Squinzi e le Considerazioni Finali di Visco, e leggerle come un convinto sostegno al «governo Leopolda». Cioè l’ennesima prova del solito vezzo italiota, che spinge tutti a salire sul carro del vincitore. È chiaro che il plebiscito riscosso da Renzi alle europee induce partiti, istituzioni e corpi intermedi a ripensare ruoli e collocazioni. Non serve aver studiato Gramsci, per capire l’importanza del consenso nei rapporti di forza e, in prospettiva, nella costruzione di un’egemonia. Dunque c’è anche questo, nell’apertura di credito sulle riforme tributata l’altro ieri dal presidente di Confindustria, e rilanciata ieri dal governatore di Bankitalia. Il riconoscimento di una grande legittimazione, che obbliga a una grande responsabilità. Con il voto del 25 maggio, gli elettori hanno detto a Renzi: vogliamo fidarci di te, ma ora fai quello che hai promesso.

Squinzi e Visco gli ripetono la stessa cosa. Ora hai la forza: usala non più solo per raccontarci come va cambiato il Paese, ma per cambiarlo davvero.

La Banca d’Italia non si limita a dire al premier che è sulla buona strada, con il bonus Irpef da 80 euro alle famiglie e con l’accelerazione del pagamenti dello Stato alle imprese. Lo ammonisce a non abusare della solita leva fiscale (visto che la nuova Tasi inciderà in molti comuni più della vecchia Imu). E gli suggerisce una vera e propria sfida keynesiana. Il rigore è servito a sanare i conti pubblici, anche se il debito resta intollerabilmente alto. Ma i costi dell’austerity, combinati con la Grande Crisi, sono stati micidiali. La crescita latita, e la deflazione incombe.

Per questo urgono le riforme che scandiscono il crono-programma renziano. Con due caveat, fondamentali. Il primo: le riforme non basta annunciarle a Palazzo Chigi e presentarle in Parlamento, bisogna tradurle in pratica (se è vero che solo il 48% delle 69 leggi di riforma varate tra novembre 2011 e aprile 2013 sono arrivate alla fase attuativa). Il secondo: la ripresa non verrà, e i posti di lavoro non nasceranno, se alle riforme non si accompagna un coraggioso rilancio degli investimenti (negli ultimi 4 anni quelli pubblici sono crollati del 30%, nel 2013 quelli privati sono scesi al 17% del Pil, livello più basso del dopoguerra). Aumentare la produttività è necessario, ma è inutile se non si rimette in moto la domanda. Non serve esser rimasti folgorati sulla via tracciata da Thomas Piketty, per rendersene conto.

Stavolta c’è anche un altro messaggio, che viene dalle élite. Ed è un messaggio che finalmente rimette al centro dell’agenda italiana non solo la recessione e la disoccupazione, ma anche la nuova Questione Morale che squassa il Paese, da Milano a Reggio Calabria.
Il presidente di Confindustria, due giorni fa, ha parlato di «scatto morale». Puntando il dito contro le stesse imprese che rappresenta, e dicendo «chi corrompe fa male alla propria comunità, fa male al mercato, produce un grave danno alla concorrenza e a i suoi colleghi». Spetta a «noi imprenditori il dovere di difendere la nostra casa dai corrotti che ci danneggiano e di denunciare i corruttori che ci taglieggiano ». Il governatore della Banca d’Italia, ieri, è stato persino più duro. Tra gli interventi di riforma più urgenti non ha ricordato né la spending review né il fisco, ma «quelli che riguardano la tutela della legalità».

Forse mai, nei saloni di Via Nazionale, si era sentita una condanna così netta contro «corruzione, criminalità, evasione fiscale» che, oltre a «minare alla radice la convivenza civile», distorcono il mercato e distruggono lo Stato, accentuano il carico fiscale per chi paga le tasse e bloccano la generazione di nuove occasioni di lavoro. Forse mai, nelle parole di un governatore, si era celebrato un processo così duro al sistema delle imprese e a quello delle banche, sempre più spesso accusate di malaffare proprio nel tanto celebrato «territorio»: Come dimostrano gli scandali Mps e Carige, e come confermano quei 45 casi di «irregolarità di possibile rilievo penale» scoperti dalla Vigilanza, su 340 ispezioni effettuate presso altrettanti istituti di credito.

«Comportamenti inaccettabili», li definisce Visco, che invoca a più riprese «ossequio della legge », «rispetto delle regole e linearità di comportamenti ». Era ora che l’establishment uscisse allo scoperto, e si pronunciasse su un tema così dirimente. Invece di voltare lo sguardo altrove, come ha fatto troppe volte prima, durante e dopo Tangentopoli, e poi nel ventennio berlusconiano, dominato dalla caduta del principio di legalità e dallo Stato d’eccezione permanente. L’Italia di oggi, purtroppo, sconta anche questo: uno spread etico, non solo economico. E da quello non ci salva la Bce di Draghi, ma solo la buona politica.

m. giannini@ repubblica.it
© Riproduzione riservata 31 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/31/news/la_sfida_keynesiana_di_via_nazionale-87709531/?ref=HREA-1
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« Risposta #317 inserito:: Giugno 05, 2014, 07:25:22 pm »

Corruzione, la Grande Ipocrisia
L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco.
Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male


Di MASSIMO GIANNINI
05 giugno 2014
   
Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali?

Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione".

Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale.

Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan.

La legge Severino occasione mancata
Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva.

Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto.

I segnali contraddittori del Parlamento
La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro.

Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più.

Il governo Renzi la Grande Speranza
Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata.

È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio".

Lo strano caso del Def depotenziato
Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione".

La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese?

Le prossime tappe del cronoprogramma
Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/05/news/grande_ipocrisia-88085898/?ref=HREA-1
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« Risposta #318 inserito:: Settembre 02, 2016, 05:44:08 pm »

La giunta Raggi e l'innocenza perduta
Dal poco che trapela dalle "segrete stanze" del Movimento, i dimissionari pagano una "crisi di rigetto" che, fin dalla vittoria elettorale alle amministrative di giugno, sta avvelenando l'organismo pentastellato

Di MASSIMO GIANNINI
02 settembre 2016

SE ROMA è lo "stress test" che misura la capacità di governo del Movimento 5 Stelle, i segnali che arrivano dalla Capitale non sono confortanti per il Paese. Diciamo la verità, nessuno poteva pretendere che la giunta guidata da Virginia Raggi, in poco più di un mese, potesse ripulire la città eterna di tutti i suoi atavici mali: mafia e monnezza, buche e pantegane. Ma allo stesso modo nessuno poteva immaginare che il Campidoglio pentastellato, dopo appena settanta giorni, facesse saltare cinque poltrone in un colpo solo. E non poltrone qualsiasi. Un capo di gabinetto, i tre manager che guidano Atac e Ama (le due municipalizzate più disastrate d'Italia) e soprattutto un super-assessore al Bilancio che era il vero (e forse unico) fiore all'occhiello di questa giunta: quel Marcello Minenna, trasferito a forza dalla Consob, che aveva in mano il portafoglio e il patrimonio di Roma, gravato da un debito monstre di quasi 13 miliardi. Un fatto grave. Anche al di là delle ovvie invettive del Pd, che farebbe bene a non maramaldeggiare troppo sulla Capitale, visto che ha allegramente e colpevolmente contribuito a ridurla com'è.

Ma se persino Paola Taverna parla di "perdita gigante", vuol dire che qualche ingranaggio più "strutturale", nella macchina del potere pentastellato, si è rotto davvero. E se non piangessimo i morti di un terremoto vero, che ha distrutto vite e destini, dovremmo parlare di un sisma politico, che squassa il movimento e apre una faglia profonda proprio nel luogo simbolo in cui Grillo tenta di dimostrare quello che, finora, rimane indimostrabile e indimostrato: e cioè che il Movimento, elaborato il lutto di Gianroberto Casaleggio, è ormai entrato nell'età adulta, ed è ormai pronto a guidare l'Italia. Purtroppo, per un Paese ormai "tripolare" che avrebbe un urgente bisogno di alternative politiche tutte ugualmente credibili e spendibili, le cose non stanno affatto così. L'alternativa non esiste più a destra, perché tra le macerie del berlusconismo si vedono avanzare solo fantasmi. Ma non esiste ancora nei 5 Stelle, perché tra le "anime" del grillismo si vedono crescere solo miasmi. Cosa è successo, infatti, a Roma? E perché queste cinque dimissioni in un solo giorno sono inquietanti? Per due ragioni di fondo.

La prima ragione è di merito. Questa "rottura" multipla, che indebolisce drammaticamente una squadra già di per sé non eccelsa (almeno rispetto alle attese), non avviene su temi concreti, che riguardano la vita di tutti i giorni di quattro milioni di cittadini. Raineri o Minenna non se ne vanno perché non c'è accordo con la Raggi o con gli altri assessori su come risolvere il problema dei rifiuti, o su come rendere più efficiente il trasporto urbano, o sui lavori che sarebbero necessari se si accettasse la candidatura alle Olimpiadi. Dal poco che trapela dalle "segrete stanze" del Movimento (e già questa formula obbligata ne tradisce la vocazione originaria), i due dimissionari pagano una "crisi di rigetto" che, fin dalla vittoria elettorale alle amministrative di giugno, sta avvelenando l'organismo pentastellato. È in corso, dicono, un regolamento di conti: da una parte c'è la sindaca e i suoi fedelissimi, sempre più chiusi dentro al "raggio magico", dall'altra ci sono gli "esterni" e i "tecnici", sempre più esclusi e scontenti. Perché litigano? I cittadini romani, e noi tutti, vorremmo saperlo.

E invece non lo sappiamo. Perché nessuno spiega niente. E quello che vediamo e abbiamo visto finora non è un dibattito serrato e concreto su come si abbatte il debito, su come si riduce l'addizionale Irpef, su come si migliora il decoro urbano, ma l'ennesima, estenuante querelle sulle nomine e sugli stipendi degli amministratori. Come avrebbero fatto i dorotei o i craxiani di una volta. E com'era già successo agli stessi parlamentari grillini dopo il successo elettorale del 2013, quando sprecarono il primo anno a Montecitorio non a illustrare agli italiani come si finanzia davvero il reddito di cittadinanza, ma a sbranarsi tra loro sugli scontrini e le ricevute del ristorante.

E qui emerge la seconda ragione, che invece è di metodo. I Cinquestelle hanno avuto un merito oggettivo: hanno cambiato i modi e i tempi della comunicazione politica, anche attraverso l'uso "orizzontale" della Rete. Ora, quello che è appena accaduto nella Capitale ha una portata politica evidente. E dunque dovrebbe essere raccontato con assoluta chiarezza all'opinione pubblica. Non può bastare un post sulla pagina Facebook della sindaca, pubblicato alle quattro del mattino, in cui la Raggi si limita a dare una lettura banalmente burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto, senza dire nulla di quelle del super assessore al Bilancio. Salvo poi parlare del dovere della "trasparenza".

Gestito così, il Campidoglio non è una casa di vetro. Diventa una corte di Bisanzio. Un concentrato di veleni e di arcana imperii di cui nessuno sa e capisce nulla. Una guerriglia sotterranea tra un maxi e un mini direttorio, un conflitto permanente tra correnti palesi e occulte, che in qualche caso fanno rimpiangere i partiti vecchi e rissosi della Prima Repubblica.

Dov'è finita la "diversità" pentastellata? Dove sono finite l'"innocenza" e la "purezza" del Movimento, il "non partito" con il "non statuto", che nasce e cresce dal basso e che in virtù dei sacri principi fondativi ("uno vale uno", "i leader non esistono") rivoluziona la politica e rifonda la democrazia? Per adesso, il "grillismo reale" precipita in un vortice di impreparazione e di presunzione. Si avvita in una spirale di velleitarismi e di personalismi. Ribellarsi alle élite è giusto. E il Movimento, con i suoi quasi 9 milioni di elettori alle politiche del 2013, ha dato corpo esattamente a questa legittima istanza di "ribellione democratica". Ma governare è un'altra cosa. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista lo sanno bene. Quando in gioco c'è non solo il Campidoglio, ma in prospettiva addirittura Palazzo Chigi, il motto "meglio inesperti che disonesti", per quanto rassicurante, non può più bastare.

Con questo articolo Massimo Giannini torna a scrivere per " Repubblica"

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02 settembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/09/02/news/l_innocenza_perduta-147036326/?ref=fbpr
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« Risposta #319 inserito:: Dicembre 10, 2016, 09:34:23 am »

Se il voto diventa un rito cannibale

Di MASSIMO GIANNINI
08 dicembre 2016

UNA macabra 'cerimonia cannibale' si consuma intorno al corpo stanco del Paese. La politica, terremotata dall’ordalia referendaria, divora se stessa. E precipita l'Italia in una crisi di governo che si fa sempre più indecifrabile. Renzi si dimette, la sinistra fagocita un altro dei suoi leader. Ma Renzi non esce di scena, come aveva promesso. Semmai rilancia: chiama tutti i partiti a un’impossibile 'grande abbuffata', che non vedremo mai. E quindi si rilancia, forse per oggi, sicuramente per il futuro: solo io posso succedere a me stesso.

Se la direzione del Pd doveva chiarire cosa c'è dietro l'angolo, l'obiettivo è fallito. L'ex premier ha parlato da premier ancora in carica. Non una parola sulla disfatta referendaria, molte parole sulle cose fatte nei mille giorni e su quelle ancora da fare. La serena, equilibrata consapevolezza di domenica è durata lo spazio di una notte. Il 'discorso della sconfitta' è già dimenticato, quasi che la sconfitta non sia mai esistita. Anzi il Pd, pare, sta conoscendo "un boom di iscrizioni". Se è stata indecorosa la festa della minoranza del partito, che in un impeto bertinottiano ha brindato alla caduta del 'suo' governo, lo è altrettanto la festa di Renzi, che "alza i calici" non si sa bene a che cosa.

Questa è una crisi totalmente autoprodotta. Nata da un referendum che doveva purificarlo dal peccato originale (guidare un governo non eletto), e invece si è rivelato un perfetto suicidio politico. E complicata da un azzardo morale (imporre al Paese una legge elettorale valida solo per la Camera, nella fallace certezza che gli italiani avrebbero detto sì all’abolizione del Senato elettivo).

Cosa propone Renzi per uscire dal vicolo cieco nel quale ha cacciato l’Italia?
Due soluzioni, ugualmente impercorribili. La prima è il 'governo di responsabilità', aperto a tutti i partiti che, insieme al Pd, devono assumersi la responsabilità di far uscire il Paese da questa impasse. In teoria, è una buona formula. Presuppone, appunto, la presa in carico dei problemi del Paese, che vengono prima dei destini dei leader, e la ricerca di soluzioni credibili e condivise, nell’interesse dei cittadini- elettori. Ma se diventa, in pratica, l’ennesimo 'proiettile d’argento' sparato nel buio di una notte repubblicana in cui la politica tenta solo di salvare se stessa, senza preoccuparsi di salvare l’Italia, allora si trasforma nel suo contrario. Una proposta irresponsabile, perché palesemente impercorribile: il mucchio selvaggio, tutti dentro, dove in quel tutti ci dovrebbero essere anche i 5 Stelle, notoriamente indisponibili a qualunque 'contaminazione'. Dunque a cosa servirebbe, se non a essere respinta dal Quirinale? C'è solo un'altra possibilità: che 'governo di responsabilità', in realtà, significhi 'Grande Coalizione' con Berlusconi. L'ipotesi è improbabile: per quello che vale, il Cavaliere si è già chiamato fuori. Ma soprattutto è inaccettabile: dopo aver tuonato da un anno contro gli inciuci, Renzi non può riproporre un Nazareno 4.0, senza perdere la faccia e la dignità.

La seconda proposta non è meno impercorribile. Perché questa crisi sconta una doppia anomalia: non nasce da una caduta della maggioranza, e non prevede la possibilità di scioglimento immediato delle Camere (come sostiene Mattarella, è realmente 'inconcepibile' votare con due sistemi elettorali diversi tra i due rami del Parlamento, pena il passaggio dalla confusione di oggi al caos di domani). Dunque Renzi dice: non abbiamo paura di niente e di nessuno, se qualcuno vuole votare subito dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum, fissata il 24 gennaio, noi siamo pronti. Ma la sentenza della Corte non sarà 'auto-applicativa', quindi servirà comunque tempo per recepirne i contenuti in una legge. Votare 'sotto la neve', come si diceva ai tempi della crisi berlusconiana, sarà impossibile.

E allora cosa ha in testa Renzi? Lui lo esclude, ma forse è un reincarico, con la stessa maggioranza di oggi. O per portare il Paese al voto anticipato in primavera, ma dalla poltrona di Palazzo Chigi, gestendo gli 'importanti appuntamenti internazionali' che fanno brillare gli occhi al premier uscente. O per arrivare addirittura alla fine della legislatura del 2018, se ci sono le condizioni. Uno scenario che non ha molte più chance di essere attuato. Se non al prezzo di altre rotture. Una rottura con il suo partito, perché la minoranza non glielo consentirebbe. Una rottura con se stesso, perché il Renzi rottamatore, ultrarapido e ultramoderno, capace di rompere le vecchie liturgie e gli antichi compromessi, tornerebbe in campo con un 'bis' doroteo da Prima Repubblica, degno di un Forlani qualsiasi.

Tutto è nelle mani del Capo dello Stato. Nella 'cerimonia cannibale' della politica c’è di tutto. Spirito di vendetta e istinto di conservazione. Quello che manca, clamorosamente, è ciò che serve ed è utile al Paese. L'esito del referendum poteva stupire solo chi, troppo impegnato nello storytelling dei giorni felici, in questi tre anni non ha mai voluto guardare la faccia triste dell’Italia. Quel mare di No che ha travolto il governo nasce per una buona metà da un disagio sociale profondo e sempre negato. Ma per un'altra metà nasce dal rifiuto di una brutta riforma costituzionale. Il messaggio che quei 17 milioni di italiani hanno mandato, con il rifiuto di un 'Senato non elettivo', è chiaro: ci siamo, vogliamo decidere noi chi ci deve rappresentare. La risposta a questa domanda di partecipazione non può essere il quarto governo non eletto, che dura fino alla scadenza naturale della legislatura. Bisogna ridare al popolo ciò che il popolo chiede: il diritto di scegliere. Al più presto. Questo non è populismo. È Costituzione.

Ma come ha scritto Mario Calabresi, le elezioni non possono diventare un salto nel buio. O peggio ancora una roulette russa. Quindi una legge elettorale serve, e serve un governo 'di scopo', sostenuto dalla maggioranza di oggi, o da chi ci sta. Non c'è da aspettare il nuovo Consultellum, o rieditare il vecchio Italicum. Volendo, c’è a disposizione un sistema eccellente, maggioritario, che ha già funzionato in modo egregio quando l'Italia usciva dalle secche di Tangentopoli, nel 1993. Si chiama Mattarellum, dal nome dell’attuale presidente della Repubblica.
Basta una legge di una riga, per farlo rivivere. Basta una settimana di lavori parlamentari, per approvarlo. Poi torniamo pure alle urne. Ma finalmente 'sereni'. Senza pistole puntate sulla tempia.

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08 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/08/news/se_il_voto_diventa_un_rito_cannibale-153685884/?ref=HREA-1
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« Risposta #320 inserito:: Dicembre 17, 2016, 01:58:51 pm »

Lo straniero alle porte e l'inutile linea del Piave
Di MASSIMO GIANNINI
16 dicembre 2016

Lo straniero è alle porte, e noi non abbiamo niente da metterci. Un invasore minaccia di portarsi via un altro campione nazionale, e il Paese trabocca di orgoglio ferito e stupito. Certo, stavolta la posta in gioco è alta. In tutti i sensi: economico, politico, simbolico. Vincent Bolloré osa l'assalto al cielo, portando un attacco ostile al cuore del potere berlusconiano. Il blitzkrieg, forse non per caso, avviene in un momento di relativa fragilità del Paese. La resistibile armata renziana si è ritirata a Pontassieve, dopo la disfatta referendaria.

La timida pattuglia di Gentiloni muove i primi passi in una terra incognita. E così, come sempre e più di sempre, rispuntano i patrioti del giorno dopo. Riemergono gli alfieri dell'italianità perduta. "Non passi lo straniero". Ma il grido di battaglia risuona stanco. Soprattutto inutile, nell'era dei mercati liberi, apolidi e irresponsabili. Ciononostante, come cantava De André, le regine del tua culpa affollano i parrucchieri. È vero che Mediaset non è un'azienda qualsiasi. "Qui è in gioco l'Azienda Italia", dice il presidente del Consiglio, lasciando intendere che Palazzo Chigi potrebbe ingaggiare un'aspra resistenza contro i francesi. Il premier si sbaglia. Per due buone ragioni.

La prima ragione è storico-politica: se quella fosse davvero la posta in palio, il suo monito sarebbe tardivo. L'Azienda Italia ce la siamo già giocata da un pezzo. La nostra Caporetto si consuma da anni, nell'incoscienza del pubblico e nell'insipienza del privato. Governi senza idee, abituati alle partite di scambio e ai negoziati corporativi, incapaci di concepire politiche industriali e di far crescere settori strategici. Capitalisti senza capitali, affezionati alla rendita e ai comodi servizi in concessione, incapaci di investire nell'innovazione di prodotto e di processo. Se ne sono andati così, nei decenni, i pezzi migliori.

Se parliamo solo di Francia, è emigrata oltralpe la proprietà di Edison e Carrefour, Parmalat e Galbani, Bnl e Cariparma, per non parlare di Bulgari e Fendi, Pomellato e Loro Piana. Alla Borsa di Milano le partecipazioni degli investitori francesi pesano per 34,5 miliardi, il 7% del listino. Sono cadute una alla volta (compresa l'ultima, Pioneer, che Unicredit ha ceduto tre giorni fa ad Amundi, per 3,5 miliardi). Accompagnate da un rammarico parolaio che elude i veri problemi, mai risolti. La pessima gestione delle imprese e delle banche (che le rende fortunatamente contendibili) e l'atavica carenza di un solido Sistema-Paese (che le rende giustamente indifendibili).

La seconda ragione è tecnico-giuridica. Di strumenti per difenderci non ce ne sono. E quelli che ci sono, nelle condizioni date, non è forse neanche giusto utilizzarli. La discesa in campo dell'Agcom non pare l'arma fine di mondo. Semmai un'arma di distrazione di massa. La scalata di Vivendi a Mediaset sarebbe preclusa dal fatto che le due partecipazioni di Bolloré (Telecom e Mediaset) già ora supererebbero i limiti di concentrazione previsti dal combinato disposto del "mercato prevalente delle telecomunicazioni" (40%) e del cosiddetto Sic, "Sistema integrato delle comunicazioni" (10%).

Parliamo di tutto e di niente. La legge Gasparri introdusse il "Sic" proprio per ampliare all'infinito (e all'indefinito) la natura del business tv-tlc, per consentire allo stesso Berlusconi, allora premier, di tenersi ben stretto il suo impero mediatico. Una legge colabrodo, dunque. Fu scientemente e serenamente aggirata allora, quando in ballo c'erano gli interessi del Cavaliere. E potrebbe esserlo allo stesso modo oggi, quando in gioco ci sono quelli di un suo avversario. Si vedrà nei prossimi giorni.

Ma quello che si vede già oggi è che il "cadornismo" non ci salverà. È troppo tardi. Quando avremmo dovuto resistere non lo abbiamo fatto. Nell'ultimo anno proprio le manovre occulte o palesi di Bolloré hanno rivelato in modo plastico le debolezze italiane. Due re sono nudi, di fronte all'offensiva transalpina. È nudo Berlusconi. Il vecchio sovrano, stanco e malato, ha lasciato che i figli sbagliassero tutto lo sbagliabile su Mediaset. Chiudendo con un bagno di sangue la vendita di Endemol. Evitando l'accordo con Murdoch, nel timore di finire divorati dallo Squalo. Cercando di condividere con il falso amico bretone il rosso di Mediaset Premium. Ora che Bolloré ha gettato la maschera, il paradosso è che proprio il Cavaliere, il thatcheriano alle vongole, chiede l'aiuto dello Stato. E si gioca la richiesta di protezione al tavolo della crisi di governo, perpetuando una volta di più l'immane e irrisolto conflitto di interessi che non lo ha mai abbandonato. Quanto può essere utile il "soccorso azzurro" a un Gentiloni che al Senato ha una maggioranza di un pugno di voti? Quanto può servire il sostegno forzista, a un Pd che in Parlamento deve trovare un alleato per riscrivere la legge elettorale?

Ma è nudo anche Renzi. Il "Royal Baby", sconfitto ma non domo, che in estate ha fatto cacciare l'amministratore delegato di Mps ma in inverno non ha battuto ciglio di fronte a Bolloré nell'altra, decisiva scalata a Telecom (quella sì, "inappropriata", per usare la formula di Calenda). Avrebbe potuto, perché la "golden power", introdotta per legge nel 2012, permette allo Stato di intervenire (anche nei casi in cui non sia azionista) su acquisti in corso di aziende che possiedono asset di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Su Vivendi (francese e dunque comunitaria) lo Stato non potrebbe vietare in assoluto l'acquisto di partecipazioni. Ma avrebbe potuto stabilire condizioni prescrittive sui medesimi acquisti, e in ogni caso impugnare delibere degli organi societari. Avrebbe potuto esercitare una "moral suasion", anche politica, perché nel caso Telecom la partita riguarda le infrastrutture di rete (e non solo i "contenuti tv", come nel caso di Mediaset). Renzi avrebbe potuto. Ma non l'ha fatto. Magari è stato anche meglio così, visti i disastri infiniti compiuti dai sedicenti "poteri forti" intorno alla telefonia italiana, dalla privatizzazione della Stet in poi. Ma il risultato è che anche Telecom è andata, nel borbottio sterile e colpevole dell'establishment.

Siamo terra di conquista, e la colpa è solo nostra. Cadranno altri bastioni. L'assedio francese, che parte da Telecom e incrocia Mediaset, potrebbe arrivare fino a Mediobanca, e per questa via (con lo sbarco di SocGen) alle
Generali. La "magnifica preda", come la chiamava Enrico Cuccia. La guerra è globale, e noi la combattiamo a mani nude. Anche per questo, oggi, non avrebbe alcun senso "morire per Arcore". Sarebbe un'inutile linea del Piave.

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16 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/12/16/news/lo_straniero_alle_porte_e_l_inutile_linea_del_piave-154228962/?ref=HRER2-1
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« Risposta #321 inserito:: Dicembre 31, 2016, 02:26:55 pm »

Mps, le risposte che mancano
L'inizio della fine comincia con Mussari, che compra Antonveneta e fa esplodere i conti. La cronaca di questi mesi ha zone d'ombra e il salvataggio della banca avrà costi enormi, ancora incalcolabili

Di MASSIMO GIANNINI
30 dicembre 2016

ABBIAMO messo in sicurezza il risparmio". Anche Paolo Gentiloni ricalca le orme di Matteo Renzi. Anche il nuovo premier, dopo aver varato il decreto salva-Mps, tira un sospiro di sollievo, come fece il vecchio premier il 22 novembre 2015, dopo aver varato il decreto salva-Etruria. Sollievo malriposto. Allora come oggi. Il salvataggio della banca più antica del mondo avrà costi enormi, ancora incalcolabili.
 
I20 MILIARDI stanziati sono nuovi debiti pubblici.
Dall'anno prossimo peseranno sulle tasche di tutti i contribuenti. È giusto sacrificarsi per Siena. Ma a patto che si faccia luce sull'infinita catena di errori commessi in questi anni (magari proprio con quella famosa commissione d'inchiesta che Renzi lanciò a sproposito il 23 dicembre 2015). E a patto che si fissi almeno un punto fermo: chi ha sbagliato, una volta tanto, tolga il disturbo. A pagare il conto finale non può essere sempre e solo Pantalone. Pantalone siamo noi. Vorremmo almeno sapere, con qualche domanda, chi dobbiamo "ringraziare".
 
IL TESORO.
In una lunga intervista al Sole 24 Ore, il ministro Padoan ripercorre a modo suo il calvario di Mps. Nulla c'è ancora di chiaro, sulle modalità con le quali saranno "coperti" gli obbligazionisti della banca, e quali saranno, anche in questo caso, i sommersi e i salvati. Per il resto, il ministro dice: "Non sono affatto pentito di aver sostenuto, nel rispetto del ruolo di tutti, l'operazione di mercato". Ma non era forse già chiaro a luglio che la "strada privata" avrebbe portato a un vicolo cieco? Si può considerare il licenziamento di un amministratore delegato come Fabrizio Viola, deciso con una telefonata fatta "per conto" dell'allora premier Renzi il 7 settembre, una mossa "nel rispetto del ruolo di tutti"? O qui non c'è forse una clamorosa invasione di campo della politica, che invece di salvare la banca quando le condizioni lo consentivano si è avventurata in un'improbabile "operazione di mercato"? Padoan aggiunge: do il "pieno sostegno all'attuale management della banca", compreso l'ad Marco Morelli. Considerato che in questi anni Mps ha bruciato 17 miliardi di patrimonio, non è il momento di attuare anche in Italia il metodo Obama, che nel 2009 varò il "Tarp", un piano di intervento dello Stato nelle banche da 700 miliardi di dollari, che aveva come condizione l'azzeramento totale di tutti i vertici e la nomina di manager pro tempore scelti dallo Stato? Padoan si lamenta perché "nel nostro Paese non sono sanzionate abbastanza le responsabilità di singoli manager che hanno prodotto danni rilevanti a investitori, azionisti, risparmiatori". Giusto, ma allora perché non presenta una legge che introduce e inasprisce queste sanzioni? Lui è il governo: ha l'obbligo politico e morale di parlare e di agire come il ministro del Tesoro, non come un cittadino qualunque.
 
LA BCE.
La Banca centrale europea ha avuto un ruolo cruciale, fa il suo mestiere. Ma il suo "accanimento terapeutico" nei confronti di Siena merita qualche chiarimento. Dopo gli stress test del 23 giugno, la Vigilanza europea guidata dalla francese Danièle Nouy impone la ricapitalizzazione da 5 miliardi entro il 31 dicembre. In base a quale criterio, solo 4 giorni fa, la Bce chiede per lettera al Monte di aumentare la ricapitalizzazione a 8,8 miliardi? Cosa è cambiato, in questo frattempo? E in base a quale principio Francoforte impone a Mps la stessa copertura patrimoniale (il Cet1, fissato all'8%) che nel 2015 applicò alle banche greche, mentre nelle stesse ore riduce dal 10,7 al 9,5% l'analogo parametro richiesto alla Deutsche Bank (la banca europea con il portafoglio più "zavorrato" dal peso dei titoli tossici)? Mario Draghi, giustamente, ha fatto della cosiddetta "accountability" la sua religione. Ma la necessità di "rendere conto" del proprio operato, a Francoforte, deve valere per tutti.
 
LA BANCA D'ITALIA.
Via Nazionale ha avuto un ruolo importante. Non tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che non ha fatto. Sul fronte "esterno": il governatore Visco siede nel board di Francoforte, e l'italiano Ignazio Angeloni siede in quello della Vigilanza europea. Perché sono mancate comunicazioni puntuali tra l'Eurotower e Palazzo Koch? Sul fronte interno: la direttiva sul bail in (che scarica i costi dei fallimenti bancari su azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100 mila euro) viene approvata dalla Ue nel 2014, e in Italia viene introdotta per la prima volta un anno dopo con il "decreto di risoluzione" su Banca Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti. Perché Bankitalia (che solo in seguito si dichiarerà contraria a quelle norme, applicate in modo retroattivo su tutti i risparmiatori) non fa una campagna per sensibilizzare l'opinione pubblica e convincere i governi a modificarla? E poi, più in particolare sull'affare Mps: perché il governatore ripete dal gennaio 2013 che la banca "non ha problemi di tenuta ", mentre nei due anni successivi Viola è costretto a chiedere aumenti di capitali per ben 8 miliardi? Perché in estate non si oppone alla cacciata dello stesso Viola, decisa da Renzi il 6 luglio dopo una colazione di lavoro a Palazzo Chigi con il presidente di Jp Morgan, Jamie Dimon? Perché in autunno non si oppone al rinvio dell'aumento da 5 miliardi, che Renzi decide di spostare a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, per evitare di dover mettere la faccia su un sicuro fallimento? Queste risposte sarebbero necessarie. Al contrario di quello che avviene per le ispezioni (sulle quali pure ci sarebbero tante domande da fare) non si viola nessun segreto d'ufficio.
 
LA CONSOB.
La commissione che vigila sulle società e la Borsa non può chiamarsi fuori dalle responsabilità. Stendiamo un velo pietoso sui derivati Alexandria e Santorini, che cinque anni fa nessuno vide e nessuno bloccò. Anche negli ultimi mesi su Mps sono accadute anomalie che una Vigilanza seria avrebbe potuto e dovuto intercettare. Almeno due delle emissioni obbligazionarie a rischio ("Lower Tier 2", a scadenza 2020) risultano vendute ai clienti al dettaglio della banca durante la gestione di Giuseppe Vegas. Se questo è vero, perché la Consob non le ha valutate e non le ha bloccate? E se invece non è vero, perché non smentisce e non chiarisce esattamente chi e quando ha autorizzato che cosa?
 
I VERTICI MPS.
Il "groviglio armonioso", a Siena, ha radici antiche. L'inizio della fine, com'è noto, comincia con Giuseppe Mussari, che compra Antonveneta dal Santander per oltre 9 miliardi, la cifra folle che fa esplodere i conti. Questa ormai è storia. La cronaca di questi ultimi mesi presenta zone d'ombra non meno inquietanti. Da settembre, dopo la famigerata "telefonata di licenziamento" di Padoan, ai vertici Mps siede Marco Morelli, già dirigente della banca ai tempi di Mussari. Insieme a Jp Morgan e Mediobanca (finora curiosamente rimasta "al riparo" da critiche) è proprio Morelli a farsi garante della cosiddetta operazione "di mercato", cioè del reperimento dei 5 miliardi di capitali privati. Ed è proprio Morelli a ventilare fino all'ultimo la possibilità che grandi fondi esteri intervengano nella ricapitalizzazione, nel ruolo di "anchor investor", convincendo il Tesoro a rinviare fino all'ultimo un intervento pubblico su Mps che si poteva e si doveva fare almeno sei mesi fa.
 
Dunque: quando e con chi ha parlato Morelli, tra i rappresentanti del fondo sovrano del Qatar? Quali sono stati i suoi interlocutori nel fondo gestito da George Soros? E quali offerte concrete aveva in mano, quando il 7 dicembre il cda della banca ha chiesto alla Bce una proroga al 20 gennaio 2017, per il closing dell'operazione? È il minimo che si possa chiedere a un manager che ha un compenso fisso di 1,4 milioni, superiore a quello del suo pari grado di Bnp Paribas. Per gestire la peggiore delle grandi banche europee, guadagna più di quello che guida la migliore. Come direbbero un Longanesi o un Flaiano: ah, les italiens...

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30 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/30/news/mps_giannini-155101167/?ref=HRER2-1
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« Risposta #322 inserito:: Gennaio 29, 2017, 08:46:24 pm »

Chi cade sui bastioni di Trieste nella battaglia per Generali

Di MASSIMO GIANNINI
26 gennaio 2017

L’ultima battaglia che si sta consumando intorno a quel che resta del povero, provinciale capitalismo italiano fa venire in mente Schiuma della Terra di Arthur Koestler. Passeri cinguettano sul filo del telegrafo, mentre il telegrafo trasmette l’ordine di sterminare tutti i passeri. Cos’altro sono i colpi incrociati tra Banca Intesa e Mediobanca, che si contendono le Generali? Nulla è ancora chiaro, nelle mosse dei contendenti. Non si capisce ancora se si profila una “guerra mondiale” in cui c’è in gioco la difesa della mitica “italianità” (minacciata dai giganti d’Oltralpe Axa e Allianz) o più banalmente si combatte una “guerricciola di potere” casareccia (la banca di Carlo Messina che vuole estorcere l’eredità a quella di Alberto Nagel).

Certo, vista con gli occhialini sfocati della piccola Italia la posta in palio sembra enorme: il Leone Alato resta pur sempre la “magnifica preda” che Enrico Cuccia ha difeso per anni con le unghie e con i denti. Il primo gruppo assicurativo tricolore, con una raccolta premi da 25,5 miliardi e un attivo di 496. Sforna 2 miliardi di utile, e stacca ai soci un dividendo di 72 centesimi per azione.

Ma con uno sguardo retrospettivo sul passato, e con gli occhi rivolti al mercato globale, le forze in campo diventano una somma di debolezze. E quando c’è troppa debolezza, non ti puoi meravigliare se arriva il più forte, fa strage di passeri e si porta via il bottino. Che ostenti il tricolore, come Intesa, o che batta un’altra bandiera, come Allianz o Axa. Fa lo stesso. È la lezione di Schumpeter, che valeva ieri e vale anche oggi. Generali e Mediobanca sono il Salotto Buono che esiste ormai solo nel “giornalese”, e non più nel Paese. Il Leone Alato è tuttora “strategico” per noi, anche solo per il fatto che si porta in pancia qualcosa come 60 miliardi di titoli del debito pubblico italiano. Ma in vent’anni ha perso tutti i suoi primati, che nascevano dall’internazionalizzazione. Il volume dei premi (scivolati al terzo posto in Europa). Il valore di Borsa (crollato da 42,5 a 24 miliardi in 10 anni). Il livello degli attivi (scesi alla metà di quelli della francese Axa e della tedesca Allianz, rispettivamente 887 e 833 miliardi).

Da anni, ormai, Generali ha smesso di crescere, e si è arroccata nell’asfittica e ormai quasi patetica Fortezza Italia. Il mondo è cambiato, dai tempi di Randone e Coppola di Canzano, di Gutty o dello stesso Bernheim. La compagnia non ha tenuto il passo dei cambiamenti. Ha rinunciato a sviluppare il business, per concentrarsi sulla rendita. In Italia ha comprato tutto il comprabile (Ina, Alleanza, Toro), mentre all’estero ha ceduto pezzi anche pregiati. Si è svenata in operazioni “di sistema” spesso fallimentari (da Alitalia a Telecom, da Ntv a Mps) e si è rifiutata di intervenire in quelle davvero convenienti (come l’affare Pioneer, colosso del risparmio gestito colpevolmente lasciata ai francesi di Amundi).

Oggi Generali è sottocapitalizzata: il patrimonio netto più le riserve ammontano ad appena 25 miliardi, il coefficiente di solidità Solvency Ratio II è fermo al 171% (contro il 205 di Axa e il 200 di Allianz). Ma anche questa fragilità, per paradosso, è frutto di una scelta. Generali è stata l’architrave dei Poteri Forti, in un groviglio azionario in cui, nel vecchio gioco delle scatole cinesi, si incrociava tutto, grandi griffe e grandi famiglie: da Mediobanca a Unicredit, dagli Agnelli ai Pirelli. L’obbiettivo era blindare il sistema, e rendere le partecipate non contendibili. Quindi niente aumenti di capitale, che avrebbero diluito le quote degli azionisti, e in compenso laute cedole.

Così è stato, da anni. E così continua ad essere, se è vero che l’ultimo Ceo di Generali Philippe Donnet ha brindato “ai più alti dividendi della storia” (5 miliardi, in valori aggregati). Peccato che per garantirli ha avviato una bella campagna di dismissioni, provando a cedere le attività di Generali in Francia e in Germania (che da sole valgono 27 miliardi di premi). Detta brutalmente: sottrai risorse al business, per distribuirle ai soci. Tutto legittimo, per carità. Ma poi non puoi sorprenderti se arriva uno più grosso di te e ti vuole mandare a casa.

Di chi è la colpa? Dei manager degli ultimi anni? In parte, certo. Ma non si può non vedere che la responsabilità principale, oggi, ricade proprio sugli azionisti delle Generali, che non hanno mai smesso di mungere il Leone. E se oggi rischiano di cadere i bastioni di Trieste, cadono insieme anche quelli già debolissimi di Piazzetta Cuccia. È stata ed è Mediobanca, con il suo 13%, che ha imposto la sua camicia di forza su Generali. È Mediobanca che ha impedito a Generali di nuotare in mare aperto, con la scusa dell’eterna protezione. Per una volta, viene da dare ragione a Cesare Geronzi, transitato sulle poltrone di entrambi i salotti, e a sua volta quasi mai animato solo dal “sacro fuoco” della sana competizione finanziaria: Generali è una compagnia “eterodiretta” da un azionista che oltre tutto non è più “il perno del sistema”.

Da che pulpito, si potrebbe dire. Ma questa è la verità. Le Generali hanno gli stessi vizi antichi di Mediobanca. E la presa di Mediobanca sul capitalismo italiano, ormai, non esiste più. Parlano i fatti: da Comit a Italcementi, fino ad arrivare a Rcs. Le schermaglie finanziarie alle quali stiamo assistendo sono solo il preludio alla caduta degli dei. È tutto un sistema che viene giù, dietro alla battaglia sulle Generali. E alla fine è un bene che succeda. Si tratterà di capire come intende procedere Intesa (scalata in Borsa, Ops, chissà). Si tratterà di verificare se farà da “taxi” per qualche scorribanda dall’estero (Axa o Allianz, appunto), o se invece gioca in proprio (ipotesi assai gradita al governo Gentiloni, che non parla ma non nasconde il suo sostegno all’offensiva di Messina).

Piazzetta Cuccia ormai non decide più i destini dell’economia italiana. E dunque anche l’arrocco difensivo che ha deciso per Generali (l’acquisto del 3% del capitale di Ca de Sass, oltre tutto preso a prestito con i soldi degli assicurati) rischia di essere un’arma spuntata. Il cinguettio di un passero, sul filo di un telegrafo. Ma forse l’ordine, su quel filo, è già passato.

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26 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/01/26/news/chi_cade_sui_bastioni_di_trieste_nella_battaglia_per_generali-156891937/?ref=HRER2-2
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« Risposta #323 inserito:: Febbraio 03, 2017, 08:31:26 pm »

Il Paese dell'immobilità
Torti e ragioni nelle posizioni dei vari protagonisti, da Renzi a Napolitano, a Bersani. Il risultato è che l'Italia è paralizzata, di fronte a un bivio

Di MASSIMO GIANNINI
02 febbraio 2017

Capita che anche la ragione abbia i suoi torti. È il paradosso della politica. Il resto del mondo si interroga sulle devastazioni avviate da Trump, l'unico leader del pianeta che per nostra disgrazia realizza le promesse fatte prima del voto. La piccola Italia si incarta sulle elezioni anticipate volute da Renzi, l'unico leader d'Europa che per sua sfortuna non è ancora riuscito a farsi incoronare da un voto.

Dunque Giorgio Napolitano ha perfettamente ragione, quando dice che in un Paese civile si dovrebbe arrivare alla fine della legislatura, perché troppe volte abbiamo fatto ricorso allo scioglimento anticipato delle Camere. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che per togliere la fiducia a un governo servono solide argomentazioni politiche, non stolide rivendicazioni personali. Ma il presidente emerito ha anche torto, quando sottovaluta l'involontario contributo alla crescita dei populismi derivato proprio dagli ultimi quattro governi consecutivi mai eletti. Del tutto legittimi sul piano della democrazia costituzionale, ma un po' meno legittimati su quello della democrazia rappresentativa.

Anche Matteo Renzi ha ragione, quando osserva che dopo un pronunciamento netto come il referendum è necessario ridare al più presto la parola al popolo sovrano. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che l'unico modo per evitare il caos è andare a votare puntando al 40%. Ma ha perfettamente torto, per altre mille ragioni uguali e contrarie.

Dal punto di vista dell'interesse nazionale, sarebbe inaccettabile andare a elezioni anticipate solo perché conviene a lui, che è atterrito dal fantasma dell'oblio politico-mediatico. Dopo il folle azzardo sul referendum, sarebbe solo un altro giro di roulette russa. Dal punto di vista dell'interesse della sinistra, sarebbe intollerabile accelerare la rincorsa alle urne senza prima passare per un congresso del Pd. Nonostante l'ultima disfatta, Renzi ha mancato tutte le occasioni possibili per una riflessione seria e sincera sugli errori del passato e sulle sfide del futuro. Zero contenuti, zero titoli. A Rimini ha richiesto ai suoi il solito "atto di fede": seguitemi, sono il vostro unico capo. Sul web ha rilanciato i suoi soliti proclami sulle tasse: "Rottamiamo Dracula". Non aveva giurato "più cuore, meno slide"? Qual è, al di là degli slogan, la carta dei valori del nuovo riformismo italiano, di fronte alle imperiose "letterine" dell'Europa e alle velenose tossine dell'America?

Sul fronte opposto, Pierluigi Bersani ha altrettanta ragione, quando invoca il congresso e avverte l'ex premier che con questo strappo il Partito democratico muore. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che con il meccanismo elettorale lasciato sul campo dalla Consulta la quota dei capilista bloccati (e quindi dei parlamentari nominati) lievita addirittura al 70%. Ma ha anche torto perché non vede che il Pd (più che morto), forse non è mai nato, e poi perché usa la prospettiva di un nuovo Ulivo (l'unico esperimento ambizioso tentato dal centrosinistra dopo la caduta del muro di Berlino) come una minaccia da brandire contro Renzi, e non come un'opportunità per ricostruire un'area progressista in macerie. E la stessa cosa, volendo, si può dire del D'Alema scissionista e "pronto a tutto". Qual è stato, al di là della tattica, il contributo della minoranza del Pd alla costruzione di una nuova piattaforma programmatica? Su quali basi politico-culturali dovrebbe nascere l'ennesima Cosa Rossa, alternativa o a sinistra di Renzi?

La somma delle ragioni e dei torti produce una pericolosa entropia. Lo spread a ridosso di quota 200 ne è il riflesso automatico. L'Italia è paralizzata, di fronte a un bivio insidioso. Può imboccare la strada voluta da Renzi (il voto anticipato). In questo caso rischia l'ingovernabilità. Con il Legalicum non vince nessuno: l'asticella del 40% è fuori dalla portata di tutti. Servono coalizioni spurie, o ammucchiate secondo i punti di vista. Se arrivano primi i Cinque Stelle, può nascere solo un governo Grilloleghista, cioè il Fronte Popolare contro l'euro e contro l'Europa. Se arriva primo il Pd, può nascere solo un governo Renzusconi, cioè il Fronte Nazareno delle larghe intese. Due prospettive: l'una rovinosa, l'altra inquietante.

L'Italia può invece imboccare la strada voluta da Mattarella/Napolitano (il prosieguo fino alla fine della legislatura). Ma in questo caso, nei precari equilibri politici che viviamo, l'Italia rischia l'immobilità. Che può fare di qui al 2018 il pur volonteroso Gentiloni, con l'ombra di un Banco toscano alle spalle e la spada di Bruxelles sulla testa? Non molto. Una manovrina di pura sopravvivenza, per evitare la procedura d'infrazione. Non una riforma fiscale, non un piano per la crescita, forse neanche il doveroso decreto contro la povertà.

Siamo sospesi, tra l'ingovernabilità e l'immobilità. Siamo in bilico, tra l'eterno riposo (vedi la tragedia dell'Hotel Rigopiano) e l'eterno ritorno (vedi la farsa del Mattarellum-Porcellum-Italicum-Legalicum). Qualunque sia la scelta che faremo, la condizione è ideale per far lucrare nuove rendite elettorali alle forze anti-sistema. Cioè ai Grillo e ai Salvini, i "trumputinisti" tricolori. I più bravi a scommettere sul peggio, perché nessuno sembra capace di contrapporgli il meglio.

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02 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/02/news/paese_immobilita-157402913/?ref=HREC1-4
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« Risposta #324 inserito:: Febbraio 07, 2017, 04:04:16 pm »

Il rischio dell'Italia a due velocità
Noi e l'Europa, noi e l'euro. Questa sarà la "faglia" che attraverserà il prossimo voto. Bisognerà trovare risposte serie e credibili

Di MASSIMO GIANNINI
06 febbraio 2017

IL MINISTRO del Tesoro Padoan che a Palazzo Madama parla di Europa a un'aula mestamente vuota, dove bivaccano annoiati tredici senatori, fotografa la miserabile ipocrisia della politica tricolore. Sempre pronta allo strepito usa-e-getta da studio televisivo, mai capace di elaborare un pensiero lungo in una sede istituzionale. Il futuro dell'Ue sarà il tema dominante delle prossime campagne elettorali.

In Olanda, in Francia, in Germania e anche in Italia (che si voti a giugno o nel 2018). Dall'Europa che verrà dipenderanno le vite di noi cittadini che la abitiamo. La crescita e il lavoro, il welfare e le tasse. Ma nel Paese, al di là delle schermaglie tattiche e delle sparate strumentali, manca la percezione della posta in gioco.

Il Fronte Popolare anti-sistema ha un programma drammaticamente chiaro. Truppe grilliste e destre "sovraniste" gridano sì alle piccole patrie, no alla moneta unica. Come Grillo e Salvini, ora anche Marine Le Pen infiamma il suo "popolo" evocando Trump, e propone una pericolosa saldatura culturale tra la deriva nazionalista europea e la pretesa anti-globalista americana. Cosa rispondono le forze progressiste e riformiste?

Poche idee, molto confuse.
Angela Merkel ha finalmente capito che l'attendismo non è una politica. La proposta di un'Europa "a due velocità" apre uno scenario inedito, ma tutt'altro che irrealistico. Le due velocità esistono da sempre, nei fatti e nei numeri. Dai tempi di Maastricht (febbraio 1992) l'Europa del Nord, trainata dalla Germania, viaggia in business class, mentre l'Europa del Sud, il famoso Club Med, viaggia low-cost.

Il modello esplicitato dalla Cancelliera di ferro rende strutturale questa differenza. L'Europa va avanti con le geometrie variabili, con chi ci sta e soprattutto con chi ce la fa. E qui si apre la grande questione, che ci riguarda più da vicino. L'entusiasmo con il quale il premier Gentiloni è salito sul carro della Merkel è comprensibile. L'Italia, Paese fondatore, vuole restare nel gruppo di testa.

Ma la proposta della Cancelliera implica un cambio di passo politico, istituzionale ed economico, che l'Italia in questo momento non sembra in grado di garantire. Veniamo da due anni di scontro permanente con la Commissione di Bruxelles, abbiamo beneficiato di 19 miliardi di flessibilità, abbiamo appena sforato i vincoli di deficit per 3,4 miliardi e tuttora pende su di noi il rischio di una procedura di infrazione. Abbiamo una crescita allo 0,8% (quattro volte meno della media Ue), e un debito al 134% del Pil (due volte il parametro dei Trattati). Abbiamo una produttività cresciuta del 4% dal 2000 ad oggi (contro il 19,2% della Germania e il 25,2% della Francia). Nelle condizioni date, l'Italia non sta nel blocco dei paesi che corrono, ma nel gruppone di quelli che arrancano. A meno che non sia pronta ad assumere impegni ancora più stringenti. Siamo pronti a farlo, o anche solo a discuterne?

Grillo e Salvini, i pifferai magici che ascoltano l'eco di Trump, sanno che musica suonare, e come farsi seguire da cittadini-elettori esausti da un ventennio di sacrifici e di austerità. Sfasciamo questa Europa, torniamo alla liretta, che metteva al riparo le famiglie a suon di aste dei Bot e le imprese a colpi di svalutazioni competitive. I partiti "responsabili", di fronte a questa bolla narrativa, che altro "racconto" sanno proporre? L'unione monetaria, da sola, è pericolosamente "zoppa" (come diceva Ciampi). Il Patto di stabilità, fatto solo di vincoli numerici, è maledettamente stupido (come diceva Prodi).

Ma c'è qualcuno, a partire dal Pd, che spiega perché l'euro va comunque difeso, visto che all'Italietta dell'inflazione e dei tassi di interesse a due cifre è servito come il pane? C'è qualcuno che racconta come e perché, invece di fare l'Europa a due velocità, è indispensabile riscrivere i Trattati, e prevedere che il tetto del deficit va portato a quota zero per la parte corrente, lasciando il 3% per finanziare la sola spesa per investimenti? Trump introduce i dazi per difendere l'occupazione: qual è il modello europeo, a parte i mini-jobs tedeschi o i voucher italiani? Trump smonta la riforma sanitaria di Obama: qual è il modello europeo, oltre ai tagli lineari al Welfare?

Domande senza risposta. Implicherebbero una "visione", che al momento le classi dirigenti di questo Paese (non solo l'establishment politico, ma anche quello imprenditoriale) non sembrano avere. Le domina la confusione e la paura. Noi e l'Europa, noi e l'euro. Questa sarà la "faglia" che attraverserà il prossimo voto. Bisognerà trovare risposte serie e credibili. Anche a chi, come il ministro tedesco Schaeuble, lancia l'attacco frontale a Mario Draghi, contestando la politica monetaria "troppo accomodante" della Bce, che non fa più l'interesse della Germania.

Una linea che stringe un Paese come il nostro in una morsa. Che succederebbe al nostro debito pubblico, alle nostre banche e ai nostri portafogli se la Bce rialzasse i tassi di interesse, o chiudesse anzitempo i rubinetti del "Quantitative easing"? Sarebbe un passo verso l'abisso. Ma servirebbe qualcuno che spiegasse a Schaeuble che senza l'ombrello di Draghi il tasso di crescita nell'eurozona tra il 2011 e il 2016 sarebbe stato inferiore del 5,6% (con un - 10,4 in Germania, - 7,4 in Italia, - 5,9 in Francia). Il totale degli occupati sarebbe stato inferiore di 6,6 milioni di persone (mentre i disoccupati sarebbero stati 5,6 milioni in più). E il debito pubblico sarebbe stato pari a 10.572 miliardi (quasi 1.000 miliardi in più di quello attuale).

Di tutto questo, nel Belpaese, non si parla. Siamo fermi alla post-verità di Renzi e alle fake- news della Raggi. Un tempo eravamo tutti euro-entusiasti. Ora siamo divisi, tra euro-combattenti in piazza ed euro-indifferenti nel Palazzo. Chiunque vinca, sarà un disastro.

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06 febbraio 2017
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« Risposta #325 inserito:: Febbraio 20, 2017, 05:52:56 pm »

Pd, tutti colpevoli in una scissione senza valori
La responsabilità primaria è dell'ex segretario. Ma c'è anche quella di chi ha taciuto nel giorno dell'Armageddon democratico. E che ora dovrà riempire la propria decisione di contenuti politici, svuotandola dagli incomprensibili cavilli burocratici

Di MASSIMO GIANNINI
20 febbraio 2017

L'intervento di Renzi davanti all'assemblea del Pd a Roma (lapresse)
Tanto fu tormentata e complessa la nascita del Partito democratico, quanto sarà lenta e penosa la sua agonia. Ma la "cerimonia degli addii" è cominciata. Se non si è consumata definitivamente al Parco dei Principi è solo per il solito gioco del cerino. Nessuno, di fronte a uno sgomento "popolo della sinistra", vuole assumersi la responsabilità formale della rottura.

Ma il partito "nato morto" (secondo la cruda ma purtroppo vera definizione di Massimo Cacciari) ha perso l'ultima occasione per dimostrarsi all'altezza della Storia. Non c'erano grandi speranze, dopo l'inutile spargimento di veleni degli ultimi giorni. Ma all'assemblea di ieri nessuno, tra quelli che avrebbero dovuto evitare lo strappo, è stato in grado di riempire il ruolo, con la serietà e la solennità che il momento richiede.

Gianni Cuperlo ha evocato un'immagine: la corsa suicida di "Gioventù bruciata", dove il leggendario James Dean e il suo rivale Buzz si lanciano la "sfida senza pareggio". Due macchine a tutta velocità verso il burrone: vince chi si butta dalla macchina per ultimo. Citazione drammatica, ma perfetta. Renzi e i suoi avversari non hanno fermato la corsa, né si sono buttati dalle rispettive macchine, che ora viaggiano serenamente verso il baratro.

La responsabilità primaria pesa tutta sull'ex segretario. Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella "comunità di senso e di destino" che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd. Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d'uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso. Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map "da combattimento" e i suoi tre anni di governo. Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla "sfida" ai "ricatti") e il solito schema concorrenziale ("Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso"). Soprattutto, non ha fugato l'atroce sospetto rivelato dal "fuorionda" di Delrio: "I renziani pensano che la scissione convenga, perché così diminuiscono le poltrone da distribuire...". La vera posta in gioco può essere il potere, e non l'identità?

La responsabilità secondaria grava sugli "scissionisti". Quelli sicuri (come Rossi), quelli probabili (come Bersani e Speranza) e quelli indecifrabili (come Emiliano). I primi hanno taciuto, mentre nel giorno dell'Armageddon democratico sarebbe stato doveroso sentir parlare dal palco (e non dalle telecamere Rai) chi ha sempre detto di avere a cuore il destino della "ditta". Il terzo ha tentato una furba mediazione finale, imprevista e improbabile. Ora tutti i "compagni del Teatro Vittoria" avranno comunque un gigantesco problema: riempire la scissione di nobili contenuti politici, e svuotarla di incomprensibili cavilli burocratici. Una grande forza di sinistra, che pensa se stessa come partito riformatore di massa, può sfasciarsi solo in nome dei valori fondanti: una diversa idea dell'Europa, della difesa del welfare universalistico e dei diritti del lavoro, della Costituzione formale e materiale. La vera posta in gioco può essere la data di un congresso o la "gazebata" delle primarie?

Sullo sfondo, rimane la testimonianza più convincente, ma anche più dolente, di chi le guerre intestine del Pd le ha patite sulla sua pelle. Veltroni, Fassino, lo stesso Cuperlo difendono le ragioni di un'idea che, se mai è esistita, si è smarrita da tempo, seminando il campo di troppe macerie. E anche qui sta la miopia di chi oggi, nel Palazzo d'Inverno renziano, crede di poter resistere tranquillamente ma ferocemente all'amputazione di una sua parte. Solo chi resta in macchina con il piede fisso sull'acceleratore può non capire che, dopo la scissione, il congresso-lampo con il "candidato unico" sarà una farsa. E il tentativo di fare del Pd una forza popolare, riformista e progressista, sarà precipitata per sempre nel burrone. Al suo posto, invece del grande partito-baricentro del sistema politico italiano, resterà un medio partito di centro, che non intercetterà il mitico "voto moderato", ma raccoglierà tutt'al più qualche rottame della nomenklatura ex democristiana.

Nel frattempo, arriveranno il referendum sui voucher e le elezioni amministrative. Con che faccia li affronta, questo centrosinistra in frantumi, è impossibile capirlo. E fanno pietà i "volontari carnefici" dei due fronti divisi, che fanno calcoli patetici, sondaggi alla mano, sul "potenziale elettorale" del Pd ridotto a Renzi e della Cosa Rossa ridotta a D'Alema. Dopo un trauma come questo, sono conti della serva, di cui le urne faranno giustizia. E sempre nel frattempo, come già successe a Prodi nel 2008, sul governo Gentiloni precipiteranno tutti i tormenti e i risentimenti di questa sinistra pulviscolare e neo-proporzionale. Un governo che deve durare fino al 2018, e che senza più l'ombrello di Draghi deve gestire una legge di stabilità che incorpora già 20 miliardi di clausole di salvaguardia e una crisi delle banche sempre più acuta. Con che spalle li sostiene, questo premier "a responsabilità limitata", è difficile immaginarlo.

In questo penosa "eutanasia democratica" riecheggia una delle grandi figure della sinistra novecentesca: quel Pietro Ingrao che nel 1993, dopo la Bolognina e la svolta di Occhetto (che non condivideva), decise comunque di "restare nel gorgo", perché il neonato Pds era l'unico luogo di un possibile cambiamento di un'Italia devastata dal dopo Tangentopoli. Allora come oggi, il Pd sarebbe stato il posto per azzardare lo stesso tentativo. Ma è troppo tardi. Il "gorgo" non è più sinonimo di un formidabile movimento, ma solo metafora di un inesorabile inabissamento. E mentre risucchia le schegge impazzite del centrosinistra, quel "gorgo" alimenta l'onda populista e sovranista. Grillo e Salvini, su tutt'altre automobili, hanno già caricato i surf.

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20 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/20/news/pd_tutti_colpevoli_in_una_scissione_senza_valori-158728136/?ref=HRER2-1

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« Risposta #326 inserito:: Aprile 28, 2017, 12:00:03 pm »

Alitalia, un pasticciaccio tutto italiano

Di MASSIMO GIANNINI
25 aprile 2017

A PARIGI si vota per salvare l’Europa. A Roma si vota per uccidere l’Alitalia. La vittoria dei no al referendum sul piano di salvataggio della compagnia aerea più disastrata del continente è il giusto epilogo di un fallimento permanente che dura ormai da trent’anni. L’ultimo capitolo, il più amaro, di un brutto pasticciaccio italiano.

Che tutti, ma proprio tutti, hanno contribuito a scrivere. Lo Stato e il mercato, la politica e il sindacato. Gli azionisti pubblici e i capitalisti privati, i manager cinici e i dipendenti privilegiati. Non c’è un solo attore, su questa quinta in rovina sulla quale sta per calare il sipario, che possa dire “io non c’entro”. Oggi serve a poco gettare la croce addosso ai lavoratori di cielo e di terra che hanno bocciato la proposta ultimativa dell’azienda (1.300 esuberi, 900 in cassa integrazione straordinaria, 8 per cento di stipendio in meno per tutti). È vero che a quella proposta Etihad, Invitalia e le banche avevano subordinato la concessione di altri 2 miliardi di capitali per tenere in piedi la compagnia. Ma è altrettanto vero che affidare ai dipendenti l’ultima parola sulla sopravvivenza di un’impresa (scambiandola con l’ennesimo giro di vite occupazionale e salariale), suona sempre come un vago ricatto. Non possono pagare colpe che non hanno.

Tuttavia, i tanti che hanno scritto il loro “no” sulla scheda hanno compiuto un gesto che racchiude in sé il vizio d’origine, culturale e industriale, che ha da sempre caratterizzato il volo avventuroso di Alitalia. A tutti i livelli. Cioè l’idea che di fronte ai dissesti epocali di questa compagnia ci sia sempre un piano B pronto in un cassetto. E che quel piano B, alla fine, sia sempre lo Stato padrone a dettarlo, tappando i buchi di bilancio con i soldi del contribuente. Questa volta non andrà così. Non c’è più una mammella pubblica, dalla quale succhiare i soldi per pagare gli stipendi, o il gasolio per far volare gli aerei. Questa volta c’è solo l’amministrazione straordinaria e la nomina di un commissario, che salda i creditori che può saldare e poi porta i libri in tribunale. E questo esito, doloroso quanto si vuole, non lo detta solo la solita Europa Matrigna, che vieta gli aiuti di Stato. Lo detta il buon senso. Non c’è più un cielo da solcare, per una compagnia aerea che perde 700 milioni all’anno, 2 milioni al giorno, 80 mila euro l’ora. Luigi Gubitosi è l’ultimo presidente arrivato al capezzale del moribondo, e se non riesce a rianimarlo lui (che ha avuto a che fare con il carrozzone Rai) non ce la può fare nessuno. Non ci sono più rotte da percorrere, per un vettore che ha creduto di giocare la partita dell’eccellenza insieme alle ricchissime compagnie degli Emirati, mentre Ryanair e Easyjet gli rubavano le tratte più battute (le turistiche a corto e medio raggio) e Freccerosse e Italo gli scippavano quelle più pregiate (la Roma-Milano su tutte). Ecco i colpevoli, di questo “delitto”. I politici l’Alitalia l’hanno usata come un taxi, per motivi elettorali e spesso anche personali. È stato così nella Prima Repubblica, quando le cavallette Dc e Psi l’hanno spolpata tra nomine lottizzate e assunzioni clientelari. È stato così nella Seconda, quando Berlusconi nel 2008 se l’è giocata al tavolo della campagna elettorale, facendo saltare l’unica fusione che allora aveva ancora un senso, quella con Air France-Klm. È stato così anche nella Terza, quando hanno finto di difendere a chiacchiere “la compagnia tricolore”, mentre nei fatti cedevano pezzi di mercato alle low cost straniere. I privati l’Alitalia l’hanno usata solo per ingraziarsi il Palazzo, come accadde con i “patrioti” che su ordine del Cavaliere ci misero un obolo solo per garantire la patetica difesa “dell’italianità”, e non certo una prospettiva strategica credibile.

I manager l’Alitalia l’hanno sfasciata, in un tourbillon di piani industriali buttati al macero e di bonus astronomici ficcati in portafoglio. In cinquant’anni sono cambiati tre all’anno, cinque solo negli ultimi cinque anni. Da Nordio a Cempella, da Mengozzi a Cimoli. E poi Sabelli, Ragnetti, Cassano. Pare una squadra di calcio. Peccato che si sia rivelata di serie C, moltiplicando i passivi anno su anno. Almeno Mengozzi e Cimoli, qualcosa hanno restituito, tra una condanna a 6 e una a otto anni. Ma siamo tutti garantisti, per carità. Restano i sindacalisti, che hanno lucrato prebende previdenziali e bloccato alleanze industriali, sempre convinti che il bengodi degli anni ‘70 non sarebbe mai finito. Siamo all’ultimo volo della Fenice. O sbuca fuori un grande partner (occidentale o asiatico che sia) e si compra la compagnia tutta intera, o siamo al capolinea. Bisogna dirlo, con dolore. Forse è meglio così. È bello, per un Paese, poter schierare nei cieli del mondo globalizzato la sua “compagnia di bandiera”. Da orgoglio, fa “identità”. Ma questo non può più avvenire a qualsiasi prezzo. Se ci sono le condizioni di mercato, bene. Altrimenti, se ne prenda atto, e si compiano le scelte conseguenti. Tra il 1974 e il 2014, per salvarla, abbiamo speso 7,4 miliardi di denaro pubblico: l’equivalente di una “Alitalia tax” da 180 milioni l’anno. Forse può bastare. Dio è morto, Pantalone è morto, e stavolta può morire pure Alitalia.

© Riproduzione riservata 25 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/04/25/news/alitalia_un_pasticciaccio_tutto_italiano-163844851/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #327 inserito:: Maggio 30, 2017, 10:58:49 am »

La benedizione grillina al patto del Nazareno
L'ANALISI / Eccolo, dunque, l’approdo. Sull'accordo già blindato tra Renzi e Berlusconi arriva adesso la sorprendente apertura di Grillo sul modello proporzionale tedesco, che apre la via al voto in autunno. Così la Generazione Telemaco della “nuova politica”, quella che doveva “uccidere il padre” e rottamare il vecchio, torna nel luogo dove tutto era cominciato, e dal quale forse non se n’era mai andata

Di MASSIMO GIANNINI
29 maggio 2017

NEGATE, temute, e alla fine volute, ecco le elezioni anticipate. Sull’accordo già blindato tra Renzi e Berlusconi arriva adesso la sorprendente benedizione di Beppe Grillo sul modello proporzionale tedesco, che apre la via al voto in autunno. Eccolo, dunque, l’approdo. Dopo tre anni di inutile pellegrinaggio tra vocazioni maggioritarie e Italicum, democrazie “decidenti” e premierati forti.

La Generazione Telemaco della “nuova politica”, quella che doveva “uccidere il padre” e rottamare il vecchio, torna nel luogo dove tutto era cominciato, e dal quale forse non se n’era mai andata. Il Nazareno. E al Nazareno, inteso appunto come Patto, ha la pretesa di riportare quel che resta della sinistra italiana. Ancora una volta smarrita, confusa, divisa. Incapace di produrre una qualunque alternativa, se non quella di abbracciare un Caimano per resistere a un Grillo.

L’accordo Renzi-Berlusconi, alla luce delle parole del segretario del Pd al Messaggero, è ormai cosa fatta. Con la scusa che “lo chiede Mattarella”, l’ex premier e l’ex Cavaliere sono pronti a fare quello che pareva chiaro dal giorno dopo la Caporetto sul referendum costituzionale, e che solo i ciechi, gli ipocriti o le anime belle si erano rifiutati di comprendere. Un’intesa sulla riforma elettorale, poi sulle elezioni anticipate, e infine sulla prospettiva di una Grosse Koalition all’italiana.

Come dice Roberto Saviano del Ventennio Berlusconiano, con la “svolta nazarena” tutto è dimenticato, tutto è perdonato. Ed è vero che è “uno scandalo” una politica che a pochi mesi dalla scadenza della legislatura costruisce meccanismi elettorali tagliati a misura dei propri bisogni. Ma così è, purtroppo. Ormai da almeno dodici anni, quando a questo “uso privato” delle istituzioni e delle Costituzioni ci abituò il disastroso Porcellum voluto dal Polo della destra per non far vincere l’Unione di Prodi. Anche il sì di Grillo fa parte della svolta. Ma il furbo via libera del capocomico al sistema proporzionale tedesco, attraverso la solita farsa del clic tra gli attivisti della Rete, è tutt’altro che disinteressato. Per Pd e Forza Italia risolve il problema dei numeri al Senato, che altrimenti sarebbero mancati, e che invece adesso ci saranno grazie ai pentastellati. Ma per il Movimento è manna dal cielo: gli consentirà di lucrare dividendi incalcolabili in una campagna elettorale tutta giocata contro il “Renzusconi” dell’inciucio neo-consociativo.

Ci sarà ancora qualche dettaglio tecnico da mettere a punto. Per esempio la soglia di sbarramento. Ma la strada è già aperta, da almeno due casi paradigmatici di queste ultime ore. Il primo caso è la sfiducia bipartisan a Campo Dall’Orto in consiglio d’amministrazione Rai: un “ribaltone” che ha ragioni tuttora imprecisate, se non quelle legate all’urgenza di avere un servizio pubblico televisivo ancora più malleabile e controllabile in campagna elettorale. Renzi nega, e porta come prova il fatto che il consigliere che lui conosce meglio nel cda è "Guelfo Guelfi, l’unico ad aver votato a favore del piano di Campo Dall’Orto". Tesi tartufesca, e facilmente controvertibile: più che una prova a discapito, il voto di Guelfi (difforme da quello degli altri consiglieri pd) sembra la smoking gun sul siluramento del direttore generale.

Il secondo caso è il ripristino dei voucher, sia pure con una formula “geneticamente modificata”. L’emendamento che reintroduce i buoni lavoro passa proprio grazie alla stampella azzurra del Cavaliere, perché nel frattempo viene meno la stampella rossa non solo dell’Mdp di Bersani, ma anche dei dissidenti di Orlando. Anche su questo Renzi ha una sua versione. La norma sui voucher ci sarà perché «abbiamo fatto quello che il ministro Finocchiaro ci ha chiesto di fare». Tesi pilatesca, e palesemente in-credibile: Gentiloni non avrebbe mai preso un’iniziativa autonoma, su un tema “sensibile” per la sinistra come i buoni lavoro. Ad annunciare l’emendamento in Commissione è stato il capogruppo dem Rosato. E su quello, poi, il governo ha dovuto convergere. È una forzatura della quale obiettivamente non si sentiva alcun bisogno. Sia per ragioni di metodo: i voucher erano stati appena abrogati per decreto proprio per evitare il referendum chiesto a tutta forza dai sindacati. Sia per ragioni di merito: i voucher non hanno risolto la piaga del lavoro nero (ormai superiore ai 100 miliardi l’anno) e non hanno offerto nessuna tutela contributiva a quel milione e 600 mila precari che ne hanno “beneficiato” (dovrebbero lavorare fino a 75 anni per avere una pensione da 208 euro al mese).

Dunque, anche questa mossa non nasce per caso. Non nasce a Palazzo Chigi. Nasce a Largo del Nazareno. E si inquadra nello stesso percorso che potrebbe portarci, in sequenza, al sistema tedesco, alla caduta di Gentiloni, al voto in autunno e alla Grande Coalizione. Non siamo più in presenza di un’episodica geometria variabile (che talvolta in Parlamento può capitare) ma di un’autentica mutazione della maggioranza (che stavolta il Quirinale deve valutare). Tutti i soggetti in campo non possono non esserne consapevoli. Se vanno avanti lo stesso, vuol dire nella migliore delle ipotesi che hanno accettato il rischio, nella peggiore che hanno concordato l’esito. E l’esito, ancora una volta, è quello ormai noto, nonostante le smentite a tamburo di questi mesi: un bel # paolostaisereno, e poi tutti alle urne.

In questa rincorsa congiunta alla rivincita di Renzi e alla rinascita di Berlusconi non c’è già più spazio per le prudenze istituzionali o per le pendenze finanziarie. L’idea è che il tripolarismo che paralizza l’Italia, con il modello tedesco, si risolve con la creazione e la contrapposizione di due blocchi: il Sistema (Renzi-Berlusconi) e l’Anti- Sistema (Grillo-Salvini). Comunque vada, un mezzo disastro.
Il rischio dell’instabilità, proprio durante una delicatissima sessione di bilancio, non è contemplato. Anzi, è inopinatamente ribaltato a nostro vantaggio. Anche questo dice Renzi: «Dopo le elezioni tedesche e fino al voto, l’Italia sarà l’osservato speciale sui mercati. L’eventuale anticipo del voto non genera l’incertezza, ma la anticipa… ». La scommessa è stravagante, e a dir poco azzardata. Non ci sarebbe nulla di strano se i due “pattisti” la giocassero in proprio. Purtroppo non è così: la posta in palio è il Paese.

© Riproduzione riservata 29 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/la_benedizione_grillina_al_patto_del_nazareno-166713608/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #328 inserito:: Giugno 10, 2017, 11:09:54 am »

Berlusconi e la doppia anomalia
In questa Italia, che scivola ormai verso il "teatro dell'assurdo", almeno chi opera nelle istituzioni ha il dovere di non recitare troppe parti in commedia

Di MASSIMO GIANNINI
10 giugno 2017

LA "CONFIDENZA" del boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano, che in carcere rivela a un camorrista "Berlusca mi chiese questa cortesia...", non è solo una voce lontana che sale dall'Oltretomba della Repubblica per farci risprofondare nell'eterno mistero delle stragi mafiose. E non è neanche la "prova giudiziaria" definitiva che inchioda il Cavaliere alle sue responsabilità penali.

NON basta una chiacchiera, intercettata durante l'ora d'aria, per stabilire una volta per tutte che lui è davvero il mandante occulto della tragica mattanza che insanguinò l'Italia tra il 1992 e il 1993. Ma è senz'altro la "prova politica" di quanto sarebbe stata e sarebbe tuttora innaturale, dissennata e suicida la prospettiva di un "governissimo" tra Renzi e Berlusconi.

Un irriducibile manipolo di franchi traditori, insieme a un inaffidabile esercito di malpancisti grillini, si è preso la briga di assassinare in Parlamento l'accordo neo-proporzionale "alla tedesca". È stata una farsa. Ma è stata anche una fortuna. Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se fosse andato in porto lo scellerato "patto extra-costituzionale" nato solo sulla base delle "convenienze" dei leader (secondo la definizione impeccabile di Giorgio Napolitano). Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se il caso Graviano fosse esploso dopo le elezioni anticipate del 24 settembre e dopo l'auspicata nascita della Grosse Koalition de' noantri tra Pd e Forza Italia. Ci ritroveremmo a fare la manovra economica d'autunno e la riforma del fisco, le misure straordinarie sulla sicurezza e sull'immigrazione, la nuova legge sulla giustizia penale e sul codice antimafia, con un alleato nuovamente sospettato di aver trattato con le cosche quell'attacco al cuore dello Stato che 25 anni fa preparò il terreno alla sua "discesa in campo". E considerato "un traditore" da un capobastone (in prigione dal '94 per aver organizzato materialmente gli attentati di Milano Roma e Firenze) perché nonostante i "favori " ricevuti (cioè le bombe), "lui mi sta facendo morire in galera...".

Le parole di Graviano andranno attentamente vagliate dai magistrati, e sono state fermamente smentite dagli avvocati. Ma confermano la persistenza di una "anomalia berlusconiana", che in tutti questi anni nessuna Procura della Repubblica e nessun tribunale della Storia sono mai riusciti a dissolvere. E non sono solo i "soliti sospetti" di collusione con Cosa Nostra, a pesare in questo giudizio. Sono tutti i capitoli che compongono l'infinito e spesso dimenticato "Romanzo del Cavaliere Mascariato". È la condanna definitiva per frode fiscale su Mediaset, scontata tra i vecchietti di Cesano Boscone. È l'innumerevole filiazione dei processi Ruby, arrivati a quota "quater", dai quali emerge ogni volta un quadro di misfatti e di ricatti ormai quasi più penoso che criminoso. È quel grumo gigantesco di interessi, privati e pubblici, passati e futuri, che ieri lo ha spinto da premier " in chief" a varare con impudenza 38 leggi ad personam, e che oggi lo induce da leader "in attesa" a guardare con impazienza alle scelte sulla governance della Rai o sulle norme anti-scalata che dovrebbero difendere il suo impero tv dalle mire di Vivendi. È quella certa idea dello Stato come " res propria", più che " res publica". Delle istituzioni come strutture serventi, più che "organi di garanzia". Del principio di legalità come vincolo burocratico, più che valore democratico. Insomma, tutto ciò che abbiamo imparato a conoscere in un Ventennio, che ha costellato la sua avventura politica e che continuerebbe ad accompagnarlo sempre, in qualunque nuova maggioranza bipartisan lo si volesse ingaggiare.

Per tutti questi motivi è sorprendente che Renzi abbia pensato non solo di scrivere la nuova legge elettorale, ma anche poi di governare insieme al Cavaliere, schierandolo dalla parte sbagliata nel derby "responsabili contro populisti". È preoccupante che un segretario, privo di questo "mandato straordinario", si sia illuso di poter traghettare il Pd (giustamente depurato di ogni ideologia, ma colpevolmente svuotato di ogni identità) verso uno sbocco che ne stravolge la natura e il destino. È inquietante che la "talpa cieca" del Nazareno (come l'ha definita Ezio Mauro) abbia pensato non di scavare il suo tunnel a sinistra, ma di scavarsi la fossa con la destra.

Ma in questa vicenda oscura resta da segnalare anche un'altra anomalia. Il problema non è che le scottanti rivelazioni di un "mammasantissima" escano proprio adesso, nei giorni in cui il Palazzo si scontra sul sistema elettorale e si incontra sulle Larghe Intese: il sacro anatema dell'Unto del Signore, "giustizia a orologeria!", lascia il tempo che trova in un Paese in cui quell'orologio, che incrocia inchieste giudiziarie a raffica e scadenze elettorali a ripetizione, non smette mai di ticchettare. La coincidenza spiacevole è un'altra, e cioè che tra i quattro pm di Palermo che proprio ieri mattina hanno depositato la solita Treccani da 5000 pagine di intercettazioni ci sia anche Nino Di Matteo, toga anti-mafia di primissima linea, che giusto dieci giorni fa al seminario sulla giustizia organizzato dai Cinque Stelle a Montecitorio, rispondendo a chi gli chiedeva se si sentisse pronto a fare il ministro tecnico di un governo pentastellato, aveva risposto testualmente: "L'esperienza di un magistrato può essere utile alla politica".

La sala grillina lo ha acclamato con una standing ovation. Luigi Di Maio lo ha accolto con un "siamo contenti della sua disponibilità ". Non ci sogneremmo mai di pensare che ci sia un nesso tra questo endorsement e il caso Graviano. Primo, perché

Di Matteo è magistrato integerrimo. Secondo, perché la procura palermitana è organo collegiale. Ma in questa Italia, che scivola ormai verso il "teatro dell'assurdo", almeno chi opera nelle istituzioni ha il dovere di non recitare troppe parti in commedia.

© Riproduzione riservata 10 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/10/news/la_doppia_anomalia-167712176/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-F4
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