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Autore Discussione: Massimo GAGGI. -  (Letto 9492 volte)
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« inserito:: Marzo 18, 2008, 03:33:32 pm »

la crisi dei mercati

Il liberismo maldestro


di Massimo Gaggi


Bear Stearns, la banca d'affari che ieri è svanita nel nulla, è stata per 85 anni uno dei bastioni di Wall Street. Il mondo della finanza è allibito: una fabbrica di profitti il cui titolo un anno fa valeva 170 dollari, è precipitata in una crisi che, alla fine, ha spinto la Federal Reserve a irrompere nel mercato per evitare un suo crollo generalizzato. Ciò che rimane di Bear Stearns passa a JP Morgan che ha pagato 2 dollari per azione ciò che, solo una settimana fa, veniva scambiato a 70. Con gli Stati Uniti in recessione, Wall Street alle corde, Washington che vara piani di stabilizzazione dell'economia a spese del contribuente, si può essere tentati di interpretare le difficoltà degli Usa come una crisi di sistema del capitalismo globalizzato.

C'è chi pensa che sia giunta l'ora di rivalutare il ruolo dello Stato e di mettere— lo propone il recente saggio di Giulio Tremonti — le nostre imprese al riparo da una concorrenza asiatica divenuta troppo aggressiva. La vigilia di elezioni importanti è, probabilmente, il momento meno adatto per analizzare serenamente i fenomeni che stanno cambiando equilibri sociali e rapporti di forza tra le aree del mondo. Vale per l'Italia come per l'America dove Barack Obama e Hillary Clinton ricorrono a una retorica protezionista tanto utile per prendere voti quanto in contrasto con la loro storia politica. Ma, campagna elettorale o no, attenzione a non confondere la crisi americana che ha le sue radici in un'applicazione caricaturale del liberismo da parte di un gruppo dirigente pasticcione e troppo ideologizzato, con un fallimento del modello economico liberale: quelli della presidenza Bush sono stati anni di deterioramento delle capacità amministrative del governo federale e di un'attuazione dogmatica della deregulation che ha fatto saltare norme e controlli necessari per un sano sviluppo dell'economia di mercato.

Il disastro degli investimenti subprime — cresciuti a dismisura mentre le autorità regolatrici, pur consapevoli dei gravi pericoli, sceglievano di restare a guardare — è la manifestazione più visibile di questa era di irresponsabilità, non certo l'unica. I casi di uso maldestro o pretestuoso del liberismo economico nell'era Bush sono numerosi. Ad esempio la «privatizzazione » della guerra in Iraq: decine di migliaia di contrattisti chiamati a gestire la logistica, la sicurezza, perfino gli interrogatori dei prigionieri. Con costi che, anziché ridursi, si sono moltiplicati. Cosa c'entra il mercato quando il lavoro di un soldato viene sostituito con quello di un contrattista privato (in genere un altro soldato, tornato da poco in abiti civili) pagato dieci volte di più e scelto senza una gara? Ronald Reagan, presidente rimpianto da ogni buon repubblicano, fu di certo protagonista di una svolta ideologica, compì qualche forzatura, ma governò pragmaticamente.

Con la sua «deregulation » dei cieli (peraltro iniziata sotto Carter), il trasporto aereo in America ha avuto uno straordinario sviluppo. Con la sua goffa imitazione degli ultimi anni — le aviolinee autorizzate a programmare anche 130 partenze l'ora da uno scalo le cui piste non riescono a smaltirne nemmeno 100 — siamo, invece, arrivati al caos degli aeroporti Usa. Nel suo pragmatismo, Reagan non esitò, quando lo ritenne necessario, a contraddire la sua filosofia introducendo freni all'import di auto, acciaio, tessuti, zucchero. Ma erano altri tempi: da allora la tecnologia, prima ancora della scelta politica di aprire i mercati, ha reso la globalizzazione una realtà che si può provare a orientare, ma alla quale non ci si può sottrarre. Vale per gli Usa come per l'Italia. Salvo che, mentre gli americani hanno beneficiato per decenni delle liberalizzazioni prima di subire le conseguenze dei suoi eccessi, da noi quel processo non è nemmeno iniziato.

Gli Stati Uniti restano un esempio di società meritocratica e capace di innovare. Non dovrebbero, invece, ispirare richieste di «più Stato», nemmeno se questo Paese ferito cercasse di costruire un altro New Deal. Non dimentichiamo che negli Usa l'area dell'economia coperta dalla spesa pubblica (federale o locale) è inferiore di oltre un terzo rispetto a quella italiana, nonostante che gli americani spendano il doppio dell'Europa (rispetto al Pil) per difesa e sicurezza interna. L'Italia è meno esposta all'outsourcing causato dalla globalizzazione (che negli Usa raggiunge anche professioni e servizi) e ha livelli di spesa sociale molto più elevati. Noi dobbiamo preoccuparci di altro. Mentre discutiamo di «America statalista», potremmo scoprire che, da Detroit alla California, il mercato si prende la sua rivincita: grazie al «minidollaro », l'America con la finanza sull'orlo del baratro può diventare la nuova mecca dell'industria low cost di qualità.

18 marzo 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Agosto 07, 2011, 12:24:29 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:47:38 pm »

IL CRAC LEHMAN

E la crisi spinge McCain


di Massimo Gaggi


«E’troppo tardi anche per il panico», spiegava ieri mattina un analista alla riapertura di Wall Street. Ha avuto ragione: nel lunedì più drammatico della storia finanziaria americana, quello che poteva essere il giorno del naufragio, il mercato ha perduto molto (la Borsa ha ceduto oltre il 4%), ma non ha mai rischiato la rotta disordinata. Sepolto in fretta e furia nella notte il cadavere della Lehman Brothers, la gloriosa banca considerata fino a ieri un protagonista «immortale» di Wall Street, l’America ha evitato il meltdown, ma deve rassegnarsi alla perdita del suo scettro finanziario. Delle cinque grandi banche d’affari di Wall Street — i «titani» che si sentivano padroni del mondo—solo due rimangono oggi in piedi e con una loro autonomia: Goldman Sachs eMorgan Stanley.

È la fine di un’era, ma nessuno ha ancora le idee chiare sui futuri assetti del mondo del credito. Hedge fund e società di venture capital hanno resistito alla crisi, ma restano ai margini del cantiere della ricostruzione. Al centro del sistema tornano i giganti bancari, con Citigroup ormai surclassato da JPMorgan-Chase (che ha assorbito Bear Stearns) e da Bank of America che ha attuato il «salvataggio preventivo» di Merrill Lynch. Ma è difficile credere che l’uomo del futuro possa essere Ken Lewis, incoronato ieri nuovo «re di Wall Street». Il 61enne banchiere del «profondo Sud» che, con una serie di acquisizioni, ha trasformato Bank of America in un colosso, è un imprenditore coraggioso, non certo un genio dell’innovazione. La mossa di Lewis — un banchiere politicamente impegnato in campo repubblicano—ha però dato una scossa positiva al mercato e ha consentito al ministro del Tesoro Henry Paulson di tenere duro sul «no» a nuovi salvataggi pubblici anche dopo il fallimento dei negoziati coi possibili acquirenti di Lehman. Paulson rischia molto, ma potrebbe aver fatto una scelta vincente. Sul piano finanziario e, dal punto di vista dei conservatori, anche su quello politico.

Paulson ha costretto il sistema creditizio a non adagiarsi su una linea di occultamento e rinvio dei problemi come quella seguita negli anni ’90 dai banchieri giapponesi. Quella miopia costò al Paese asiatico un decennio di stagnazione. Stavolta la cura è più rude (demolisce banche, cancella migliaia di posti di lavoro, ridimensiona New York e le altre piazze finanziarie), ma può accelerare i tempi della ripresa. Quanto alla corsa per la Casa Bianca, chiudendo (per ora) la partita dei salvataggi fatti coi soldi del contribuente, il ministro di Bush ridà fiato — a 50 giorni dal voto—alla campagna elettorale di John McCain i cui continui richiami al liberismo economico e al mercato rischiavano di apparire velleitari davanti alle nazionalizzazioni «a tappeto » dell’amministrazione repubblicana uscente.

L’economia dovrebbe avvantaggiare il democratico Barack Obama, molto più a suo agio del ticket repubblicano su questi temi. E gli errori di Bush sono una grossa zavorra per McCain. Eppure ieri è stato proprio il candidato repubblicano il più rapido e spregiudicato nell’afferrare il «pallino» del crollo di Lehman: un McCain insolitamente truce ha detto che da presidente «farà pulizia» a Wall Street e ha promesso agli americani che non consentirà più che si ripeta una crisi come quella attuale. Non ha detto come farà e ha totalmente ignorato le colpe di Bush, incapace di far funzionare le authority che dovevano garantire l’ordinato sviluppo dei mercati. Agli elettori inferociti per una crisi che sta riducendo il loro tenore di vita e distrugge posti di lavoro, il senatore dell’Arizona ha dato in pasto i finanzieri di New York, con la loro ricchezza ostentata e la loro arroganza: una ricostruzione volutamente grossolana nella quale chi investe e si occupa di finanza difficilmente potrà riconoscersi, ma che ha molta presa sull’America suburbana e sugli Stati lontani dalle coste dell’Atlantico e del Pacifico, il tradizionale serbatoio di voti dei conservatori.

Tanto più che gli esperti economici repubblicani hanno cominciato a battere i talk show politici delle varie reti televisive sostenendo che i guai di Wall Street, certamente seri, non sono destinati necessariamente a ripercuotersi su «Main Street», cioè sulla vita di tutti i giorni dell’americano medio: lo proverebbe il fatto che mentre le Borse perdono quota e le banche vanno al tappeto, il prezzo della benzina e quelli dei prodotti alimentari scendono rapidamente, mentre anche i tassi d’interesse sembrano destinati a calare ancora. Un altro messaggio che «funziona»: basta non fare troppo caso al fatto che, con le banche in crisi di liquidità, di credito in giro se ne vede ben poco.

16 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:18:08 pm »

Niente illusioni


di Massimo Gaggi


Negli Usa è fallito il «gigacapitalismo », non il mercato. Il mercato, del resto, è nel nostro Dna, è parte fondante della cultura dell'Occidente. E in America continua a funzionare assai bene, ad esempio, nell'industria: l'export è in forte crescita e gli squilibri commerciali si sono ridotti, anche se i mesi del petrolio alle stelle hanno nascosto il fenomeno. Il settore manifatturiero, che sembrava agonizzante, ha ripreso quota grazie alla debolezza del dollaro, ma anche perché si è ristrutturato: l'America sta diventando un posto nel quale andare a produrre low cost. Meglio, però, non illudersi che alla fine tutto, nel capitalismo a stelle e strisce, tornerà come prima: la crisi finanziaria non è finita (si estenderà ad altre aree, dalle carte di credito ai prestiti- auto, fino agli hedge fund) e l'impatto di un anno di prestiti «congelati» deve ancora farsi sentire sull'economia reale. La recessione vera comincia ora. Il capitalismo americano risorgerà, ma i suoi connotati cambieranno. Nulla di nuovo: cambiarono anche dopo la crisi degli anni '30 e il New Deal.

L'iperliberismo, del resto, l'ha sepolto perfino Chris Cox, il capo della Sec, l'autorità di Borsa, che è un reaganiano doc: ha candidamente ammesso il fallimento del suo tentativo di fissare linee guida generali affidandosi, per il resto, all'autoregolamentazione di banche e finanziarie. Quanto a Paulson, lasciando morire Lehman, il ministro del Tesoro ha (involontariamente) dimostrato che il gigacapitalismo non riesce a tenere in vita la regola-base del mercato: chi sbaglia paga ed esce di scena. Il sistema creditizio è in difficoltà da tempo, ma il crac è arrivato proprio con la liquidazione di Lehman. Una banca importante, non un gigante: eppure l'onda sismica ha fatto danni in tutto il mondo e negli Usa ha innescato una vera reazione a catena. Come l'Europa dei campioni nazionali, l'America proverà a ripartire da tre grandi banche per rimettere in piedi un capitalismo gestibile. Il rischio di una deriva dirigista è evidente, ma non ci si può illudere che lo sgombero delle macerie di anni di eccessi avvenga a costo zero.

Questo crollo non avrà conseguenze drammatiche come nel 1929, ma, almeno per un elemento, la crisi attuale è perfino peggiore: la moltiplicazione incontrollabile dei rischi e delle esposizioni innescata dai nuovi contratti derivati, amplificata dalle tecnologie informatiche e ulteriormente agevolata dalla deregulation. Meccanismi che hanno messo non solo gli investitori, ma addirittura i capi- azienda nell'impossibilità di capire cosa c'è davvero dentro una società. Che la finanza avesse smesso di avere i piedi ben piantati per terra, lo sapevano tutti: tanto che la credibilità del sistema era stata affidata ai «titani», i semidei dell'olimpo di Wall Street. Scomparsi i master of the universe, ai mercati rimangono una Fed trasformata in Fort Alamo e Paulson che l'altro giorno al Congresso, a chi a porte chiuse gli chiedeva cosa accadrebbe in caso di bocciatura definitiva del piano di salvataggio, ha messo da parte la mitologia greca e ha invocato l'aiuto del buon Dio.

01 ottobre 2008

DA corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:28:03 pm »

Lezioni e previsioni

Crisi e profezie, cantonate da Nobel

Dal metodo Merton-Scholes agli indici di Sharpe fino alle tasse di Prescott



Al pari del panico, quello dell'«io l'avevo detto» è uno dei virus endemici di questa crisi. Ovunque politici, economisti e osservatori fanno a gara a ricordare loro vecchie opinioni poi comprovate dai fatti, magari anche solo in parte. Più composti invece sono alcuni dei protagonisti intellettuali di un'epoca ora forse al tramonto. Non si tratta solo di Ben Bernanke, che prima di diventare presidente della Federal Reserve lesse l'esorbitante indebitamento estero dell'America come in uno specchio concavo: «Eccesso di risparmio dell'Asia». Né tanto del suo predecessore Alan Greenspan, il quale al Congresso si pronunciò contro la regolazione degli scambi privati di derivati perché «li usano professionisti che non hanno bisogno di tutele come piccoli risparmiatori». Non si tratta di loro due, perché la fiducia di Greenspan non si fondava sull'improvvisazione. Alla base c'erano studi e equazioni differenziali che facevano fioccare i Nobel e, a seguire, una fiducia crescente in quelle formule. Quando nel '97 Robert Merton e Myron Scholes vinsero il premio per il loro metodo per determinare il valore dei derivati, l'Accademia di Svezia ebbe parole che oggi suonano crudeli: «Le banche e le banche d'affari usano la metodologia (di Merton e Scholes, ndr) per valutare i nuovi strumenti finanziari e offrire strumenti ritagliati sui rischi dei clienti. Al contempo, questi istituti possono ridurre l'esposizione al rischio sui mercati».

Qualunque riferimento alle obbligazioni basate sui mutui è puramente spietato. Ma le banche ci credevano. Merton, Scholes e Fischer Black avevano «dimostrato » che basta guardare al prezzo di un attivo, non al rischio che esso ingloba, per dare il giusto valore a un altro titolo (per esempio, un'opzione a vendere o a comprare) che ci viaggia sopra. Che la vita vera fosse un'altra cosa Scholes lo vide l'anno dopo quando LTCM, il suo «hedge fund», collassò. Ma il metodo è sopravvissuto e oggi si rivolta contro i suoi fedeli: nessuno aveva capito il rischio di crollo dei prezzi delle case in America e dunque delle obbligazioni fondate sul mattone. Intanto però dal 2005 il valore teorico dei soli Cds, derivati che assicurano dall'insolvenza sui debiti, è salito da 15 mila a 62 mila miliardi di dollari (quattro volte il pil degli Stati Uniti). E il colosso Aig è naufragato perché aveva venduto troppi Cds a garanzia di titoli basati sui mutui. Eppure la tradizione era nobile. Merton lavorava a Stanford con William Sharpe, Nobel del '90 e padre del metodo usato per prezzare i titoli finanziari. Le sue teorie, così l'Accademia di Svezia, mostrano che «i rischi si possono spostare al mercato dei capitali, comprare, vendere e valutare». Eccetto che l'ultimo passaggio stavolta non ha funzionato. Niente di vistoso però. Non rispetto all'elogio che Edward Prescott, Nobel del 2004, fece degli sgravi fiscali per i ricchi decisi di George W. Bush con l'America in pieno deficit per la guerra. Allora anche il miliardario Warren Buffett notò che se lui paga meno tasse della sua segretaria, qualcosa non va. Erano i tempi in cui Greg Mankiw di Harvard, economista alla Casa Bianca, chiamava il suo barboncino «Keynes». Oggi Keynes, sinonimo di salvataggio-tassa- e-spendi, è il padrone.

Federico Fubini
01 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 07, 2008, 10:02:28 am »

I timori dei supermanager

Ibm e i big Usa: chi ha paura del Barack «statalista»

Wall Street non aveva mai brindato a un nuovo presidente con un ribasso del 5,1 per cento: ma non è un voto di sfiducia
 


«Questa grave crisi è una disgrazia, ma è anche un'occasione di cambiamento, di modernizzazione. E il nuovo presidente è il salesman giusto per attuarla» dice il capo dell'Ibm San Palmisano. «Certo — aggiunge — a noi dell’Ibm serve anche che continui il libero scambio: la nostra è una compagnia globale, operiamo in 170 Paesi». Queste caute parole pronunciate ieri mattina dal numero uno del gigante americano dell’informatica, durante un breakfast al Council on Foreign Relations, rendono bene il clima che regna nel mondo degli affari, a due giorni dall’elezione di Obama: fiducia nel leader democratico (Palmisano, che dialogava con Bob Rubin, uno dei candidati al Tesoro, ha fatto capire di averlo votato), ma anche preoccupazione.

Perché Obama potrebbe irrigidire l’economia allargando troppo l’intervento pubblico, per il timore che ceda alle pressioni dei sindacati ai quali è stata promessa una legge che rafforzerà la loro presenza nei luoghi di lavoro, per la possibilità che vengano introdotti vincoli al «free trade». La Borsa di New York, che nelle due sedute successive all’elezione di Obama ha perso il 10 per cento, è lo specchio di questo malessere. Parlare di un "voto di sfiducia" di Wall Street nei confronti del nuovo presidente sarebbe scorretto. Mercoledì sullo Stock Exchange si era abbattuta una raffica di cattive notizie: dopo il crollo del settore delle costruzioni e la frenata dell’industria manifatturiera, anche il settore dei servizi — l’unico che poteva ancora dare fiato all’economia — ha registrato una contrazione di dimensioni impressionanti. E ieri anche i dati delle vendite al dettaglio hanno confermato che gli Usa stanno scivolando in una recessione profonda, mentre la crisi dell’auto continua a peggiorare a vista d’occhio.

Oggi arriveranno i dati sul mercato del lavoro e molti temono che un’altra impennata della disoccupazione spinga ancora più giù l’indice Dow Jones. Nelle sei sedute prima dell’«election day» il mercato azionario aveva recuperato il 18 per cento del suo valore. Una battuta d’arresto era abbastanza inevitabile: il mercato sconta il fatto che la crisi è molto grave, durerà a lungo e che — tamponata l’emergenza della paralisi del credito — tutti gli interventi che il governo Obama potrà mettere in campo (investimenti pubblici, sostegno al mercato dei mutui, eccetera) avranno bisogno di mesi, se non di anni, per produrre effetti nell’economia reale. «Nulla di decisivo accadrà a breve termine» dice Darren Winder, capo delle strategie della boutique finanziaria Cazenove. «Non vedo fattori che possano capovolgere, nell’immediato, un trend che rimane al ribasso». I giornali della destra, ovviamente, soffiano sul fuoco: «La luna di miele è già finita», titolava ieri il «New York Post», proprio in riferimento alla situazione borsistica.

Certo, Wall Street non aveva mai brindato a un nuovo presidente con un ribasso del 5,1 per cento, come accaduto mercoledì. Il record precedente era del 1932 quando la Borsa rispose con un -4,5% all’elezione di Roosevelt. Che però, poi, con le sue politiche "interventiste", fece risalire abbastanza rapidamente il listino (mentre la disoccupazione rimase elevatissima ancora per diversi anni). Il mondo degli affari oggi sembra tutt’altro che ansioso di rivivere l’esperienza del New Deal che «all’inizio peggiorò le cose incoraggiando, col National Industrial Recovery Act del 1933, la formazione di "cartelli" di imprese» denuncia l’ex capo dei consiglieri economici di Bush, Gregory Mankiw. Anche per il politologo conservatore Michael Barone Obama rischia di combinare guai se pensa di ripercorrere il sentiero tracciato 80 anni fa da Roosevelt. E John Gapper si chiede, sul «Financial Times» di ieri, se l’Obama che si insedierà fra 66 giorni alla Casa Bianca somiglierà più al «tecnocrate non ideologico» che ha governato la sua poderosa macchina elettorale o al "community organizer" di Chicago legato a doppio filo coi sindacati. Ma molti altri economisti e imprenditori — virtualmente tutti quelli della Silicon Valley — sono, invece, convinti che la cura Obama aiuterà l’economia Usa a imboccare il sentiero di una lenta ripresa. La pensa così anche l’analista Ed Yardeni, ex economista della Fed e grande conoscitore dei mercati internazionali, che però avverte: «Prima che Obama si insedi la recessione peggiorerà. E’ importante che capisca che, applicando subito il suo piano di aumento delle tasse per i redditi più elevati, finirebbe per deprimere ancor più l’economia». Austan Golsbee, l’economista più vicino al neoeletto, non ha bisogno di essere convinto: «Questa, ormai, è la crisi finanziaria più grave dell’ultimo secolo: dobbiamo evitare che evolva in una vera depressione. E’ questa la nostra priorità assoluta». E Obama, che già durante la campagna elettorale aveva messo le mani avanti («non sono nato in una mangiatoia…»), ora che è stato eletto deve sì dare certezze (magari "battezzando" subito la sua squadra economica), ma deve anche raffreddare le enormi aspettative che si sono create durante la sua campagna elettorale.

Massimo Gaggi
07 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:33:27 pm »

Azionisti in tuta


di Massimo Gaggi


I sindacati dell’auto e la «task force» del Tesoro nuovi azionisti, insieme alla Fiat, della Chrysler. L’ultima ipotesi per il salvataggio del gruppo automobilistico di Detroit dà l’idea di quanto l’operazione Fiat-Chrysler stia diventando, per la Casa Bianca, una sorta di laboratorio della riforma del capitalismo made in Usa.

La prima impressione è quella di un pezzo di «capitalismo renano» trapiantato oltre Atlantico. Sindacalisti consiglieri d’amministrazione come nell’esperienza tedesca. Un trust controllato dal governo che diventa azionista: una soluzione che ricorda l’Iri, la logica originaria delle Partecipazioni statali.

Con la Fiat che diventa non solo partner tecnologico, ma anche unico vero garante della capacità della nuova azienda di operare in una logica di mercato. Fino al punto di indurre il senatore repubblicano del Tennessee Bob Corker, fino a ieri nemico giurato di Detroit, a dichiararsi favorevole all’intervento della Fiat e, addirittura, ad affidare il salvataggio a manager europei. Scenari che un anno fa sarebbero stati considerati pura fantascienza, si stanno trasformando nei progetti operativi che Rattner e Bloom (gli esperti incaricati da Obama di trovare una soluzione) stanno proponendo alle banche creditrici e ai sindacalisti della Uaw. Se l’operazione funzionerà, negli Usa il modello Fiat-Chrysler potrebbe essere usato anche in altre situazioni di crisi affrontate con imponenti iniezioni di denaro pubblico.

Non è detto che sia la soluzione giusta: il capitalismo renano ha garantito per decenni una notevole stabilità del sistema produttivo dell’Europa continentale, ma non certo i livelli di redditività ai quali il mondo anglosassone è abituato. Rendimenti elevati che, in America, non vanno solo a «ingrassare» i grandi capitalisti, ma sono carburante indispensabile per i fondi pensione e altri tipi di risparmio familiare come i fondi per gli studi universitari dei figli. Attenti, però, a considerare l’operazione che sta prendendo forma lungo il triangolo Washington-Detroit- Torino come un ritorno al passato: anche in tempi di forti interventi pubblici antirecessione, negli Usa vige un rispetto del denaro del taxpayer che è un sicuro antidoto all’assistenzialismo.

Ai lavoratori, poi, vengono chiesti sacrifici enormi: tagli a pensioni, sanità e stipendi (in cambio di quote della nuova società) fino ad avere costi di produzione pari a quelli degli stabilimenti più competitivi costruiti dai giapponesi negli «States». È qui che gli uomini della Casa Bianca fissano il loro ancoraggio all’economia di mercato. Diventa, così, essenziale anche il negoziato con le union canadesi che riprenderà lunedì. Con l’italo-canadese Sergio Marchionne chiamato a svolgere il ruolo di regista (più o meno) occulto di una vera reinterpretazione dei meccanismi della globalizzazione: l’incognita canadese su un’impresa italo-americana che potrebbe estendersi fino a comprendere la tedesca Opel. Con Obama che non solo non fa il protezionista, ma benedice.

17 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 07, 2009, 11:17:35 pm »

NUOVE REGOLE ETICHE PER I MERCATI

Il passo giusto delle 12 tavole


Nuove regole etiche per il capitalismo, un efficace sistema di controlli per la finanza globalizzata, aiuti alimentari e assistenza allo sviluppo dell'agricoltura per i Paesi più poveri, soprattutto quelli africani. Negli ultimi anni sono stati numerosi i vertici internazionali nei quali questi temi sono stati discussi da governi titubanti davanti a una stampa poco attenta (anche perché consapevole dell'estrema difficoltà di arrivare a risultati concreti) e nel sostanziale disinteresse delle opinioni pubbliche occidentali. Il G8 che si apre domani all'Aquila potrebbe rischiare un destino simile: già oggi sappiamo che - almeno sul tema spinoso della riforma delle regole della finanza - non si arriverà ancora alla stesura di un documento definitivo, vincolante per tutti.

Probabilmente non ci si riuscirà nemmeno al G20 che si riunirà a settembre a Pittsburgh, nonostante che questo organismo allargato alle nuove potenze economiche (dalla Cina al Brasile) e ai Paesi emergenti sia ormai generalmente considerato una sede più adatta del «direttorio » dell'Occidente, alla definizione di misure di portata globale. Eppure le «dodici tavole » per un'economia etica - il documento dell'Ocse frutto dal lavoro degli esperti italiani messo in campo dal ministro Giulio Tremonti e di quello dei tecnici del cancelliere tedesco, Angela Merkel - possono far fare un grosso salto di qualità alla discussione, fin qui inconcludente, sulle grandi riforme di sistema. Il documento - anticipato ieri dal Corriere - fissa obiettivi ambiziosi: nuovi standard per la trasparenza dei mercati, smantellamento dei «paradisi fiscali», calmiere per i «superstipendi » dei banchieri, parametri legali minimi anche per la difesa dell'ambiente e dei lavoratori. Uno schema che certamente trova resistenze nel mondo anglosassone (Londra vuole evitare misure legalmente vincolanti e propone, al posto di una revisione del rapporto tra etica e affari, interventi più diretti per spingere le banche a riattivare il credito, contro il protezionismo e contro le speculazioni sul petrolio), ma che obbliga tutti a ripartire dalla realtà dei danni immensi subiti dal sistema economico per l'assenza di regole comuni adeguate all'era dei mercati globali. «Prediche inutili»? Chi ha fin qui considerato i discorsi sull'etica negli affari alla stregua di sermoni, dovrebbe decidersi a voltare pagina, visto quello che è accaduto negli ultimi due anni. E il lavoro fatto sull'asse Parigi(Ocse)-Roma-Berlino dovrebbe rappresentare un buon inizio.

In ogni caso battere su questi temi, anche senza arrivare - per ora - a risultati conclusivi, non è affatto «inutile», visto che sono bastate poche settimane con i conti in ripresa (grazie agli aiuti avuti dalla Federal Reserve) per indurre banche e finanziarie di Wall Street responsabili di disastri immani a iniziare, in Congresso, un tiro al bersaglio contro le riforme appena annunciate dal presidente Obama. Un accordo almeno di principio su nuove regole è necessario non per mettere in mora il capitalismo anglosassone (Germania e Francia che invocano trasparenza ma poi tengono segreti i risultati degli «stress test» delle loro banche non possono fare le prime della classe), ma per cercare di dare una risposta a quei Paesi emergenti che credono sempre meno nella capacità del capitalismo occidentale di produrre ricchezza, favorendo la stabilità economica e politica.

di MASSIMO GAGGI
07 luglio 2009

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« Risposta #7 inserito:: Luglio 09, 2009, 12:17:15 pm »

NUOVE REGOLE ETICHE PER I MERCATI

Il passo giusto delle 12 tavole


Nuove regole etiche per il capitalismo, un efficace sistema di controlli per la finanza globalizzata, aiuti alimentari e assistenza allo sviluppo dell'agricoltura per i Paesi più poveri, soprattutto quelli africani. Negli ultimi anni sono stati numerosi i vertici internazionali nei quali questi temi sono stati discussi da governi titubanti davanti a una stampa poco attenta (anche perché consapevole dell'estrema difficoltà di arrivare a risultati concreti) e nel sostanziale disinteresse delle opinioni pubbliche occidentali. Il G8 che si apre domani all'Aquila potrebbe rischiare un destino simile: già oggi sappiamo che - almeno sul tema spinoso della riforma delle regole della finanza - non si arriverà ancora alla stesura di un documento definitivo, vincolante per tutti.

Probabilmente non ci si riuscirà nemmeno al G20 che si riunirà a settembre a Pittsburgh, nonostante che questo organismo allargato alle nuove potenze economiche (dalla Cina al Brasile) e ai Paesi emergenti sia ormai generalmente considerato una sede più adatta del «direttorio » dell'Occidente, alla definizione di misure di portata globale. Eppure le «dodici tavole » per un'economia etica - il documento dell'Ocse frutto dal lavoro degli esperti italiani messo in campo dal ministro Giulio Tremonti e di quello dei tecnici del cancelliere tedesco, Angela Merkel - possono far fare un grosso salto di qualità alla discussione, fin qui inconcludente, sulle grandi riforme di sistema. Il documento - anticipato ieri dal Corriere - fissa obiettivi ambiziosi: nuovi standard per la trasparenza dei mercati, smantellamento dei «paradisi fiscali», calmiere per i «superstipendi » dei banchieri, parametri legali minimi anche per la difesa dell'ambiente e dei lavoratori. Uno schema che certamente trova resistenze nel mondo anglosassone (Londra vuole evitare misure legalmente vincolanti e propone, al posto di una revisione del rapporto tra etica e affari, interventi più diretti per spingere le banche a riattivare il credito, contro il protezionismo e contro le speculazioni sul petrolio), ma che obbliga tutti a ripartire dalla realtà dei danni immensi subiti dal sistema economico per l'assenza di regole comuni adeguate all'era dei mercati globali. «Prediche inutili»? Chi ha fin qui considerato i discorsi sull'etica negli affari alla stregua di sermoni, dovrebbe decidersi a voltare pagina, visto quello che è accaduto negli ultimi due anni. E il lavoro fatto sull'asse Parigi(Ocse)-Roma-Berlino dovrebbe rappresentare un buon inizio.

In ogni caso battere su questi temi, anche senza arrivare - per ora - a risultati conclusivi, non è affatto «inutile», visto che sono bastate poche settimane con i conti in ripresa (grazie agli aiuti avuti dalla Federal Reserve) per indurre banche e finanziarie di Wall Street responsabili di disastri immani a iniziare, in Congresso, un tiro al bersaglio contro le riforme appena annunciate dal presidente Obama. Un accordo almeno di principio su nuove regole è necessario non per mettere in mora il capitalismo anglosassone (Germania e Francia che invocano trasparenza ma poi tengono segreti i risultati degli «stress test» delle loro banche non possono fare le prime della classe), ma per cercare di dare una risposta a quei Paesi emergenti che credono sempre meno nella capacità del capitalismo occidentale di produrre ricchezza, favorendo la stabilità economica e politica.

di MASSIMO GAGGI
07 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 29, 2009, 05:03:32 pm »

CARTE DI CREDITO, I TIMORI EUROPEI

Quell'ombra sulla ripresa


L’Europa scopre con costerna­zione che la bolla del credi­to al consumo sta scop­piando anche da questo lato dell’Atlantico. Eppu­re negli Usa, dove il livel­lo delle insolvenze sulle carte di credito, arrivato a quota 14%, è già doppio ri­spetto a quello dell’area Ue, non si respira un cli­ma da «ultima spiaggia». Allarme eccessivo, allora? Se il timore è quello di nuovi crolli nel sistema bancario la risposta è, probabilmente, sì: lo «stress test» al quale so­no state sottoposte le ban­che Usa ha accertato che i 19 principali istituti accu­seranno entro il 2010 per­dite sulle loro attività nel credito al consumo per ol­tre 80 miliardi di dollari: una cifra enorme, ma non comparabile con la distruzione di ricchezza avvenuta nel settore dei mutui-casa e nel mercato dei derivati. Perdite che le banche stano riassor­bendo grazie ai sostegni diretti offerti dal governo federale e alla politica del­la Federal Reserve che da molti mesi, ormai, forni­sce agli istituti denaro a «costo zero».

In Europa gli interventi sono stati meno decisi e c’è anche una maggiore opacità: i risultati degli «stress test» sulle ban­che, ad esempio, non so­no stati resi di pubblico dominio, soprattutto per volontà delle autorità te­desche e francesi. Ma in diversi Paesi — e, tra que­sti, l’Italia — banche e consumatori hanno fatto un ricorso molto limitato al credito al consumo con rimborsi rateali differiti, i più rischiosi: da noi le spese fatte col Bancomat e l’85% di quelle regolate con carta di credito ven­gono saldate a fine mese. Questi Paesi, insomma, ri­schiano assai poco con le carte di credito, mentre in Gran Bretagna, lo Stato più esposto, il governo è già intervenuto massiccia­mente nazionalizzando gli istituti che rischiava­no di soccombere alla cri­si.

Il punto è un altro: il ri­torno delle economie oc­cidentali sui binari della crescita dopo una reces­sione che dura ormai da 20 mesi si sta rivelando più problematico del pre­visto e la crisi del credito al consumo complica ulte­riormente le cose. I dati reali della crisi si rivelano spesso peggiori delle pre­visioni perché molte ana­lisi hanno sottovalutato l’impatto dell’aumento della disoccupazione sul­la capacità dei cittadini di far fronte ai loro debiti. Vale per le carte di credi­to ma, negli Usa, vale an­cor di più per le case: con­tinuano a perdere valore proprio perché stanno an­dando in «default» non solo i mutui «subprime», ma anche quelli sani, con­tratti da gente che dispo­neva di un reddito ade­guato, ma che ora, perso il lavoro, non può far fron­te ai suoi impegni.

Negli ultimi due giorni dal mercato immobiliare Usa è venuto qualche se­gnale che fa sperare, ma il rischio è che, tra nuovi disoccupati e contrazione prolungata dei consumi, l’economia resti debolissi­ma anche nel 2010. In America l’orgogliosa ban­diera del «plastic mo­ney », il combustibile del­l’iperconsumismo, è stata ammainata già da quasi un anno: i livelli di spesa si sono abbassati, si cerca di tornare a risparmiare e un consumatore su quat­tro dichiara di usare il de­naro contante molto più di prima. E’ un faticoso ri­torno alla sobrietà dopo la «sbornia» del debito fa­cile. Una frugalità neces­saria, laddove le famiglie sono molto esposte: ci re­stituirà un’America più sa­na, non certo una locomo­tiva.

Massimo Gaggi
29 luglio 2009

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« Risposta #9 inserito:: Aprile 17, 2010, 04:47:08 pm »

La caduta degli intoccabili


«Sempre più debiti, sempre più esposizione nel sistema. Prima o poi tutto l'edificio verrà giù. In mezzo a questa sarabanda di transazioni esotiche, messe in piedi senza nemmeno capire la loro mostruosità, sopravvivrà solo il fabulous Fab». Così si firmava in una delle sue mail Fabrice Tourre, giovane vicepresidente della Goldman Sachs incriminato per frode, insieme alla sua banca, la più prestigiosa istituzione di Wall Street. Almeno fino a ieri.

In un Paese sano non ci sono centri di potere intoccabili. La decisione presa dalla Sec, la Consob Usa, di incriminare il sancta sanctorum della finanza americana dimostra che — con tutti gli errori e le cadute — gli Stati Uniti hanno ancora un sistema immunitario che funziona, con meccanismi di controllo e di bilanciamento dei poteri che ha pochi uguali nel mondo. L'Amministrazione Obama era stata accusata di aver rinunciato a perseguire i responsabili del disastro finanziario che ha fatto precipitare l'America e il mondo nella più spaventosa recessione degli ultimi 80 anni: un presidente che abbaia alla luna accusando Wall Street mentre salva le banche coi soldi dei contribuenti. Comincia a emergere una realtà diversa: non solo quei salvataggi si stanno rivelando assai meno onerosi del previsto, ma cominciano ad arrivare a destinazione anche le indagini delle istituzioni di controllo del sistema. Authority non ancora riformate dal Congresso — fin qui bloccato da conflitti politici e dalla guerriglia delle lobby finanziarie — ma che, affidate a una nuova generazione di professionisti, hanno ricominciato a muoversi con determinazione, a indagare in modo accurato. Goldman Sachs, legittimamente, rivendica la correttezza dei suoi comportamenti. Ma, negando che con le sue gigantesche speculazioni sui mutui subprime e le scommesse fatte contro gli investimenti eseguiti per conto dei suoi stessi clienti si è infilata in un gigantesco conflitto d'interessi, l'istituto si illude di vivere ancora in un mondo disposto a considerarlo al di sopra di ogni sospetto. Un mondo nel quale per decenni i capi della banca sono diventati ministri repubblicani o democratici (il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, che ha lasciato la Goldman nel 2005, non si è mai occupato delle vicende divenute oggetto di indagine).

Il clima oggi è completamente diverso: un cambiamento che sicuramente giunge in ritardo, visto che in passato i moniti non erano mancati. A partire dalla fine degli anni 80 quando John Kenneth Galbraith invitò a non riprodurre a Wall Street i meccanismi della moltiplicazione dell'esposizione finanziaria che avevano provocato il Grande Crollo del 1929. Allora, come ricostruito dall'economista nel suo celebre saggio su quella crisi, una delle principali responsabili del disastro fu proprio la Goldman, con i suoi investment trust, piramidi finanziarie verso le quali venivano indirizzati gli investitori, mai informati che all’interno di quelle costruzioni c’era solo il vuoto. Dopo il crollo le piramidi furono messe fuorilegge, ma la fantasia finanziaria ha inventato sostituti che sono andati proliferando man mano che a Wall Street si è diffusa un'avidità non contrastata dal sistema dei controlli. Goldman ha sempre negato di essere stata contagiata da quel clima. Ma l'inchiesta del «superpoliziotto » della Sec, Robert Khuzami, la smentisce. E la mail di Tourre sembra l'epitaffio di tutto un modo di fare finanza e, forse, anche di un intero gruppo dirigente.

Massimo Gaggi

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« Risposta #10 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:33:39 pm »

LA CRiSI DELLA GRECIA

Chi dà i voti (e li sbaglia)


«La grande crisi della finanza globale? Il frutto dell’esplosione di un sistema finanziario- ombra cresciuto come un gigantesco party alcolico senza regole» pieno di ragazzi ubriachi «fatti entrare dalle agenzie di "rating" che all’ingresso distribuivano carte d'identità false». Così Paul McCulley di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, descrive le genesi di una tempesta che, nel 2008, ha portato l’intero sistema creditizio mondiale sull’orlo dell’autodistruzione. I colpevoli sono molti, ma un ruolo particolare l’hanno avuto strane creature private con una funzione pubblica: le agenzie che con i loro voti decretano l’affidabilità di un titolo obbligazionario emesso da una società, ma anche dei titoli del debito pubblico di decine di Stati sovrani. Dovevano essere giudici competenti e imparziali e invece hanno promosso (a raffica) e bocciato (quasi mai) sulla base più della loro convenienza privata che di valutazioni oggettive. Due anni fa, concedendo il massimo dei voti alle obbligazioni-salsiccia di moda a Wall Street, hanno aperto la strada verso il disastro. Oggi, con bocciature intempestive del debito di alcuni Paesi europei, rischiamo di rendere ingestibile una crisi che da Atene si sta già propagando fino alla penisola iberica. Bocciature, peraltro, dettate più da una volontà di autoconservazione e dal timore di essere accusati di inerzia che dal cambiamento di dati che erano e sono sotto i loro occhi.

Un downgrading ha senso se l’agenzia, grazie alla sua professionalità, a una superiore capacità d’analisi, capisce in anticipo che la posizione di un Paese si sta deteriorando. Intervenire quando i numeri sono già noti in tutta la loro gravità e il mercato ha già reagito, chiedendo maggiori interessi sui titoli di Stato emessi da Paesi con conti pubblici in disordine, aumenta solo la confusione e rischia di vanificare i tentativi dei governi di correre ai ripari. Un giudizio competente e indipendente sull’affidabilità degli investimenti sicuramente serve, ma si può continuare a lasciare una funzione pubblica tanto delicata nelle mani di società private che le gestiscono in modo così irresponsabile? Non è certo il caso di nazionalizzare questa funzione, ma non conforta di certo vedere le banche centrali o agenzie federali come la Sec (l’istituto che vigila sulla Borsa Usa)—che sicuramente dispongono di professionalità interne e autorevolezza superiori a quelle delle agenzie di «rating»—affidarsi a loro per i giudizi sulla base dei quali vengono selezionati gli investimenti più rilevanti. Certo, lo fanno in base alle regole che i governi si sono dati e che sono rispecchiate anche dagli accordi di Basilea. Forse è ora di prendere atto che non è più possibile tenere in piedi un sistema di «rating » diffusosi a partire dagli anni 70, limitandosi a piccoli correttivi.

Da anni si discute dei conflitti d’interesse che affliggono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, i tre oligopolisti del «rating». All’inizio di questo decennio la legge americana Sarbanes-Oxley ha cercato di regolarli più strettamente dopo lo scandalo Enron i cui titoli venivano ancora giudicati un buon investimento quattro giorni prima della sua bancarotta. Correttivi inutili, vista la facilità con la quale l’aurea «tripla A» è stata concessa ancora nel 2006-2007 a una marea di emissioni di titoli basati su mutui «subprime», ad alto rischio. La Commissione del Congresso Usa che venerdì scorso ha «torchiato» in un’audizione i capi di queste agenzie, accusati di aver anteposto il profitto e il volume del giro d’affari delle loro società al rigore delle analisi, ha accertato che il 93 per cento dei titoli che avevano ricevuto il massimo voto di affidabilità, sono stati declassati a «spazzatura». La gravità della crisi del debito sovrano di un numero crescente di Stati richiede un monitoraggio serio e azioni di stabilizzazione, non l'agitazione di agenzie che sembrano muoversi, ormai, come variabili impazzite.

Massimo Gaggi

30 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 05, 2011, 05:10:10 pm »

L'analisi

Quel panico mai scomparso dopo Lehman

Il timore delle armi spuntate per resistere

L'attesa sui dati della disoccupazione.

L'ombrello (più fragile) della Fed


NEW YORK - Lo spettro di una devastante crisi di liquidità in Europa e la constatazione che l'America, sull'orlo di una nuova recessione, non ha più munizioni per reagire alla crisi, dopo che la Federal Reserve ha inondato per anni i mercati con la sua liquidità e Obama ha esaurito i suoi stimoli.

Il film della giornata in cui il panico è tornato a dominare nei mercati di tutto il mondo è pieno di storie di speculatori, operatori disorientati, reazioni irrazionali. Broker di Wall Street che vanno in tv a dire: «Non me la sento più di rischiare. I mercati europei aprono prima del nostro: vendo l'Italia e vado a letto più tranquillo». L'Europa non trova di meglio che replicare allo sgomento globale col capo della sua banca centrale, Jean-Claude Trichet, che ributta la palla dall'altra parte dell'Atlantico: «Gli Stati Uniti stanno messi peggio della Ue». E il Giappone alza il ponte levatoio adottando misure unilaterali per impedire una rivalutazione dello yen.

Ore convulse, punteggiate da crolli che si sono diffusi ovunque, dalla Borsa di Milano a Wall Street, che ha perso oltre 500 punti, il 4,3%: il giorno peggiore dall'ottobre 2008. Ore in cui espressioni come «capitolazione», «fuga indiscriminata da ogni rischio» e «Armageddon» sono state sicuramente usate con eccessiva disinvoltura.

Ma i fenomeni alla base di tutto ciò sono abbastanza chiari e, purtroppo, assai difficili da neutralizzare: hanno sostanzialmente a che fare con la sensazione che tutto l'Occidente sta scivolando verso un'altra recessione che può provocare di nuovo pericolose reazioni a catena in campo finanziario. Fenomeni ai quali, stavolta, i governi non sarebbero in grado di reagire con strumenti efficaci. Nel 2008, dopo il crack Lehman, la crisi di fiducia che sfociò in una «gelata» del credito senza precedenti nell'era moderna fu tamponata in qualche modo dai governi, soprattutto quello Usa. Tra «stimoli» fiscali e interventi d'emergenza della Federal Reserve, Washington dette ai mercati la sensazione che gli Stati Uniti fossero ancora in grado di stendere una rete di sicurezza, di poter funzionare da creditori di ultima istanza davanti a un infarto del sistema privato.

Da allora, però, la speranza di poter contare su quella rete di sicurezza in caso d'emergenza è andata evaporando sempre più, mentre il sistema produttivo, alle prese con platee di cittadini-consumatori ancora benestanti ma sempre meno ricchi, non è riuscito a recuperare con le sue forze. In Europa la crisi del debito greco e degli altri Paesi più deboli dell'area dell'euro ha messo in evidenza l'impossibilità dei governi di fronteggiare un collasso di vaste proporzioni esteso a più Paesi. Negli Usa tre anni fa, al tempo del crollo di Wall Street, tutte le speranze erano state riposte in due fattori: l'ombrello della Federal Reserve, la roccaforte che ha sempre protetto l'America nei momenti di tempesta, e la bacchetta magica di un giovane presidente che, dopo la «mission impossible» di arrivare alla Casa Bianca a dispetto del colore della sua pelle, prometteva di rilanciare l'economia e rinnovare la politica americana.

Il risveglio è stato brusco: in giro non c'è nessun Harry Potter e, anzi, i mercati - già spaventati dal caos che regna in Europa - scoprono, come detto, che il governo americano non ha più munizioni per sostenere l'occupazione e anche per proteggere il Paese nell'eventualità di un'altra crisi finanziaria. Così, dopo una settimana tremenda, fatta di grandinate di dati negativi sull'economia (aumento del Pil ridotto, ormai, a un misero 0,6%, prima caduta da 18 mesi a questa parte dei consumi degli americani, stagnazione della produzione manifatturiera e ulteriore perdita di terreno del mercato immobiliare) e di scontri paralizzanti tra Casa Bianca e Congresso, l'istinto degli operatori - davanti alle nuove difficoltà dell'Europa - è stato quello di vendere: «Anche la propensione al rischio dei mercati - dicono gli analisti - ha le sue soglie psicologiche».

Ieri una di queste soglie è stata superata. Con una caduta del listino che a Wall Street è stata insolitamente ampia anche per il timore che i dati economici più importanti della settimana - quelli sull'andamento dell'occupazione Usa a luglio, attesi per stamattina - rendano il quadro ancora più cupo: l'ondata di licenziamenti che nelle ultime settimane si sono diffusi dalle aziende tecnologiche (come Cisco Systems) alla difesa (Lockheed) a banche e finanziarie di Wall Street, non fa sperare nulla di buono.

Meglio, allora, rifugiarsi sotto un vecchio cornicione, non privo di crepe, ma ancora resistente: quello dei Bot del Tesoro Usa.
Con un effetto paradossale: il governo federale rischia il «downgrading» ma per adesso pagherà il denaro di meno e non di più, come temeva.
Magra consolazione per Obama nel giorno di un cinquantesimo compleanno sconvolto dalla furia della tempesta finanziaria.

Massimo Gaggi

05 agosto 2011 10:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_agosto_05/quel-panico-mai-scomparso-dopo-lehman-massimo-gaggi_c0b43caa-bf25-11e0-9335-6a1fd5e65f3e.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 07, 2011, 12:25:04 pm »

Il declassamento usa

Il primato perduto e il socio cinese

La ratifica contabile di una crisi di leadership e di un deterioramento economico dell'America che è sotto gli occhi di tutti da tempo. Quello notificato venerdì notte da Standard & Poor's è un «downgrading» storico, visto che gli Usa godevano da 70 anni del massimo voto di affidabilità del loro credito, ma anche ormai atteso (non così presto) dopo il caotico confronto sul debito federale tra la Casa Bianca e un Congresso spaccato.
Negoziato concluso con un compromesso, inghiottito a fatica anche da chi l'ha firmato, che evita la follia di un default degli Stati Uniti per il mancato aumento del limite all'indebitamento del Tesoro, ma fa ben poco per affrontare i problemi che si sono accumulati sotto quel tetto.

Ma una decisione contabile che non è più un fulmine a ciel sereno può diventare comunque una svolta epocale sui mercati se, nonostante tutti gli sforzi del Tesoro e della Federal Reserve di disattivare i meccanismi tecnici capaci di innescare una reazione a catena, alla riapertura delle contrattazioni stasera in Asia si diffonderà un'altra ondata di panico. Ma anche sul piano geopolitico: la decisione di una delle tre agenzie private di rating non può essere paragonata alla fine della convertibilità del dollaro in oro decretata da Nixon quarant'anni fa, e tuttavia l'importanza dell'evento è ingigantita dalla durissima reazione della Cina. La nuova superpotenza globale, grande creditore degli Stati Uniti, tratta l'America da drogata di debito («curate la vostra dipendenza, tagliate la gigantesca spesa militare e l'ipertrofico welfare») e arriva fino al punto di invocare la creazione di una nuova valuta di riserva mondiale. Chiedendo, nel frattempo, l'introduzione di un controllo internazionale sulla stampa di nuovi dollari da parte della Fed. Su questo Pechino non la spunterà, ma oggi l'impronta cinese sul Terzo Millennio cresce in misura significativa.

La vera sorpresa, nella mossa di S&P, sta negli argomenti, più politici che economici, usati per motivare la scelta di strappare dal petto dell'America la medaglia delle tre A. Una «bocciatura» dalla quale escono sconfitti i tre attori principali sul palcoscenico. In primo luogo il presidente Obama che, pur con la giustificazione di aver dovuto affrontare una crisi senza precedenti con la destra scatenata contro di lui, non ha saputo affrontare per tempo un nodo di cui aveva da tempo piena consapevolezza («avesse attuato nel dicembre scorso il piano della commissione bipartisan Simpson-Bowles da lui stesso nominata, oggi non saremmo a questo punto» ha detto ieri il managing director di Standard & Poor's, John Chambers). Sconfitti anche i repubblicani che, ostaggio dei Tea Party, hanno esasperato lo scontro politico oltre ogni limite di sicurezza.

Condannati - prima ancora che dal downgrading - dagli stessi americani che, nei sondaggi sulla disastrosa gestione politica della questione-debito, disapprovano a grande maggioranza (72 contro 21 per cento) la condotta del partito conservatore, mentre su Obama in giudizio è diviso a metà (47 a 46). Ne esce male anche S&P, la cui crisi di credibilità è stata ulteriormente alimentata da un mastodontico errore contabile (una cosetta da duemila miliardi di dollari) che l'agenzia alla fine ha riconosciuto, senza tuttavia cambiare il suo giudizio.

Nella parte alta della colonna degli sconfitti anche i Paesi oggi più vulnerabili come l'Italia: rischiano più degli stessi Usa che, con la possibilità di stampare dollari senza limiti, restano comunque l'approdo più sicuro per gli investitori. L'unica speranza è che la nuova emergenza ricrei quell'unità d'intenti tra i principali Stati che, utilissima nella gestione concertata della crisi del 2008, si è persa man mano per strada quando, finita l'emergenza, ognuno si è sentito libero di tornare al vecchio uso di strattonare la coperta dalla propria parte. Senza rendersi conto che quel tessuto è diventato ormai fragilissimo.

Massimo Gaggi

07 agosto 2011 09:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_07/gaggi-primato-perduto-socio-cinese_9560f254-c0c5-11e0-a989-deff7adce857.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 18, 2012, 10:14:37 pm »

Italia Bocciata dalle agenzie di rating

I perché di uno schiaffo

L'abbassamento di due punti del rating dell'Italia è di certo un duro colpo per il governo Monti che ha ereditato una situazione difficilissima, ha adottato misure correttive assai penose per i cittadini ma apprezzate in Europa, e che da oggi si ritrova a dover percorrere un sentiero ancora più stretto e pieno di insidie. Ma se la decisione annunciata ieri sera da Standard & Poor's è una bocciatura dell'Italia - pur con un apprezzamento per l'azione del governo Monti, mitigato però dal timore che le sue riforme, definite ambiziose, vengano frenate da un'opposizione politica -, il «declassamento di massa» è una dichiarazione di sfiducia nell'euro. Dunque un giudizio con una larga componente politico-istituzionale da parte di un'agenzia di rating americana: cioè di un Paese da sempre scettico sul destino della moneta unica, che negli eventi degli ultimi mesi ha trovato la conferma della fondatezza dei suoi dubbi.

Reagire prendendosela con gli Usa o invocando compartimenti stagni, con l'Europa giudicata da organismi di valutazione europei, non avrebbe, però, senso: tra l'altro le strutture di analisi di queste agenzie sono ormai globalizzate e al «downgrading politico» non sono sfuggiti nemmeno gli Stati Uniti che ne hanno subito uno sei mesi fa motivato con la caotica gestione del debito pubblico da parte del Congresso. Washington, poi, ha già ricevuto più di un avvertimento: presto arriverà un'altra bocciatura, con motivazioni analoghe.

Il nodo vero è che questi giudizi, che dovrebbero servire a mettere in allarme gli investitori segnalando loro rischi che non hanno ancora percepito (adeguando di conseguenza i relativi rendimenti), in realtà arrivano quando quelle preoccupazioni sono ormai ampiamente diffuse nei mercati che hanno già eseguito le loro correzioni: un intervento prociclico, che rischia di portare a un eccessivo squilibrio della reazione di mercati fin troppo reattivi, coi nervi messi a dura prova da quattro anni di crisi durante i quali ha quasi sempre piovuto sul bagnato.

Negli Stati Uniti e anche in Europa sono stati fatti vari tentativi di ridurre l'impatto di questi giudizi negativi. Ad agosto, dopo il downgrading Usa, il Tesoro americano autorizzò le banche locali a continuare a sottoscrivere titoli del governo federale senza effettuare gli accantonamenti di bilancio richiesti quando c'è un aumento del rischio. E le norme sui mercati finanziari varate a Washington l'anno scorso riducono per molte emissioni di bond l'obbligo di essere corredate dai giudizi di una pluralità di agenzie. È, inoltre, aumentata l'attenzione sui conflitti d'interesse che possono condizionare questi organismi.
Ma alla fine, trattandosi di società private, la soluzione verrà solo dall'allargamento della platea degli operatori, superando l'oligopolio S&P-Moody's-Fitch. È il caso delle nuove agenzie che stanno emergendo in America e anche di quella cinese che, peraltro, Francia e Italia le aveva già declassate a dicembre.

Insomma dobbiamo abituarci - opinione pubblica e mercati - ad avere reazioni meno «accaldate» cogliendo, al tempo stesso, il messaggio, non nuovo, che esce rafforzato dal giudizio di Standard & Poor's: quella europea è una crisi profonda che non ha soluzioni facili. Il percorso da compiere è lungo e pieno di insidie. Decise le manovre necessarie per disinnescare i meccanismi della crescita del debito pubblico, ora l'enfasi va posta sullo sviluppo delle economie dell'Unione e su una maggiore solidarietà tra le varie capitali per rafforzare l'euro con un'unità d'intenti almeno sulle politiche fiscali, di bilancio e del lavoro.

Certo, anche se accompagnata dalle «bocciature» di parecchi altri Paesi, dalla Francia all'Austria, dalla Spagna al Portogallo, il passo indietro di due caselle dell'Italia, che la porta al livello di Paesi come il Perù, non è di certo incoraggiante per il nostro governo.
Ma questo declassamento non può cancellare la consapevolezza che il Paese sta finalmente tentando di imboccare la direzione giusta.
Un dato che, oltre che dalle istituzioni e dai partner europei, viene riconosciuto anche dai mercati che col positivo andamento delle aste dei titoli del Tesoro, soprattutto a breve termine, dimostrano di avere una certa fiducia sulla stabilizzazione della situazione italiana, almeno nei prossimi 12-18 mesi.

Ma è difficile andare oltre questa scadenza nelle previsioni, le nuvole all'orizzonte sono ancora troppo fitte: alle incertezze di un quadro politico caratterizzato da una tregua che potrebbe non durare a lungo, si aggiungono quelle che derivano dalla stagnazione.
Per questo da oggi diventano ancora più importanti le politiche per la crescita che Monti, varata la manovra fiscale, ha messo al centro del suo programma. Per rendere gestibile il debito pubblico e farlo diminuire rispetto al Pil il governo ha bisogno di far crescere le attività produttive, evitando, al tempo stesso, impennate dei tassi. Qui, purtroppo, la mossa di S&P, che arriva proprio quando si vedeva qualche spiraglio di luce, non aiuta: già ieri sera a Wall Street alcuni analisti invitavano gli investitori a cautelarsi rispetto a rischi crescenti di «monetizzazione» del debito pubblico dei Paesi europei.

Massimo Gaggi

14 gennaio 2012 | 8:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_14/rating-editoriale-massimo-gaggi_7408058e-3e79-11e1-8b52-5f77182bc574.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 13, 2012, 11:12:46 am »

Aperture di credito

«È un nuovo giorno» nei rapporti Italia- Usa, sentenzia il New York Times mentre Time Magazine si chiede se Mario Monti è l’uomo che salverà l’Europa, dedicandogli anche la copertina delle sue edizioni internazionali. Accolto da Barack Obama alla Casa Bianca con fiducia per il ruolo che l’Italia, cuore della crisi europea, può giocare per risolverla, il presidente del Consiglio sta godendo di una congiunzione astrale positiva, cementata dalla sua esperienza e credibilità personale: è l’uomo al quale in America tutti guardano nella speranza che trovi la chiave della soluzione di problemi che si sono sedimentati negli anni. Un ruolo che deriva dalla sua storia personale di tutore, da Commissario a Bruxelles, dei mercati e delle istituzioni europee e dalle azioni messe in campo dal suo governo: progressi «impressionanti », ha detto il presidente americano alla Stampa.

Ma è anche l’attuale congiuntura politica ad offrire un ruolo centrale all’Italia per il venir meno della Gran Bretagna nella costruzione del processo europeo e per altri fattori come la stagione elettorale che, in parte, indebolisce il presidente francese Sarkozy. O per una situazione debitoria dell’Italia che obbliga Berlino e Roma a procedere in modo coordinato per evitare nuovi squilibri. Tutto questo rende oggi Monti un interlocutore «speciale» come dimostrano i riconoscimenti che vengono da Paesi come la Francia: l’elogio di Sarkozy per i «progressi spettacolari» fatti in poche settimane dal nostro Paese, ma anche giudizi come quello di Philippe Moreau Defarges dell’Istituto francese di Affari internazionali per il quale «non c’è leader europeo che oggi per Obama è più importante incontrare di Mario Monti. Perché è il leader che, nella Ue, meglio comprende come funziona, oggi, l’economia mondiale».

Monti ha accumulato in poche settimane un capitale politico che gli serve, qui negli Usa, per cercare di convincere la comunità finanziaria a scommettere di nuovo sull’Italia e in Italia per procedere speditamente sul percorso delle riforme. Ma, come sa bene proprio Obama, che l’ha sperimentato sulla sua pelle, capitali politici anche straordinari possono dissolversi molto rapidamente, soprattutto in un’epoca di crisi economiche che pesano sul tenore di vita dei cittadini. Le aperture di credito avute negli Usa — ieri nella capitale politica, oggi in quella degli affari—rimangono condizionate alla dimostrazione di saper riattivare davvero il meccanismo della crescita dopo le azioni di risanamento perseguite con le manovre fiscali. Adesso il banco di prova è quello delle liberalizzazioni e delle riforme come quella del mercato del lavoro: i terreni che più interessano agli operatori economici e allo stesso Obama che non vuole apparire, agli americani, il difensore di un’Europa ancora troppo assistenziale. Un cielo tempestoso si è aperto mostrando una congiuntura astrale oggi promettente. Ma gli allineamenti dei pianeti annunciano cambiamenti epocali. Non necessariamente cambiamenti positivi.

Massimo Gaggi

10 febbraio 2012 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_10/aperture-credito-gaggi_36fa4020-53b0-11e1-a1a9-e74b7d5bd021.shtml
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