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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119656 volte)
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« inserito:: Luglio 02, 2007, 05:01:59 pm »

2/7/2007
 
Non fateci sognare
 
BARBARA SPINELLI
 
Molti si aspettavano che Walter Veltroni, il giorno in cui si è candidato ufficialmente alla guida del partito democratico, usasse di frequente e con fervore la parola: «sogno». È una parola che i politici del Novecento hanno usato spesso, e per la verità non solo quando si predisponevano a conquistare il potere: fu sogno anche quello di Martin Luther King, che non aspirava alla conquista della Casa Bianca ma all’uguaglianza di diritti fra bianchi e neri. Chi si aspettava un Veltroni sognante è stato deluso, e forse è proprio qui la forza segreta del sindaco di Roma: forse è in questo suo accostarsi al carpe diem di Orazio, che afferra il giorno presente e risponde alle domande del giorno presente, sapendo che ci sono speranze che i politici dilatano ad arte senza crederci, senza avere i mezzi della città ideale che descrivono, senza sapere che sogni e speranze sono fiamme che accendono ma anche inceneriscono, che possono esser usate per edificare ma anche per sedurre i creduli.

In un articolo scritto poco prima del discorso di Veltroni al Lingotto, il 24 giugno su la Repubblica, Ilvo Diamanti ha scritto qualcosa di profondo e fine, che il sindaco probabilmente ha letto: «Non prometta di smuovere le montagne, né di volare insieme oltre l’orizzonte. E non ci faccia sognare. Gli scettici, come me, oggi, si accontentano di molto meno. Ci basta non provare disgusto a ogni risveglio».

E’come se Veltroni avesse inteso il messaggio e infatti prima di andare a Torino ha detto: «Questo non è il momento dei sogni ma delle risposte concrete». In fondo è qui la novità che oggi si chiede al politico: che smetta l’abitudine ad affastellare una gran quantità di parole promettenti ma ingannevoli; che tagli le ali ai sogni che non hanno rapporto con i fatti e la realtà. Che sogni con serietà, semmai, alla maniera di Martin Luther King: per dire il mondo che non c’è ancora ma che s’impone, e non il mondo che gli servirà da trono di cartapesta o da strumento d’una carriera. Questo discernere fra sogni si chiede al politico, e non perché la nostra epoca si sia fatta cinica ma forse perché si è fatta più desiderosa di verità. È aperta al sogno se esso migliora la realtà rendendone manifeste le incongruenze, lo respinge se la realtà è del tutto spenta dal sogno. Poiché ci sono due modi di sognare, come ci sono due diverse utopie. C’è il sogno che fugge dalla realtà, troppo disgustosa o troppo costrittiva, e poco si preoccupa - se si preoccupa - di vincoli come lo spazio, il tempo, i costi.

E c’è il sogno profetico, che osserva la realtà con spietata acutezza e la scorge più chiara dietro le apparenze. Questo secondo sogno non ignora il reale (è il caso dell’Unione europea) ma lo disvela denunciandone la menzogna e l’errore.

I tempi che abbiamo alle spalle sono stati colmi del primo sogno, e assai poveri del secondo. Sono stati colmi di sogni che in realtà erano illusioni, autoinganni. L’Italia degli Anni Novanta è stata immersa in simile chimera - la chimera di un Mondo Nuovo e Pulito, nato dai miasmi della Prima Repubblica - e il più grande venditore di sogni speciosi è stato Silvio Berlusconi, già due volte presidente del Consiglio oberato da un ben poco pulito conflitto d’interessi. Le immagini redentrici che proponeva erano rosee e azzurre, mimetizzate com’erano con la pubblicità televisiva e gli spettacoli di Mediaset. L’Italia veniva descritta come un’impresa o una squadra di calcio: relativamente facile da maneggiare, tutta compatta dietro il leader, e governata senza opposizione perché i consigli di amministrazione non vivono, come in democrazia, all’ombra di un’alternanza già pronta. Nell’azzurro irreale di quel paesaggio non si sarebbero pagate più tasse, tutti avrebbero vinto chissà quale campionato e al tempo stesso avrebbero ottenuto servizi pubblici molto più eccellenti che in passato: il gelato caldo era a portata di mano, e non c’è da stupirsi se poi s’è diffuso il disgusto (perché quando il gelato si scalda che resta del gelato?).

Sogni di questo tipo sono proposti da chi manipola l’incanto e la seduzione. Da chi vive nell’immaginario - sociale o politico - dimenticando quel che Malebranche e Pascal dicono dell’immaginazione: che è fonte di follie, e in particolare di quella follia che si coltiva nel chiuso delle pareti domestiche (la folle du logis, la folle dell’appartamento: così Malebranche chiama l’immaginazione, e così viene chiamata la televisione dei nostri tempi dai saggisti Jean-Louis Missika e Dominique Wolton). Allo stesso modo, è stato sogno la grande offensiva di Bush contro il terrorismo, presentata come esportazione facile della democrazia e lotta interminabile («di più generazioni») del Bene contro il Male: un sogno naufragato in Iraq, in Afghanistan, a Gaza. Un sogno che non ha dato i risultati che prometteva - la sicurezza - per il semplice fatto che probabilmente era l’esatto contrario che si voleva ottenere: quell’affannosa insicurezza e quella paura che facilitano il comando sugli uomini. Anche Ségolène Royal ha a suo modo sognato: impedendo al socialismo francese di rinnovarsi veramente, la candidata sembrava convinta che l’elettore avrebbe visto del nuovo e del vero nell’apparizione di una donna travestita da seducente Giovanna d’Arco. Sogni simili cominciano con l’esultanza e finiscono col secernere prima malcontento, poi disillusione, infine cinismo. Già è accaduto con le utopie del secolo scorso: dei sogni non era restato che un potere fondato sulla paura. Il cinismo non supera questo tipo di sogno ma ne è la perversione. «Facci sognare!»: dice il cinico post utopico fantasticando la conquista d’una banca, e di fatto continua a dimenticare che la politica ha doveri precisi, quando propone un sogno: deve tenere la parola, deve avere il coraggio di spiegare il prezzo delle cose, deve pensare il bene comune e non il bene di un gruppo o una classe. La politica deve liberarsi dal sonno dogmatico che consiste nell’agire senza rapporto con l’esperienza. Deve preoccuparsi della solvibilità, che è la capacità di pagare il debito che si contrae.

Ma la politica è anche proposta di sogni che valgono, che durano, che non si limitano a fotografare la realtà dell’istante o la realtà di ieri. Fu sogno veridico quando Martin Luther King spiegò come fosse possibile, e necessaria perché la società non si frantumasse, una convivenza civile fra neri e bianchi d’America. Infatti disse: «I have a dream now», non «ho un sogno domani».

Introdurre il principio di realtà lì dove non regna che l’illusione è il modo per salvare l’immaginazione non insidiata da follia e dunque l’orizzonte di cui abbiamo pur sempre bisogno. L’esperienza di Martin Luther King mostra che scetticismo e carpe diem non sono le sole soluzioni, e che anch’essi vanno giudicati con diffidenza quando dal privato si passa alla politica. Lo scettico disilluso fatica a divenire vero sognatore a occhi aperti, dunque profeta che descrive i mali e propone il farmaco per curarli. Fatica a riconoscere la capacità che a volte solo il sognatore possiede, e che raramente è segno distintivo del cosiddetto pragmatico: la capacità di guardare lontano, di pensare la propria generazione e anche le prossime, di vedere soprattutto il falso e l’illusorio che indossa le vesti della realtà stessa. È falsa realtà lo Stato nazione, è illusione e follia casalinga la sua piena e assoluta sovranità.

Neppure la potenza americana è completamente sovrana, in grado di governare da sola il proprio destino e di influenzare da sola il mondo. È invece sogno realistico il progetto di un’Europa unita, oggi spesso descritta come utopia votata a fallire come altre utopie. In realtà è l’unica utopia che abbia un rapporto col vero, perché nasce non da una fuga ma da una scoperta della realtà. Così come preparare un futuro abitabile dai nostri figli e nipoti è l’unica utopia realistica, essendo a portata di mano. Abbandonare questi sogni è vero cinismo, disillusione, ossia prigionia nell’illusione di ieri.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Gennaio 28, 2008, 05:27:20 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 15, 2007, 12:51:57 pm »

15/7/2007
 
Il miasma di Weimar
 
BARBARA SPINELLI

 
Difficile dire come mai quel che ultimamente vediamo sui telegiornali pubblici e privati non ci impressioni più di tanto. Accade ogni sera, ed è ormai pane quotidiano della politica, dell'informazione.

Il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, gesticola su un pulpito nel mezzo d'una piazza e dichiara morto il governo definendolo illegittimo, figlio di brogli, erede di criminose ideologie defunte. Fa un comizio dopo l'altro davanti a folle enormi che lo osannano, come se fossimo nel cuore infiammato di una campagna elettorale. Probabilmente l'evento non ci impressiona perché siamo abituati al controsenso eretto a sistema. Perché la cultura dell'instabilità che avevamo riguardo a inflazione e moneta s'è trasferita nella politica. Perché la storia a noi dice poco, e le instabilità nostre non ci ricordano instabilità - come quella di Weimar - che altrove rimangono un’ossessione.

Se fossimo visitatori stranieri, quel che succede ci riempirebbe di stupore, d'incredulità. Infatti non siamo in mezzo a una competizione elettorale, il Parlamento non è sciolto, il governo sta governando a fatica ma governa. Berlusconi è solo, a gesticolare sui podi di Napoli o Lucca. Non ha rivali, come usa nelle campagne elettorali: oggi per i rivali è tempo di governo, non di comizi e conquista del potere. Lo straniero avrebbe non poche ragioni per domandarsi se per caso l'Italia non stia deragliando. Se non stia scostandosi da quel principio essenziale della ragione che è il principio di non contraddizione. Non si può al tempo stesso dire che l'uomo è animale bipede e il contrario: «niente simultaneamente può essere e non essere», insegna Aristotele.

Invece da noi no. C'è chi governa da oltre un anno e c'è chi fa finta che no, e agisce come se al comando non ci fossero che ombre usurpatrici o immaginarie. È menzogna illusionista, ma Berlusconi ha il talento di trasformare le menzogne in verità condivise dai più. Con tale dote suscita poteri opposti a quelli legali sino a farli apparire e renderli reali: poteri delle piazze, dei sondaggi, dei media, di corpi separati dallo Stato appunto come a Weimar. Per capire come fa, bisogna mettersi nelle vesti dell'osservatore straniero - condividere la sua capacità di stupirsi, d'interrogarsi - e cercare di penetrare lo speciale potere di persuasione esercitato dal leader dell'opposizione.

È un potere ben conosciuto da chi ha studiato la potenza delle masse, della pubblicità, della propaganda. Già nel 1895, quando scrisse la Psicologia delle folle, Gustave Le Bon - medico di formazione - indicò i tre ingredienti del fascino sprigionato dal meneur des foules, dal trascinatore di folle: l'affermazione che non tollera confutazioni anche se falsa; la ripetizione ininterrotta dell'affermazione; il contagio. Tutti ingredienti presenti nell'agire di Berlusconi, che per prosperare non possono fare a meno di una permanente campagna elettorale, fondata su un vuoto o un passaggio di poteri ingannevoli. Dice Le Bon: i trascinatori «tendono a rimpiazzare progressivamente i poteri pubblici a misura che questi sono messi in discussione e s'indeboliscono». I poteri pubblici non sono solo indeboliti: Berlusconi li dà per morti.

Ma il controsenso non nasce solo dalla discordanza fra governo e conquista del potere. Anche se fossimo in campagna elettorale, l'osservatore straniero si stupirebbe parecchio. Innanzitutto per la violenza, inaudita, che emana dalle folle aizzate (venerdì, a Napoli, Berlusconi ha incitato ad agire un «esercito delle libertà»). Poi per offese che altrove son tabù. Se la folla urla oscenità contro Prodi, Berlusconi non la frena ma la sprona: «Siete lievemente rozzi ma efficaci». Come in Elias Canetti, la ferocia distruttiva degenera in muta animale, se lusingata.

Le Bon spiega come il trascinatore sia a sua volta un trascinato: può esserlo da un'idea fissa e da dottrine nazionaliste, socialiste, o da entrambi. Nel caso di Berlusconi accade l'inedito: la folla, solitamente non mossa da interesse privato (è il singolo ad avere interessi personali) innalza la rivendicazione particolare a interesse collettivo. Nella Psicologia delle folle questa possibilità è contemplata: il capopopolo può essere motivato da privati interessi.

La piazza che un tempo era cruciale per l'ipnotizzatore delle masse è oggi la televisione, oltre alla stampa. Anche su di loro, dunque, s'esercita la triplice potenza dell'affermazione, della ripetizione, del contagio. Anch'esse scambiano per verità l'immagine incantatoria d'una competizione elettorale incessante, d'un governo inesistente, comportandosi spesso come poteri che dall'esterno indeboliscono l'autorità pubblica. Più di un anno è passato dalle legislative, e i notiziari tv non son cambiati. In teoria c'è differenza tra Rai e reti private, di Berlusconi. In realtà, il leader di mercato è tuttora Mediaset e Mediaset dà lo standard, come se non ci fosse stata alternanza: in televisione come in altri corpi dello Stato il governo è di Prodi ma il potere resta di Berlusconi (non pochi suoi uomini d'altronde sono oggi consiglieri ministeriali). Se il governo passa una legge con il voto di un senatore a vita, la televisione lo presenta come patologia (inutile ricordare che anche Berlusconi s'avvalse dei senatori non eletti: il 18 maggio '94 il suo governo ottenne la fiducia per un solo voto, grazie ai senatori a vita Agnelli, Cossiga, Leone).

Vorremmo citare il Tg1, e in particolare il notiziario di venerdì sul voto al Senato della riforma della giustizia. La cosiddetta pratica del panino resta immutata: il tg apre con dichiarazioni di Castelli della Lega, di Fini e Matteoli di An, di Schifani di Forza Italia (12,47 minuti). Seguono Finocchiaro, Salvi e Mastella, della maggioranza (38 secondi). Chiude il comizio di Berlusconi a Lucca (1 minuto). È la normalità, non un'eccezione: la Rai si ritiene obbligata a offrire lo stesso prodotto del concorrente. Obbligata da chi? Da un istinto fortemente legato al contagio. Nulla è più contagioso della menzogna e dell'immagine chimerica, conclude Le Bon: «Le folle non hanno mai sete di verità. Deificano l'errore. Chiunque le disillude tende a divenire loro vittima».

Il contagio per definizione trasmette l'infezione a tutti, compresi i sani e la città intera: infetta l'opposizione e i suoi tifosi, ma anche sindacati e esponenti della maggioranza. Esponenti d'estrema sinistra che impediscono al governo di decidere. Esponenti di centro che prospettano - come Rutelli - coalizioni alternative senza dire che qualsiasi alternativa, per necessità numerica, includerà i berlusconiani. È l'imperio del miasma, che nella Grecia antica è una misteriosa esalazione che s'espande a causa d'una colpa o un male banalizzato. Il male è quell'interesse personale trasfigurato in interesse collettivo, unito alla convinzione che il governo legale abbia tradito la nazione con pugnalate alla schiena e di conseguenza non sia legittimo.

Esattamente come a Weimar sono tanti a esserne contaminati, nonostante l'oggi non sia mai identico a ieri. Ma il presente può somigliargli, anche se i colpevoli non sono quelli evocati da Ostellino sul Corriere di ieri. Non furono i socialdemocratici a sovvertire Weimar ma i comunisti e i corpi separati (esercito, Freikorps). Oggi come allora, comunisti e destre rivoluzionarie sono di fatto alleate, prigioniere del medesimo miasma. A Weimar l'alleanza fu evidente. A partire dal '28 i comunisti seguono Stalin, scelgono i socialdemocratici come nemico primario, e nonostante cronici scontri con milizie hitleriane concordano azioni eversive con i nazional-socialisti: referendum contro il governo socialdemocratico in Prussia (1931); comuni mozioni di censura (1932 contro von Papen); sciopero di trasporti e picchettaggi congiunti (autunno '32); mozione comunista, appoggiata da Hitler, contro il rilancio economico di von Papen (dicembre '32); mozione che scioglie il Parlamento nel '32.

L'abitudine al controsenso minaccia anche il rimedio alla distruttività delle folle, che Le Bon individua nell'esperienza. Ma l'esperienza agisce assai lentamente: «Solo se vien fatta su larga scala e ripetutamente». Non ne basta una, come credeva Montanelli, e sovente l'esperienza d'una generazione non vale per le successive. Non basta sapere che Berlusconi ha esorbitanti conflitti d'interesse ed è stato indagato più volte, se c'è miasma e il privato interesse viene deificato. Se c'è miasma Berlusconi appare come vittima immacolata, anche se assolta con formule dubitative e colpevole di numerosi reati prescritti. Effetto del miasma è che non se ne tiene conto. Che i fatti vengono sottratti alla vista, come scrive Marco Travaglio. L'impunità è quel che consente alla folla di inferocirsi senza rischiar nulla, osserva Le Bon. Mimetizzandosi con essa, Berlusconi molto freddamente ne profitta.

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« Risposta #2 inserito:: Novembre 18, 2007, 06:34:45 pm »

18/11/2007 (8:13) - L'INCHIESTA

Le nuove piaghe della Chiesa

Il "dopo Ruini" fa i conti con la secolarizzazione e con una democrazia malata

BARBARA SPINELLI


Questa domenica, in un rito celebrato a Novara, sarà proclamato beato Antonio Rosmini, uomo della Chiesa e del Risorgimento, filosofo cristiano e laico convinto, autore di un libro che nel 1849 fu messo all’indice perché indicava le Cinque Piaghe della Santa Chiesa e denunciava con dure parole l’immistione tra potere civile e religioso. Dicono che seppe della condanna mentre scriveva il Commento al Vangelo di Giovanni, e la notizia non lo turbò. Appena un anno prima, Pio IX voleva nominarlo segretario di Stato.

«Rimase fermo al suo posto, nel testo non c’è traccia di quel che gli successe», mi dice Bruno Forte, il teologo e arcivescovo di Chieti che una volta ha detto di sé: «Sono un mendicante del cielo, come sognava Jacques Maritain. Sono un uomo che ha un orecchio incollato alla terra per coglierne le germinazioni nascoste e un orecchio in ascolto del cielo. Vivo la fatica di coniugare questi due ascolti». L’episodio di Rosmini che ascolta imperturbato la condanna e sembra avere anche lui due modi di ascoltare e di dire ­ uno veemente che accusa, l’altro che umile si ritrae ­ non semplifica l’esplorazione di quel che oggi è la Chiesa italiana.

Ogni organizzazione umana sperimenta i dilemmi, ma nella Chiesa la complexio oppositorum è qualcosa di più: è condizione esistenziale, segreta molla di un durare millenario. Non è semplice, per un laico non vaticanista, raccontare una Chiesa che poche generazioni orsono condannò Rosmini e oggi lo beatifica, che negli stessi anni sospese a divinis padre Curci, fondatore della rivista gesuita Civiltà cattolica, e adesso venera chi prima difese il potere temporale e poi considerò provvidenziale perderlo. Quel che nel magistero è rigido domani può addolcirsi, quel che è ai margini diverrà forse centrale. È poi c’è, negli uomini di Chiesa, la questione eterna della parresia: fin dove avventurarsi, nell’esprimere liberamente ciò in cui si crede? Come coniugare due imperativi santi come verità e obbedienza? Per questo, nell’inchiesta breve cui mi accingo, non citerò tutti i rappresentanti della gerarchia con cui ho parlato. Ho preferito ascoltare la loro parola libera ­ la parresia ­ rispettando l’anonimato. Inoltre restringerò l’esplorazione, perché si può dire poco in qualche articolo.

Parlerò dunque di come viene percepita, nella Chiesa, la crisi di un cattolicesimo che è alle prese, tuttora, con la scomparsa della Dc.
Un cammino difficilissimo è cominciato da allora, complicato da una società ormai multireligiosa, multiculturale. La Chiesa che ho incontrato alla vigilia della beatificazione di Rosmini è incerta, in piena transizione. Parla molto, ma è anche afasica. Impossibile afferrarla come monolito: a dispetto degli sforzi compiuti da due Pontefici per renderla compatta, non c’è una Chiesa, una gerarchia, una voce che la rispecchi. Neppure sull’etica c’è un’opinione unica, nonostante la morale (i valori non negoziabili) sia vissuta come bussola dei rapporti con lo Stato nell’epoca intranquilla del dopo-Dc. Soprattutto, non c’è un’unica analisi dell’influenza cattolica sulla politica, e la società. L’unica cosa sicura è lo spazio enorme occupato dal tema della laicità: tutti ne sono tormentati, come non accadeva da decenni. Il fervore con cui se ne discute (per contestare un’ingerenza che si concentra oggi su etica della nascita, della famiglia, della morte, o per negare che di ingerenza si tratti) fa pensare ai torbidi dell’800, che in questi giorni saranno rievocati.

La laicità, nessuno degli uomini di Chiesa sa dirmi quel che ne pensa, senza aggiungere aggettivi che la stemperano fino a invalidarla: la laicità deve esser sana, si precisa, citando un aggettivo che fu di Pio XII. Comunque non deve essere laicismo, questo male impetuosamente indicato ma di rado spiegato. Eppure la distinzione è semplice: a differenza della laicità, il laicismo non è un metodo ma un’ideologia, che santifica lo Stato e nega che il cristianesimo abbia dimensioni sociali oltre che private. Ma non è il laicismo che spiace alle gerarchie, bensì il metodo rigoroso nel separare Stato e Chiesa. Indispone l’indifferenza e la non confessionalità dello Stato democratico, tacciate ambedue di relativismo. In fondo, i critici della laicità hanno nostalgia di uno Stato etico, che somiglia pochissimo allo Stato minimo cui anelava Rosmini. Non stupisce l’alleanza che vede uniti in questa sete ideologica vescovi conservatori e teo-con di destra o sinistra.

Son pochi, coloro che sanno spiegare il versetto di Matteo 22,21: quel «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» che determina il rapporto cristianesimo-Stato nella storia d’Europa. «La formula è in realtà una scatola vuota», mi dice Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale: «perché nessuno può dire cosa si debba dare a Cesare e cosa alla Chiesa». Perché per secoli gli esegeti hanno ritenuto che la distinzione evangelica «implichi la superiorità del versante riservato a Dio (cioè alla Chiesa) su quello riservato a Cesare», scrive in un libro illuminante Giovanni Miccoli (In difesa della Fede - La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Rizzoli). La vera questione irrisolta, spiega Miccoli, è chi abbia «la competenza delle competenze»: chi decida quel che spetta all’uno o all’altro. Bruno Forte preferisce parlare di «senso dello Stato», più che di laicità. Ma neanche questa parola chiarifica. Se la Chiesa antepone la sua verità sul diritto naturale e il bene morale alle leggi del Parlamento, è chiaro che sarà lei a dire come lo Stato deve legiferare su questioni etiche. Inevitabilmente ci sarà ingerenza anziché separazione costituzionale fra Stato e religione.

L’uomo della Chiesa più discusso, nelle conversazioni che ho avuto, è Camillo Ruini: presidente della Conferenza episcopale fino al marzo scorso, ancor oggi presente nella Cei come vicario del Pontefice per la città di Roma. Per alcuni è la persona forte che ha pilotato la Chiesa nel dopo-Dc. Nominato da Giovanni Paolo II, Ruini appare vincente, grazie al peso abnorme che da anni gli attribuiscono i media: ogni suo detto ha l’audience riservata agli statisti. Lui stesso sembra compiacersene. Il 5 novembre, presentando a Milano due suoi libri, ha commentato: «È vero. Sono stato e sono un animale politico». E lo storico Galli della Loggia ha glossato: «La Chiesa ha sempre fatto politica. Non può non fare politica».

Nel mio viaggio nella Chiesa ho avuto un'impressione ben più complessa. La Chiesa ha fatto sempre politica, ma sono molti oggi a esser convinti che la via debba essere un’altra, che di nuovo il magistero sia minacciato da una corruzione non finanziaria ma mentale: che il cattolicesimo farebbe bene a de-politicizzarsi radicalmente, come consigliato dallo studioso Jan Assmann che denuncia un’epoca dove i monoteismi non son più oppio ma dinamite dei popoli (Non avrai altro Dio, Mulino). Sono molti a desiderare che i sacerdoti parlino non politicamente, ma profeticamente. La Chiesa non si identifica oggi con Ruini: né quella sacerdotale, né quella dei fedeli. Chi non condivide la politicizzazione il più delle volte tace, ma il dissenso è diffuso (l’80 per cento dei vescovi disapprova il cardinale). «I costi pastorali della politica di Ruini sono stati enormi»: questa la frase ricorrente che sento. Alcuni certo lo difendono. Altri ricordano che sono i due ultimi Papi ad aver voluto l'arroccamento istituzionale. I più sperano nell’uscita dalla Cei del cardinale. Con speranza guardano a Bagnasco, che oggi guida la Cei: l’arcivescovo di Genova non osteggia il predecessore ma sta distanziandosi dalla politica. Si occupa più di attività pastorale, con il consenso di tanti.

Tutto sta a vedere cosa sia vittoria e cosa sconfitta, per la Chiesa. E se il potere di Ruini generi autorevolezza. Il cardinale è convinto di sì, lo ha detto con qualche trionfalismo a Aldo Cazzullo, il 4 novembre sul Corriere della Sera. Che la sua strategia sia vincente sarebbe attestato dal referendum del 2005 sulla procreazione artificiale, quando prescrisse l’astensione perché mancasse il quorum, e vinse. Questo spiega il suo odierno appagamento: «Il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto. Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo (...) Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" (...) tutto fila liscio. Nel caso contrario (...) riprendono vigore le croniche accuse di interventismo». Colpito, l’intervistatore constata la «riconquista quasi gramsciana dell’egemonia cattolica sulla società».

Alla Compagnia di Gesù simili appagamenti sono sgraditi: ottenere il fallimento del referendum non fu vera vittoria, proprio perché fece credere nella perfetta coincidenza tra potere e autorevolezza. L’occasione non fu usata per dire pensieri forti, ma per sommare, furbescamente, l’astensionismo cattolico con il vasto astensionismo non confessionale. Alla rivista Il Regno raccolgo opinioni simili: la riconquista della Chiesa fu autoinganno, la quota di astensioni mobilitata da Ruini non superò il 10-12 per cento. Qui è uno dei costi della Chiesa politicizzata: qui una sua piaga. È la piaga di un magistero che perde autorità, proprio mentre accumula potere. Che si trasforma in lobby, scriveva lo storico Pietro Scoppola. Che si getta nella politica alla stregua d’un partito: mortale come tutti i partiti, episodicamente cruciale come tutti i partiti, dipendente dall’audience come tutti i partiti. Partecipe a pieno titolo della democrazia malata che pretende di combattere.

(1-continua)
« Ultima modifica: Dicembre 06, 2007, 11:58:56 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 22, 2007, 03:32:37 pm »

22/11/2007

La Chiesa e le tentazioni del dopo-Dc
 
Unità politica o ispirazione etica

La fermezza di Benedetto XVI

BARBARA SPINELLI


Nonostante le numerose critiche che le vengono rivolte, la Chiesa in Italia appare a un primo sguardo sicura di sé, animata da certezze intense su questioni che per molti non sono così certe. Appariva tale anche nei ventisette anni trascorsi sotto la guida di Giovanni Paolo II, ma Benedetto XVI trasmette un'immagine di sé ancora più ferma, nitida. È la diligente impalcatura dottrinale che crea quest'impressione di saldezza: i valori etici su cui il magistero non vuol negoziare sembrano moltiplicarsi, irrigidirsi. Dedito soprattutto a insegnare, concentrato sulla teologia, il Papa tedesco ha qualcosa di dimesso e tanto più granitico, imperturbato.

Sul punto più critico della laicità - quello dei comportamenti morali che secondo la Chiesa appartengono alla sfera dei diritti naturali e divini, non negoziabili perché su essi lo Stato non può legiferare - le opinioni dei due Pontefici coincidono. Ma Giovanni Paolo II aveva un modo speciale di accordare sapienza e «dotta ignoranza». Gianfranco Brunelli, direttore della rivista Il Regno, lo evoca così: «Egli aveva una visione politica del papato, fortemente calata nella storia e dunque in grado di modificare e adattare le risposte della Chiesa. C'era in lui la convinzione che il cristianesimo non può fare a meno della dimensione orizzontale e organizzativa, ma che non può perdere - pena smarrire se stesso - la verticalità dell'annuncio e della profezia. Egli non scelse mai univocamente tra istituzione e annuncio, cercò di tenere assieme per così dire i due contrari e questo metodo aperto, meno evidente nel suo successore, più capace di una propria prospettiva teologica, fu benefico per la Chiesa e l'Italia».

Tanta inflessibilità non nasce tuttavia solo da sicurezza, come tutte le inflessibilità. È una forza che impressiona e trascina ma scaturisce da un pessimismo che in Benedetto XVI è profondo, e sul quale più volte viene richiamata la mia attenzione. I miei interlocutori mi parlano di vere angosce (alcuni usano la parola ossessioni) che non riguardano solo l'Italia: angoscia di una possibile uscita del cristianesimo dall'Europa, angoscia di una perdita d'autorità, di una caduta nell'irrilevanza. Il disagio nel rapporto Stato-Chiesa, simultaneo in due paesi anticamente cattolici come Spagna e Italia, dilaterebbe questo stato d'animo. Non sono dimenticabili le parole terribili che il cardinale Ratzinger scrisse per Giovanni Paolo II nel 2005, in occasione della Via Crucis: «Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! (...) Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli!».

È il motivo per cui credo che quello che l'occhio percepisce oggi guardando la Chiesa - l'insistere del Pontefice sulle «confusioni» dello spirito postconciliare, gli arretramenti su questioni controverse come la liturgia e il dialogo ecumenico con le chiese protestanti, le pressioni sullo Stato italiano perché non legiferi su alcune questioni etiche - sia solo una parte della sua verità. L'altra parte è il mal-essere in cui la Chiesa si trova, la fatica di trovare una strada che l'aiuti a distendere i rapporti con la politica, che combini di nuovo il potere con l'autorevolezza, che nel caso italiano trasformi la diaspora del dopo-Dc in un'occasione di ripresa e non di sfiducia.

Da Mani Pulite
Giacché questo è il trauma che affligge gli uomini di Chiesa in Italia. Mani Pulite e la nascita del bipolarismo sono eventi ormai scontati per chi fa politica e la commenta, ma per il mondo ecclesiastico la ferita è attualissima e non rimarginata. La Chiesa è nel mezzo del cammino di guarigione, se ci sarà guarigione, e lo sta percorrendo senza certezze granitiche e con sforzi non subito visibili. Ho potuto constatarlo parlando con chi è ansioso di cercare l'itinerario giusto, e imboccarlo.

Tutto cominciò nei tempi torbidi che l'Italia conobbe prima che apparisse Tangentopoli: tempi torbidi perché la Dc era stata una presenza rassicurante, e stava ora tramontando. Il partito cattolico rappresentava la Chiesa, e questo le dava libertà di movimento e anche una certa indifferenza al ruvido quotidiano della politica. Era una formazione che aveva la giusta dose di attenzione agli interessi ecclesiastici ma che era ben attenta a fissare limiti laici fermi, e al tempo stesso affidabili, prevedibili. Non erano mancati scontri duri, che avevano visto contrapporsi la Chiesa e grandi democristiani come Sturzo o De Gasperi. Ma la complessità del legame oltre a essere una garanzia semplificava l'esistenza ecclesiastica. La crisi venne quando quest'architettura si sfaldò, e fu allora che iniziò il travaglio.

L'appuntamento decisivo avvenne prima che la Dc scomparisse. Era il 1985, e a Loreto si riunì un convegno ecclesiale per discutere il rapporto futuro con la politica in Italia. La Chiesa si divise, e inizialmente non furono i riformatori a vincere. Era un'epoca di personalità forti nelle gerarchie: Anastasio Ballestrero guidava la Conferenza episcopale, Carlo Maria Martini ebbe il compito di presiedere il Convegno, e il primo relatore era Bruno Forte, oggi Arcivescovo di Chieti-Vasto. Viva e diffusa era la consapevolezza che una nuova epoca dovesse aprirsi: l'era della diaspora politica del cattolicesimo italiano, contrassegnata dalla decisione di «non dare più a nessuno deleghe in bianco». Veniva riconosciuto come compito urgente della Chiesa quello di divenire una coscienza vigile in un mondo sempre più complesso, decisa a servire il bene comune ma non più schierata. Questo significava autorizzare la diaspora del cattolicesimo, non puntare più sulla sua unità politica, accettarne la disseminazione in partiti anche contrapposti. Ad unire i cattolici non doveva più essere l'appartenenza partitica, ma l'ispirazione spirituale, etica. Su questa posizione erano profondamente d'accordo moltissimi Vescovi, a cominciare dai cardinali Martini, Ballestrero e Pappalardo, ma in un primo tempo non fu la loro linea che passò.

Erano contrari a essa i nostalgici del rapporto con la Dc che aveva dato tanta sicurezza, è vero, ma nel quale gli innovatori vedevano uno schema ormai imprigionante. Nel discorso che Giovanni Paolo II fece a Loreto sembrò che tra lui e i nostalgici ci fosse un'intesa di fondo, e la cosa non era stupefacente: il Papa aveva vissuto in Polonia le tribolazioni di uno scontro frontale tra potere ecclesiastico e potere politico, che non consentiva diaspore e scelte più spirituali. Tuttavia la sua libertà interiore era grande, e il Pontefice rimeditò i discorsi ascoltati. Dieci anni dopo, al Convegno Ecclesiale di Palermo del 23 Novembre '95, anch'egli prendeva le distanze dal collateralismo che aveva caratterizzato gli anni della Dc, e incoraggiava il formarsi di una diaspora politica del cattolicesimo: «La Chiesa - disse - non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l'una o per l'altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell'autentica democrazia». Era un sì alla diaspora politica, non a una diaspora etica: «Ciò nulla ha a che fare con una "diaspora" culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace. E' più che mai necessario, dunque, educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario, che consenta ai fratelli di fede, pur collocati in diverse formazioni politiche, di dialogare, aiutandosi reciprocamente a operare in lineare coerenza con i comuni valori professati».

Il gioco dei partiti
L'itinerario della nuova vita in diaspora non è concluso, né è scontato il vero rinnovamento. I nostalgici hanno il loro peso e le loro convinzioni, e questo li ha spinti negli anni scorsi ad appoggiare il centro-destra e Berlusconi, pensando di poter suscitare un nuovo referente politico. Il giudizio spesso duro espresso contro Prodi è frutto da queste convinzioni: in particolare quando il capo del centro-sinistra, in nome di un cristianesimo adulto, si pronunciò contro la scelta astensionista della Conferenza episcopale, nel referendum del 2005 sulla procreazione assistita. Il termine impiegato - cristiano adulto - fu biasimato. Ma Prodi non inventava nulla: la parola era stata usata già nel '65, ai tempi del Concilio Vaticano II. La costituzione pastorale Gaudium et Spes parla del «bisogno dei popoli di esercitare la loro libertà in modo più adulto e personale», e prospetta la «testimonianza di una fede viva e adulta, (...) opportunamente formata a riconoscere in maniera lucida le difficoltà e capace di superarle».

La diaspora tuttavia ha le sue insidie, le sue asperità. Prima insidia: la Chiesa può sentirsi invogliata a far politica in prima persona, intervenendo troppo pesantemente sul terreno dell'etica come se questo fosse un terreno che le è esclusivamente riservato. Come se in materia di nascita, morte, famiglia, uso della scienza, fosse lei a decidere quale sia l'interpretazione dell'articolo 7 della Costituzione, e cioè quel che spetta allo Stato e alla Chiesa (come se avesse lei «la competenza delle competenze», scrive lo storico Giovanni Miccoli nel libro In Difesa della Fede). Seconda insidia: il peso condizionante dei mezzi di comunicazione può trasformarsi in macigno, costringendo la Chiesa a mostrarsi sistematicamente molto più compatta e rigida di quel che in effetti è. Terza insidia: la Chiesa può sentirsi invogliata a non cercare una sintesi tra diverse culture, aprendo un dialogo diretto con la società e rivolgendosi prioritariamente ad essa, ma a imboccare la vecchia strada della sintesi ai vertici: tra politici e Chiesa, partiti e Chiesa, Stato e Chiesa. Sarebbe un ricadere nel passato, ma senza più reti di sicurezza. Sarebbe un conquistare potere, non autorità.

(2 - continua)

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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 06, 2007, 11:59:34 am »

6/12/2007 (7:19) - INCHIESTA

Il medioevo globale di Sarko

La sfida del presidente francese

BARBARA SPINELLI
PARIGI


Per ogni paese come per ogni persona esiste un luogo comune che pretende di descriverlo con brevità apodittica. Anche per la Francia ce n'è uno, che non muore: è un paese dove lo Stato è ipertrofico, e i conservatorismi tenaci. È un paese che rifiuta le riforme, schiavo d'illusioni, incapace di calcoli razionali. Negli stereotipi c'è sempre una parte di verità e il linguaggio politico francese lo testimonia: parole come competitività o liberalismo sono maneggiate con orrore, quasi scottassero. Ed è vero che le parole hanno un immenso potere: una rosa non avrebbe più il profumo che ha se smettesse di chiamarsi rosa, e si può capire la riluttanza a dar nomi nuovi al mondo abitato. In realtà i francesi sono riluttanti perché il mondo già è mutato attorno a essi, profondamente.

È da vent'anni che ha cessato di essere la «douce France» che Charles Trenet cantava nel '43. Mitterrand tentò faustianamente d'immobilizzare la bellezza dell'attimo, e nell'81 propose nei propri manifesti elettorali un villaggio col campanile, una nazione «cullata in tenera spensieratezza» come nei versi di Trenet. Era un ennesimo stereotipo, ingannevole come quello che oggi descrive un popolo cui ripugnano le riforme. In parte ripugnano, certo, ma non perché il tempo si sia fermato. Già da anni la Francia non è più dolce ma affaticata dalla competitività, dal lavoro precario, da uno Stato sociale rattrappito. Il profumo della rosa già s'è perso e per questo forse si esita a dirlo. Sarkozy lo dice, questa è la novità. Ma quando promette rivoluzioni non si sa quale paese abbia in mente: se quello degli stereotipi o quello già provato dalle mutazioni. Naturalmente sono molte le riforme che il paese ancora dovrà fare, e il problema oggi è come completare la mutazione senza frammentare ancor più una società trasformatasi da tempo in arcipelago di individui e gruppi litigiosi. Il nuovo presidente vuol rompere, ma non è chiaro se voglia anche ricucire. Chiaro è invece il suo desiderio di esser presente e decisivo su ciascuno dei fronti: uomo forte che negozia a tu per tu con gli scontenti. Può darsi che il metodo funzioni, ma per il momento sembra rafforzare il sempre meno governabile, meno prevedibile arcipelago. Giuliane Malaurie, direttore del Nouvel Observateur, ritiene che quasi tutte le riforme annunciate s'impongano ma che l'approdo sarà duro: «Andiamo verso un apartheid sociale, con gente che sta dentro i propri fortilizi e gente che, minacciosa, s'assiepa fuori e guata con invidia o risentimento chi riesce a ripararsi». È come se questi fortilizi fossero castelli medievali, cui si accede solo se i proprietari si degnano d'azionare il ponte levatoio: «Ci sono insider e outsider, non una società che tiene tutti assieme». Sarkozy ripete che la delinquenza è delinquenza, che è irresponsabile cercare le ragioni sociali del delinquere. Ma non per questo le ragioni vengono meno e una delle ragioni è la vita di outsider: in un paese che da più di due secoli venera la triade libertà-uguaglianza-fraternità è inevitabile che l'escluso chieda di esser riconosciuto come parte della società. C'è anche questa verità nelle periferie violente.

Sarkozy prova di volta in volta a spiegarsi di persona. Ma così facendo è come se dicesse: tra me e voi non c'è nulla. Il nulla è dinamite, mette paura. Quando le società si frantumano succede infatti questo: ogni frammento si concentra sul proprio bottino, vede solo un pezzetto di realtà, non si preoccupa che la società nella sua interezza funzioni e viva. È la metafora dello specchio infranto, spesso illustrata da Eugenio Scalfari. Lo specchio italiano è infranto ma anche quello francese - lo si vede negli ultimi tumulti - e perversamente apparenta insider a outsider. Ambedue sembrano giunti alla conclusione che il bene comune sia un'idea superata: per l'insider un fastidio, per l'outsider un inganno. Ambedue reagiscono con bellicose posture. L'indagine sulle origini del male, la medicazione preventiva: sono attività giudicate inani, quando svanisce la società e al suo posto s'insedia l'ircocervo in cui s'accoppiano società naturale e società manageriale. Nel nuovo organismo tutte le caste anelano a un riparo e una sola è offerta in olocausto: la casta dei politici. A che pro una politica che curi le radici? Meglio, quando si è alle prese con le banlieues, strappare il dente piuttosto che curarlo, sguinzagliare poliziotti piuttosto che riconoscere un disastro antico e smettere di considerarlo naturale. In realtà è un disastro in buona parte fabbricato: dall'incuria, dalla scomparsa della polizia di prossimità, dalla rinuncia a scommettere sulle associazioni di quartiere. «I facinorosi in periferia non hanno bisogno di poliziotti che giochino a pallone coi ragazzi», ha detto Sarkozy. Un buon senso spicciolo cui la sinistra risponde con istupidita, muta desolazione. D'altronde i soldi non ci sono: «Lo Stato è in fallimento», dice il premier Fillon. Dunque Sarkozy s'espone, garantisce personalmente che lo Stato c'è: lo Stato è la polizia e sopra la polizia c'è lui, detto l'iper-presidente. Gli esperti in violenza urbana sostengono che proprio questo accentua le tensioni: quest'assenza di intermediari tra outsider e forze d'ordine. Un rapporto della Corte dei Conti denuncia il «fallimento della politica urbana negli ultimi cinque anni», constata che i crediti promessi non arrivano, che lo Stato è «assente, incostante».

Il quarto rapporto dell'Osservatorio delle zone urbane sensibili (14 novembre) constata che «ancora non si è riusciti a reintrodurre la Repubblica nei quartieri e i quartieri nella Repubblica», come promesso nella legge del 2003. Ben poco hanno insegnato, se mai hanno insegnato qualcosa, i tumulti del 2005. Lo slogan favorito è tolleranza zero: crimine e disordine sono banditi dal centro-città. Ma l'isola quieta è possibile perché l'illegalità è spostata più in là, non più visibile all'insider. Dentro c'è tolleranza zero, fuori tolleranza 100. Dentro si vive in concorrenza, si apprende il precariato. Fuori s'apposta chi ha talmente interiorizzato i valori di mobilità da considerare l'immobilità una dannazione, un declassamento. Lo stesso Sarkozy prefigura, nella sua politica del corpo, la società che si privatizza sminuzzandosi. Il massimo rappresentante della Repubblica diventa il deputato di una parte: quella che rifiuta l'immobilità, e dunque sprezza chi all'immobilità è condannato. Un'immagine del 6 novembre scorso illustra questo mutato rapporto fra cittadini e Stato, che il Presidente incarna: Sarkozy visita la cittadina portuale di Guilvinec, per incontrare i pescatori in sciopero. Da una finestra qualcuno gli lancia un insulto pesante. Il capo dello Stato si blocca, s'inarca, e dando del tu al provocatore gli risponde per le rime: «Vuoi scender giù, che ti faccio vedere?». Ecco, lo Stato si comporta come un qualsiasi individuo, che a forza di gomiti e grida si arma della legge del più forte. In società siffatte non c'è più rappresentanza sopra le parti, che unifichi i contrasti. Il capo dello Stato si fa parziale, proteiforme: diventa un suscitatore di tensioni, di invidie.

L'episodio di Guilvinec impressiona perché è la copia esatta di Zidane che replica all'insulto di Materazzi con un primordiale colpo di testa: con un dente strappato, non medicato. Il sociologo Emmanuel Todd evoca l'Italia: «Ai tempi di Berlusconi gli italiani avevano almeno il Presidente Ciampi: era lui a incarnare la dimensione simbolica dello Stato, della nazione». Sarkozy non ha un Ciampi sopra di sé: il suo contatto diretto con il popolo è rude e non necessariamente segno di forza. Non è neppure autentica forza l'apertura alle sinistre. Guillaume Malaurie mi dice che le sinistre sono non solo afasiche ma stanno dimostrando una triste verità: «Non hanno nulla da dire, quando lo Stato è senza soldi». È convinto che esistano ottime persone, tra chi è passato a Sarkozy. Un esempio è Martin Hirsch, ex presidente della comunità Emmaus, alto commissario per la solidarietà: «Dovevo aspettare che vincessero le sinistre per venire in aiuto ai poveri?», ha chiesto dopo la nomina. Resta la natura disgregatrice dell'apertura di Sarkozy: «Il suo è un comportamento predatorio, non edificatore. Deruba personalità, non fa nascere nuove sintesi». La sinistra, da parte sua, non sa riaccendersi e anch'essa non vede che schegge di realtà: «Credeva che i francesi volessero tempo libero al posto di potere d'acquisto e si è sbagliata - continua Malaurie -. Crede che Sarkozy sia Thatcher e non scorge la sua abilità negoziatrice e la sua duplice vocazione liberista e nazional-populista». Sono due vocazioni presenti nel governo, e nessuna ancora prevale. La vocazione liberale è impersonata da consiglieri come Isabelle Mignon e il segretario generale dell'Eliseo Claude Guéant. Ma non meno influente è Henri Guaino, protezionista e anti-europeo. Guaino ama citare il giudizio di Stalin sul Vaticano, quando sente parlare dei vincoli di Bruxelles: «L'Europa? Quante divisioni ha?». Nelle periferie già si vede, questa vita francese così simile alla società naturale di Hobbes: «vita solitaria, povera, incattivita, brutale e breve». Sembra di stare a Gaza: stessi colori bluastri nei giorni delle sommosse, di fiamme e di sangue. Stessi volti su cui è stampato l'odio per uno Stato non più ritenuto legittimo.

I facinorosi son pochi ma sono i soli che «parlano»: coi fucili. Sparano sulla polizia, quindi sullo Stato. Incendiano di preferenza le biblioteche. La biblioteca Louis-Jouvet è stata distrutta nella notte fra il 26 e il 27 novembre, a Villiers-le-Bel, e aveva questo di particolare: l'iscrizione annua costava 2 euro, l'accesso era gratuito ai giovani fino ai 18 anni. Bruciare biblioteche è un'automutilazione, scrive il reporter Tonino Serafini su Libération. C'è chi in banlieue si suicida così. Non sono terroristi e neppure stranieri. I kamikaze sono in casa, ma è come se stessero fuori perché la casa comune non c'è più. La Questione Sociale, data per morta, può rinascere anche così.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 09, 2007, 04:51:37 pm »

9/12/2007
 
Ragioni e miserie della sinistra
 
BARBARA SPINELLI

 
Si può capire la passione che affligge le sinistre radicali, impegnate a governare con Prodi da un anno e mezzo. Dentro di sé sentono accumularsi delusione, scoraggiamento, e un senso d’inutilità che s’espande e le umilia. Fausto Bertinotti ha dato voce a questo stato d’animo nell’intervista a Massimo Giannini su la Repubblica del 4 dicembre, e per questo suo dire è stato criticato. Curando l’interesse d’un partito invece di stare sopra le parti come s’addice a chi presiede la Camera, ha dato ragione all’ultimo rapporto del Censis: il senso dello Stato e delle istituzioni si sta disfacendo in Italia, al suo posto abbiamo poltiglia, mucillagine, e i miasmi contaminano anche i politici. Ma questa sregolatezza istituzionale, questa temeraria decisione di esporsi come leader di Rifondazione anziché obbedire alla laica neutralità della funzione hanno una sostanza che non si può ignorare.

In ogni passione c’è un patire, e le sinistre radicali che da ieri sono riunite a Roma per creare il nuovo partito Sinistra-L’arcobaleno soffrono più di altri gli squarci inferti alla coalizione ogni giorno. Hanno l’impressione sempre più intensa di servire solo come numeri per fare maggioranza, e nessun individuo né gruppo può alla lunga credere in se stesso se viene adoperato come mezzo, peggio come numero. Hanno l’impressione di non contare affatto per quel che sono, che fanno. Hanno l’impressione che esista un estremismo del centro, nell’Unione, che è il vero affossatore di Prodi e che però viene lusingato. Ha cominciato il direttore di Liberazione Piero Sansonetti, l’1 novembre in un editoriale, a porre l’eretica domanda: «Perché restiamo in questo governo?». Sono tante le cose - e non solo l’equilibrio dei conti - che le sinistre radicali son chiamate ad accettare affinché il governo non perda Mastella o Di Pietro, Dini o la Binetti. Sono troppe, se si pensa che Veltroni, leader del Partito democratico, continua a tacere sulle alleanze future. Che il governo non ha neppure osato misure simboliche come i Dico o la chiusura della base a Vicenza. Che il Senato venerdì ha vacillato non a causa delle sinistre ma perché Paola Binetti s’è rifiutata di introdurre - nella legge sulla sicurezza - una normativa che penalizzi, come imposto dall’Unione europea, comportamenti razzisti e omofobi.

Dicono che la signora Binetti abbia opposto il suo No perché voleva testimoniare la propria fede. Perché non ha ammesso che la «sua coscienza venisse strangolata». Sono parole forti, rumorose, e imprecise. Opporsi a una norma che vieta la discriminazione dei diversi testimonia di che, sempre che il testimoniare cristiano abbia il senso classico? Accettarla, strangola in che modo una coscienza fedele a Gesù? Ci sono gesti centristi che a forza d’esagerare son divenuti banali, e accolti come un nobile credo che nessuno tuttavia discerne: anche quando nascondono opportunistiche manovre. Che questo indigni la sinistra radicale non sorprende. Indigna chiunque sappia che cos’è una coscienza strangolata e, nel cristianesimo, un testimone-martire.

C’è un passaggio nell’intervista di Bertinotti che chiarisce forse alcune cose. È quando dice che per far prosperare la sinistra radicale «devi vivere nello spazio grande e nel tempo lungo». Non ti puoi aggrappare a piccolezze, e se intuisci un incendio non puoi neppure rispettare le servitù della carica che ricopri. Lo spazio grande cui pensa Bertinotti è quello del mondo, del caos e delle giustizie che lo assediano. Ed è lo spazio dell’Europa, dove si sta rafforzando una sinistra refrattaria al declino dello Stato sociale. È probabile, se si guarda a tali spazi e tempi, che il calcolo del presidente della Camera non sia vano. La sinistra in cui crede è data per agonizzante, ma nei paesi travagliati da mondializzazione e precariato non pare avere il futuro alle spalle: pare averlo davanti a sé. Il pessimismo sociale e esistenziale che spesso la caratterizza - sulle ingiustizie inflitte agli esclusi, sull’internazionalizzazione senza regole, sul clima (l’Italia è il quinto inquinatore mondiale, prima di Russia e Usa) - ha una nuova plausibilità. Questa sinistra sta crescendo in Germania, in Francia. Il nuovo partito fondato nel giugno scorso a Berlino (Die Linke, La Sinistra, fonde gli ex comunisti dell’Est e i dissidenti socialdemocratici di Oskar Lafontaine) sta raccogliendo inaspettati successi. È forza di governo a Schwerin, Magdeburg, Berlino. Ha avuto risultati eccellenti a Brema. Con il 20 per cento nei sondaggi, oggi è al terzo posto dopo democristiani e socialdemocratici.

Anche in Francia la sinistra radicale è in crescita, dopo la sconfitta di Ségolène Royal alle presidenziali. Olivier Besancenot, il giovane impiegato postale che guida la Lega comunista rivoluzionaria, progetta una fusione alla tedesca e 40 francesi su cento chiedono in un sondaggio che abbia «più influenza nella politica nazionale»: la stessa cifra di Ségolène.

Quel che unisce tali forze è la Questione Sociale, che sembrava un relitto dell’Ottocento-Novecento e invece fa di nuovo apparizione. Le sfide non sono quelle di ieri, i mezzi toccherà reinventarli, ma le iniquità non sono meno dolorose: lavoro precario, spese sanitarie esorbitanti per i deboli, impoverimento degli anziani, stragi di lavoratori in fabbriche obsolete come quella avvenuta a Torino, prezzi alimentari sempre più alti da quando Cina e India consumano di più, il clima distrugge sul nascere i raccolti, e l’energia si fa rara e costosa. Sono questioni sociali anche queste, sempre che si voglia guardare, dietro poltiglie e mucillagini, le persone come vivono e sperano.

Le sinistre radicali vedono tutto questo, ma senza lucidità su se stesse, sulla necessaria reinvenzione dei mezzi, perfino sui pericoli. Senza intuire che i nuovi dilemmi resteranno anche in Italia irrisolti, se non muteranno dottrine, metodi, e la memoria di quel che la sinistra estrema ha fatto nell’ultimo decennio. Essa ha di fronte a sé una conflittualità ravvivata, è vero, ma l’astrattezza con cui si ripromette di affrontarla ha qualcosa di profondamente autodistruttivo, di ancestralmente miserabilista. È astratto in primo luogo lo sguardo sulle alternative a Prodi: è per evitare l’errore compiuto nel ‘98 che Rifondazione ha deciso di andare al governo nel 2006, e quel che rischia è di ripetere la colpa e di offrire di nuovo l’Italia a Berlusconi. La Questione Sociale magari s’inasprirà: ma ne approfitteranno gli apparati della Cosa Rossa, almeno nell’immediato, non i cittadini. È astratto in secondo luogo perché molte delle cose chieste da questa sinistra sono solo in apparenza giuste: se i soldi vanno tutti a poche categorie molto garantite, nulla resterà per i veri poveri e emarginati. Lafontaine mente, quando proclama che la restaurazione tale e quale dello Stato sociale «è solo questione di buona volontà», e in Italia questo ormai lo si sa. Indagando sui conflitti francesi mi è stato detto che «la sinistra non ha futuro quando lo Stato non ha soldi», e una risposta a questa sfida ancora non esiste.

È infine astratto lo sguardo sulla propria pratica di governo: non è vero che le sinistre radicali non abbiano ottenuto nulla. Il poco ottenuto, esse hanno tendenza a non valutarlo, a non esserne mai fiere. Non rendono giustizia a se stesse, pensando che il non ottenuto pesi infinitamente di più. Il fatto è che non volevano solo il ritiro dall’Iraq, ma anche il rientro dall’Afghanistan e la chiusura della base di Vicenza. Non volevano solo l’inizio di ridistribuzione e le prime misure per i precari, che Prodi ha assicurato. Volevano tutto e subito, come d’altronde vogliono tutto e subito anche certi riformisti. Il popolo di sinistra non avrebbe strappato queste misure se al governo non avesse avuto propri rappresentanti. Ma poco importa: chi nell’azione è pessimista vede solo l’impopolarità, lo scacco. Non a caso Bertinotti tace i progressi, non dice che senza le sue truppe avremmo più razzismo e meno senso della misura con gli immigrati. Non dice che se mai vi sarà un'indagine parlamentare sulla «macelleria messicana» del G-8 di Genova, lo si dovrà alla presenza nel governo di Rifondazione e dei comunisti.

Ma soprattutto, Bertinotti e Sansonetti non dicono che il successo dei radicali di sinistra, in Germania e Francia, è dovuto al fatto che non governano, al loro essere tribuni che trascinano ma non possono fare vere promesse, perché promettere vuol dire agire, e agire si può solo assumendosi l’onere del governare. La sinistra alternativa in Italia non è l’ultima e la più sfortunata in Europa, ma la più coraggiosa e l’unica in grado di offrire risultati, sia pur parziali. In Germania la Linke sa che un giorno dovrà governare con la socialdemocrazia, pena la caduta nell'irrilevanza: è significativo che ne siano convinti soprattutto gli ex comunisti di Lothar Bisky, più che il socialdemocratico Lafontaine.

L’esperienza italiana oltre a esser unica è all’avanguardia in Europa. Per la prima volta una sinistra antagonista e marxista abbandona il pulpito del tribuno disinteressato ma irresponsabile. Non smette di dire che la lotta continua, e infatti continua. Guadagna un poco, non il tutto annunciato e promesso: solo un partito unico può il Tutto, malamente. Se apprezza la democrazia, essa dovrà puntare a coalizioni, a compromessi, a conversioni mentali e linguistiche non solo formali. Non potrà fare a meno di interiorizzare quel che Prodi ha detto il 6 dicembre: «Gli aggiustamenti e il risanamento sì, ma i miracoli non li so fare».

Sansonetti si pone la domanda fondamentale, per ogni individuo o politico: «Vale la pena sforzarsi, per fallire tante volte?». O più precisamente: «Cos’è che obbliga la sinistra a restare dentro un’alleanza che in nessun modo la rispetta, che cammina su una linea completamente diversa da quella tracciata nel programma di governo del 2006, che subisce i ricatti e i diktat delle sue componenti moderate - spesso più d’accordo con la Casa delle Libertà che con gli alleati di governo -, che la considera pura riserva di voti, ne offende spesso i principi fondamentali, ritiene di poterla tenere prigioniera sulla base di una equazione che viene ripetuta all’ossessione: se si scioglie questa maggioranza torna Berlusconi?».

Vale la pena? Sì, vale la pena, perché l’Italia senza il ministro per la Solidarietà sociale Ferrero o il ministro dei Trasporti Bianchi sarebbe diversa e peggiore. Vale la pena proprio se ci si muove «in uno spazio grande, con lo sguardo lungo», senza dipendere completamente dalla popolarità. È tremendo esser solo numeri, sfruttati e sprecati da centristi che si dicono riformatori e sono anch’essi attratti dal tutto o nulla. Ma provare conviene pur sempre, e non badare solo a salvare un apparato. Fernando Pessoa lo dice: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola».
 
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 26, 2007, 11:21:20 pm »

23/12/2007
 
Il dono senza perchè
 
 
E’ naturale che giornali e televisioni si affollino, da molti giorni, di parole e immagini sul Natale che viene e in modo speciale sul rito associato da tempo immemoriale alla divina festa: parlo di quel che vien chiamato lo scambio dei doni. Vien chiamato così ed è già una stortura: perché nessun dono, se è dono, è accostabile allo scambiare, allo stipulare contratti, a un dare condizionato. È un evento che crea società stretta oltre che promiscuità privata, ma, come accade per l'uomo che in San Paolo vive presso Dio, il prodigare è della società e non della società, usa il mondo come se non l'usasse appieno. È qualcosa di misterioso, di estraneo a ogni mercanteggiare. È estraneo perfino alla fiducia, che è ingrediente cruciale del vivere comune.

Non si regala a causa della fiducia, per il semplice motivo che il dono è senza perché. È come la rosa del mistico Angelus Silesius: «La rosa è senza un perché, ohne Warum; fiorisce perché fiorisce, non chiede conto di se stessa, non chiede se viene vista». Pulire le parole ed eliminarle se sbilenche o corruttrici è tra le attività più belle della mente, e guardando giornali e televisioni delle ultime settimane è purificazione indispensabile: tanto grande è la stortura che viviamo. Il culmine è stato raggiunto, secondo me, qualche giorno fa sul telegiornale di Raiuno, in un brioso servizio sui regali natalizi spiacevoli o infastidenti. L'ideatore del reportage voleva probabilmente esser spigliato, anticonformista, interessante, originale. È come avesse voluto trasmettere una sua verità sfrontata, rompere chissà quale tabù.

«Adesso vi diciamo sui regali di Natale qualcosa che vi compiacerà. Qualcosa che in tanti pensate silenziosamente ma che io oso dire a voce alta: non tutti i regali sono graditi, anzi alcuni sono enormemente sgraditi». Seguiva un elenco di regali poco apprezzati perché noiosi, monotoni, ripetitivi: la sciarpa per esempio provocherebbe suprema noia e denoterebbe poca fantasia. Non ricordo l'intera lista: nella mente m'è restata impigliata la sciarpa. Ci sono regali in e altri out. A questo punto partiva una di quelle inchieste a caldo, con i passanti che dicono la loro sui regali scorretti che ricevono o che paventano: uno alzava gli occhi al cielo con tedio ammonitore; l'altro si riprometteva di scambiarli con doni meno banali, meno inutili; un altro ancora meditava di riciclare strenne e pensieri vendendoli online. Mi sono detta che le anime di queste persone erano come intirizzite, già morte. Come quel dannato - Branca Doria, traditore degli ospiti - che in Dante già è rovinato sotto la crudele crosta della morte nonostante sulla terra appaia ancora vivo, e mangi e beva e dorma e vesta panni.

Il testo più luminoso sul dono a mio parere l'ha scritto Adorno, nel paragrafo 21 di Minima moralia. Vale la pena leggerlo, rileggerlo, e regalarlo perché questa sì è idea squisita. Perché parla della nostra capacità o incapacità di saper donare - oltre che di accogliere doni - e della sorpresa che è l'incontro con volti che durante l'anno ci son stati prossimi o meno prossimi. Persone che apprendiamo a guardare, che ci esercitiamo a ricordare: giacché ogni presente offerto oggi è un ricordo nel domani.

Il donare infatti è qualcosa che si disimpara. Secondo lo scrittore è già disimparato e inesorabilmente entrato in decadenza a cominciare dal momento in cui sono apparsi quegli strani negozi - proliferano come i fast food - che sfoggiano all'ingresso l'insegna: «Articoli da Regalo». Gli Articoli da Regalo pensano al posto nostro il pensiero che non abbiamo: l'idea è che tu compri dieci articoli alla rinfusa e solo dopo ti figuri i destinatari. In realtà l'idea - meglio: la trovata - è escogitata per chi non sa assolutamente cosa regalare, essendo che non ha voglia di donare. Lo fa per necessità, per dovere. Il piacere è seppellito.

Il donare autentico non ha nulla di necessario, anche se comporta una fatica che tuttavia arde benevola. Più è inutile, a volte, più è regale. Il vero regalare - così in Minima moralia - è provare felicità nell'immaginare la felicità di colui che riceverà. Significa scegliere, sprecare le ore nella scelta, dunque elucubrare, fantasticare sull'altro e su com'è fatto. In fondo significa regalare tempo, oltre a oggetti, e questo tempo sperperarlo. Significa uscire dal proprio tracciato, non concentrarsi su di sé ma pensare l'altro come soggetto, come fine anziché mezzo. Il donare contraddice e viola lo scambio. La frase più terribile è dire, quando si porge un pacchetto: «Questo regalo se vuoi lo puoi scambiare con qualsiasi altro di tuo gradimento». (Non meno tremende sono le liste-regali: tu metti i soldi in una sorta di vasca, e al resto pensano tutti tranne tu che pure potresti, magari vorresti. È la cancellazione del regalo). Deliziosa è la vecchia massima secondo cui a caval donato non si guarda in bocca. Ricordo mia madre che faceva disegnini di un cavallo con immense fauci spalancate: davanti a esse eravamo ritratti noi bambini che blasfemi scrutavamo-obiettavamo. Guardare dentro la bocca del cavallo è offensivo e mesto. Non sei sotto l'abete natalizio né a fianco della greppia sacra ma al mercato, con qualcuno che ti urla la sua proposta: «Non ti piace questo che t'ho dato? Prendi qualsiasi cosa purché il prezzo sia quello. Fai quel che vuoi tanto a me non importa nulla». Vero è che in questi casi il beneficiato ha almeno la possibilità di fare a se stesso un regalo. Ma la proposta resta agli antipodi del regalare.

Il regalo, quale che sia, fa bene a chi lo riceve ma ne fa uno, immenso, anche a chi regala. Donare è una disposizione dell'animo cordiale, è un aprire incondizionatamente l'uscio all'altro. È un atto di fiducia ma nella sua gratuità l'oltrepassa. Chi non sa regalare o decide di non far più doni, anche senza volerlo è caduto preda del fluire del dono in scambio. Regalare è un aiuto a uscire dai recinti della propria interiorità, a fare vuoto dentro di sé per aprire spazi all'altro e alle cose per l'altro. Ogni relazione non deformata, ogni esperienza di riconciliazione nella vita organica, conclude Adorno, è un donare. Chi ne è incapace perché ragiona secondo logiche consequenziali diventa una cosa e si raggela.

Il donare è un'esperienza eminentemente religiosa, se vissuto con profondità. Donare quia absurdum, come il credere, sfida la logica della conseguenza. Non è casuale che il più gran numero di regali s'accumuli il giorno della Natività di Gesù, in cui tutto è donare, è dare se stesso. Tutto, anche quel che lo circondò. Fu dono l'obbedienza di Giuseppe, che accolse la sposa ingravidata da Dio. Fu dono Giovanni Battista, che accettò di farsi piccolo perché Gesù fosse grande. Fu dono Maria: non c'è quasi dipinto in cui il suo viso non esprima l'indicibile tristezza del presentimento. Nel quadro di Lorenzo Lotto a Recanati addirittura fugge spaventata con un gatto, davanti all'angelo annunciante.

Donare è un'esperienza religiosa perché è gesto assurdo. Non sappiamo cosa ne sarà, e però lo facciamo. Non sappiamo quanto durerà. È la rosa di Silesius. Nella sconvolgente lettera dalla prigionia, Ingrid Betancourt parla come nel salmo 23: «Vivo come morta. Non ho bisogno di nulla, e almeno son libera di desideri». Proprio questo le dà la forza di dire no ai carcerieri. Le dà la forza di pensare ai figli e all'unico libro cui ha diritto - la Bibbia - come un lusso e un dono.

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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 28, 2007, 04:36:13 pm »

28/12/2007
 
La rivolta del Golem
 
BARBARA SPINELLI
 

Il fanatismo che ieri ha ucciso Benazir Bhutto durante un comizio a Rawalpindi non è una macchina da guerra globale e di conseguenza inafferrabile, come spesso usiamo dire non sapendo bene che dire: è un mostro che è nato in Pakistan, che dal Pakistan si è esteso al mondo fino a lambire le città d’Occidente, che in Pakistan ha da quasi trent’anni il suo regno. Anche il mezzo bellico cui ricorrono gli assassini è stato coltivato e perfezionato in quella zona, per motivi legati alla sua instabilità incessante: l’attentatore sceglie di trasformarsi in bomba umana perché questa è l’arma moderna del debole contro Paesi o eserciti che non possono esser combattuti e vinti con arsenali simmetricamente potenti. L’Unione Sovietica poté esser combattuta e vinta solo da fondamentalisti pronti a morire, e qui va cercato il motivo per cui furono in tanti ad appoggiarli, addestrarli, finanziarli: Stati Uniti e Pakistan in testa. La stessa Bhutto, quando incontrò Clinton a Washington nella primavera del ’95, presentò i talebani come forza filo-pakistana che sarebbe tornata utile per stabilizzare l’Afghanistan.

Ora il Golem fabbricato dai governi americani e dai loro alleati si rivolta contro i propri originari padrini, e sono questi ultimi a esser combattuti e sfiancati da un metodo di lotta - l’attentato suicida - che è il più letale che esista perché sacrifica l’assassino assieme all’assassinato.

E’ un metodo che il terrorismo internazionale usa ormai con agilità, ma che ha fra i suoi addestratori i regimi militari che si sono succeduti in Pakistan negli ultimi decenni. Più precisamente, ha alle spalle i servizi segreti (l’Isi: Inter-Services Intelligence) che negli Anni 70 e 80 allenarono i combattenti delle scuole integraliste islamiche, scatenandoli di volta in volta contro l’India nel Kashmir o contro l’occupante sovietico in Afghanistan. I talebani sono figli dell’Isi, o comunque di quelle schegge dell’Isi che Musharraf contrasta e di cui è simultaneamente complice. Non è senza significato che Bin Laden e al-Zawahiri vivano in zona pakistana, fin qui senza assilli.

Contro il terrorismo che ci ostiniamo a chiamare globale l’Occidente è in guerra da più di sei anni, senza costrutto e senza idee persuasive. Non è un Grande Gioco locale che sta facendo, sulla falsariga del Great Game dell’impero britannico tra ‘800 e ‘900, ma un gioco ancora più nullo del Great Game: mondializzando lo scontro e chiamandolo scontro di civiltà, Stati Uniti e alleati stanno di fatto estendendolo oltre l’Afghanistan, nel Pakistan dotato di atomica, e trasformando un’intera regione in caos, come spiega molto bene Saleem Shahzad nel suo reportage per La Stampa. Questa guerra non solo è senza fine, come disse Bush nell’autunno 2001 quando annunciò un’impresa bellica di «molte generazioni». È una guerra che combattiamo in alleanza con il Pakistan, che è la fonte principale del male e comunque la roccaforte dei nostri avversari. Da anni, l’amministrazione Usa riempie Islamabad di denaro (10 miliardi di dollari dal 2001) senza porre condizioni di sorta. Questa è la premessa di ogni discorso, nel momento in cui gli occidentali piangono Benazir Bhutto e, mentendo, giudicano «destabilizzata» una democrazia inesistente e un regime da sempre instabile.

Benazir Bhutto certamente percepì la vastità dell’imbroglio, quando nell’ottobre scorso tornò in patria con l’assistenza di Washington. Vi ritornò promettendo a Bush un patto con Musharraf e i servizi pakistani: un patto che forse avrebbe risparmiato a lei un processo per corruzione, ma di sicuro avrebbe consentito a Musharraf di proseguire l’ambigua politica verso il fanatismo islamico. Una politica fatta in superficie di resistenza, sotto terra di connivenza o passività. Una politica che avrebbe permesso al generale-presidente di tollerare quello che nessuno Stato può tollerare: l’esistenza ai propri confini di intere regioni governate dai talebani (le cosiddette Zone Tribali). Le incursioni contro Karzai e gli occidentali partono da lì, e sono imbattibili non perché globali, ma perché hanno una base da cui partire e in cui rifugiarsi. Nessuna guerriglia con una base forte è debellabile. Contro simile caos la Bhutto aveva cominciato a ribellarsi.

Questo è il vespaio in cui si è andata a cacciare la lotta armata di Bush al terrorismo: una lotta cui partecipano molti europei, tra cui gli italiani, senza più sapere esattamente perché e per quanto tempo. Questo il groviglio che, irrisolto localmente, tanto più efficacemente si nasconde e si arma dietro a sigle globali come Al Qaeda. Della morte di Benazir Bhutto siamo responsabili anche noi, che abbiamo fatto crescere un bubbone così tremendo tra India e Afghanistan, sostenendo in origine gli integralisti antisovietici e poi un governo a Kabul che ancora rifiuta di riconoscere il confine che lo separa dal Pakistan. Ci siamo alleati con chi si sarebbe poi mobilitato contro l’America, contro la Bhutto. Che più volte si è mobilitato contro lo stesso Musharraf.

L’alleanza col Diavolo è un’arma geopolitica classica. Fu adoperata anche nella prima metà del ‘900. Ci si alleò con Stalin, pur di vincere Hitler. Poi però l’alleanza s’infranse e comunque nulla di quel che accade oggi somiglia a ieri. Lì una guerra finì, qui una guerra è agli inizi. Qui non siamo di fronte all’alleanza con un Diavolo minore per sconfiggere il Diavolo maggiore. Qui ci si allea con il male stesso che si pretende debellare.
 
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 31, 2007, 05:12:08 pm »

31/12/2007
 
Il tempo ritrovato. Ora dipende tutto da noi
 
BARBARA SPINELLI
 

I sondaggi di popolarità, i voti istantanei che continuamente diamo su internet, e al tempo stesso le rievocazioni rituali di date piccole e grandi del passato. Questo convivere singolare di due dimensioni del tempo: un passato dilatato, un presente su cui pronunciamo giudizi non solo veloci ma pesanti, definitivi, ci ha tolto il gusto del futuro e la capacità di pensarlo, progettarlo, fabbricarlo con sguardo lungo e dunque vera speranza. Ammaliati dall’immediatezza del giudizio impaziente, appesantiti da un passato che sappiamo immutabile, non intuiamo l’essenza del tempo: il suo essere spazio aperto a molteplici futuri, il suo esser fatto non di opinioni e verdetti preventivi ma di azione e responsabilità. Il passato stesso viene distorto da questo sguardo: anche allora le cose andarono in un certo modo, ma per chi le aveva davanti a sé come futuro non c’era in esso alcuna fatalità. La storia non si fa con i se ma il futuro sì, è sempre ancora nelle nostre mani farlo andare in una direzione o l’altra.

Bisogna trovare un equilibrio naturalmente, tra la presunzione dell’onnipotenza e la passività di chi crede che le cose accadano o non accadano senza il nostro concorso. Influenzare il futuro significa conoscere i limiti del giudizio sbrigativo e di un passato vissuto come ripetersi dell’ineluttabile. Il tempo e il durare sono possibili a condizione di combinare libertà e necessità, caso e responsabilità. Dipende da noi come vivremo il 2008 e gli anni successivi: se saremo capaci di attuare progetti con costante tenacia. Dipende dall’elettore americano scegliersi un leader con senso della misura, della legge. Dipende da noi italiani scoprire, quando in agosto vedremo le Olimpiadi in Cina, che dovremo ripensare chi siamo in un mondo più vasto ed esigente.

Sarebbe bello interrompere per un anno sondaggi e commemorazioni, e tentare pensieri profondi sull’urgenza del futuro, sul tempo cui occorre dar tempo, sul nesso da ritrovare tra promessa, realtà, pazienza.

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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 20, 2008, 04:39:02 pm »

20/1/2008 - L'ADUNATA DI ROMA
 
L'imprudenza politica della chiesa
 
BARBARA SPINELLI

 
È probabile che Camillo Ruini, che per molti anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all’Angelus, in piazza San Pietro, per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima. Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell’aula universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione - affidata. Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il cardinale, e il male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s’è espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il 4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è attaccata quando vince: «Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa “perde”, tutto fila liscio».

Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno opposto al Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto questo non è, per una parte della gerarchia, un episodio increscioso, o come ha detto sull’Avvenire Souad Sbai, in nome dell’Islam italiano anti-integralista, un «giorno di tristezza».

Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista Rai che l’interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano e Chiesa possono migliorare, grazie a episodi come questo».

E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti apocalittici che provocano tenebre e caos pensando che solo a queste condizioni rinasca la luce, che incitano a sfasciare (nel linguaggio brigatista si diceva «disarticolare») per generare palingenesi prerivoluzionarie. La sovversione ha in genere queste proprietà, avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l’accusa d’ingerenza nell’agenda politica e chiede - provocatoriamente, accendendo sorrisi complici nel giornalista - se ci sia oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende politiche». Esiste insomma un modo di raccontare l’episodio della Sapienza, che deforma ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni profondità. Ci si racconta la storia di una Chiesa perseguitata, prendendo in prestito il linguaggio dell’esperienza ebraica; si denuncia e si irride la stasi della politica. In questo Ruini ha comportamenti sovversivi che singolarmente lo apparentano alla figura di Berlusconi.

Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che conviene analizzare. Non è un successo religioso, perché l’indebolirsi delle fedi non si argina riempiendo piazze. Non è neppure in questione la libertà della religione cattolica, perché in Italia essa è garantita e ha un’estensione enorme. Nessuno l’ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è debole, lo è per cause spirituali o pastorali e non per cause esterne, di potere politico. Solo in Italia questa realtà è obnubilata. È sottratta allo sguardo dei cittadini anche dai commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però sentirsi in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché informati.

Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario tra simili realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del cattolicesimo italiano con l’ebraismo è un non senso, nelle democrazie. Fuori dall’Italia, in Francia o Germania, Spagna o Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza dell’importanza delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy e Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti radicalmente diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il peso, il tempo di parola che ha in Italia. Venerdì, su questo giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo spazio abnorme che le viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un tempo d’antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e appena inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non solo: la Chiesa cattolica ha il 99,8% dello spazio dell’informazione religiosa, lasciando briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia senza sostanza. La Chiesa italiana non è imbavagliata ma piuttosto sovraesposta. L’idea che esistano comportamenti etici su cui lo Stato non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla legge naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è idea diffusa. Chi contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi veti su famiglia, unioni di fatto, aborto, testamento biologico, ricerca biologica, è una minoranza.

È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e stupida perché perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla. Ogni evento ha una storia, un tempo lungo in cui è iscritto ed è maturato: ha cause che dispiegano effetti, non è istante che fluttua nell’etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di racconto. Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal Pontefice nell’ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa italiana che ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc: se schierarsi con la destra o no, se far politica direttamente o privilegiare lo spirituale, il profetico-pastorale. È la verità di un Pontefice che sta mostrandosi incapace di sintesi, di delicatezza istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce a una corrente o all’altra della gerarchia, senza anticipare proprie soluzioni alte e meno italiane. Un giorno s’infiamma contro il «degrado» di Roma, e ventiquattr’ore dopo descrive una città accogliente e ben governata. Precipitosamente accetta di aprire l’anno accademico, poi rinuncia senza fugare il sospetto che la ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per inasprire le tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla, diventa impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente.

È un’impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che induce i vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi della laicità, dell’autonomia della politica, dello Stato neutrale. È assurdo doverlo ricordare alla presenza di un cattolicesimo che ha dato all’Europa questa separazione: ma laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica.
Il laico non è, contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi non riesce a «conferire senso alla vita», a «interpretare il male» perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson, un alto «muro di separazione»: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. Diceva Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le azioni, non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un’opinione ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche integraliste - possono incontrarsi senza violenza e senza impedire leggi attente al bene comune. L’autonomia della politica (il «muro» di Jefferson) non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno.

Non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico Giovanni Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può legiferare. Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza fatiscente - anche se esiste nella sua Costituzione - e questo origina cronici disordini e l’alternarsi continuo di ingerenze e di contestazioni anti-papaline. Queste ultime son state definite malate, ma non meno malate son state le ingerenze degli ultimi anni: l’intera spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro muro divisorio non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le sue misure di riordino e separazione laica.

In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante ritardo. È come se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello franchista spagnolo, come se il pensiero di cattolici come Rosmini e Maritain non avesse mai messo radice. Come se non ci fossero stati il Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della laicità di Maritain contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora vivo e forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò di suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò con papa Montini e la Dc autonoma di De Gasperi.

L’episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene conto significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la caratteristica del Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole laiche sono sorpassate, e forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono invece più che mai attuali, in un’Europa dove si è ormai insediato un Islam forte, in espansione. Senza Stato laico, che garantisca cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in Europa guerre di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche solo a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila liscio».
 
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 28, 2008, 05:28:05 pm »

27/1/2008
 
Il vecchio che avanza
 
Barbara Spinelli
 
 
Basterebbe fare una semplice operazione aritmetica - due più due uguale quattro, ad esempio - per fugare parecchi equivoci sulla caduta di Prodi e vedere l’Italia così come s’accampa davanti a chi sa vedere: nello stesso momento in cui il governo di centro sinistra è sfiduciato in una delle due Camere, l’opposizione che si prepara a tornare al potere fa quadrato attorno a personaggi del ceto politico o dell’amministrazione condannati dalla giustizia: attorno al governatore della Sicilia Cuffaro, condannato a 5 anni per favoreggiamento a mafiosi e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici; attorno a Contrada, condannato definitivamente a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa; attorno a chiunque chieda che il politico o l’alto funzionario dello Stato non sia, come ogni cittadino, imputabile quando infrange la legge. Cuffaro ieri si è dimesso ma Casini insiste ad accusare gli «sciacalli» che avrebbero screditato un’onesta persona.

Questa è l’evidenza matematica che abbiamo di fronte: nell’Italia che sta richiamando Berlusconi ai comandi non ci si fida di Prodi ma ci si fida di Cuffaro, di Contrada, di Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e in secondo grado per estorsione aggravata. Non ci si fida di Prodi, ma si fa capire a Mastella che la magistratura, caso mai dovesse giungere a un giudizio negativo sul suo operato in Campania, non avrà l’autonomia per farlo. Quando si parla di tramonto del prodismo e di una scommessa invecchiata e morta conviene tenere a mente questa realtà, limpida e ben visibile. Quel che viene offerto oggi agli italiani non è un nuovo che caccerà il vecchio, non è la fine dello spadroneggiare dei partiti sulla cosa pubblica, come chiesto da tanti cittadini. I partiti tornano a essere decisivi, e sono loro a far quadrato attorno alla presunzione d’impunità che sostituendo la presunzione d’innocenza diverrà il marchio del rinnovamento promesso. Di questa restaurazione Berlusconi è principe, e tutto quel che ha detto nell’ultimo decennio sul teatrino della politica si copre di polvere e frana. Il teatrino è imperante, e quel che vediamo non è quel che appare. Prodi non è riuscito a imporre il nuovo, ma nuovo resta pur sempre quel che ha proposto e tentato. L’aura di novità abbandona Berlusconi e quel che propone è in realtà il vecchio.

Anzi è vecchissimo. Poco prima del voto al Senato, il capo dell’opposizione fece capire che se Prodi avesse ottenuto la fiducia in ambedue le Camere, lui si sarebbe appellato alle Piazze. Bossi ha rincarato la dose assicurando che quelle piazze avrebbero «trovato facilmente le armi», per una rivoluzione. Hanno detto queste cose nell’indifferenza generale: della destra, dei leader di sinistra, di stampa e televisione, delle Istituzioni della Repubblica. Anche questo non è davvero nuovo. Nella storia recente d’Europa c’è memoria viva di tempi simili, quando si pensava che le parole non pesassero e invece pesarono: la Repubblica di Weimar aveva queste caratteristiche, questa violenza linguistica, questi demagoghi. Due più due non ha fatto cinque nella storia passata e non farà cinque neppure in quella che si sta tessendo, opaca ma consequenziale, sotto il nostro sguardo.

La storia presente non è tuttavia fatale, così come non lo è il futuro. A differenza del passato, il futuro che fabbrichiamo oggi è aperto a soluzioni molteplici, è libero. Ed essendo libero consente domande che sono decisive e che dunque vale la pena porsi: sono veramente nuove le politiche proposte da chi affossando Prodi assicura una sorta di palingenesi o comunque un’alternativa migliore? C’è una sinistra, c’è una destra che hanno fatto i conti con l’esperienza di centro sinistra e che avendo fatto tali conti sanno discernere una categoria politica dall’altra, e distinguere quindi tra il ritorno al potere cui anelano e il piano di governo su cui pervicacemente tacciono?

Dicono che il nuovo consiste in modifiche profonde della Costituzione, che diano più poteri all’esecutivo e diminuiscano quello dei partiti. Dicono non senza ragione che il Presidente del consiglio è fallito perché i particolarismi potenti nella maggioranza hanno corroso la sua autorevolezza, il suo governare, il suo desiderio di risanare non solo l’economia ma l’etica pubblica. Ma le forze vincenti sono ben più vecchie dei vecchi impedimenti che hanno reso così difficile il compito di Prodi e che ce l’hanno mostrato negli ultimi venti mesi così solo, come Franca Rame ha scritto con cristallina sconsolatezza sulla Stampa del 25 gennaio: «Prodi, in quel suo governo, di fatto, si è trovato come un condannato agli arresti domiciliari con manco un cane che gli portasse le arance... non l’avete mai considerato? Andavano da lui solo a imporgli, a chiedere e a ricattare. Bella gente!». Questa bella gente gli ha impedito di fare quel che si era ripromesso: una legge sul conflitto d’interessi, una legge che sottraesse le televisioni al dominio dei politici. Questa bella gente ha chiuso e chiude gli occhi davanti alla triplice violazione della Costituzione di cui Berlusconi si è reso colpevole: delegittimazione non solo dell’iniziale voto alle legislative ma anche del voto delle Camere (il ricorso alle piazze in caso di fiducia del Senato vuol dire questo); controllo dei mezzi televisivi da parte di un candidato alla guida del Paese; corruzione dei senatori come appare dalle intercettazioni dei colloqui tra Berlusconi e Saccà, manager della Rai.

I partiti che hanno partecipato all’esperienza Prodi escono particolarmente malconci, perché più d’ogni altro si prestano all’equivoco, scambiando il vecchio per il nuovo. Cosa resta infatti del centro sinistra? Resta lui, Prodi, che si è battuto usando la forza durissima della sua testa («Sembra un ferro da stiro o il muso di un’escavatrice», scrisse Eugenio Scalfari) e che contro praticamente tutti ha deciso di contare i fedeli in Parlamento e dunque di far politica pubblica in pubblico, non nelle segrete dei partiti. Resta un’estrema sinistra, che ha fatto il tentativo di governare contro se stessa, contro il proprio istinto, che ha ripetutamente teso la corda ma sarà influenzata da un esperimento di gestione responsabile che non è stata lei a rompere.

Ma soprattutto resta il Partito democratico, che il nuovo pretende di costruirlo seppellendo l’Unione come fosse un logoro vestito di cui spogliarsi. Per la verità non si sa che partito sia, che programmi di governo abbia, che militanza vanti, che alleati cerchi. Anche in questo caso, è il potere ciò cui sembra aspirare e non il governare, e l’equivoco è esistito in fondo sin dalle primarie del 14 ottobre, che suscitarono l’adesione di più di tre milioni di cittadini ma a questi cittadini non chiarì, per l’occasione, né quale fosse il programma né quale fosse la politica di alleanze. Chiarì che Veltroni sarebbe stato il leader, creò innanzitutto una personalità, alla maniera berlusconiana. Il 19 gennaio, a Orvieto, Veltroni ha poi detto che il suo partito «correrà da solo alle prossime elezioni», e con questo ha di fatto screditato la scommessa di Prodi e dell’Ulivo (2 giorni prima dell’uscita di Mastella dalla maggioranza, 5 prima della caduta di Prodi). Per suggerire che cosa, anch’egli, che non sia il vecchio, e cioè un partito che si presenta alle urne e poi deciderà con chi e con quale programma governerà? In una lettera a Repubblica, il 2 settembre 2006, l’odierno segretario citò Tahar Ben Jelloun: «I nostri passi inventano il sentiero a mano a mano che si va avanti». Il libro da cui sono tratte queste parole è un romanzo, Creatura di sabbia. Ma la politica non è letteratura, e nel libro è scritto anche questo: «Nella vita bisognerebbe poter avere due facce... sarebbe bene averne almeno una di ricambio. Oppure, e questo sarebbe ancora meglio, non avere nessuna faccia, semplicemente... essere solo delle voci.. un po’ come i ciechi». Può darsi che Veltroni ce la faccia, ma grande è il rischio e strana la velleità di sconfitta che lo anima: lui avrà insegnato al partito democratico i vizi della prima repubblica, mentre Berlusconi continuerà a battersi con vaste alleanze tipiche del bipolarismo.

C’è un passaggio nel discorso di Prodi al Senato, che vale la pena rimeditare: «Sarebbe necessario innanzitutto rileggere la nostra Costituzione con lo spirito con cui i padri costituenti la scrissero. Non vi troveremmo, se la rileggessimo così, la debolezza dell’Esecutivo che paralizza chiunque sieda a Palazzo Chigi; non l’ammissibilità di voti di sfiducia individuali nei confronti di singoli ministri; né la prassi delle crisi extraparlamentari; né l’asservimento dell’informazione pubblica al potere politico». È un passaggio che nessuno a sinistra ha fatto proprio, e non stupisce oltre misura. I partiti riprendono il potere, e presentano tutto questo come Nuovo che avanza. Ma i partiti sono come gli Stati nazione: la loro forza sovrana è del tutto fittizia. Un partito che decide di correre da solo e poi di allearsi con chi vuole è un partito in costante metamorfosi coatta, non è sovrano, è più che mai prigioniero delle forze extraparlamentari (mezzi di comunicazione, istituti di sondaggio, potentati non eletti) che hanno voluto la fine di Prodi.

La parola «popolo delle primarie» non significa niente; se non significa nulla non ha poteri. È un’illusoria figura. Immagino che la stragrande maggioranza degli elettori di Veltroni lo sappia: la loro forza, i loro diritti-doveri, il loro peso, sono infinitamente più insignificanti del peso e dei diritti che nei vecchi tempi avevano gli iscritti, figura scomparsa nel vocabolario del Pd. Chi ha forza sono i poteri che perdurano nonostante il voto, sono le Piazze sempre di nuovo invocate, sono gli uomini con capacità di dominio sui telegiornali, e sono, non per ultimi, i politici decisi a riconquistare l’impunità che per un breve lasso di tempo hanno visto minacciata.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 16, 2008, 06:36:13 pm »

16/3/2008
 
Disfatta morale
 
BARBARA SPINELLI

 
Cinque anni di guerra in Iraq e una guerra afghana che nessuno osa riesaminare hanno cambiato il mondo radicalmente, danneggiando in misura non ancora calcolabile la sicurezza, la forza d'attrazione, la robustezza economica, infine la potenza morale dell'Occidente. Non siamo solo alle prese con la «fine della magia americana», descritta dal ministro francese Kouchner in una conferenza parigina dell'11 marzo. La magia che aveva sedotto lui e molti europei - a cominciare da Berlusconi nel 2001-2006 - ha avuto e continua ad avere effetti durevoli, che non scompaiono con l'evaporare dell'incanto e sui quali gli ex ammaliati tacciono, come ignorassero che questo tacere è un ennesimo, scandaloso peccato di omissione.

Ovunque sulla Terra, la politica neo-conservatrice ha alimentato un sospetto deleterio: che qualsiasi nazione toccata dall'Occidente diventi fatalmente uno Stato fallimentare. Che la democrazia sia qualcosa di malato, di temibile. Che libertà, laicità, pluralismo siano da posporre, sempre, ai ben più essenziali imperativi di sicurezza. Quel che accade in Tibet negli ultimi giorni non è disgiunto dalla magia infranta: ne è il lascito, catastrofico. La carneficina di monaci buddisti a Lhasa (i tibetani in esilio parlano di 100 uccisi) è responsabilità cinese ma è stata facilitata da America ed Europa, che non a caso reagiscono con voce pallida, e sguardo cieco. Quel che essi non hanno visto è la lezione che gran parte degli Stati ha tratto dalla politica di Bush. Una lezione che possiamo riassumere così: per meglio difendersi dalle insipienze Usa, gli Stati hanno tutto l'interesse a presentarsi come Leviatani aggressivi, chiusi in sovranità assolute.

Sovranità generalmente ingannevoli (tutti siamo immersi nell'economia-mondo), ma anche l'inganno è effetto delle guerre antiterroriste: dalle menzogne non si esce che con altre menzogne. I grandi profittatori dei conflitti odierni non sono solo i produttori petroliferi e le compagnie fornitrici di soldati che hanno contribuito a privatizzare le guerre. Tutti gli Stati che scelgono la forza - Cina, autocrati arabi o asiatici - sanno che la strategia Usa, al momento, non produce che failed states, incapaci di monopolizzare violenza e territori. Che l'America esca spezzata da tale esperienza è tragicamente confermato dalle stragi cinesi, dalla forza con cui i conservatori islamisti si presentano al voto iraniano. Basta guardare alla stupefacente coincidenza dei giorni. L'insurrezione tibetana comincia lunedì 10 marzo: da tempo ardeva nell'ombra. Nonostante questo il Dipartimento di Stato esce poche ore dopo, l'11 marzo, con un rapporto sui diritti umani che denuncia le lentezze della Cina ma la cancella dalla lista dei trasgressori. Le timide reazioni americane ed europee alle stragi tibetane testimoniano molto più di un'incongruenza: testimoniamo una rotta morale dell'Occidente.

Una potenza imperiale che pretende fondarsi sulla democrazia non può ignorare gli effetti morali di quel che fa: è suo tratto distintivo, e proprio questo tratto è andato svanendo. La guerra in Iraq fu iniziata per mostrare la superiorità delle istituzioni libere - la democrazia avrebbe generato Stati stabili, plurali - ed è avvenuto il contrario. Dopo l'aumento di truppe deciso da Bush, i soldati Usa sono più sicuri ma la violenza resta. Non ce ne accorgiamo più, perché non apparendo in video sembra inesistente. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ricorda nel suo ultimo libro che le tv accendono i riflettori solo quando gli attentati fanno più di 25 morti (The Three Trillion Dollar War, Norton 2008). Né sembra accorgersene il candidato repubblicano alla successione di Bush: pur di persuadere i neo-conservatori, McCain annuncia: «Se riusciamo a ridurre i nostri morti possiamo restare anche cento anni in Iraq. A me va benissimo». Né l'Iraq è divenuto più vivibile, con poche ore di elettricità al giorno e quasi 5 milioni di sfollati (2,5 dentro e 2 fuori, in Siria e Giordania) Ecco il cataclisma occultato per anni dalle bende della magia: l'America voleva esportare democrazia, e ha esportato invece insicurezza, violenza, immoralità. La sua posizione è talmente indebolita che non può reagire agli eventi cinesi. Anche per questo fanno tanta impressione i dibattiti elettorali italiani: un ex ministro del campo berlusconiano consiglia addirittura di tornare in Iraq, quasi non sapesse com'è diventato il paese nel quinto anniversario della guerra.

Il cataclisma morale non viene fabbricato solo col cinismo, con la spudorata violenza di politiche avventate. Lo si fabbrica anche con questo non-sapere, quest'ignoranza singolarmente militante. È incompetenza tecnica, politica, militare. È l'ignoranza che nel vecchio dizionario Tommaseo viene distinta dall'inscienza: quest'ultima è di uomini che non sanno quello che fanno, mentre la prima è ignoranza colpevole, ignora quello che saremmo tenuti a sapere, è «crassa, rozza, indolente, superba». Fu ignoranza superba lanciare guerre senza conoscere i paesi occupati. È ignoranza superba la politica verso la Cina. Nell'amministrazione Usa, un gruppetto di finti esperti ha giocato col mappamondo alla maniera di Chaplin-Hitler nel Grande dittatore. Sarebbe bastato uno sguardo in terra per vedere che la violenza cinese si sarebbe abbattuta sul Tibet, incoraggiata dal rapporto pronto al Dipartimento di Stato da mesi.

L'idea di Bush era semplice, dopo gli attentati del 2001: si trattava d'inventare una politica assolutamente nuova. Interessi e valori avrebbero coinciso, come nei sogni o nelle magie. Clinton stesso in fondo aveva provato, in Kosovo: con un certo successo, anche se contaminato dal veleno dei nazionalismi etnici. Ma l'Iraq non era il Kosovo, la Freedom Agenda dei neo-conservatori concerneva il pianeta e non una minuscola provincia. L'ultimo rapporto della Fondazione Carnegie (Nuovo Medio Oriente, 2008) sostiene che la Freedom Agenda è stata un totale fallimento: ha rafforzato l'Iran, regalandogli un Iraq turbolento ma ideologicamente fedele. Ha incoronato Ahmadinejad. Raccomandando infine una democrazia numerica (conta chi raccoglie maggioranze e non l'imperio della legge né l'equilibrio tra poteri, ambedue anteriori alla democrazia), ha aiutato non i pochi laici ma gli islamisti, ovunque e soprattutto in Palestina. A ciò si sono aggiunte condotte statunitensi accettate da parecchi governi dell'Unione Europea: le torture a Abu Ghraib, il trasferimento di prigionieri in centri di tortura europei oltre che arabi. Come dice l'ammiraglio William Fallon, appena dimesso dal Comando centrale Usa, ha prevalso la peggiore delle strategie: «l'imprevedibilità con gli alleati, la prevedibilità con gli avversari».

Uscire da simili disfatte è difficile. McCain e Hillary Clinton quasi sembrano non scorgerne la natura. La scorge meglio Obama, forse perché conosce le diversità del mondo: soprattutto quando critica una politica filo-israeliana «schiacciata sul Likud». O lamenta il deteriorarsi mondiale dell'immagine Usa: «Per colpire pochi fondamentalisti (al massimo 50.000)», ha detto in un incontro con le comunità ebraiche a Cleveland, il 24 febbraio, «abbiamo provocato un disastro, trascurando 1,3 miliardi di musulmani».

La questione morale è al centro. Accanto al disastro economico-strategico della guerra irachena (Stiglitz indica un costo di 3000 miliardi di dollari, pagato solo col deficit), c'è questo disastro etico: non meno esiziale. Un'etica che fallisce così miseramente è terribilmente simile al comunismo - e non sorprende che fra i neo-con ci siano tanti eredi del '68 marxista-cinese. Alla fonte l'ideale comunista è buono, ma i risultati sono tali che etica e ideale ne escono lordati irrimediabilmente. Lo stesso accade per le guerre etiche, così come son state imposte dagli esorcisti neo-con d'America ed Europa.
 
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 30, 2008, 03:55:06 pm »

30/3/2008
 
Bendati verso il precipizio

di Barbara Spinelli
 
 
Le campagne elettorali sono un’occasione non ordinaria, per le democrazie che sempre le traversano trepidanti.

Sono l’occasione di guardare dentro se stesse, di fare i conti con le proprie debolezze inesplorate, con le proprie virtù trascurate. Sono una breve opportunità, data a politici ed elettori, di aggiustare quel che eventualmente s’è spezzato, di meditare su altre vie. L’occasione si può cogliere o perdere, a seconda di come si comportano gli attori del dramma. Per guardare dentro di sé è indispensabile avere un senso acuto della realtà, e questo senso può crudelmente mancare.

Per organizzare la convivenza civile non basta denunciare l’avversario politico, ma occorre esaminare il risentimento effettivo che l’avversario amplifica o distorce, e tale esame è spesso negletto.

L’Occasione si perde facilmente, sin dalle tragedie greche coglierlo è tra le sfide umane più ardue.

Il nascondimento della realtà è tentazione frequente, nelle democrazie di oggi (nelle dittature è la regola): ne sono affetti Stati apparentemente forti come l’America, regimi apparentemente decisionisti come Francia o Inghilterra. L’illusione di poter fare da sé li affligge tutti. L’Italia possiede questa tentazione in sommo grado, e la campagna elettorale lungi dal diminuirla sembra dilatarla. Non di fatti si discute ma di opinioni, che sono il vestito fatto indossare al reale e all’irreale per meglio confonderli. Non alla realtà e alla ragione ci si apre, ma al sonno dell’ideologia.

Una delle cose eccelse che ha detto Pascal riguarda il nostro correre dissennato verso i precipizi. Non è un correre inerte, fatalistico: individualmente, l’inerzia ha una sua nobile tristezza. È un affrettarsi colmo d’attivismo, di chiasso: «Noi corriamo senza preoccupazione nel precipizio, dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo» (Pensieri, 166-183).

Precisamente questo accade, nell’odierno correre di tante democrazie: a cominciare dalla nostra. Accade con l’Alitalia, in modo spettacolare e emblematico. Accade con il posto dell’Italia nel mondo: non solo quando si parla d’economia ma anche di tenuta delle istituzioni, di giustizia, di diritti dell’uomo. Accade con il nostro passato lontano e recente.

L’esperienza dei governi Berlusconi l’abbiamo avuta ma contrariamente a quello che sperava Montanelli non ne siamo usciti vaccinati, come forse non siamo usciti vaccinati neppure dal fascismo. Non è solo l’anomalia del politico-imprenditore che nascondiamo alla nostra vista. Sono interi segmenti di realtà che tanti s’ostinano a ignorare. Quel che costoro vedono sono le innumerevoli cose consolatorie che Berlusconi mette davanti agli occhi degli italiani perché non s’accorgano di come corrono, e verso dove.

Che cosa non si vuol vedere, della realtà e dei suoi precipizi? In primo luogo: la piccolezza cui sono ormai ridotti gli Stati-nazione, specie in un paese, come il nostro, gravato da un debito che l’impiglia nell’impotenza. L’Alitalia è emblematica perché l’idea che tanti se ne fanno è completamente distorta: non è una grande compagnia, anche se ieri lo fu. Spende cronicamente più di quello che guadagna, e nell’economia-mondo il suo peso è nullo. A Friburgo, giovedì, Prodi ha parlato il linguaggio dei fatti e dell’Occasione da cogliere quando si è augurato che l’Alitalia possa «essere riammessa nel grande circuito internazionale delle linee aeree», e «partecipare al grande schema europeo del trasporto aereo». Da soli magari potremmo farcela, ma con sacrifici probabilmente ancora più grandi di quelli oggi previsti.

La realtà che urge contemplare non è solo questa, come abbiamo visto: è la debolezza delle istituzioni italiane, dell’imperio della legge, della giustizia. È il pallore mortale d’una classe dirigente che non produce anticorpi pronti a sbarrare il cammino a chi fa politica privatizzandola per proprio tornaconto, e sistematicamente non edifica ma distrugge. È stato necessario che intervenisse il Financial Times, per dire che Berlusconi, con il suo no a Air France, puntava semplicemente alla bancarotta d’Alitalia.

In una democrazia solida è difficile che un imprenditore senza senso dello Stato e del bene comune vada al potere più volte, senza esser scartato prima di tentare o ritentare. Quanto alla fragilità delle istituzioni democratiche, i fatti creati dai governi Berlusconi parlano da sé. Le leggi ad personam sono un esempio. Ma c’è anche quel che è accaduto nella caserma di Bolzaneto, tra il 20 e il 22 luglio 2001 dopo il G-8 di Genova. È una macchia che non sarà dimenticata, e il governo d’allora ne è responsabile. La recente requisitoria del pubblico ministero al processo su Genova è chiara: «Alla tortura si è andati molto vicini». Le violenze elencate non sono diverse da quelle praticate a Guantanamo o Abu Ghraib.

Lo storico Marco Revelli ha ragione a concludere, scoraggiato, che il silenzio su Bolzaneto aprirà un baratro impaurente fra molti giovani e le istituzioni.
Il modo in cui la requisitoria è stata banalizzata creerà la «fuoriuscita di un’altra Italia dall’Italia ufficiale» (il manifesto, 13 marzo 2008). Ancora una volta, la realtà vien fatta evaporare. Il male non visto a Bolzaneto secernerà risentimento, odio: due passioni devastanti che non si sanano senza contemplarne le radici. Anche in questo l’Italia non è un caso a parte. In America, nel più importante discorso tenuto finora, Barack Obama ha invitato gli americani a guardare la realtà e i fatti prima di denunciare il rancore razziale di tanti afro-americani. Il rancore va condannato, ma al tempo stesso studiato alle radici: scoprendo ad esempio che la Costituzione non è gloriosa ma «incompiuta», che in America «esiste il peccato originale della schiavitù». Sempre andare alle radici è un imperativo: in economia, in politica, nella lotta al terrore.

Sono tante le cose che alacremente ci mettiamo davanti per non vedere. È ancora Pascal che parla di chi «crede di vedere quel che non vede affatto», e dell’immaginazione come «maestra dell’errore». L’immaginazione senza rapporto col reale non è meno deleteria dello spavento, e così come c’è una politica della paura c’è anche una politica dell’immaginazione falsa, che inganna e svia. Una politica che perversamente vede unite destre e sinistre estreme, nella storia di ieri e di oggi. L’immaginazione, diceva Malebranche, sovente si tramuta in folle du logis: in donna folle che si chiude in casa, nel suo logis. Il fascismo era di questa pasta, presuntuosamente credendo di poter fare in sé.

L’italianità è una fantasia, e tante altre cose lo sono, compresa la naturale bontà degli italiani. La forza irradiante della Chiesa è una fantasia, e non basta il gran rumore della conversione di Magdi Allam a occultarla. È fantasiosa anche la pretesa dei berlusconiani di rappresentare il Nord, o di quei politici locali che pretendono di rappresentare il personale Alitalia. I sindacalisti, nelle ultime ore, sono ben più vicini ai fatti di quanto lo sia Berlusconi. Il principio di realtà e dunque di responsabilità è nella loro storia. È questo principio che ieri ha spinto Epifani a dichiarare, in sintonia con gli altri sindacati, che «al momento esiste solo l’offerta Air France». E che, in ogni caso, «non ci vuole una soluzione nazionale ma una soluzione attenta agli interessi nazionali».

Dell’immaginazione impazzita gran parte dell’Italia è malata, gravemente. Se solo si svegliasse un attimo, vedrebbe le cose come sono: non il Paradiso che desidereremmo, ma i disastri che conviene evitare e gli inferni che prepariamo a figli e nipoti se non ci togliamo in tempo le bende dagli occhi. È più facile certo mentire e far pagare il conto alle generazioni future. Magari vinci anche un’elezione. Ma il precipizio non cambia posto: è nella sua natura restare lì dov’è.

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« Risposta #13 inserito:: Aprile 12, 2008, 10:44:51 am »

6/4/2008
 
Quanto è cristiana la destra
 

Chi ha visto su Internet il film Fitna, che in arabo significa stato di divisione, guerra civile, sarà stato colpito dalla violenza con cui si parla non tanto dei terroristi che pretendono rappresentare Dio ma del Corano e delle sue sure. Ogni attentato corrisponde a una sura, ogni assassinio attinge ai suoi versetti: come se per parlare dei territori palestinesi occupati si mostrassero le pagine bibliche che incitano allo sterminio dei Cananei e dei tanti popoli insediati nella terra promessa. Autore del film è un parlamentare olandese, Geert Wilders, appartenente all’estrema destra. Un partito minoritario, se non fosse che la sua ideologia in Europa è diffusa, per nulla marginale. È ideologia dominante nel Popolo della libertà che aspira a governare l’Italia: nella Lega, ma anche in Alleanza nazionale e Forza Italia. È solida corrente di pensiero in Francia.

E’un’ideologia che ha il potere di tacitare i dissenzienti, intimorire giornali. La sua tesi centrale: questi sono tempi terribili, contrassegnati dal dilagare dei diritti, del permissivismo, della perdita d’autorità e d’identità. Giulio Tremonti nel suo ultimo libro li riassume con due parole, simili a quelle di Oriana Fallaci dopo l’11 settembre: «Al fondo (della difesa dell’identità) c’è qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e orgoglio» (La Paura e la Speranza, Mondadori 2008).

Paura del diverso, che ci assedia. Orgoglio di chi si esalta, temprandosi, nelle proprie radici e nello scontro di civiltà. Il film di Wilders infiamma questo scontro come si fa con la brace: soffiandoci sopra. Più scontro c’è, più ritroveremo noi stessi. Avere un nemico fa bene all’anima, fuori casa e dentro.

Il libro di Tremonti è la traduzione delle immagini di Fitna. Il modo di scrivere è analogo: formule brevi, a scatti, a slogan. Non mancano riflessioni importanti sulla globalizzazione ma il nocciolo è lo scontro di civiltà e la solitudine dell’individuo in Stati e società indeboliti. Quel che lo salva è l’identificazione con comunità chiuse, piccole, etnicamente e religiosamente omogenee. Lì sono le radici: immutabili, impermeabili a qualsiasi incrocio-meticciato col diverso. Il valore da opporre al mercatismo globale è l’esclusione: il contrario del messaggio di Gesù, oltre che della storia laica d’Europa.

Quel che dà sicurezza, in chi cerca l’identità con orgoglio e paura, il lettore lo scopre a partire da pagina 77: visto che è nella differenza che si formano comunità unite, visto che l’identità «non è solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo», «tutto è chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”». «Non vale qui la logica “sia l’uno che l’altro”»: prima veniamo noi con le nostre radici cristiane poi gli altri, con cui non dev’esserci confusione. Un tempo l’avanguardia era la classe, dopo venne la razza, ora ecco l’identità cristiana. Tremonti dice esplicitamente (è un suo merito) che il Noi non serve solo a riempire il «vuoto nell’anima e nel cuore». Serve alla politica per consolidare una «rivendicazione di potere» altrimenti esangue, che non deve temere conflitti con l’Altro.

Anche in questo caso, come nel film olandese, non sono pensieri minoritari. Tremonti s’immagina rivoluzionario controcorrente ma le sue sono idee conformisticamente consensuali, che intimidiscono. Hanno impregnato per anni l’America, e solo Obama le contesta veramente. Intimidiscono a tal punto che ogni pensare diverso viene malinteso, demonizzato. Negli stessi giorni in cui appariva Fitna (27 marzo), negli stessi giorni in cui in Italia si discuteva il libro di Tremonti, in Inghilterra era dramma attorno a un discorso, essenziale, dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. Il capo della Chiesa anglicana è stato accusato ­ per aver detto che parti della Shariah potrebbero conciliarsi col codice civile ­ di capitolazione verso il nemico, di appeasement. Quel testo conviene leggerlo: non dice affatto le cose che i giornali gli attribuiscono.

È un testo profondo, in cui si difende la laicità (Rowan parla di rule of law, valevole per ciascuno) ma si cercano nuovi orizzonti: a questa laicità, bisogna integrare i fedeli di altre tradizioni, come l’Islam. La shariah non è un sistema di leggi, ma un metodo aspirante al bene che alcuni codificano in modo «primitivista», opprimendo innanzitutto la donna. Non mancano però convergenze, da valorizzare. I diritti nelle società liberali vanno custoditi ma non «attivati per forza»: opporre a essi l’obiezione di coscienza deve essere giuridicamente consentito, anche se tutti, cittadini musulmani compresi, devono potersene avvalere. Esenzioni analoghe già sono concesse per legge agli ebrei ortodossi, o ai cristiani sull’aborto. In fondo, Rowan condivide la distinzione che Gustavo Zagrebelsky fa tra valori e principi. I valori sono un bene finale, imposto dall’alto, senza badare ai mezzi. I principi sono un bene iniziale con cui ci si incammina verso la meta confrontandosi con la realtà. La laicità è un approdo arduo, cui si giunge tramite l’adattamento e la ricerca di punti comuni con l’altro. Per non sciuparla e perderla devi tener conto che ogni persona ha oggi più identità: di fedele e cittadino, di musulmano e italiano, di italiano e europeo. Queste dualità esistono anche nell’Islam, secondo Rowan.

Rowan è stato trattato come un erede di chi cedette a Hitler. Ma chi lo attacca ha una singolare concezione della religione, dell’identità, della laicità; sinistramente somigliante a quella degli integralisti musulmani, che piegano la religione alla politica e a comunitarismi tribali. Non a caso la Chiesa è vista, da Tremonti, come strumento di dominio. Serve a riempir vuoti, non tanto spirituali ma di potere. Serve a escludere (con la formula del Noi e gli Altri) e a creare capri espiatori.

Non tutta la Chiesa si presta a simile strumentalizzazione, lo si è visto nei giorni scorsi a Milano. Di fronte a uno sgombero eccezionalmente brutale di due campi nomadi (via Bovisasca, via Porretta), il cardinale Tettamanzi s’è indignato: ha detto che «la legalità è sacrosanta», ma «qui si sta scendendo abbondantemente sotto i limiti stabiliti dai fondamentali diritti umani». Il rispetto della persona avrebbe imposto «qualche tanica d’acqua, del latte per i più piccoli, un presidio medico, qualche soluzione alternativa»: «C’è da augurarsi che la conquista dell’Expo non diventi il paravento per nascondere o spostare più in là i drammi di questa città».

Questo tipo di Chiesa indispettisce la destra. Ha un «buonismo peloso», protesta Romano La Russa, dirigente An a Milano. Tremonti stesso dice, nel libro: alla «vecchia tradizione puramente caritatevole» bisogna sostituire la «responsabilità verso se stessi, verso la propria famiglia, verso la propria comunità».

La carità ai suoi occhi è come il ‘68, contro cui si erge la destra italiana ed europea. In realtà anche il ‘68 è paravento. Quel che si contesta è il patrimonio conciliare e giovanneo della Chiesa, ed è la tradizione liberale del Saggio sulla Libertà di John Stuart Mill (1859). È Mill e non il ‘68 che teorizza il diritto di parola dato a ciascuno ­ perfino a chi sostiene la poligamia ­ se non si vuol precipitare nella «tirannia del sentimento predominante» e nel «profondo sonno dogmatico indotto da un’opinione definitiva».

Condizione di questo liberalismo è tuttavia non usare la Chiesa. Quando il sindaco Moratti si dichiara «profondamente amareggiata dalle parole del cardinale» (Corriere, 4-4) accampa un ben stravagante diritto: il diritto ad avere un’aspettativa politica verso il proprio vescovo. Tale è l’identità cristiana invocata dalla destra. Non la cura dei poveri, degli ultimi, del diversi. Ma un orgoglio da tener acceso facendo leva sul più orrido dei marchingegni politici: la paura.

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 13, 2008, 02:37:04 pm »

13/4/2008
 
Le rivolte della fame
 
BARBARA SPINELLI
 
Nella campagna elettorale che abbiamo alle spalle, la politica estera è stata ridotta a un’unica questione, come si fa con quelle pillole ricostituenti in cui convergono per miracolo tutte le vitamine: se i governi occidentali debbano andare o no alle Olimpiadi di Pechino. Se la torcia vada spenta oppure no. Nelle finali interviste tv, questa è stata l’unica martellante domanda ai candidati. Una delle questioni fondamentali dei nostri tempi - l’emergere della potenza cinese e la sua ascesa economica - è apparsa così all’orizzonte nella più falsata delle maniere. L’estrema semplificazione ha soppiantato l’analisi esigente, su come Cina e India stanno cambiando le nostre vite e su quel che ci spetta fare. I diritti dell’uomo e del Tibet hanno suscitato apprensioni singolari, spesso apparenti. In realtà sono stati adoperati per bendarci gli occhi davanti a quel che succede in noi stessi e fuori: per congelare la nostra visione del mondo, riesumando metodi e istinti ereditati dal conflitto con l’Urss. Ogni semplificazione abbreviatrice ha qualcosa di sordo, incompatibile con la conoscenza.

Per capire un po’ di più bisognava forse andare più di frequente al mercato, osservare il rincaro dei prezzi alimentari: cereali, pane, latte, riso. Quel che accade alle nostre bancarelle sta infatti accadendo sul pianeta, e ha come motore l’immane crescita della Cina oltre che dell’India. Crescita che significa, in ambedue i casi: più pane per tutti e più carne.

Il popolo cinese sta uscendo dalla fame prodotta dal comunismo, e la novità è decisiva perché eravamo abituati a dirci che solo le democrazie saziano. La Cina, insomma, fa paura più che mai, e non solo perché reprime i tibetani. Spaventa perché ha cominciato a cibare i suoi poveri, perché è ormai una potenza economica, perché sta estendendo la propria influenza su continenti (Africa, America Latina) che l’Occidente rischia di perdere non avendo saputo assisterli. La difesa dei diritti tibetani è cosa giusta ma dietro di essa si nascondono motivazioni non sempre limpide, morali: alla pietas si mescola l’ipocrisia ma anche una passione profondissima e inconfessata: l’invidia, suscitata dalla forza cinese. Un’invidia che spiega appetiti nazionalisti e protezionisti che perversamente accomunano no-global, destre, sinistre radicali. Tremonti, ministro in pectore di Berlusconi, ripete che l’11 dicembre 2001, quando la Cina fu ammessa nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) fu traumatico come l’11 settembre. Nell’immaginazione dei popoli, la riuscita cinese ha connotazioni terroristiche, repellenti. Può anche esser positiva, spiega Tremonti, purché la risposta non sia il cosiddetto mercatismo, il governo mondiale del libero commercio: sarebbe l’«ultima pazzia ideologica del ’900», il cui pantheon sarebbe la Wto. Per questo si schiaccia Pechino sull’esperienza dell’Urss: il suo balzo avanti scompiglia le carte di ieri, ma con quelle vecchie carte si continua a giocare.

Guardare in faccia la vera Cina e il mondo significa capire gli errori altrui ma anche i propri: il protezionismo, e soprattutto l’indifferenza. Un’indifferenza più insidiosa dell’indifferenza ai diritti umani, perché ignora volutamente le complicazioni d’un Paese che ha cominciato a sfamare il proprio popolo. Un’indifferenza che disconosce gli effetti delle nostre politiche su Cina, India e i poveri della Terra. La Banca Mondiale ha calcolato che il caro-cibo affligge ben più dolorosamente i poveri che gli affluenti. Che passare dal consumo di pane alla carne è benefico e disastroso: per produrre un chilo di carne di maiale son necessari 3 chili di cereali, per produrre un chilo di carne di bue ce ne vogliono addirittura otto. Esistono i diritti tibetani ma anche il proliferare di sommosse della fame, che ci riguardano e implicano responsabilità dei ricchi su cui si tace. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ricorda che i prezzi di tutti i cibi base sono aumentati dell’80 per cento in tre anni, e che 33 Paesi conoscono sommosse cruente: in Africa, Asia, America Latina.

Di questi tumulti siamo in gran misura artefici, con la nostra cecità e insipienza: forse per questo preferiamo il Tibet, di cui artefici non siamo. Sono responsabili di egoismo gli Stati Uniti, e anche l’Europa. Gli studiosi sono espliciti: accanto alla domanda cinese e indiana, accanto al clima distruttore di raccolti, accanto al petrolio costoso per gli agricoltori, accanto al dollaro debole con cui si compra poca merce e che però resta moneta di riserva mondiale (l’Europa per proteggersi ha l’euro), c’è la disinvoltura unilaterale, impetuosa, sbadata, con cui Bush s’è gettato sulle bioenergie alternative: l’etanolo estratto da mais, che l’America produce con ingenti sovvenzioni. L’iper-produzione di questo etanolo ha contribuito enormemente al rincaro mondiale del cibo: diminuendo le superfici coltivabili per alimenti, abbattendo foreste.

Una vignetta di Patrick Chappatte, sull’Herald Tribune dell’11 aprile, riassume perfettamente il dramma: in primo piano un grosso benestante signore fa il pieno dell’automobile a una pompa di etanolo, mentre due figurine magre, sullo sfondo, tendono la ciotola vuota implorando cibo. Alle suppliche il ricco replica: «Mi spiace, ho molto da fare: sto salvando il pianeta!». America e Europa hanno buona coscienza: raccontano a se stesse che l’etanolo permette di consumare energia e rispettare il clima. Ma è buona coscienza cinica: in realtà «divorano la ricchezza del mondo», scrive l’Economist del 6 dicembre. È stato calcolato che la stessa quantità di mais impiegata per i biocarburanti serve a fare un pieno di Suv e a produrre le calorie che sfamano un essere umano per un anno.

Se questi temi fossero stati affrontati, il cittadino saprebbe le difficoltà che l’aspettano. Capirebbe che l’aumento dei prezzi del cibo non è occasionale, ma durerà. Perché il clima continuerà a produrre siccità, cicloni. Perché i nostri stili di vita non mutano. Perché l’illusione protezionista scansa l’urgenza: i negoziati commerciali, la comprensione di popoli diversi. La tendenza delle nazioni affluenti sarà di scaricare le difficoltà su altri, fingendo che il mondo sia quello del ’900.

Se non fosse così, discuteremmo di Pechino in modo fruttuoso. E non solo del Tibet ma anche delle comunità musulmane Uigur, perseguitate nel Turkestan orientale, o delle ciclopiche speranze di vita migliore legate alla crescita cinese. Evocheremmo anche quel che Pechino ha appreso, estendendo l’influenza in Africa e America Latina.

Un’influenza non esclusivamente deleteria: su Birmania e Darfur il governo cinese sta compiendo passi avanti, anche se pochi l’ammettono. Sono fatte di tanti strati, le bende che ci rendono ciechi. C’è la nostra avversione all’Islam, che snebbia solo il Tibet. C’è una specie d’ignoranza militante dell’immenso sforzo cinese, non paragonabile a quello dell’Urss. Infine c’è il film tibetano che abbiamo in testa e che potremmo intitolare: Sogni Proibiti. È il sogno di una Cina che non cresce, denutrita, trascinata solo da fedi: esotica e separata come il Tibet. Anche il Tibet lo sogniamo a occhi aperti: non dimentichiamo che fra i rivoltosi in esilio ci sono forze, ostili al Dalai Lama, pronte a spastoiarsi dal pacifismo e desiderose di violenza: anche di violenza kamikaze, annuncia Tsewang Rigzin, presidente del Congresso giovanile tibetano.

È un’occasione perduta, non aver pensato la questione cinese in campagna elettorale e continuare a coltivare, di essa, l’immagine repulsiva che consente di non parlare di noi, di come dobbiamo agire, cambiare. Siamo ben regrediti rispetto alla campagna del 2006, quando Prodi ci provò e disse che con questa Cina bisognava negoziare un esigente governo del mondo, non chiudendoci ma aprendole le porte e i porti.
 
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