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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166823 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Settembre 16, 2011, 11:55:06 am »


La cosa giusta

Massimo GIANNINI

Questa volta non vale la vecchia maledizione del banchiere centrale, che Milton Friedman, parlando con Chesney Martin, riassumeva così: "Voi banchieri centrali prendete sempre le decisioni sbagliate, e se per caso ne prendete una giusta la prendete nel momento sbagliato. E se la prendete nel momento giusto, la prendete per il motivo sbagliato". Almeno in questa occasione, le cose non sono andate così. La grande operazione a tenaglia orchestrata dalla Federal Reserve e realizzata dalle banche centrali di mezzo mondo, (Bce, Bank of England, Banca della Svizzera e Banca del Giappone) è la "cosa giusta" da tutti i punti di vista: contenuto, momento e motivo. È giusto immettere dollari in un sistema finanziario sempre più asfittico, dove non poche banche europee hanno difficoltà sempre più serie ad approvvigionarsi sul mercato Usa. È giusto farlo ora, che il mercato interbancario è diventato, pericolosamente, sempre più illiquido. È giusto prevenire e tamponare l'effetto a catena di una crisi dei debiti sovrani che può trasformarsi da un momento all'altro in una crisi del sistema creditizio.

L'impressione è che, sullo stimolo della coppia Geithner-Bernanke a Washington, anche nella Vecchia Europa banchieri e tecnocrati abbiano capito la gravità del pericolo che stiamo correndo. Ed abbiano finalmente cominciato ad agire. In momenti eccezionali si impongono misure eccezionali. L'ombrello in dollari aperto in queste ore, per garantire la provvista delle banche a corto di liquidi, risponde allo scopo. La reazione positiva e immmediata dei mercati ne è la prova più tangibile. E forse questo è solo l'inizio. Non è affatto escluso che la mossa di oggi preluda ad una riduzione dei tassi di interesse, che Trichet non ha voluto annunciare due settimane fa e che invece potrebbe decidere la settimana prossima. Sarebbe un altro segnale importante, che non risolve ma aiuta. Anche solo a comprendere quanto sia alta la posta in gioco di questa nuova tempesta perfetta che può travolgere tutto, non solo la Grecia ma anche l'Italia, non solo qualche banca francese ma l'euro.

In fasi di altissima criticità non è solo opportuna, ma è addirittura necessaria qualche deroga all'ortodossia, e qualche apertura alla fantasia. Non tutti i mali vengono per nuocere: forse persino la clamorosa uscita di scena del "falco" tedesco Juergen Stark dall'Eurotower ha reso possibile oggi quello che solo una settimana fa non lo sarebbe stato. Tanto meglio. Ma a una sola condizione: che qualcuno, soprattutto in Italia e soprattutto nel governo, non coltivi ancora la malapianta dell'azzardo morale, com'è già accaduto con l'acquisto dei Btp da parte della Bce. L'equilibrio della politica monetaria tocca ai banchieri centrali. Ma il risanamento dei bilanci pubblici tocca ai politici. È un lavoro "sporco", perché costa consensi elettorali. Ma chi deve farlo, se non i governanti?

(15 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/15/news/banchiere_centrale-21725402/?ref=HRER1-1
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« Risposta #211 inserito:: Settembre 18, 2011, 04:25:53 pm »

L'ANALISI

La ragnatela di Berlusconi per nascondere la sua ossessione

Le bugie del Cavaliere sempre più ricattabile.

Al centro della rete c'è lui, che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte".

E quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari con Finmeccanica e la Protezione Civile"

di MASSIMO GIANNINI


SILVIO Berlusconi passerà alla storia come il "premier a tempo perso", secondo la definizione che lui da di se stesso conversando amabilmente con Maristelle Polanco, una delle innumerevoli "bambine" che hanno allietato le "serate eleganti" di Arcore, di Palazzo Grazioli o di Villa Certosa. Il presidente del Consiglio azzarda ora un rancoroso contrattacco.

Protesta sul "Foglio" per l'inaccettabile "aggressione politica, mediatica, giudiziaria, fisica, patrimoniale e di immagine" a cui è stato sottoposto. Denuncia la "campagna di delegittimazione che punta a scardinare il funzionamento regolare delle istituzioni". Lamenta il "regime di piena e incontrollata sorveglianza" al quale lo hanno sottoposto magistrati e giornali comunisti, con l'obiettivo di costruirgli addosso "l'immagine di ciò che non sono, con deformazioni grottesche delle mie amicizie e del mio modo di vivere il mio privato". Accusa sdegnato il "circuito mediatico e giudiziario completamente impazzito", che sta cercando di "trasformare la mia vita privata in un reato".

Bisogna sempre ascoltarlo, il Cavaliere, quando urla la sua onestà politica e il suo rigore morale di fronte agli scandali innumerevoli che lo travolgono. Quando grida al mondo le sue "verità", cercando di mascherare lo "scandalo permanente" della sua vita privata, incompatibile con
un incarico pubblico perché esposta al ricatto sistematico e disposta all'abuso di potere. Berlusconi tace o parla d'altro, come sempre. Fugge altrove. Nell'altrove dell'autocelebrazione manipolatoria e del complotto mediatico-finanziario. Lo fa perché non può rispondere alle domande che lo inseguono da tre anni, e che chiamano in causa la sua ossessione sessuale, perseguita e soddisfatta ad ogni costo e con tutti i mezzi. Compreso l'uso di una "ragnatela" di faccendieri senza vergogna (ai quali si consegna inerme, tentando di nascondere i suoi vizi con i suoi soldi) e di manager senza scrupoli (ai quali fa saldare il conto delle sue bravate aprendo al giro dei suoi lenoni affamati la cassaforte degli appalti pubblici). Al centro della ragnatela non c'è Tarantini né Lavitola. Non c'è Intini né Guarguaglini. Il "ragno" è lui. E' lui che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte". È lui che passa ore al telefono per organizzare i bunga bunga 2. E' lui che retribuisce lautamente i suoi pusher di escort, vestendo i panni della vittima ricattata, quando è in realtà il vero carnefice di se stesso.

Non è un "teorema" mediatico-giudiziario. E' invece il quadro chiaro, che emerge rimettendo in ordine fatti e documenti. Da una parte l'autodifesa del Cavaliere, affidata non solo alla lettera al "Foglio" ma prima ancora al "Memoriale" inviato ai pm di Napoli che cercano invano di sentirlo come testimone. Dall'altra parte le intercettazioni telefoniche, gli interrogatori, le ordinanze dei Gip: insomma i materiali agli atti delle inchieste di Bari, di Napoli, di Milano. Il confronto è impietoso. Il presidente del Consiglio non solo non spiega nulla. Ma depista, confonde, quasi sempre mente.

"TARANTINI, IMPRENDITORE DI SUCCESSO"
Ai pubblici ministeri napoletani che si rifiuta di incontrare Berlusconi scrive poche righe, nel suo "Memoriale": "Ho conosciuto il signor Tarantini e sua moglie alcuni anni orsono. Mi è stato presentato come un imprenditore di successo e da più parti ho avuto su di lui positive indicazioni".

Tutto qui. Il riferimento è vago. Nulla dice sulle modalità e sulle ragioni che hanno fatto incrociare le strade di un capo di governo e di uno spiantato trafficante di escort e cocaina. Nel passato di Tarantini non risultano agli atti "imprese di successo". La sua unica "impresa" è l'organizzazione di un vorticoso giro di prostitute, che lo stesso Tarantini "gestisce" a Bari e offre ai potentati locali, e che assolda dall'estate del 2008 per entrare nelle grazie del premier. Ci riesce, fin da quell'agosto. Di lì a un mese inizia a organizzare le "serate" berlusconiane. Nulla dice di tutto questo, il presidente del Consiglio. Nulla dice delle ragazze che, da quel momento e nell'anno successivo, "ordina" allo stesso Tarantini. Le 3.500 pagine depositate dalla procura di Bari sono un campionario infinito e ormai persino abusato. Basta leggere le conversazioni tra il Cavaliere e il suo "fornitore". "Vedi Giampaolo, ora al massimo dovremmo averne due a testa. Perché ora voglio che anche tu abbia le tue, se no mi sento sempre in debito. Tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma, la patonza deve girare...". "Erano in undici... io me ne son fatte solo otto perché non potevo fare di più...".

Si indigna ora il Cavaliere, nella sua lettera al "Foglio": "È del tutto inaccettabile e addirittura criminale che persone che sono state presenti a mie cene con numerosi invitati siano marchiate a vita come escort". Basta leggere le carte, per scoprire che, ospitate nelle "serate eleganti", le ragazze sono retribuite per le loro prestazioni. "Devo trovare subito una troia", si dispera l'imprenditore cocainomane barese. Paga Tarantini. Ma dai brogliacci della procura emerge che, in diversi casi, paga anche il premier. È il caso del 6 settembre 2008, quando a Tarantini la Di Meglio spiega: "Io non ho detto niente, Stamattina, andando via, ha detto, 'ah metti questo in borsa', e io ho detto 'no guarda, non ti preoccupare, non ti sentire obbligato a...'. 'No mi fa piacere! '. Però io non ho chiesto, assolutamente...". E' il caso, ancora, della telefonata che lo stesso premier fa a Tarantini il successivo 17 ottobre, quando gli dice: "Guarda che hanno tutto per pagarsi da sole, sono foraggiatissime...".

"LAVITOLA, DIRETTORE DI GIORNALE"
Ancora più sintetico, per non dire reticente, si dimostra il Cavaliere quando spiega la sua "Conoscenza con Valter Lavitola": "Conosco Lavitola da parecchi anni, in particolare per la sua attività di giornalista e di direttore di giornale". Tutto qui. Troppo poco, per giustificare quello che i magistrati di Napoli, nell'ordinanza di arresto di Tarantini, descrivono come "un anomalo rapporto di interlocuzione privilegiata", caratterizzato da un "tono di speciale vicinanza". Troppo poco, per spiegare la natura delle relazioni tra il capo del governo e quello che ai pm appare come "un attivo e riservato informatore su vicende giudiziarie di specifico e rilevante interesse dello stesso Berlusconi". In pochi, in Italia, conoscono Lavitola, almeno fino al settembre di un anno fa, quando la macchina del fango berlusconiana parte all'attacco di Gianfranco Fini per la sua casa a Montecarlo e il dinamico direttore-editore dell'"Avanti" sforna documenti taroccati nelle sue ignote trasferte tra Santa Lucia e Panama. Berlusconi apprezza, evidentemente.

E' con Lavitola la telefonata dell'ottobre 2009, quando suggerisce al premier la nomina di un generale "amico" alle Fiamme Gialle: "Presidente, si ricorda la faccenda di cui le venni a parlare, la faccenda del generale? Non per fare il numero uno, per fare una mediazione e lui il numero due...". E Berlusconi, solerte: "Allora lo devo chiamare... Gli fissiamo un appuntamento. Allora lui si chiama? Spaziante?". Ed è ancora con Lavitola un'altra telefonata del 13 luglio scorso, con il premier che chiama con una scheda Wind, intestata a Ceron Caceres, di origine peruviana. Nella conversazione Lavitola parla dell'inchiesta P4, sputa fuoco contro Letta e Bisignani e gli parla di una nota che serve a Paolo Pozzessere, manager di Finmeccanica ora travolto dallo scandalo e dimissionato l'altro ieri, che invece il Cavaliere vuole sentire ("Fammi chiamare da Pozzessere", dice). E' la nota telefonata nella quale il premier dice "... tra qualche mese vado via da questo paese di merda...". Ed è di nuovo con Lavitola la telefonata del 24 agosto scorso, quando il premier consiglia al suo sodale latitante, che lo chiama dall'estero: "Resta lì, e vediamo un po'...".

Perché il presidente del Consiglio intrattiene un rapporto del genere, con un personaggio così losco ed ambiguo? Perché parla con lui usando utenze peruviane? Perché accetta i suoi consigli sulle leggi da approvare, persino sulle nomine da fare nei corpi dello Stato? Perché - come vedremo più avanti - lo riempie di denaro contante, da dividere con il socio Tarantini? Il "Memoriale" non lo dice.

I SOLDI AI TARANTINI, "FAMIGLIA DISPERATA"
La domanda più importante che i pm di Napoli vorrebbero rivolgere al premier, riguarda l'enorme quantità di denaro versato in questi anni a Tarantini. Nell'ordinanza d'arresto del faccendiere il versamento di queste "consistenti cifre e benefici" si quantifica in "appannaggi mensili in forma occuplta di quasi 20 mila euro, più una somma "una tantum di 500 mila euro". Perché questa gigantesca prebenda, a beneficio di uno spregiudicato "spacciatore" di donne e di droga? Nel suo "Memoriale", il premier ripete la favola del "Grande Benefattore": "Dopo il suo arresto Tarantini e la moglie mi scrissero delle accorate lettere... mi fecero sapere di essere in gravissime difficoltà economiche... chiedendomi aiuto per finanziare la loro azienda e per evitare il fallimento... Feci quindi avere al Tarantini e alla moglie del denaro consegnandolo direttamente al Lavitola o facendolo consegnare dalla mia segreteria...".

L'uomo generoso. Questa, dunque, è la leggenda che il premier cuce su se stesso. Carte alla mano, i magistrati di Napoli raccontano nell'ordinanza una verità totalmente diversa. "La ragione giustificativa di tali dazioni risiede nella vicenda processuale radicata a Bari, dove il Tarantini è indagato (per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione) e Berlusconi è coinvolto anche se solo mediaticamente...". Il premier, in altre parole, paga il silenzio del suo lenone sulla compagnia di escort che gli ha fornito negli anni. Vuole che patteggi la pena, e che eviti così un dibattimento nel quale uscirebbero tutte le intercettazioni telefoniche sulle "serate" di Casa Berlusconi, il cui contenuto è ritenuto "catastrofico per l'immagine del premier".

Ecco perché il presidente del Consiglio paga. Ancora una volta, deve insabbiare e nascondere la sua "sexual addiction". I suoi "aguzzini", Tarantini e Lavitola, non hanno con lui l'atteggiamento che lui stesso descrive nel "Memoriale", raccontandosi come il Buon Samaritano. "Lo dobbiamo tenere sulla corda", "metterlo in ginocchio" si dicono Tarantini e Lavitola al telefono prima dell'estate. Tarantini parla con la moglie Nicla, il 14 luglio: "Quando lui si sputtanerà io gli andrò addosso... lo dovrò mettere con le spalle al muro". Lei gli risponde: "Noi non abbiamo più niente da perdere, lui invece ha da perdere questo e quell'altro... Hai capito, gli compra le case, le sistema, gli trova lavoro a quattro mignotte... Lui si è fatto arrivare a casa minorenni, vogliamo parlarne? E adesso il problema era Giampaolo...". Questo è lo stato d'animo dei Tarantini, "famiglia bisognosa" miracolata dal Cavaliere. E' un presepe che non regge, quello costruito dal premier nel suo "Memoriale". Lo spazza via il pragmatico Lavitola che, a fine luglio dice a Giampi: "Più merda c'è, meglio è".

LE "FOTOGRAFIE" DI MARINELLA
Dunque, il premier paga. Questa verità non può più negarla neanche lui. Come paga? "Si trattava di somme che variavano tra i 5 mila e i 10 mila euro, 5 mila per il Tarantini e 5 mila per la moglie... Ho una cassaforte dove tengo sempre disponibile una somma di contanti....".

Almeno su questo, il Cavaliere non mente. Viola la legge, perché nel tempo versa in nero e in contanti una somma totale che lo stesso Tarantini, nell'interrogatorio del 2 settembre in carcere, quantifica in circa 700 mila euro. Ma non può mentire. Resta da scoprire un'altra verità: perché, se versa il suo obolo per beneficienza, non lo fa alla luce del sole? Perché, viceversa, sente il bisogno di occultare questa "incombenza" affidandola alle cure riservate della sua segretaria Marinella Brambilla, e di farla truccare con quello che i magistrati chiamano "un linguaggio criptico, convenzionale"? E' la farsa delle "foto da stampare", scoperta nella telefonata del 23 giugno tra la Brambilla e Lavitola: "Allora, riusciamo a stampare 10 foto, mandami... chi mi mandi, il solito Juannino, li, il tuo?". Questo è il gergo. Segreto e cifrato, come quello dei gangster. Perché? Se i soldi servono ad alleviare le pene di una famigliola in difficoltà, perché mimetizzarli da "foto" e farli transitare illegalmente usando balordi intermediari sudamericani? Perché occultare le tracce di ciò che si sta facendo, invece che esserne pubblicamente orgoglioso? Il Cavaliere paga non per aiutare, ma per zittire. Per questo non è tranquillo. C'è una prova a carico: è la deposizione della stessa Brambilla, interrogata dai pm il 13 settembre: nel confermare i versamenti, la segretaria racconta che quando il premier gli diede ordine di pagare Lavitola con 10 mila euro "era sicuramente infastidito e piccato: disse qualcosa tipo: 'quello è un rompiscatole'...". Perché quel fastidio, se il "regalo" del Cavaliere era un'opera buona che serviva a sfamare una bocca, e non a chiuderla?

LE AZIENDE PUBBLICHE COME MERCE DI SCAMBIO
C'è un ultima verità, che emerge dalle 100 mila intercettazioni di Bari, e che il presidente del Consiglio non chiarisce. Per la prima volta da quando le inchieste sono cominciate, si profila con nettezza un "metodo Berlusconi" che piega anche le aziende pubbliche e gli apparati dello Stato alle logiche della circonvenzione sessuale e della spartizione affaristica. Nasce quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari sul gruppo Finmeccanica, con la prospettiva di entrare nel capitale di una società di progetto, ancora in fase di costituzione a cui sarebbero stati destinati i circa 280 milioni di euro che il governo aveva stanziato ... per materiali, servizi ed opere per conto della Protezione Civile". E' Berlusconi che si fa chiamare da Paolo Pozzessere. E' Berlusconi, il 12 novembre 2008, che chiama Tarantini dalla sua macchina e passa la cornetta a Guido Bertolaso, seduto a fianco a lui, perché si mettano d'accordo per un appuntamento d'affari. E' Berlusconi, il 10 dicembre 2008, che incontra il presidente di Finmeccanica Guarguaglini, per chiedergli di far entrare Tarantini nella società controllata dalla Selex (di cui è amministratore delegato Marina Grossi, moglie di Guarguaglini) che dovrà gestire l'appalto da 280 milioni della Protezione Civile. "Ho visto Guarguaglini, poi ti riferisco".

Questo è l'abisso, nel quale precipitano il capo del governo e le sue istituzioni, lo Stato e le sue aziende, i soldi privati e quelli pubblici. Questo è il vero "scandalo permanente". Un presidente del Consiglio che usa la menzogna e abusa del suo ruolo. Che semina illegalità e immoralità. Che è ormai interamente posseduto dai suoi vizi, e per questo non può più governare.

(18 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/18/news/berlusconi-21829414/
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« Risposta #212 inserito:: Settembre 22, 2011, 04:08:30 pm »

Maggioranza stabile e impresentabile

Chiuso nel bunker di Palazzo Grazioli mentre tutto intorno crolla, Silvio Berlusconi respinge l'ultimo attacco. Non basta la bocciatura di Standard & Poor's. Non basta lo spread che torna sopra quota 400. Non basta l'onda sempre più alta del discredito internazionale, che copre l'Italia di ridicolo e la accosta ormai pubblicamente alla Grecia. Non bastano neanche le inchieste giudiziarie che inchiodano il premier alle sue responsabilità, personali e forse anche penali. Non bastano le "serate eleganti" a base di sesso e soldi, le telefonate imbarazzanti con gli spacciatori di escort e i faccendieri di mestiere, l'abuso di potere e le ragazze usate come "mazzette umane" per aprire le porte degli appalti in Finmeccanica e alla Protezione Civile.

Ma ora non basta neanche il voto sull'arresto di Marco Milanese, braccato dai pm per il traffico di nomine pilotate e affari sporchi attraverso il ministero del Tesoro. Il governo e la maggioranza si salvano anche dall'ultima minaccia. Il voto segreto alla Camera sull'ex braccio destro Giulio Tremonti a Via XX Settembre non lascia spazio alle ambiguità e ai distinguo. La sfibrata coalizione forzaleghista è inesistente su tutto: dal sostegno alla crescita economica alla lotta alle disuguaglianze sociali. Ma quando si tratta di difendere la poltrona, si ristabiliscono miracolosamente ordine e disciplina. Spariscono i frondisti del Pdl, svaniscono gli irredentisti della Lega. I 312 voti contrari all'arresto lo confermano: considerate le due assenze (una di Frattini, giustificata, e l'altra dello stesso Tremonti, tanto sospetta da innescare l'ennesimo spargimento di veleni nel centrodestra) la maggioranza è stabile, ancorché impresentabile. È inchiodata a quota 314, quel numero al lotto che ha permesso al Cavaliere di respingere la mozione di sfiducia con la quale il 14 dicembre dello scorso anno Gianfranco Fini tentò inutilmente la spallata esiziale. Da allora, con qualche oscillazione minima (dal voto sulla relazione di Alfano ad alcuni voti sulla manovra), la resistibile armata berlusconiana ha retto intorno a questa soglia, politica e psicologica (dal voto sulla sfiducia a Bondi in poi).

La maggioranza non è cresciuta, come aveva promesso il Cavaliere sull'onda di una scandalosa compravendita di parlamentari che non si è mai interrotta. Ma non si è neanche liquefatta, come troppo spesso ha sperato e scommesso l'opposizione, fidando sulla faglia centrista che finora non si è aperta. Dunque, per quanto svillaneggiato in tutto il mondo e sfiduciato da buona parte dell'opinione pubblica, il presidente del Consiglio "non molla". Come ha giurato al Capo dello Stato. Lo aiuta il suo alleato più fedele e irriducibile, Umberto Bossi. Il Senatur non vuole, ed evidentemente non può, rompere il patto di sangue e di chissà cos'altro che lo vincola al Cavaliere. Come nel Popolo delle Libertà, anche nella Lega resta intangibile l'impronta personale, che fa di queste due formazioni non due partiti, ma due comitati elettorali e pre-politici, costruiti sui sogni e i bisogni dei rispettivi leader. E risultano patetiche, ormai, le adunate nelle valli padane, dove i colonnelli si stringono goffi e imbarazzati intorno al Cerchio Magico, salvo poi tornare nei corridoi romani a diffondere mugugni irrefrenabili e a prospettare rotture improbabili. È tutto e solo falso movimento. Pdl e Lega non romperanno, perché Berlusconi e Bossi hanno e avranno bisogno fino all'ultimo minuto l'uno dell'altro. Per esistere o per resistere, il che ormai fa lo stesso.

Fino a quando e a che prezzo? Sono le due domande che restano. Alla prima non c'è risposta. Si vive alla giornata, come ripete lo stesso Senatur, nei suoi momenti di lucidità. Alla seconda, invece, una risposta c'è. La si trova nel verdetto quotidiano dei mercati finanziari. Non tanto nei giorni neri della Borsa di Milano, che guida sempre ogni tracollo delle piazze internazionali. Quanto nel differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, ormai stabilmente a ridosso dei 400 punti, e calmierato solo dai generosi acquisti di Btp che la Banca centrale europea continua a concederci. È un prezzo altissimo, perché a regime ogni 100 punti di allargamento della forbice ci costano 16 miliardi di euro in termini di maggior onere del debito pubblico. Eppure dobbiamo pagarlo. Con una consapevolezza, amara e drammatica. L'unica leva che può indurre Berlusconi a un gesto estremo di responsabilità verso il Paese (sarebbe il primo e l'ultimo) può arrivare dai mercati. Lo spread che si impenna a 500 punti. Un'asta del Tesoro che non va esaurita. L'Europa che trancia un giudizio senza appello. Un vero shock, insomma, che imponga una discontinuità politica immediata. Uno scenario da incubo. Nessuno lo auspica, ma nessuno può più fingere di non vederlo.

(22 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/22/news/maggioranza_stabile_e_impresentabile-22062864/?ref=HREA-1
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« Risposta #213 inserito:: Settembre 22, 2011, 05:02:10 pm »

L'ANALISI

La ragnatela di Berlusconi per nascondere la sua ossessione

Le bugie del Cavaliere sempre più ricattabile. Al centro della rete c'è lui, che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte". E quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari con Finmeccanica e la Protezione Civile"

di MASSIMO GIANNINI


SILVIO Berlusconi passerà alla storia come il "premier a tempo perso" 1, secondo la definizione che lui da di se stesso conversando amabilmente con Maristelle Polanco, una delle innumerevoli "bambine" che hanno allietato le "serate eleganti" di Arcore, di Palazzo Grazioli o di Villa Certosa. Il presidente del Consiglio azzarda ora un rancoroso contrattacco.

Protesta sul "Foglio" per l'inaccettabile "aggressione politica, mediatica, giudiziaria, fisica, patrimoniale e di immagine" a cui è stato sottoposto. Denuncia la "campagna di delegittimazione che punta a scardinare il funzionamento regolare delle istituzioni". Lamenta il "regime di piena e incontrollata sorveglianza" al quale lo hanno sottoposto magistrati e giornali comunisti, con l'obiettivo di costruirgli addosso "l'immagine di ciò che non sono, con deformazioni grottesche delle mie amicizie e del mio modo di vivere il mio privato". Accusa sdegnato il "circuito mediatico e giudiziario completamente impazzito", che sta cercando di "trasformare la mia vita privata in un reato".

Bisogna sempre ascoltarlo, il Cavaliere, quando urla la sua onestà politica e il suo rigore morale di fronte agli scandali innumerevoli che lo travolgono. Quando grida al mondo le sue "verità", cercando di mascherare lo "scandalo permanente" della sua vita privata, incompatibile con
un incarico pubblico perché esposta al ricatto sistematico e disposta all'abuso di potere. Berlusconi tace o parla d'altro, come sempre. Fugge altrove. Nell'altrove dell'autocelebrazione manipolatoria e del complotto mediatico-finanziario. Lo fa perché non può rispondere alle domande che lo inseguono da tre anni, e che chiamano in causa la sua ossessione sessuale, perseguita e soddisfatta ad ogni costo e con tutti i mezzi. Compreso l'uso di una "ragnatela" di faccendieri senza vergogna (ai quali si consegna inerme, tentando di nascondere i suoi vizi con i suoi soldi) e di manager senza scrupoli (ai quali fa saldare il conto delle sue bravate aprendo al giro dei suoi lenoni affamati la cassaforte degli appalti pubblici). Al centro della ragnatela non c'è Tarantini né Lavitola. Non c'è Intini né Guarguaglini. Il "ragno" è lui. E' lui che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte". È lui che passa ore al telefono per organizzare i bunga bunga 2. E' lui che retribuisce lautamente i suoi pusher di escort, vestendo i panni della vittima ricattata, quando è in realtà il vero carnefice di se stesso.

Non è un "teorema" mediatico-giudiziario. E' invece il quadro chiaro, che emerge rimettendo in ordine fatti e documenti. Da una parte l'autodifesa del Cavaliere, affidata non solo alla lettera al "Foglio" ma prima ancora al "Memoriale" inviato ai pm di Napoli che cercano invano di sentirlo come testimone. Dall'altra parte le intercettazioni telefoniche, gli interrogatori, le ordinanze dei Gip: insomma i materiali agli atti delle inchieste di Bari, di Napoli, di Milano. Il confronto è impietoso. Il presidente del Consiglio non solo non spiega nulla. Ma depista, confonde, quasi sempre mente.

"TARANTINI, IMPRENDITORE DI SUCCESSO"
Ai pubblici ministeri napoletani che si rifiuta di incontrare Berlusconi scrive poche righe, nel suo "Memoriale": "Ho conosciuto il signor Tarantini e sua moglie alcuni anni orsono. Mi è stato presentato come un imprenditore di successo e da più parti ho avuto su di lui positive indicazioni".

Tutto qui. Il riferimento è vago. Nulla dice sulle modalità e sulle ragioni che hanno fatto incrociare le strade di un capo di governo e di uno spiantato trafficante di escort e cocaina. Nel passato di Tarantini non risultano agli atti "imprese di successo". La sua unica "impresa" è l'organizzazione di un vorticoso giro di prostitute, che lo stesso Tarantini "gestisce" a Bari e offre ai potentati locali, e che assolda dall'estate del 2008 per entrare nelle grazie del premier. Ci riesce, fin da quell'agosto. Di lì a un mese inizia a organizzare le "serate" berlusconiane. Nulla dice di tutto questo, il presidente del Consiglio. Nulla dice delle ragazze che, da quel momento e nell'anno successivo, "ordina" allo stesso Tarantini. Le 3.500 pagine depositate dalla procura di Bari sono un campionario infinito e ormai persino abusato. Basta leggere le conversazioni tra il Cavaliere e il suo "fornitore". "Vedi Giampaolo, ora al massimo dovremmo averne due a testa. Perché ora voglio che anche tu abbia le tue, se no mi sento sempre in debito. Tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma, la patonza deve girare...". "Erano in undici... io me ne son fatte solo otto perché non potevo fare di più...".

Si indigna ora il Cavaliere, nella sua lettera al "Foglio": "È del tutto inaccettabile e addirittura criminale che persone che sono state presenti a mie cene con numerosi invitati siano marchiate a vita come escort". Basta leggere le carte, per scoprire che, ospitate nelle "serate eleganti", le ragazze sono retribuite per le loro prestazioni. "Devo trovare subito una troia", si dispera l'imprenditore cocainomane barese. Paga Tarantini. Ma dai brogliacci della procura emerge che, in diversi casi, paga anche il premier. È il caso del 6 settembre 2008, quando a Tarantini la Di Meglio spiega: "Io non ho detto niente, Stamattina, andando via, ha detto, 'ah metti questo in borsa', e io ho detto 'no guarda, non ti preoccupare, non ti sentire obbligato a...'. 'No mi fa piacere! '. Però io non ho chiesto, assolutamente...". E' il caso, ancora, della telefonata che lo stesso premier fa a Tarantini il successivo 17 ottobre, quando gli dice: "Guarda che hanno tutto per pagarsi da sole, sono foraggiatissime...".

"LAVITOLA, DIRETTORE DI GIORNALE"
Ancora più sintetico, per non dire reticente, si dimostra il Cavaliere quando spiega la sua "Conoscenza con Valter Lavitola": "Conosco Lavitola da parecchi anni, in particolare per la sua attività di giornalista e di direttore di giornale". Tutto qui. Troppo poco, per giustificare quello che i magistrati di Napoli, nell'ordinanza di arresto di Tarantini, descrivono come "un anomalo rapporto di interlocuzione privilegiata", caratterizzato da un "tono di speciale vicinanza". Troppo poco, per spiegare la natura delle relazioni tra il capo del governo e quello che ai pm appare come "un attivo e riservato informatore su vicende giudiziarie di specifico e rilevante interesse dello stesso Berlusconi". In pochi, in Italia, conoscono Lavitola, almeno fino al settembre di un anno fa, quando la macchina del fango berlusconiana parte all'attacco di Gianfranco Fini per la sua casa a Montecarlo e il dinamico direttore-editore dell'"Avanti" sforna documenti taroccati nelle sue ignote trasferte tra Santa Lucia e Panama. Berlusconi apprezza, evidentemente.

E' con Lavitola la telefonata dell'ottobre 2009, quando suggerisce al premier la nomina di un generale "amico" alle Fiamme Gialle: "Presidente, si ricorda la faccenda di cui le venni a parlare, la faccenda del generale? Non per fare il numero uno, per fare una mediazione e lui il numero due...". E Berlusconi, solerte: "Allora lo devo chiamare... Gli fissiamo un appuntamento. Allora lui si chiama? Spaziante?". Ed è ancora con Lavitola un'altra telefonata del 13 luglio scorso, con il premier che chiama con una scheda Wind, intestata a Ceron Caceres, di origine peruviana. Nella conversazione Lavitola parla dell'inchiesta P4, sputa fuoco contro Letta e Bisignani e gli parla di una nota che serve a Paolo Pozzessere, manager di Finmeccanica ora travolto dallo scandalo e dimissionato l'altro ieri, che invece il Cavaliere vuole sentire ("Fammi chiamare da Pozzessere", dice). E' la nota telefonata nella quale il premier dice "... tra qualche mese vado via da questo paese di merda...". Ed è di nuovo con Lavitola la telefonata del 24 agosto scorso, quando il premier consiglia al suo sodale latitante, che lo chiama dall'estero: "Resta lì, e vediamo un po'...".

Perché il presidente del Consiglio intrattiene un rapporto del genere, con un personaggio così losco ed ambiguo? Perché parla con lui usando utenze peruviane? Perché accetta i suoi consigli sulle leggi da approvare, persino sulle nomine da fare nei corpi dello Stato? Perché - come vedremo più avanti - lo riempie di denaro contante, da dividere con il socio Tarantini? Il "Memoriale" non lo dice.

I SOLDI AI TARANTINI, "FAMIGLIA DISPERATA"
La domanda più importante che i pm di Napoli vorrebbero rivolgere al premier, riguarda l'enorme quantità di denaro versato in questi anni a Tarantini. Nell'ordinanza d'arresto del faccendiere il versamento di queste "consistenti cifre e benefici" si quantifica in "appannaggi mensili in forma occuplta di quasi 20 mila euro, più una somma "una tantum di 500 mila euro". Perché questa gigantesca prebenda, a beneficio di uno spregiudicato "spacciatore" di donne e di droga? Nel suo "Memoriale", il premier ripete la favola del "Grande Benefattore": "Dopo il suo arresto Tarantini e la moglie mi scrissero delle accorate lettere... mi fecero sapere di essere in gravissime difficoltà economiche... chiedendomi aiuto per finanziare la loro azienda e per evitare il fallimento... Feci quindi avere al Tarantini e alla moglie del denaro consegnandolo direttamente al Lavitola o facendolo consegnare dalla mia segreteria...".

L'uomo generoso. Questa, dunque, è la leggenda che il premier cuce su se stesso. Carte alla mano, i magistrati di Napoli raccontano nell'ordinanza una verità totalmente diversa. "La ragione giustificativa di tali dazioni risiede nella vicenda processuale radicata a Bari, dove il Tarantini è indagato (per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione) e Berlusconi è coinvolto anche se solo mediaticamente...". Il premier, in altre parole, paga il silenzio del suo lenone sulla compagnia di escort che gli ha fornito negli anni. Vuole che patteggi la pena, e che eviti così un dibattimento nel quale uscirebbero tutte le intercettazioni telefoniche sulle "serate" di Casa Berlusconi, il cui contenuto è ritenuto "catastrofico per l'immagine del premier".

Ecco perché il presidente del Consiglio paga. Ancora una volta, deve insabbiare e nascondere la sua "sexual addiction". I suoi "aguzzini", Tarantini e Lavitola, non hanno con lui l'atteggiamento che lui stesso descrive nel "Memoriale", raccontandosi come il Buon Samaritano. "Lo dobbiamo tenere sulla corda", "metterlo in ginocchio" si dicono Tarantini e Lavitola al telefono prima dell'estate. Tarantini parla con la moglie Nicla, il 14 luglio: "Quando lui si sputtanerà io gli andrò addosso... lo dovrò mettere con le spalle al muro". Lei gli risponde: "Noi non abbiamo più niente da perdere, lui invece ha da perdere questo e quell'altro... Hai capito, gli compra le case, le sistema, gli trova lavoro a quattro mignotte... Lui si è fatto arrivare a casa minorenni, vogliamo parlarne? E adesso il problema era Giampaolo...". Questo è lo stato d'animo dei Tarantini, "famiglia bisognosa" miracolata dal Cavaliere. E' un presepe che non regge, quello costruito dal premier nel suo "Memoriale". Lo spazza via il pragmatico Lavitola che, a fine luglio dice a Giampi: "Più merda c'è, meglio è".

LE "FOTOGRAFIE" DI MARINELLA
Dunque, il premier paga. Questa verità non può più negarla neanche lui. Come paga? "Si trattava di somme che variavano tra i 5 mila e i 10 mila euro, 5 mila per il Tarantini e 5 mila per la moglie... Ho una cassaforte dove tengo sempre disponibile una somma di contanti....".

Almeno su questo, il Cavaliere non mente. Viola la legge, perché nel tempo versa in nero e in contanti una somma totale che lo stesso Tarantini, nell'interrogatorio del 2 settembre in carcere, quantifica in circa 700 mila euro. Ma non può mentire. Resta da scoprire un'altra verità: perché, se versa il suo obolo per beneficienza, non lo fa alla luce del sole? Perché, viceversa, sente il bisogno di occultare questa "incombenza" affidandola alle cure riservate della sua segretaria Marinella Brambilla, e di farla truccare con quello che i magistrati chiamano "un linguaggio criptico, convenzionale"? E' la farsa delle "foto da stampare", scoperta nella telefonata del 23 giugno tra la Brambilla e Lavitola: "Allora, riusciamo a stampare 10 foto, mandami... chi mi mandi, il solito Juannino, li, il tuo?". Questo è il gergo. Segreto e cifrato, come quello dei gangster. Perché? Se i soldi servono ad alleviare le pene di una famigliola in difficoltà, perché mimetizzarli da "foto" e farli transitare illegalmente usando balordi intermediari sudamericani? Perché occultare le tracce di ciò che si sta facendo, invece che esserne pubblicamente orgoglioso? Il Cavaliere paga non per aiutare, ma per zittire. Per questo non è tranquillo. C'è una prova a carico: è la deposizione della stessa Brambilla, interrogata dai pm il 13 settembre: nel confermare i versamenti, la segretaria racconta che quando il premier gli diede ordine di pagare Lavitola con 10 mila euro "era sicuramente infastidito e piccato: disse qualcosa tipo: 'quello è un rompiscatole'...". Perché quel fastidio, se il "regalo" del Cavaliere era un'opera buona che serviva a sfamare una bocca, e non a chiuderla?

LE AZIENDE PUBBLICHE COME MERCE DI SCAMBIO
C'è un ultima verità, che emerge dalle 100 mila intercettazioni di Bari, e che il presidente del Consiglio non chiarisce. Per la prima volta da quando le inchieste sono cominciate, si profila con nettezza un "metodo Berlusconi" che piega anche le aziende pubbliche e gli apparati dello Stato alle logiche della circonvenzione sessuale e della spartizione affaristica. Nasce quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari sul gruppo Finmeccanica, con la prospettiva di entrare nel capitale di una società di progetto, ancora in fase di costituzione a cui sarebbero stati destinati i circa 280 milioni di euro che il governo aveva stanziato ... per materiali, servizi ed opere per conto della Protezione Civile". E' Berlusconi che si fa chiamare da Paolo Pozzessere. E' Berlusconi, il 12 novembre 2008, che chiama Tarantini dalla sua macchina e passa la cornetta a Guido Bertolaso, seduto a fianco a lui, perché si mettano d'accordo per un appuntamento d'affari. E' Berlusconi, il 10 dicembre 2008, che incontra il presidente di Finmeccanica Guarguaglini, per chiedergli di far entrare Tarantini nella società controllata dalla Selex (di cui è amministratore delegato Marina Grossi, moglie di Guarguaglini) che dovrà gestire l'appalto da 280 milioni della Protezione Civile. "Ho visto Guarguaglini, poi ti riferisco".

Questo è l'abisso, nel quale precipitano il capo del governo e le sue istituzioni, lo Stato e le sue aziende, i soldi privati e quelli pubblici. Questo è il vero "scandalo permanente". Un presidente del Consiglio che usa la menzogna e abusa del suo ruolo. Che semina illegalità e immoralità. Che è ormai interamente posseduto dai suoi vizi, e per questo non può più governare.

(18 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #214 inserito:: Settembre 26, 2011, 04:46:10 pm »

   
Polis

L'Italia, il prossimo birillo
 
Massimo GIANNINI


Il rally delle Borse non ci può né ci deve ingannare. Per l'Europa, e soprattutto per l'Italia, è suonata la campana dell'ultimo giro. L'iniziativa del G20, con il maxi-piano da tremila miliardi di euro per salvare la moneta unica e ricapitalizzare le banche, è la conferma implicita di quanto scriviamo da giorni. Si va dritti verso il "default" della Grecia. La messa in sicurezza delle principali istituzioni creditizie dell'Eurozona è la mossa che prepara la "caduta pilotata" di Atene. A questo punto sarebbe prevedibile, oltre che auspicabile, un contestuale taglio dei tassi d'interesse da parte della Bce.

In ogni caso, il "default" greco cambia lo scenario. Da un anno a questa parte, tra Bruxelles e le altre cancellerie del Vecchio Continente, si andavano ripetendo due solite solfe: quella eventualità non era preferibile dal punto di vista politico, nè percorribile dal punto di vista tecnico. Stiamo scoprendo, adesso, che quelle solfe non solo erano trite, ma erano anche false. Che poi questo epilogo della tragedia greca basti a salvare l'euro, è difficile dire.

Quello che è certo è che, caduto il tabù, le altre economie degli Stati periferici si devono regolare di conseguenza. L'Italia è il primo birillo che può cadere. Questo accelera, anziché frenarli, gli scenari della crisi politica. Il governo Berlusconi non ha la forza per reggere l'urto di una nuova manovra correttiva, né ha la credibilità per lanciare un nuovo progetto di crescita dell'economia. Il "divorzio" tra Palazzo Chigi e Tesoro rende impraticabile qualunque "decreto sviluppo" degno di questo nome. Non a caso, invece che di riforme strutturali, si riparla di condoni fiscali. È il massimo che ci si può aspettare, da questa Armata Brancaleone in disarmo.

La speranza è che la crisi si apra davvero a gennaio, come ha ventilato tra le righe Umberto Bossi, e che si vada a votare in aprile se, come sembra, risulterà impercorribile la via di un governo di emergenza nazionale. Le parti sociali sembrano già mentalmente e politicamente calate in questo scenario. Il "Manifesto" di Emma Marcegaglia per "Salvare l'Italia" va esattamente in questa direzione. Sembra la piattaforma economica che, sia pure con colpevole ritardo, Confindustria offre a un ipotetico "governo di salute pubblica", o a un potenziale schieramento riformatore da contrapporre al centrodestra post-berlusconiano. Del resto, l'iniziativa confindustriale sta in piedi solo se ispirata da questa logica. L'eclissi della politica facilita il ritorno alla stagione delle supplenze e delle concertazioni, simmetriche o asimmetriche, tra tecnocrazie e corpi intermedi della società. Ma è bene che gli operatori economici facciano il loro mestiere. Il "campo" che dovrebbe accogliere le nuove, fantomatiche "discese" è già molto intasato: Montezemolo, Passera, Profumo, e via andare. Ci manca solo la Marcegaglia.

Di imprenditori in politica ne abbiamo già conosciuto uno. Forse può bastare.

(26 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/26/news/rally_borse_giannini-22245751/?ref=HREA-1
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« Risposta #215 inserito:: Settembre 29, 2011, 05:02:00 pm »

COPERTINA

SOMMERSI E SALVATI NELLA PARTITA BANKITALIA

MASSIMO GIANNINI

Se non ci saranno colpi di scena, Silvio Berlusconi si accinge a prendere l’unica decisione sensata dei suoi ultimi dieci anni di avventura politica. In settimana il presidente della Repubblica procederà alla nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia. E il successore di Mario Draghi, salvo sorprese, sarà l’attuale direttore generale di Via Nazionale, Fabrizio Saccomanni. A proporlo al Capo dello Stato, se per qualche imponderabile ragione non cambierà idea, sarà proprio il presidente del Consiglio, «previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia» (già convocato, per ora in via solo ordinaria, per dopodomani). Questo prevede la procedura di nomina, secondo la legge 262 del 2005.
Dopo un’estate intossicata dai soliti veleni e dai rituali bracci di ferro, Berlusconi si è dunque convinto ad appoggiare la «soluzione interna» e a privilegiare la «continuità» istituzionale, dentro un organo speciale dello Stato che fa da sempre della «continuità» la cifra della sua autonomia e della sua indipendenza. Così, nei decenni, Palazzo Koch ha conquistato sul campo la sua autorevolezza e la sua credibilità. Tanto da diventare una preziosa «riserva della Repubblica».
Se questo sarà l’esito, sarà finalmente una buona cosa per l’Italia. Uscirà sconfitto Giulio Tremonti, che a fine giugno aveva tentato un blitz per imporre al governo e alla Banca il suo candidato Vittorio Grilli. Già allora giudicammo «pericolosa» la manovra del ministro. Non per sfiducia nei confronti del direttore generale del Tesoro, che è figura indiscussa per spessore e prestigio. Ma per la «filosofia» che accompagnava la scelta tremontiana. L’idea, cioè, che la Banca d’Italia dovesse diventare un organismo «ausiliario» dei governi, una sorta di ufficio studi al servizio del potere costituito, dal quale attingere, a discrezione, progetti e proposte di ordine macroeconomico, e nient’altro. Una visione gregaria e strumentale del ruolo della Banca, che avrebbe finito con il ridimensionarne la «forza» e la funzione rigorosamente «terza» rispetto alla politica. Un altro modo, appena più elegante, per rimettere in riga Via Nazionale, e per entrarci dentro mani e piedi. Condizionandone sia la valutazione critica delle politiche economiche governative, sia la gestione dinamica delle politiche di vigilanza creditizia.
Per fortuna, se non ci ripenserà all’ultima ora, il Cavaliere ci salverà da questo rischio. Purtroppo non lo farà per convinzione, ma per ritorsione. Berlusconi sceglierà Saccomanni per consumare la sua vendetta contro Tremonti. Ma una volta tanto non conviene sottilizzare. È come nel calcio: questa partita è troppo importante. Il gioco non conta. Conta solo il risultato.

m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/09/26/copertina/001faggio.html
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« Risposta #216 inserito:: Ottobre 04, 2011, 05:06:51 pm »

Il Paese sgovernato

Massimo GIANNINI

Il governo si dissolve, tra le "giornate intense" di Letta e le "serate eleganti" di Berlusconi. Alla Camera va sotto su un emendamento che inserisce anche la scuola pubblica tra i beneficiari dell'8 per mille. È la novantesima volta che accade, in tre anni e mezzo di legislatura. Un record assoluto, che farebbe schiantare l'esecutivo di qualunque altro Paese del mondo. Non quello italiano, che come il calabrone (corpaccione enorme, ali minuscole) vola radente e dannoso, sfidando tutte le leggi della fisica e della politica. Ma questo apparente "miracolo" non può e non deve ingannare. Il collasso numerico sull'8 per mille di oggi avviene a sole ventiquattr'ore di distanza dal successo aritmetico su Saverio Romano di ieri. È la "cifra" politica della maggioranza attuale: resiste quando il test parlamentare mette in gioco la sua sopravvivenza, non esiste quando si tratta di votare l'ordinaria amministrazione. Cioè quando si tratta di governare il Paese.

Infatti il Paese è di fatto sgovernato da tre anni e mezzo. Quando il mondo gira più o meno come al solito, ti puoi persino concedere questo lusso. Non te lo puoi più permettere, viceversa, quando il pianeta soffre una crisi globale, e tu in Europa sei l'anello debole della catena. La vittoria casalinga di Angela Merkel, che riesce a convincere il Bundestag ad approvare il potenziamento del Fondo Salva-Stati, aiuta l'Eurozona a prendere un po' d'ossigeno. Ma i problemi non sono affatto risolti. L'eurodelirio è appena agli inizi, e il peggio deve ancora venire. Per questo l'Italia continua ad essere esposta al massimo pericolo. Tanto più con un governo che affonda, e che torna a lacerarsi al suo interno sulle questioni di sempre. Come affrontare la partita del risanamento dei conti pubblici, con il necessario supplemento di manovra richiesto dalla Ue e dalla Bce sul fronte delle pensioni? Come fronteggiare con un minimo di credibilità il pacchetto-sviluppo che invocano ormai tutte le parti sociali? E come sciogliere il nodo della nomina del nuovo governatore della Banca d'Italia, la più importante istituzione economica della Repubblica, gettata nel tritacarne del regolamento di conti interno alla Pdl?

Queste sono le domande, tuttora senza risposta, che il premier elude mentre festeggia i suoi settantacinque anni menando fendenti contro la magistratura. Come se i guai dell'Italia dipendessero tutti da un manipolo di toghe rosse acquartierate nelle procure, e non invece da una cricca di irresponsabili asserragliati nel Palazzo. Questa crisi non si gestisce con un presidente del Consiglio e un ministro dell'Economia che non si parlano, e che quando si parlano fanno finta di trovare un accordo, salvo poi insultarsi e delegittimarsi a vicenda e per interposta persona nel gioco al massacro dei retroscena giornalistici. Quando si ribellano persino i sindacati gregari come la Cisl di Bonanni e la Uil di Angeletti, quando urlano la propria rabbia i decani dell'industria guidati da Emma Marcegaglia, i giovani imprenditori al seguito di Jacopo Morelli e i disillusi costruttori capitanati da Paolo Buzzetti, vuol dire che la misura è davvero colma. Un governo si può anche tenere in ostaggio. Ma non si può prendere in ostaggio un intero Paese.

(29 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/29/news/il_paese_sgovernato-22421680/
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« Risposta #217 inserito:: Ottobre 04, 2011, 07:37:46 pm »

   
IL COMMENTO

L'ultimo strappo di Marchionne

di MASSIMO GIANNINI

IL DIVORZIO tra Fiat e Confindustria si è dunque consumato. Sergio Marchionne, l'Amerikano, viola anche l'ultimo tabù, e porta il Lingotto fuori da Viale dell'Astronomia. Cioè fuori dal luogo fisico, ma anche istituzionale e sociale, dove la Fiat era sempre stata dal 1910, dai tempi del senatore Giovanni Agnelli fino a Vittorio Valletta e poi all'Avvocato. Lo "strappo", anche solo per questo, si può davvero definire storico. Per un secolo Fiat e Confindustria sono state una cosa sola. La prima sceglieva i presidenti della seconda. Un unico, vero Potere Forte, che condizionava i governi e ne orientava le politiche.

Questa "cinghia di trasmissione" subì una prima rottura con l'elezione di Antonio D'Amato nel 2000, sull'onda di una Vandea dei "piccoli padroncini" che Agnelli patì e salutò a modo suo, con una delle frasi che resteranno negli annali della Repubblica: "Hanno vinto i berluschini". Ma undici anni e molte polemiche dopo, c'è voluto il super-manager italo-svizzero-canadese a compiere la rottura definitiva. Una rottura che, al di là della portata simbolica, ha un profondo significato politico ed economico. Mentre esce da Confindustria, la Fiat sembra fare un passo in più verso un'altra uscita, molto più significativa: l'uscita dall'Italia.

Un'uscita da un impianto culturale (le pratiche concertative e le regole associative, la contrattazione nazionale e la costituzione materiale) che prelude sempre più all'uscita da un sistema industriale. Un'uscita per altro largamente annunciata, e larvatamente preparata, nel corso di quest'ultimo anno e mezzo. Gli accordi separati del 2010 (Pomigliano D'Arco a giugno e Mirafiori a dicembre) erano già un implicito "manifesto" pubblico del modello Marchionne: mani libere nelle fabbriche e intese con chi ci sta, se serve anche al di fuori della gabbia del contratto collettivo. Ora, con la lettera in cui ufficializza l'addio del Lingotto a Viale dell'Astronomia a partire dal primo gennaio 2012, l'amministratore delegato rende esplicito quel "manifesto". La Fiat "è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale, con 181 stabilimenti in 30 Paesi". Non può permettersi il lusso di "operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato".

L'inciampo italiano, per Marchionne, è rappresentato dal sistema di regole alla quale Confindustria ha scelto di restare ancorata, rifiutando di ascoltare la sirena che da Torino cantava ormai da un paio d'anni. Un sistema che ruota intorno alla difesa del contratto collettivo nazionale, che deve garantire certezza dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori, in tutti i settori e in tutto il territorio nazionale. Alla valorizzazione dei contratti aziendali, che disciplinano tutte le materie "delegate", anche in deroga parziale al contratto nazionale, ma con i limiti e le procedure disciplinate da quest'ultimo. Al principio della rappresentatività e della maggioranza, che garantisce la validità e l'applicazione di questo doppio impianto contrattuale dentro le fabbriche.

Questa piattaforma è stata ribadita da Confindustria e sindacati con l'accordo del 28 giugno scorso, che ha sancito una ricucitura importante nel metodo della concertazione, con il ritorno al tavolo, e alla successiva intesa, anche della Cgil. Quell'accordo a Fiat andava stretto. Perché non lasciava sufficiente discrezionalità alle aziende, soprattutto sui licenziamenti. È nato così l'articolo 8 della manovra d'agosto. Con quella norma il governo è venuto incontro alle richieste Fiat, cogliendo un varco lasciato aperto dall'accordo di giugno, che allarga anche alla "legge" (e non solo al contratto nazionale) lo spettro delle materie "delegate" alla contrattazione aziendale in deroga. Il ministro Sacconi, con quel blitz agostano, ha stabilito che le intese aziendali possono derogare alla legge o al contratto nazionale, compreso lo Statuto dei lavoratori. In questo modo salta l'intero apparato degli istituti di tutela dei lavoratori: dalle mansioni agli inquadramenti, dal part time agli orari. Ma soprattutto, l'articolo 8 concede alle imprese, di fatto, la libertà di licenziamento.

Per questo la Cgil è scesa in piazza il 6 settembre, decretando lo sciopero generale. Per questo, soprattutto, Confindustria e sindacati sono tornati a sedersi al tavolo interconfederale, e il 21 settembre hanno siglato un nuovo accordo, confermando "l'autonoma determinazione delle parti sociali" in tutte le scelte relative "alle relazioni industriali e alla contrattazione", nazionale e aziendale. Una scelta coraggiosa e responsabile. In una stagione di forte crisi economica e di alta instabilità politica, le parti sociali hanno ristabilito il primato della concertazione, e hanno disinnescato l'inutile e pericolosa "mina" dei licenziamenti. Il governo Berlusconi ha inserito l'articolo 8 in un "luogo" improprio, il maxi-decreto anti-deficit, come fattore di condizionamento ideologico e di scardinamento sociale. L'accordo interconfederale del 21 settembre (al di là delle diverse esegesi giuslavoristiche che l'hanno accompagnato) ha opportunamente disinnescato quella "mina". Ristabilendo, come nel '92, una benefica "supplenza" nei confronti di una politica irresoluta e irresponsabile.

Ora è proprio contro quella mossa che si scaglia Marchionne. Ed è proprio quella mossa che il "ceo" della Fiat usa come argomento, per giustificare il "divorzio" da Confindustria. Il "lodo" del 21 settembre "rischia di snaturare l'impianto previsto dalla nuova legge", e di "limitare fortemente la flessibilità gestionale". Evidentemente, un esito del tutto inaccettabile per il Lingotto. È questo, dunque, il "peccato" di Emma Marcegaglia. Aver riportato la Confindustria al tavolo della concertazione, e aver ricostruito la trama lacerata dei rapporti sociali, all'insegna di un'idea quanto più possibile condivisa delle relazioni industriali nelle fabbriche, dei diritti fondamentali delle persone, e alla fine dell'Italia che produce, che lavora e che deve cercare faticosamente una comune via d'uscita dal declino.

Lo "strappo" di Marchionne ha quindi una chiave di lettura, visibile, che è prevalentemente socio-economica. Volendo, ce n'è anche una meno visibile, e tutta politica. La Confindustria della Marcegaglia, a sua volta, ha appena consumato la rottura con il governo Berlusconi, lanciando l'ultimatum ("o fa le riforme, o va a casa") e proponendo il progetto alternativo "Salviamo l'Italia" (insieme a Rete Imprese). La Fiat non condivide le critiche al Cavaliere (non a caso John Elkann sabato scorso ha stroncato il progetto confindustriale dicendo "non è tempo di proclami e proposte generiche". E allora prende definitivamente e pubblicamente le distanze, e se ne va da Viale Astronomia. E' un'interpretazione maliziosa, che i vertici del Lingotto smentiscono seccamente. Ma allora perché Marchionne parla di "Confindustria politica", che per Fiat "ha zero interesse"? E perché Fabrizio Cicchitto esulta per il "divorzio", dicendo "ora la Marcegaglia è isolata"? E perché, infine, solo un'ora dopo aver proclamato l'uscita da Confindustria il Lingotto annuncia anche un altro anno di cassa integrazione a Mirafiori, generosamente coperto, pro-quota, dal denaro pubblico?

Ma al di là delle dietrologie, conta quello che si vede. E quello che si vede è che la Fiat di Marchionne, a dispetto delle promesse, fatica a tenere la competizione globale e non regge la competizione nazionale. I numeri parlano chiaro. Sia quelli della finanza, sia quelli dell'industria. Dal 3 gennaio 2011, data dello spin off del Lingotto, i titoli del gruppo sono crollati. Fiat Spa valeva 6,9 euro, e ora ne vale 3,9, Fiat Industrial valeva 9 euro e ora ne vale 5,3. Fiat Spa, che allora capitalizzava 7,5 miliardi, oggi è scesa sotto i 4 miliardi. La produzione nazionale è inferiore alle attese, lontana anni luce dagli 1,4 milioni di auto previsti nel 2014. Le vendite continuano a ridursi, con un'ulteriore caduta del 4,7% a settembre, che porta la quota di mercato domestico ad un modesto 29,7%.

I nuovi modelli continuano a latitare: a prescindere dalla Nuova Panda appena lanciata, i 9 nuovi modelli e i 4 restyling previsti non si vedranno prima dell'inizio del 2013, e l'uscita della Giulia Berlina e Station Wagon è slittata al 2014. A parte la chiusura certa di Termini Imerese, della Irisbus di Avellino e della Cnh di Imola, sul destino degli impianti italiani regna la confusione più totale. Il mitico progetto "Fabbrica Italia" resta un'araba fenice. Il piano industriale è tuttora ignoto. La conferma degli investimenti su Mirafiori, formulata dallo stesso Marchionne, è sicuramente un fatto positivo, come lo è la garanzia che lì si produrrà la Jeep. Ma non si può non vedere che per Torino siamo ormai al terzo dietrofront: prima doveva produrre la Topolino, poi la Citycar, poi i Suv Alfa.

L'impressione, purtroppo, è quella di un'azienda che, almeno nel Belpaese, viaggia ormai a fari spenti. Che ha scelto di scommettere tutte le sue carte solo sulla ruota americana di Detroit, e ha scelto di giocare la partita della concorrenza domestica solo sul piano dei tagli alla produzione e al costo del lavoro. Marchionne può dire quello che vuole. Ma tanti indizi, ormai, cominciano a fare una prova. La "strategia delle mani libere" non ha più nessun'altra giustificazione, se non quella del disimpegno. Dopo il divorzio da Confindustria, arriverà anche il divorzio dall'Italia.

(04 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/10/04/news/giannini_marchionne-22652189/?ref=HREC1-4
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« Risposta #218 inserito:: Ottobre 10, 2011, 03:58:31 pm »

La storia

Legge-bavaglio, cinque anni di guerra per coprire gli scandali del Cavaliere

Dal caso Saccà al giro di escort, la grande guerra del Cavaliere per cancellare le inchieste che lo coinvolgono.

Dopo la vittoria del 13 aprile 2008 l'annuncio: le intercettazioni, solo per mafia e Br.

Fino alla cronaca di questi giorni

di MASSIMO GIANNINI


È POTENTE e minacciosa, la forza di fuoco dispiegata nelle ultime settimane dal presidente del Consiglio sulle intercettazioni. "Voi parlamentari approvate al più presto la legge: la situazione attuale non è da Paese civile" (Agi, 6 ottobre). "Vi è un'urgenza a cui abbiamo il dovere di rispondere... Il cittadino alza il telefono e sente di poter essere controllato: è intollerabile, è un sistema barbaro a cui dobbiamo mettere fine" (Ansa, 7 ottobre).

LO SPECIALE SUL DDL INTERCETTAZIONI (su http://www.repubblica.it/politica/2011/10/10/news/cinque_anni_scandali-22962539/?ref=HRER1-1).
 
Silvio Berlusconi prepara con queste parole, scagliate come pietre contro i pm, il prossimo "giorno del giudizio". Giovedì la Camera voterà la legge-bavaglio, dalla quale può dipendere la sopravvivenza del suo governo. Il premier cerca di dimostrare l'indimostrabile: quella sulle intercettazioni non è la "sua" guerra, ma deve essere la guerra di tutti gli italiani che hanno a cuore la libertà.

È l'ennesima, disperata torsione del principio di verità. È la pretesa di impunità spacciata per diritto alla privacy. Non è un teorema giornalistico. Sono i nudi fatti di questi ultimi cinque anni. Ogni volta che Berlusconi ha forzato la mano alla sua maggioranza e al Parlamento, per chiedere il giro di vite sugli ascolti telefonici, non lo ha fatto per tutelare "milioni di cittadini inermi".

Ma per impedire che, attraverso l'esercizio di un diritto all'informazione tutelato dalla Costituzione, i mass media portassero alla luce del sole vicende oscure che riguardano i suoi vizi privati, i suoi affari personali, i suoi conflitti di interesse. E che per questo svelano la natura torbida del suo potere e il "metodo" improprio con cui lo amministra. Questa è la vera posta in gioco della legge-bavaglio.

IL PROLOGO: COME FREGARE IL COMPAGNO FASSINO
La Grande Guerra per difendersi dalle intercettazioni il Cavaliere comincia a combatterla facendone a sua volta un abuso, largo e disinvolto, contro i nemici. È lui a innescare lo scandalo Bnl-Unipol che all'inizio del 2007 spinge il governo Prodi a varare il ddl Mastella. La famosa conversazione tra Fassino e Consorte del 17 luglio 2005 ("Abbiamo una banca?") è l'arma-fine-di-mondo che Berlusconi brandisce nella campagna elettorale del 2006.

Quell'intercettazione è illegale, la pubblica il Giornale il 31 dicembre 2005. Non è agli atti dell'inchiesta. È solo un file audio custodito dalla GdF. Ma l'ad della Research Control System Roberto Raffaelli, il 24 dicembre, va ad Arcore e la offre in dono natalizio a Berlusconi che (come scriverà poi il gip Stefania Donadeo nell'ordinanza) lo ringrazia "del regalo fattogli, assicurandogli gratitudine eterna". Questo è dunque l'uso in "privato" che il Cavaliere fa del Grande Fratello telefonico, quando gli conviene.

INIZIA LA GUERRA: COME COPRIRE LO SCANDALO RAI-SACCÀ
La prima emergenza che spinge Berlusconi a invocare il bavaglio nasce alla fine del 2007. Il Cavaliere, falso "garantista" anche all'opposizione, sostiene il ddl Mastella, approvato alla Camera il 17 aprile all'unanimità. "È una questione di principio - dice - siamo contro lo Stato di polizia".

Una posizione sorprendente, e solo in apparenza coerente. Per il Cavaliere cominciano a profilarsi grane grosse. La prima scoppia a giugno. Sui giornali esce l'intercettazione di Stefano Ricucci, che dice al telefono di aver ricevuto "un via libera da Berlusconi" per la scalata a Rcs.

La seconda grana scoppia a luglio: il 4 il Csm accusa il Sismi di Niccolò Pollari di aver spiato illegalmente più di 200 magistrati. Pollari è uomo di fiducia di Gianni Letta per l'intera legislatura berlusconiana 2001-2006.

Ma la grana più seria esplode prima di Natale. Repubblica, il 21 dicembre, da conto dell'inchiesta della Procura di Napoli, che indaga Berlusconi per corruzione: ci sono intercettazioni in cui parla con il dg Rai Agostino Saccà per far assumere due ragazze in una fiction.

È il finimondo. La Rai apre un'inchiesta interna. Berlusconi la butta in politica: "Gli sciacalli sono in azione, vogliono far saltare il dialogo sulle riforme", dice all'Ansa il 22 novembre.

Ma il 20 dicembre, quando l'Espresso pubblica un'altra intercettazione con Saccà in cui si parla di posti Rai da assegnare a Elena Russo, Antonella Troise ed Evelina Manna, il Cavaliere sbotta: "Lo sanno tutti che in Rai si lavora solo se ti prostituisci o se sei di sinistra".

Il caso Saccà si concluderà con l'archiviazione 6, il 17 aprile del 2009. Ma all'inizio del 2008, alla vigilia del voto anticipato, il Cavaliere ancora non lo sa. Per questo ha già deciso: il giro di vite alle intercettazioni sarà nel suo programma di governo.

L'OFFENSIVA: VIA ALLA STRETTA SUGLI ASCOLTI TELEFONICI
Il 18 gennaio 2008 la Procura di Napoli chiede il rinvio a giudizio del Cavaliere per le raccomandazioni in Rai. Lui è sempre più preoccupato. Dopo il trionfo elettorale del 13 aprile, da neo-premier, rompe gli indugi. Il 7 giugno, a Capri, annuncia ai giovani di Confindustria: "Daremo una stretta sulle intercettazioni, che saranno possibili solo per la criminalità organizzata e il terrorismo".

Detto fatto: il 13 giugno, il Consiglio dei ministri vara il suo ddl: le intercettazioni saranno vietate per le indagini su reati con pena inferiore ai 10 anni, e sarà vietata la pubblicazione degli atti dell'indagine fino alla conclusione dell'udienza preliminare.

Il 27 giugno il governo vara il primo Lodo Alfano sull'immunità per le alte cariche. Il premier esulta, ma vuole di più. Il ddl sulle intercettazioni sia trasformato in decreto, chiede a Ghedini e Alfano riconvocati a Palazzo Grazioli ai primi di luglio. I suoi luogotententi lo sconsigliano: meglio puntare sul Lodo e sul ripristino dell'immunità parlamentare.

Il Cavaliere si adegua, ma dissente. Il 2 agosto, alla buvette di Montecitorio, saluta i deputati prima delle ferie: "Spero proprio che il Parlamento approvi una legge che autorizzi le intercettazioni solo per reati di mafia e terrorismo". Ma ha bisogno di una sponda dall'opposizione.

Il 29 agosto sul suo Panorama escono a sorpresa le intercettazioni telefoniche 8 su un giro di appalti Italtel, che chiamano in causa Prodi. Il premier rilancia il solito "garantismo a la carte": "Solidarietà a Prodi, questa vicenda dimostra che una legge sulle intercettazioni è necessaria e urgente". Lo ripete ai suoi per due mesi. Perché questa ossessione? La risposta è negli scandali che stanno per deflagrare.

LA GUERRA TOTALE: COME FERMARE I PM DI BARI SULLE ESCORT
Berlusconi saluta il 2009 con un fuoco d'artificio. Il 25 gennaio spara: "Sta per scoppiare il più grande scandalo della Repubblica". È l'affare Gioacchino Genchi, vicequestore di Polizia che ha effettuato indagini per conto di De Magistris nell'inchiesta "Why not" e "Poseidon". Il Copasir smaschera la "bufala". Il sistema Genchi ha molte zone d'ombra, ma non contiene intercettazioni, solo analisi di tabulati telefonici. Dunque, perché la sparata del premier? L'obiettivo è evidente: creare un clima di indignazione generale, propedeutico alla legge-bavaglio.

Il 29 gennaio la maggioranza introduce le prime modifiche restrittive al ddl intercettazioni: sono consentite solo per "gravi indizi di reato". Il 17 febbraio il Csm esprime parere negativo. Il premier non si ferma: vuole che la legge passi a tutti i costi. Nel frattempo, il 29 aprile, su Repubblica irrompe lo scandalo Noemi Letizia 9. Berlusconi reagisce e ruggisce, come un leone ferito. E l'11 giugno, in un clima di bagarre, la Camera approva definitivamente il ddl intercettazioni a colpi di fiducia, con 318 sì e 224 no. Alfano brinda: "Ora ci aspettiamo una rapida lettura da parte del Senato".

Ma il Cavaliere, in quei giorni, è nervoso. È convinto che il peggio debba ancora venire. Massimo D'Alema il 14 giugno va in tv, a In mezz'ora, e afferma: "C'è da aspettarsi che la maggioranza sia presto attraversata da nuove scosse".

E le "scosse", puntuali, arrivano. Tre giorni dopo scoppia lo scandalo delle escort alla Procura di Bari. Si parla di intercettazioni su ragazze pagate per partecipare alle "serate eleganti" di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa. Il Cavaliere perde le staffe: "È la solita spazzatura con la quale cercano di disarcionarmi". Ma Patrizia D'Addario conferma tutto in un'intervista. E il 20 luglio l'Espresso pubblica un audio sulle notti roventi tra la stessa D'Addario e il presidente. Le "dieci domande" di Repubblica fanno il giro del mondo.

LA GUERRA DI LOGORAMENTO: COME OSCURARE LO SCANDALO P3
Per questo l'uomo di Arcore torna alla carica sulla legge-bavaglio: incurante della manifestazione per la libertà di stampa, che il 3 ottobre porta a Roma 300 mila persone. Il Cavaliere la bolla così: "È una farsa assoluta, in Italia c'è più libertà di stampa che in qualunque altro Paese". Comincia una guerra di logoramento, nella sua maggioranza e nelle piazze.

La sua è una corsa disperata contro il tempo. Il 9 escono i primi verbali sull'inchiesta barese, dai quali si evince che Tarantini ha portato alle feste di Berlusconi almeno 30 ragazze, molte delle quali pagate dall'"utilizzatore finale".

Il 22 settembre si apre un'altra pagina nera: scoppia lo scandalo P3, che nelle carte della procura di Roma coinvolge Verdini, Dell'Utri, Carboni. Ancora un profluvio di intercettazioni, nelle quali tutti si spartiscono favori e lavori, condizionano giudici e appalti, e si dicono per 27 volte che per ogni decisione devono "riferire a Cesare", cioè al Cavaliere (l'inchiesta 13). È lo scandalo della nota "cricca", che il premier prova inutilmente a liquidare così: "Sono solo quattro sfigati in pensione". Ma lo scandalo c'è. E il ddl intercettazioni e impantanato al Senato.

COME DISINNESCARE LE MINE SU TRANI E SUL RUBY-GATE
Il 10 febbraio 2010 esplode un altro scandalo 15: gli appalti sui "Grandi eventi", con Guido Bertolaso indagato per corruzione dalla procura di Roma. Un'altra messe di intercettazioni, che squassano la Protezione Civile e la rete di imprenditori "amici", da Anemone a Balducci. I giornali riferiscono di conversazioni intercettate e di incontri segreti a Palazzo Chigi tra quest'ultimo, Berlusconi e Letta. Piovono smentite, ma il danno è fatto.

Il 12 marzo nuovo scandalo: la Procura di Trani indaga Berlusconi per abuso d'ufficio 16. Un'altra infornata di intercettazioni inchioda il premier, che fa pressioni sul membro dell'Agcom Giancarlo Innocenzi per "chiudere Annozero". È un terremoto. Alfano manda gli ispettori a Trani. Il Cavaliere, alla manifestazione del Pdl di Roma del 20 marzo, attacca dal palco "le intercettazioni da stato sovietico".

Ma le parole non bastano più. Il 6 aprile convoca Umberto Bossi ad Arcore, per ridefinire la strategia di combattimento sulla legge-bavaglio. Il Giornale riassume così il vertice: "Il premier vuole che il ddl sia legge dello Stato entro giugno".

A maggio, al Senato, la maggioranza tenta l'affondo. Il 19, in Commissione, passa la stangata contro gli editori che pubblicano le conversazioni telefoniche. Il 24 i direttori dei grandi giornali lanciano un appello al centrodestra. Le "colombe" del Pdl raccolgono: il 28 maggio la maggioranza al Senato ufficializza i suoi emendamenti, uno dei quali reintroduce la possibilità di pubblicare per riassunto gli atti giudiziari prima dell'udienza preliminare. Il 10 giugno Palazzo Madama approva il ddl, nel caos dell'emiciclo. Si torna alla Camera, per la terza lettura. Ma il presidente non è soddisfatto: "Il testo è stato snaturato dalle lobby dei magistrati e dei giornalisti".

Il Cavaliere teme che la legge finisca nelle secche parlamentari. Teme Napolitano, che il primo luglio dichiara: "I punti critici sulle intercettazioni sono chiari, valuterò il testo al momento della firma". Teme la fronda nel centrodestra e dei finiani. Per questo il 2 luglio, di ritorno dal G20, rilancia al Tg1 e Tg5: "Sono tornato con ottimi risultati, ora prenderò in mano la manovra e le intercettazioni". Conclude con il grottesco "ghe pensi mi". Ma il 20 luglio Alfano sigla un "lodo" con la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno: saranno pubblicabili almeno "gli atti rilevanti" delle inchieste. Il Cavaliere, ancora una volta, storce il naso: "Così resta tutto com'era", sbuffa il giorno stesso.

Dopo la chiusura estiva riparte come un panzer. Il 31 agosto convoca Ghedini e Alfano a Palazzo Grazioli: otto ore di vertice, per mettere a punto la road map autunnale su processo breve e intercettazioni. Berlusconi sa che sta per cadergli in testa un'altra tegola.

Il Ruby-gate 18 squassa il circo politico-mediatico il 27 ottobre, e tiene banco per quattro mesi filati e avvelenati. Nuovo scandalo sessuale, stavolta con una minorenne, nuove intercettazioni imbarazzanti, come la telefonata in Questura per chiedere la liberazione della "nipote di Mubarak". Il 2011 non promette nulla di buono.

L'ASSALTO FINALE: COME NASCONDERE LA P4 E L'AFFARE TARANTINI-LAVITOLA
L'ultimo anno, per il premier, è un calvario. Da gennaio a settembre, c'è traccia di almeno undici vertici in cui si parla di intercettazioni a Palazzo Grazioli, tra il premier, Ghedini, Alfano e i suoi "collaboratori". Tra questi, l'8 febbraio scorso, figura anche Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa e Capo Dipartimento alla Giustizia. Nessuno saprà mai a quale titolo. Ma c'è una guerra da combattere: e per il Cavaliere tutte le armi sono buone. Lo ripete il 5 marzo, in un videomessaggio ai Promotori della Libertà: "La sinistra, vuole le intercettazioni a go-go... Vuole fare dell'Italia uno Stato di polizia, e noi glielo impediremo!".

Ai primi di giugno, scoppia lo scandalo P4. Anche qui, intercettazioni, che partono da Luigi Bisignani, travolgono Alfonso Papa, coinvolgono Letta e lambiscono Berlusconi. E la legge-bavaglio è ancora ferma al Senato. Tra il 20 luglio e la fine di agosto il premier convoca altri tre vertici a Palazzo Grazioli, per sollecitare la stretta. Ma, di nuovo, il tempo corre più veloce.

Il 28 luglio dice ai cronisti: "La legge sulle intercettazioni è stata massacrata da tutti gli interventi che ha subito: sono quasi tentato di ritirarla...". Negli stessi giorni l'Espresso pubblica l'intercettazione 20 in cui suggerisce al latitante Lavitola di "non tornare in Italia". Il primo settembre Tarantini viene arrestato, e nell'ordinanza del gip di Napoli escono le telefonate più scottanti: ragazze usate come "mazzette umane", ricatti e soldi versati per comprare silenzi, appalti "facilitati" in Finmeccanica.

Siamo alla cronaca di questi giorni: il premier è furente, e il 4 ottobre chiama Ghedini e Confalonieri a Palazzo Grazioli.
Il "Lodo" Ghedini-Bongiorno viene stracciato, si torna alla versione più dura della legge bavaglio. Quella che l'aula di Montecitorio dovrà approvare giovedì prossimo, pena la caduta del governo.

Perché quest'ultimo colpo di coda? Forse c'è ancora molto da scoprire, e dunque molto da nascondere, nelle carte delle procure. Centomila file sono tanti. Senza contare le parti "omissate", a quanto pare le più compromettenti, persino dal punto di vista della politica estera. Per questo Berlusconi, come dice la Bongiorno, ha "schioccato le dita" e ha fatto rimettere l'elmetto ai suoi soldati. Il 27 dicembre 2008 aveva giurato per le bancarelle di via dei Coronari: "Se vengono intercettate mie telefonate di un certo tipo, me ne vado in un altro Paese...". Era solo un'altra bugia. Ma serve a capire perché la Grande Guerra delle intercettazioni non è ancora finita.
 

(10 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #219 inserito:: Ottobre 12, 2011, 11:06:25 am »

IL COMMENTO

Il dovere di dimettersi

di MASSIMO GIANNINI


LE ANIME candide, fuori dal Palazzo, potranno anche prendere per buona l'ultima menzogna spacciata a microfoni unificati da Berlusconi e Bossi. "È un problema tecnico risolvibile", hanno detto i due fantasmatici rais dell'ormai ex maggioranza forzaleghista. Ma la sorprendente sconfitta numerica subita alla Camera sull'assestamento al bilancio è una sconfitta politica devastante, e forse definitiva, per quel che rimane del centrodestra.

Intanto, non è affatto detto che sia risolvibile dal punto di vista tecnico. Un governo che va avanti come se nulla fosse, dopo aver incassato il no del Parlamento non su una legge qualsiasi, ma su un atto normativo di rilevanza costituzionale come il rendiconto di finanza pubblica, non si era mai visto. Ci sono solo un paio di precedenti, nella storia repubblicana, il più simile dei quali risale al governo Goria del 1988, che non a caso cadde subito dopo esser finito più volte in minoranza nel voto sulla Legge Finanziaria.

Ma è evidente a tutti, al di là della valenza tecnica e formale del caso, che quella che si è prodotta nell'assemblea di Montecitorio è una rottura politica e sostanziale. Probabilmente irreparabile, a dispetto della penose e consolatorie assicurazioni fornite dal Cavaliere e dal Senatur. C'è un momento, anche nell'anomalia assoluta del berlusconismo, nel quale le leggi della politica ritrovano una coerenza irriducibile. Nel quale le tensioni e i conflitti precipitano e convergono, tutti insieme, verso una conclusione inevitabile.
Questo è quel momento.

Si percepiva da mesi, ormai, il drammatico divorzio umano (prima ancora che politico) tra il presidente del Consiglio e il suo ministro del Tesoro, trasfigurato nell'odioso Ghino di Tacco di una coalizione affamata dai tagli lineari e assetata di denaro pubblico da spendere. Si vedeva da settimane, ormai, il lento ma inequivoco sfilacciamento di un Pdl ridotto a un ectoplasma, sotto la guida incerta e inconsistente di un Alfano che nasce come segretario del capo e non certo del partito, e che non può e non sa fronteggiare le correnti, coordinare le fazioni, dominare i cacicchi.

Si temeva da giorni, ormai, il fatidico "incidente di percorso", in Parlamento e fuori, che faceva tremare il "cerchio magico" del premier, disperato e assediato nel suo bunker. Palazzo Grazioli come il Palazzo d'Inverno. Alla Camera, a far mancare i voti che servivano, tra gli altri sono stati proprio Umberto Bossi, Giulio Tremonti e Claudio Scajola.

Tutto questo non può essere solo un caso. Non può essere un caso, se il vecchio Senatur ritarda l'ingresso in aula, confuso per la lesa maestà padana e stordito dall'inedita e inaudita vandea leghista che lo vede per la prima volta contestato dalla sua base. Non può essere un caso, se il superministro dell'Economia diserta un appuntamento in cui si discute e si vota un provvedimento-chiave di cui lui stesso è titolare. E non può essere un caso, se l'ex ministro dello Sviluppo si eclissa poche ore dopo un "pranzo tra amici", come lui stesso ha definito quello che ha da poco consumato insieme al Cavaliere. Forse non c'è complotto. Non ancora, almeno.

Ma nel disastrato esercito berlusconiano risuona forte e chiaro il "rompete le righe". Quello che succede è la dimostrazione pratica di ciò che era evidente già da più di un anno: un governo non sta in piedi, con la sola forza inerziale dell'aritmetica. Se non c'è la spinta della politica, con la quale far muovere la "macchina", un governo prima o poi cade. E questa spinta, ammesso che ci sia mai stata, manca palesemente. Almeno dal 14 dicembre 2010.

Si può senz'altro dire che Gianfranco Fini ha sbagliato i suoi calcoli. Che allora la spallata futurista non è riuscita. Che il Cavaliere ha resistito e oggi il presidente della Camera esprime un potenziale elettorale modesto, intorno al 3-4%. È tutto vero. Ma è altrettanto vero che da quel giorno, dalla scissione degli ex di An dal Pdl, la maggioranza è "clinicamente" morta.

Da allora nulla è stato più prodotto, nella residua ridotta verde-azzurra di B&B, Berlusconi & Bossi. Non una riforma strutturale, non una legge qualificante. La stessa maxi-manovra estiva nasce dalla "gestione commissariale" del Colle e di Via Nazionale (cioè dalle pressioni di Napolitano e Draghi) e non certo dall'azione materiale di Arcore o di Via XX Settembre.

Si è ironizzato a lungo, sulle "self-fulfilling prophecies" di quelli che annunciano da mesi e mesi la caduta imminente del re nudo, e sulle speculari doti di resistenza del medesimo. Ma alla fine, anche nel Paese di Berluscolandia, la realtà si impone sulla propaganda.

La realtà, oggi, dice che il presidente del Consiglio deve recarsi al Quirinale, e rassegnare le sue dimissioni: sarebbe impensabile derubricare quello che è accaduto come un banale inciampo procedurale, mentre è un vulnus politico di gravità eccezionale. La realtà, oggi, dice che non sono ammissibili trucchi da illusionista o bizantinismi da leguleio, tipo Consiglio dei ministri che riapprova l'aggiornamento al bilancio pubblico e lo fa rivotare dal Senato: sarebbe uno strappo inaccettabile alle regole e uno schiaffo intollerabile al Parlamento.

La realtà, oggi, dice che il presidente della Repubblica, se com'è giusto non interverrà proditoriamente per interrompere questa nefasta avventura di governo, com'è altrettanto giusto non interverrà artificiosamente per prolungarla. Berlusconi e Bossi, dopo quello che è accaduto, non esistono più. Sono "anime morte", come quelle di Gogol.
 

(12 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #220 inserito:: Ottobre 13, 2011, 04:35:45 pm »

COPERTINA

LUPI PER AGNELLI IN PIAZZA DEGLI AFFARI

MASSIMO GIANNINI

Da qualche anno a questa parte, la famiglia Agnelli ha un rapporto difficile con il mercato finanziario. Il famigerato caso dell’equity swap del settembre 2005, che coinvolse Ifil e Exor e si concluse con una condanna amministrativa e un’assoluzione penale, fu a suo tempo un primo indizio. Ora se ne verifica un altro, che stavolta riguarda la Juventus, e che sta nuovamente sollecitando l’«attenzione critica» della Consob. Il gioiello calcistico della Real Casa, nonostante il bel rilancio in campionato e il grande successo del nuovo stadio, ha chiuso il bilancio al 31 giugno 2011 con una perdita record di 95,4 milioni. Nel frattempo, il patrimonio netto è diventato negativo per 4,9 milioni, soprattutto a causa della svalutazione da 5,3 milioni operata su Amauri, calciatore acquistato dal Palermo per 21,3 milioni e ora fuori rosa perché «non rientrante nel nuovo progetto tecnico».

Azzerato il patrimonio, in virtù di questa svalutazione, la Juve ha deciso di abbattere e ricostituire il capitale sociale, attraverso un’iniezione di denaro fresco fino a un massimo di 120 milioni di euro. Martedì 18 ottobre si riunirà l’Assemblea, per procedere alla copertura delle perdite e all’avvio dell’operazione di ricapitalizzazione. Exor ha già annunciato che sottoscriverà l’aumento per la quota di sua competenza (circa 72 milioni) ed eventualmente anche per la quota di 9 milioni di euro detenuta dal socio libico e «congelata» dopo il collasso del regime di Gheddafi. Il resto toccherà al mercato e ai piccoli azionisti che tuttavia, per tenersi le azioni Juventus, dovranno aprire il portafogli.

Con questa mossa, i dirigenti della «Bianconera» colgono due piccioni con una fava. Si sbarazzano dell’ingombrante partner libico, e soprattutto evitano di lanciare un’Opa. Il tutto, ovviamente, a scapito dei soci minori. E, forse, anche in prospettiva di un successivo «delisting». Sia chiaro: la Borsa italiana ci ha abituato a molto di peggio. Le società di calcio quotate ne hanno combinate di tutti i colori (basti pensare a quello che è accaduto ai titoli dell’As Roma durante la scandalosa trattativa per la vendita da parte dei Sensi). Ma quello individuato da Andrea Agnelli e dai vertici della società non è un buon esempio di «fair play» finanziario.

Che fine ha fatto lo «stile Juve»? Con queste tattiche si da un cattivo esempio al mercato. Per far risparmiare soldi alle maggioranze, si penalizzano i diritti delle minoranze. La Consob sta facendo «moral suasion» nei confronti della dirigenza. Ma finora senza risultati. Peccato. La nobile casata torinese tradisce comportamenti vagamente «predatori» che mal si conciliano con la sua tradizione. «Lupi per Agnelli»: ottimo al cinema, pessimo in Borsa.

m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/10/10/copertina/001alabama.html
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« Risposta #221 inserito:: Ottobre 17, 2011, 09:26:13 am »

RETROSCENA

Bankitalia, quattro mesi di stallo Colle in pressing ma il governo non decide

Dalla lettera di Napolitano al premier all'ipotesi "terzo uomo".

Palazzo Chigi potrebbe accantonare i nomi di Saccomanni e Grilli per proporre  Bini Smaghi

di MASSIMO GIANNINI


C'È un'indecenza pubblica, che più di ogni altra fotografa la crisi politica e la totale paralisi del governo Berlusconi.

E che rende bugiarda la risposta fornita alla Camera dal presidente del Consiglio all'urgenza di "governabilità" sollecitata mercoledì scorso dal presidente della Repubblica. La nomina del successore di Mario Draghi alla guida della Banca d'Italia. Una "pratica" che ormai da quasi quattro mesi marcisce e rimbalza inutilmente, dal tavolo di Palazzo Grazioli a quello di Via XX Settembre. Senza che il premier sappia assumersi la responsabilità di una decisione.

"Signor presidente, lei ha ragione. So bene che la nomina è urgente. Ma l'impuntatura di Tremonti si sta trasformando in una vera e propria interdizione...". Venerdì pomeriggio, salito al Colle tre ore dopo aver incassato la "fiducia mutilata", il Cavaliere ha spiegato in questi termini lo "stallo" sulla scelta del prossimo governatore. Di fronte a lui, un costernato Giorgio Napolitano gli ha ribadito quello che va dicendo ormai da quasi quattro mesi: questa incertezza "nuoce alle istituzioni, alle persone e anche al Paese. La decisione spetta innanzitutto a lei. Rammenta la lettera che le ho scritto a giugno...". La sollecitazione del Capo dello Stato, al momento, non ha prodotto risultati. Il premier ha preso tempo, lumeggiando addirittura l'ipotesi di un interim all'attuale direttore generale dell'Istituto, che il presidente della Repubblica ha stroncato subito: nessun
interim. "Ne va della credibilità dell'Italia". Ma nonostante la "moral suasion" del Quirinale, l'incontro si è chiuso con un nuovo nulla di fatto.

Il tempo stringe. Dal prossimo 1 novembre Draghi traslocherà all'Eurotower di Francoforte. E la Banca d'Italia, la più importante istituzione repubblicana nel campo dell'economia, ancora non sa chi sarà il suo prossimo governatore. Le posizioni in campo sono ormai note. A Palazzo Koch la "tecnostruttura" sollecita una scelta "interna" che conservi l'autonomia dell'Istituto, e che dunque ruota naturalmente intorno al nome di Fabrizio Saccomanni, nato e cresciuto in Via Nazionale e dunque assoluto garante della sua indipendenza dalla politica. A Via XX Settembre, viceversa, il superministro dell'Economia si impunta sul suo candidato "esterno" Vittorio Grilli, l'attuale direttore generale del Tesoro, funzionale alla trasformazione della Banca d'Italia in quell'"organo ausiliario del governo" che lo stesso ministro auspica da tempo. Il tira e molla va avanti da giugno, in un turbine di voci e illazioni, veti e veleni. Il risultato è disastroso. La Banca d'Italia finisce, suo malgrado, nel tritacarne della politica di sottogoverno. La nomina del governatore diventa come la nomina del direttore generale della Rai. Via Nazionale viene ridotta come Viale Mazzini. Un banchiere centrale del calibro di Saccomanni è costretto ai ridicoli esami di "milanesità" imposti dalla follia populista di Bossi. Un civil servant del valore di Grilli è obbligato a difendersi dal sospetto di essere un "normalizzatore" marchiato a fuoco dalla politica.

L'indiscrezione di queste ultime ore è che, per uscire dallo "stallo" e dalla tenaglia di Draghi che preme per Saccomanni e di Tremonti che non molla su Grilli, il premier starebbe riprendendo in considerazione l'ipotesi del "terzo uomo". E il candidato sarebbe Lorenzo Bini Smaghi. Il membro italiano nel board della Bce è caduto in disgrazia, dopo aver rifiutato di dimettersi dal suo incarico all'indomani della nomina di Draghi all'Eurotower e aver creato un caso diplomatico con il presidente Sarkozy, che reclama quella poltrona per un francese. Venerdì scorso il Cavaliere ha convocato Bini Smaghi a Palazzo Grazioli. Chi gli ha parlato, riferisce che il "terzo uomo", ancora amareggiato per come le cancellerie e i media hanno raccontato prima dell'estate la sua "battaglia per l'indipendenza del banchiere centrale", continui a ribadire che la sua "non è una candidatura politica. Io non ho 'padrini', ho solo la mia storia e il mio curriculum, che dimostra tra l'altro che sono l'unico candidato dello stesso livello di Draghi".

Ma fonti autorevoli riferiscono che ora per il "terzo uomo" qualche spiraglio si potrebbe riaprire. Secondo un'esegesi filo-francese, se scegliesse lui per la Banca d'Italia Berlusconi (oltre a far finire in pareggio la partita tra Draghi e Tremonti) farebbe un favore a Sarkozy. Secondo un'esegesi anti-tedesca, se Berlusconi trasferisse Bini Smaghi a Via Nazionale, il nuovo governatore potrebbe arginare il ricostituito asse Merkel-Sarkozy nel consiglio direttivo della Bce, e al tempo stesso bilanciare il ruolo di Draghi, che soprattutto nella prima fase del suo mandato a Francoforte dovrà dimostrare di essere "più tedesco dei tedeschi". C'è chi dice che Bini Smaghi, nel suo colloquio riservato con Berlusconi, gli abbia esposto proprio queste diverse "opportunità". Ma sono ragionamenti di tipo puramente "tattico". Qui non si tratta di fare favori a una cancelleria o a una persona. Si tratta, viceversa, di fare una scelta che assicuri l'indipendenza, il prestigio e la continuità nella gestione della Banca. Per questo, anche l'ipotesi del "terzo uomo", presenta molte incognite. Non ultima, la possibilità che, se fosse nominato un esterno (compreso Bini Smaghi), il direttorio di Via Nazionale potrebbe persino rassegnare le dimissioni in blocco.

In ogni caso il premier ha preso nota. Ma ancora una volta non ha promesso né deciso nulla. Siamo al vuoto decisionale. Questo, soprattutto, inquieta Napolitano. Il presidente non è mai intervenuto e non interviene nella diatriba sui nomi. Di certo, ha a cuore l'autorevolezza e l'autonomia della Banca d'Italia. Di certo, non ha apprezzato il "danno d'immagine" causato all'Italia dalla "resistenza" di Bini Smaghi.
Il primo incontro tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio risale al 22 giugno. Alla vigilia della designazione ufficiale di Draghi alla Bce, che viene formalizzata due giorni dopo, Napolitano avverte il premier: ha cominciato a pensare alla successione in Banca d'Italia? Tocca a lui fare il primo passo. Berlusconi glissa: "Presidente, abbiamo ancora tanto tempo".

Deluso, il Capo dello Stato compie un primo passo istituzionale. Il 27 giugno scrive una lettera a Berlusconi (la stessa che gli ha ricordato nel colloquio di venerdì scorso): "Illustre signor presidente del Consiglio dei ministri, come Lei sa, l'articolo 19, comma 8 della legge 28 dicembre 2005, relativa a "Disposizioni per la tutela del risparmio", fissa una procedura ben precisa per la nomina del governatore della Banca d'Italia". La nomina, secondo la legge, "è disposta con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia". Napolitano ricorda a Berlusconi che la nomina del governatore è dunque "un atto complesso", ma che ruota intorno al "potere di proposta del presidente del Consiglio". Spetta a lui mettere in moto il meccanismo. Il presidente della Repubblica interviene "in concorso", con una decisione che deve avere "il più ampio consenso dei soggetti istituzionali indicati dalla legge". E quella decisione, auspica il Capo dello Stato, deve essere presa "in tempi brevi", per evitare polemiche e indiscrezioni.

Napolitano sa che il gioco al massacro può cominciare da un momento all'altro. E infatti il gioco al massacro comincia. Tremonti rivela a Repubblica che il governo ha già deciso: il nuovo governatore sarà Grilli. Scoppia il putiferio. L'opposizione insorge, qualche ministro già indignato per lo strapotere di Tremonti storce il naso, la Banca d'Italia e Draghi si allarmano. Il 30 giugno il Capo dello Stato è costretto a diramare un comunicato ufficiale, in cui invoca "un clima di discrezione e rispetto attorno ai nomi", condanna "forzature politiche e contrapposizioni personali". Ma quello del Quirinale, purtroppo, è inchiostro sprecato. Da quel momento in poi, il toto-nomine su Palazzo Koch impazza, e la politica come sempre dà il peggio di sé, spargendo tossine e veline intorno a Via Nazionale. Berlusconi non fa nulla per impedirlo. Sale al Colle altre quattro volte, durante l'estate. Il 18 luglio e il 27 luglio si parla di manovra e giustizia, ma il premier non dice una parola su Bankitalia. Il 28 luglio e il 2 agosto Napolitano riceve Draghi per fare il punto della situazione, e per discutere sulla crisi finanziaria. Il filo diretto tra Quirinale e Palazzo Koch produce il "commissariamento" del governo sulla manovra d'emergenza.

Il premier torna sul Colle l'11 agosto e il 14 settembre: parla della manovra d'emergenza, ma non dice una parola sulla successione a Draghi. Il 16 settembre, tuttavia, sembra profilarsi una svolta: Berlusconi riceve Saccomanni a Palazzo Grazioli. "Incontro lungo e molto cordiale", racconta il direttore generale di Via Nazionale. Sembra fatta. C'è un Consiglio Superiore della Banca già convocato per il 28 settembre: basta la lettera del premier, con la proposta del nome, e il gioco è fatto. Napolitano sembra sollevato. Mercoledì 21 settembre torna a ricevere Berlusconi al Colle, subito dopo il downgrading del debito italiano deciso da S&P. Stavolta è Napolitano che lo incalza: "Allora, ha deciso qualcosa sulla Banca d'Italia?". Va in scena una farsa pilatesca: il premier farfuglia: "Presidente, la scelta è difficile. Grilli lo conosco bene. Saccomanni l'ho incontrato cinque giorni fa: sono tutti e due così bravi...". Il Capo dello Stato è stupefatto. Torna a ripetere: "La scelta spetta a lei. Non si può più rinviare".

E invece si rimanda. Il 27 settembre il Cavaliere convoca Tremonti a Palazzo Grazioli. Un "duello" lungo due ore, dal quale Berlusconi esce sfinito. "Non c'è niente da fare. Giulio non si convince a dare via libera a Saccomanni. Per lui è diventata una questione di vita o di morte". Stretto in una morsa, il Cavaliere non sa che fare. Salvo ripetere, dopo l'ultimo consulto sul Colle di venerdì scorso, un'assurda formula dorotea: "Esistono persistenti difficoltà nella scelta". Il 24 ottobre è convocata una nuova seduta del Consiglio superiore di Palazzo Koch. È l'ultima occasione utile, per chiudere questa tragicommedia, dannosa per la Banca d'Italia e penosa per l'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(17 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #222 inserito:: Ottobre 17, 2011, 09:28:10 am »


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Massimo GIANNINI

Resta un'Armata Brancaleone


Com'era prevedibile, è fallita anche questa caccia a "Ottobre rosso". Con la cinquantatreesima fiducia in tre anni e mezzo, il governo Berlusconi supera anche questa prova d'autunno, che per difficoltà e incertezza era quasi pari a quella alla prova d'inverno del 14 dicembre di un anno fa, quando i futuristi di Fini uscirono dalla maggioranza e tentarono inutilmente la spallata con una mozione di sfiducia. È quasi grottesco che, nelle stesse ore in cui un pur rabbioso Cavaliere festeggia lo scampato pericolo, il presidente della Repubblica inviti il governo a "non eccedere" con lo strumento delle fiducie, che producono una "inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere". Come se quel clamoroso "eccesso" non si fosse già ampiamente prodotto, e quella "compressione" non fosse già palesemente avvenuta.

Ma recriminare è ormai inutile. Il Capo dello Stato ritiene che il "vulnus" della mancata approvazione del Rendiconto generale del bilancio pubblico sia sostanzialmente sanato dall'avvenuta "verifica parlamentare". La maggioranza di centrodestra, disperata e dissoluta, continua a perdere i pezzi. Ma continua ad avere i numeri per sopravvivere. Nel modo più avventuroso, rocambolesco e improduttivo possibile. Grazie alla stampella dei radicali, all'indecisione degli scajoliani, alla resistenza degli ex "responsabili". Ormai è peggio che un'Armata Brancaleone. È un manipolo di sbandati, irriducibili e mercenari, che va avanti per pura inerzia, per puro istinto di conservazione. Senza etica, senza politica. Ma con il conto in banca e gli appannaggi mensili, i benefit e le auto blu, lo scranno parlamentare e la ricca pensione da salvare. Questo, oggi, è il solo cemento della coalizione berlusconiana.

Altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo non solo i cittadini, ma l'intero establishment. E avrebbe portato inevitabilmente il presidente del Consiglio a rassegnare le sue dimissioni. Non in Italia, dove il dissenso popolare non serve e lo sdegno istituzionale non basta. Per quanto posticcio, per quanto esecrabile, quel cemento resiste, ed è sufficiente per durare. Fino a quando? E soprattutto a quale prezzo? Questo, ancora una volta, è il cuore del problema. Napolitano ha agito con rigore e correttezza: non poteva essere lui a "disarcionare" il Cavaliere. Ma c'è da chiedersi se questo pur "doveroso passaggio" della fiducia abbia dissipato il dubbio cruciale che il Quirinale aveva puntualmente posto, tre giorni fa: esiste la "costante coesione necessaria" per affrontare l'asprezza di una crisi economico-finanziaria che non accenna a regredire, e per adempiere agli impegni sottoscritti con l'Europa? La risposta, chiara, è no. In questa anomala scheggia di centrodestra italiano non esiste alcuna "costante coesione", strategica e politica, ma solo un'inquietante adesione, opportunistica e totemica.

Non c'è interesse nazionale. Non c'è bene comune che tenga. C'è solo la tutela del privilegio, e dunque la difesa del Capo che la garantisce. Il resto è noia, come dimostra la pochezza del discorso del premier in aula. O è polemica, come dimostra lo scontro mortale tra i ministri sul fantomatico "decreto crescita", che non vedrà mai la luce. O se la vedrà, sarà l'ennesimo abbaglio. Come il primo "decreto scossa" varato il 2 febbraio, e il secondo "decreto sviluppo" varato il 5 maggio. Nello "spot" del premier, avrebbero dovuto far crescere il Pil "di almeno un punto e mezzo, forse due". Tocchiamo con mano, sulle nostre tasche, com'è andata a finire. L'Italia declina, stabilmente, verso crescita zero. "Il Cavaliere deve finalmente scendere da cavallo", titola il Financial Times 1, ricordando che "l'Italia deve salvare se stessa per salvare l'euro". Lui non è sceso. L'Italia non è salva. E l'euro è sempre più a rischio. Purtroppo, Silvio c'è.

(14 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #223 inserito:: Ottobre 19, 2011, 10:13:07 am »

Molise, dov'è la sinistra?

Massimo GIANNINI

Molise, Italia. A voler azzardare una lettura "nazionale" dell'esito di queste elezioni in una piccola e complicata regione del Centro-Sud, ci sarebbero diverse buone ragioni per far allarmare il centrosinistra. La vittoria di misura del candidato del centrodestra è un non-senso se messa in parallelo all'ineluttabile e speculare declino di Silvio Berlusconi. Michele Iorio, al suo terzo mandato, si afferma contro la logica: pluri-indagato, sponsorizzato dal Cavaliere, ha il coraggio di far sparire il nome del premier dal simbolo, e così incassa il sostegno dell'Udc che lo porta al traguardo. Questa specie di anomalo "Polo dei moderati", ricostituito dopo aver cancellato dalla sua offerta politica locale il suo leader nazionale ormai trasformato in un "black bloc", non serve a convincere, ma basta per vincere.

Il raffronto tra i risultati elettorali di oggi e quelli delle precedenti regionali del novembre 2006 sollecita qualche riflessione.
Il centrodestra può festeggiare lo scampato pericolo, ma senza crogiolarsi in un successo che non c'è. La coalizione che sostiene Iorio ottiene il 46,9%, pari a 89.142 voti. C'è un crollo verticale, quasi 10 punti, rispetto al 54,1% di dieci anni fa (pari a 112.152 voti).
E se la somma di Forza Italia e An nel 2006 dava un 28,8% di consensi, oggi il Pdl scivola al 17,05%. più di 11 punti in meno. Il confronto è ancora più impietoso con il dato delle politiche del 2008, dove in Molise (alla Camera) il Pdl incassò il 36,5%, pari a 71.994 voti.
È un tracollo evidente. Più di un campanello d'allarme per Berlusconi, e anche per Alfano alle prese con un'improbabile e non credibile rilancio del partito "sul territorio".

Ma se il centrodestra deve ragionare sulla sua incapacità di mantenere il consenso, il centrosinistra deve riflettere sulla sua incapacità di intercettare il dissenso. L'insieme delle opposizioni, dalle urne di due giorni fa, ottiene il 46,15%, pari a 87.637 voti.
Cresce di appena un punto percentuale, sia rispetto alle regionali 2006 (45,9%), sia rispetto alle politiche 2008 (45,6%).
Ma in questa metà campo, il dato peggiore riguarda il Partito democratico. Ha ottenuto il 9,3% (pari a 17.735 voti).
Male rispetto alle politiche (17,9%). Malissimo rispetto alle precedenti regionali, quando la somma Ds-Margherita ottenne il 23,3% dei voti. La stessa flessione (rispetto alle politiche) la registra l'Italia dei Valori, mentre l'Api di Rutelli si accontenta di un 5,9% e l'arcipelago della sinistra radicale resta più o meno sulle stesse posizioni di cinque anni fa.

L'opposizione può recriminare a lungo (e a ragione) sul "sabotaggio" indotto dalla presenza dei Grillini, visto che il Movimento Cinque Stelle ha sottratto al centrosinistra 5,6 punti percentuali, impedendo così la vittoria di Paolo Frattura. Ma questa spiegazione, pur comprensibile, suona riduttiva e autoconsolatoria. C'è un dato politico generale, che si coglie anche dalla "sindrome molisana", con il quale la sinistra riformista deve fare i conti: la sua offerta politica non è sufficiente né a convincere gli arrabbiati di sinistra a votare Pd, né i delusi di destra a spostarsi da un polo all'altro. Il governo Berlusconi è una calamità devastante. Ma l'armata anti-berlusconiana non pare un'alternativa convincente.

(18 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #224 inserito:: Ottobre 28, 2011, 05:38:14 pm »

L'EDITORIALE

Il libro dei sogni

di MASSIMO GIANNINI


IL "LIBRO DEI SOGNI" di un premier che non fa più sognare. Il manifesto di politica economica di un governo che non può più governare. Il piano anti-crisi, illustrato da Berlusconi alla Ue, dissolve i sorrisi ironici di Sarkozy e della Merkel. Ma non risolve i problemi drammatici del Paese. Né sul fronte interno, né sul fronte internazionale. L'Europa chiede decreti legge. L'Italia offre pezzi di carta. L'Europa invoca misure concrete. L'Italia evoca promesse future. Con la sceneggiata di Bruxelles, il Cavaliere compra un po' di tempo. Ma il tempo, ormai, lavora contro di lui.

La lettera inviata ai partner europei sembra l'ultimo atto di un governo morente. Per tre anni e mezzo ha dissipato e tirato a campare, nell'inedia e nell'accidia. E ora, nel suo crepuscolo dannunziano, tenta il "gesto inimitabile", la "bella morte". In quelle undici cartelle c'è infatti un compendio di intenzioni magnifiche e di provocazioni ideologiche.

C'è l'elenco minuzioso delle solite "cose fatte" (e puntualmente inattuate, dalla pseudo-riforma Gelmini alla pseudo-riforma Brunetta) e la lista puntigliosa delle cose da fare (e colpevolmente mai realizzate, dalla riforma delle professioni alle privatizzazioni). Ma non c'è l'intervento che più di ogni altro avrebbe fatto recuperare credibilità al governo italiano, cioè un aggiustamento convincente sulle pensioni d'anzianità, magari con il passaggio al sistema contributivo per tutti. Sulla previdenza, viceversa, non c'è nulla, se non la "truffa" del "requisito anagrafico... pari ad almeno 67 anni per uomini e donne nel 2026". Un risultato già previsto dalla legislazione vigente, ed anzi addirittura lievemente peggiorativo rispetto alle stime.

Le intenzioni magnifiche sono quelle più neutre per il consenso politico: il risanamento dei conti, il pareggio di bilancio nel 2013, la ricostituzione di "un avanzo primario consistente", la creazione delle "condizioni strutturali favorevoli alla crescita".

Peccato che questi obiettivi, alla luce di quanto è accaduto dal 13 aprile del 2008 in poi, non sono più credibili. Non è credibile l'obiettivo di un abbattimento del debito pubblico al 112,6% del Pil nel 2014, dopo che in questi tre anni e mezzo il governo lo ha fatto crescere dal 113,7 al 120%. Non è credibile un avanzo primario al 5,7%, dopo che in questi tre anni e mezzo il governo lo ha polverizzato dal 3,8 allo 0,2%. Non è credibile, soprattutto, l'ennesimo "piano d'azione per la crescita", promesso alla Ue "entro il 15 novembre", dopo che Tremonti aveva annunciato il "tagliando alla crescita" il 7 settembre, varato il primo "decreto-scossa" il 2 febbraio e il secondo "decreto sviluppo" il 5 maggio. Fiumi di parole, finti incentivi alle imprese, crediti d'imposta fasulli, semplificazioni di facciata, Piani Sud e Piani Casa venduti e rivenduti.

Le provocazioni ideologiche sono quelle più "abrasive" per il consenso sociale. La lettera ipotizza "entro il maggio 2012" una minacciosa "riforma" imperniata su "una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato". Dopo la sostanziale sconfitta subito sull'articolo 8 della manovra d'agosto (neutralizzata dal successivo accordo bilaterale tra le patti sociali) il governo cerca una rivincita, riproponendo una norma che aggira i limiti ai licenziamenti fissati dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Non solo. La lettera azzarda anche "la mobilità obbligatoria del personale" e "la messa a disposizione con conseguente riduzione salariale del personale".

Qui c'è il vero paradosso di questo declino berlusconiano. Flessibilizzare il mercato del lavoro, rendendo più facili i licenziamenti nel settore privato e introducendo la mobilità e la Cassa integrazione nel settore pubblico, è oggi un impegno quasi proibitivo per qualunque governo. Lo si può fare sull'onda delle pressioni del Direttorio franco-tedesco, che chiede sacrifici ai Paesi più deboli dell'Eurozona ma che può comunque contare su un suo solido sistema di Welfare e di assistenza per chi il lavoro lo perde o non lo trova. Lo si può fare sull'onda delle sollecitazioni della Bce, che nella famosa missiva del 5 agosto al governo italiano chiedeva esattamente questo, salvo sollecitare anche la contestuale introduzione di "un sistema di assicurazione della disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi".

Ora il governo italiano si dichiara pronto a raccogliere questi inviti. Ma solo nella parte più distruttiva (la libertà di licenziare per le imprese) e non in quella più costruttiva (il diritto a veri sussidi di disoccupazione per i lavoratori). È una scelta irresponsabile: non può non suscitare la dura e immediata reazione dei sindacati e delle opposizioni. Ma è soprattutto una scelta insensata: un governo che non ha più una base politica e che ormai sta perdendo anche quella parlamentare, può mettersi contro l'intero schieramento dei corpi intermedi della società italiana, dalla Confindustria ai sindacati alla Chiesa cattolica?

Molte delle misure annunciate nella lettera di Berlusconi sono inique e sbagliate. Molte altre sarebbero opportune e necessarie. Come avverte il Capo dello Stato, "servono decisioni urgenti e anche impopolari". Il vero problema è che il rito si celebra fuori tempo massimo. Un programma come quello spiegato dal Cavaliere ai capi di Stato e di governo di Eurolandia avrebbe avuto un senso il 14 aprile 2008, il giorno dopo il trionfo elettorale che consegnò a Berlusconi la più larga maggioranza della storia repubblicana.

Un progetto tosto, da vera destra thatcheriana, pronta a reggere l'urto delle piazze perché cementata da un impianto politico-culturale compiuto e condiviso. Lanciarlo oggi - con una coalizione devastata dagli scandali di Berlusconi, logorata dagli sbadigli di Bossi e azzoppata dalla delegittimazione di Tremonti - è una mossa disperata e velleitaria. Sembra solo un modo per cadere sul campo, fingendo di combattere oggi la "buona battaglia" che non si è avuto la forza e la voglia di combattere tre anni e mezzo fa.

Quale Consiglio dei ministri tradurrà in decreti tutti gli impegni scritti sulla lettera? Quale Parlamento li tradurrà in legge? Mentre il Cavaliere declamava il suo piano anti-crisi al direttorio europeo che l'ha ormai "commissariato", alla Camera la sua maggioranza si liquefaceva per la novantaquattresima volta dall'inizio della legislatura, su due provvedimenti minori. Mentre il Cavaliere tediava l'uditorio di Bruxelles riparlando di bunga bunga e toghe rosse, il rendimento dei Bot all'ultima asta cresceva oltre la soglia di guardia. È la prova più tangibile, ma anche la più amara, della strage delle illusioni berlusconiane.
 

(27 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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