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Autore Discussione: CHARLES A. KUPCHAN L'Occidente non si rafforza espandendosi  (Letto 2219 volte)
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« inserito:: Febbraio 14, 2012, 12:48:08 pm »

14/2/2012

L'Occidente non si rafforza espandendosi

CHARLES A. KUPCHAN*

Importanti pubblicazioni su entrambe le sponde dell’Atlantico sono piene di riflessioni ansiose sul futuro dell’Occidente. E per una buona ragione. L’Europa e gli Stati Uniti stanno attraversando contemporaneamente un periodo prolungato di debolezza economica e politica. Nel frattempo, molte delle potenze emergenti del mondo godono di una crescita economica stabile e stanno allargando la loro influenza geopolitica. Si profila all’orizzonte l’eventualità di un’epoca «post-occidentale».

Di recente Zbigniew Brzezinski e Marta Dassù hanno dato sulle pagine de La Stampa il loro ponderato contributo a questo dibattito. Brzezinski suggerisce che l’Occidente dovrebbe rafforzarsi attraverso l’ampliamento verso Est, estendendo il suo retaggio alla Russia, alla Turchia e agli alleati asiatici pronti a vigilare sulla crescita della Cina. Dassù sostiene che l’Occidente dovrebbe guardare non solo a Est, ma anche a Sud, includendo il Brasile e gli altri in una più ampia comunità «panatlantica». Come ha fatto in tutta la sua storia, Brzezinski e Dassù concordano su questo, l’Occidente dovrebbe rafforzarsi attraverso l’espansione geografica.

Entrambe le proposte sono ragionevoli, ma non arrivano al cuore della questione. Il futuro dell’Occidente poggia sulla salute e la vitalità dei suoi tradizionali nuclei nordamericani ed europei. Sebbene tanto Brzezinski come Dassù riconoscano la necessità per gli Stati Uniti e l’Unione Europea di rimettere ordine in patria, distolgono impropriamente l’attenzione da questa priorità suggerendo che l’allargamento piuttosto che il rinnovamento interno sia fondamentale per la futura forza dell’Occidente.

Inoltre, se pure l’Occidente fosse in grado di ritrovare la vitalità interna e anche di ampliare la propria presenza, dovrà comunque gestire la transizione verso un mondo in cui il potere sarà distribuito più equamente. Senza contare che gli approcci non-occidentali alla governance interna e internazionale promettono di porre sfide crescenti all’ordine internazionale così come è stato impostato sotto la supervisione dell’Occidente. L’Occidente può ancora avere davanti a sé i suoi anni migliori, ma il dominio materiale e ideologico di cui ha goduto negli ultimi due secoli non è più sostenibile.

La debolezza economica e politica che affligge l’Occidente non è semplicemente un altro incidente temporaneo derivante da una contrazione del ciclo economico o da una serie di decisioni politiche errate. Piuttosto, gli Stati Uniti e l’Europa stanno vivendo insieme una crisi di governance democratica nata dall’impatto della globalizzazione sulle società occidentali.

La globalizzazione sta presentando un conto economico particolarmente elevato alle democrazie occidentali. L’ingresso di miliardi di lavoratori a basso salario nell’economia mondiale sta producendo una stagnazione nei salari della classe media e una crescente disuguaglianza nella maggior parte dell’Occidente industrializzato. Negli ultimi dieci anni il reddito medio delle famiglie negli Stati Uniti è sceso di oltre il dieci per cento. Nel frattempo la disuguaglianza del reddito è cresciuta in modo costante, facendo degli Stati Uniti il Paese meno equo del mondo industrializzato. In gran parte dell’Europa per la gran parte degli ultimi vent’anni i redditi della classe media sono scesi e la disuguaglianza è aumentata. Anche la Germania, la prima economia dell’Unione Europea, ha avuto una contrazione del 13 per cento nella classe media tra il 2000 e il 2008.

Di fronte a queste minacce gli elettori sono comprensibilmente alla ricerca di aiuto da parte dei loro rappresentanti eletti. Ma la globalizzazione se da un lato stimola questa richiesta pressante di un ruolo attivo del governo, dall’altro fa sì che questa risorsa sia in terribile affanno.

L’interdipendenza nata dalla globalizzazione diluisce l’impatto di molti degli strumenti politici tradizionali utilizzati dalle democrazie liberali. La portata e la velocità dei flussi globali di commercio e di capitale implicano che le azioni intraprese nelle capitali occidentali siano regolarmente superate da sviluppi sorti altrove, come l’intransigenza di Pechino sull’apprezzamento della valuta o le decisioni degli investitori internazionali e delle agenzie di rating. La diffusione del potere dall’Occidente al resto significa anche che ci sono oggi molti nuovi cuochi in cucina; un’azione efficace non si basa più principalmente sulla collaborazione tra democrazie che la pensano allo stesso modo. E anche se le democrazie possono essere agili e reattive quando i loro elettori sono contenti, diventano goffe e lente quando i loro cittadini sono demoralizzati.

La mancata corrispondenza tra la crescente domanda di buon governo e la sempre più scarsa offerta è una delle più gravi sfide che il mondo occidentale oggi deve fronteggiare. Negli Stati Uniti, la crisi di governance sta prendendo la forma di una ingestibile polarizzazione. Dall’altro lato dell’Atlantico, sta assumendo i contorni di una cocciuta forma di rinazionalizzazione, che nega all’Ue il supporto collettivo di cui ha bisogno per reggere la sfida di un mondo globalizzato.

Rispondere a queste sfide ha poco a che fare con l’ampliamento dell’Occidente. Al contrario, l’Occidente ha urgente bisogno di una risposta convincente alle tensioni strutturali tra democrazia, capitalismo e globalizzazione. Una nuova agenda politica deve riaffermare il controllo popolare sulla politica economica. Le democrazie liberali devono rivolgersi alla pianificazione strategica e a investimenti guidati dallo Stato nelle infrastrutture, nell’istruzione e nel lavoro per ripristinare la competitività, riequilibrare le disuguaglianze e avvantaggiare la collettività piuttosto che accoliti di partito o interessi speciali.

Anche se l’Occidente riuscirà a ripristinare la sua solvibilità economica e politica, gli americani e gli europei devono comunque delineare una strategia collettiva per gestire la transizione in arrivo nella politica globale. Piuttosto che estendere la portata dell’Occidente verso Est in Asia o in Africa e America Latina, Stati Uniti e Europa sarebbero saggi a investire in istituzioni regionali che possono contribuire a promuovere la stabilità e la prosperità in queste aree.

Un piano di sicurezza regionale per il NordEst asiatico è più realistico - e probabilmente sarebbe più efficace – che imporre artificialmente la Nato o altre istituzioni occidentali nel Pacifico. Lo stesso vale per l’America Latina. Il Mercosur e l’Unione di difesa prevista dal Brasile offrono più promesse di un’artificiosa comunità «panatlantica» che presuppone che Washington, Bruxelles, Brasilia e Rabat si costituiscano in una comunità strategica operativa.

Oltre a devolvere maggiori responsabilità agli attori regionali, l’Occidente dovrà anche lavorare con le potenze emergenti per forgiare nuove regole di percorso. Il mondo si sta rapidamente evolvendo non solo verso centri di potere multipli, ma anche diverse versioni della modernità, il libero mercato e la democrazia liberale dovranno competere rispettosamente con altri approcci alla governance interna e internazionale. Il prossimo mondo non apparterrà agli Stati Uniti, all’Europa, alla Cina, all’India o a chiunque altro, sarà il mondo di nessuno. Gestire questo paesaggio così diverso e poco maneggevole richiederà cooperazione e consenso tra l’Occidente e le potenze in ascesa.

*Charles A. Kupchan è professore di Relazioni Internazionali alla Georgetown University e Senior Fellow presso il Council on Foreign Relations.

Traduzione di Carla Reschia

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9770
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