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Autore Discussione: Mimmo CANDITO, giornalismo in lutto: addio al reporter Mimmo Candito  (Letto 27948 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 31, 2011, 04:42:23 pm »

31/1/2011 - PICCOLI FLASH DI RACCONTO DA UN VIAGGIO CHE CERCA DI AIUTARE A CAPIRE

Reportage in Afghanistan. Num. 1, ovvero la partenza e i primi dati


Come si viaggia, che cosa si trova, che cosa fare

MIMMO CÁNDITO

Sono partito per un reportage sull Afghanistan in guerra. Arrivai in questo paese per la prima volta 30 anni fa, subito dopo l invasione dell Armata Rossa. Ci entrai clandestino aggregandomi a un gruppo di mujahiddyin che passavano di nascosto la frontiera del Pakistan. Ci tornai molte altre volte, cladestino ma anche  una volta con visto. E poi ci tornai per la guerra americana ai taliban nell ottobre del 2001. Poi ancora una volta conv isto.

Ci torno ora con visto di ingresso ma questa volta, e per la prima volta, come enbedded, cioe aggregato alle Forze Armate italiane.
Partiamo da Fiumicino con un volo riservato ai soldati che vanno in missione laggiu. Sono 65, di varie armi. Il volo fino al Cairo dura poco piu di 4 ore. Ci danno un pasto non pessimo, e ci proiettano un film per assassinare il tempo e la noia. Il film est The A Team, una sorta di rambata con muscoloni debordanti, ammazzamenti urlati, e l'arrivano i nostri finale. Non so se est perche l abbiano gia visto ma non sono poi moltissimi quelli che stanno appesi allo schermo. Passando nel corridoio, conto 4 che leggono un libro, 1 che legge il numero di Limes dedicato all Afghanistan, 1 che legge un pocket in inglese, 2 che leggono un settimanale, 1 che dormicchia e legge la Gazzetta dello sport, 2 che scrivono su un computer. Tenendo conto che sono soldati, che il film proiettato pare scelto per caricarne lo spirito, che gli italiani leggono pochissimo, beh mi pare una ottima selezione di scelte alternative al film e di interessi poco coincidenti con la immagine tradizionale del soldato.

Dal Cairo a Dubai sono poco piu di 2 ore. Arriviamo in un angolo militarizzato dell aeroporto.  L ora locale est poco piu dell 1 del mattino. Dobbiamo aspettare fino alle 8 per imbarcarci su un volo speciale per l Afghanistan. In un ufficietto ci sono 2 computer a disposizione, per leggere  notizie e altro, piu 1 telefono collegato a un numero speciale che conente l utilizzo delle schede telefoniche che i migranti in Italia usano per spendere poco. Si comprano dal tabaccaio a 10 euri, e danno 45 minti di conversazione. Facciamo la coda per chiamare casa.

Nella saletta ci sono una ventina di poltrone, un televisore e un frigo di bottiglie di acqua. In un container accanto, 15 brandine militari sono a disposizione di chi si voglia stendere. Non vengono occupate nemmeno tutte. Metto lo zaino come cuscino, mi stendo ovviamente vestito e mi copro con il montgomery. Conosco Dubai e il deserto che ci sta intorno. La notte fa un freddo boia. Buona notte.


()Chiedo scsa per gi errori di grafia, ma devo usare una tastiera araba)=

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 06, 2011, 04:29:21 pm »

5/1/2011 - UN ATTACCO TELEFONICO CHE SCONCERTA PER LA VIOLENZA DELLE PAROLE


Mimmo Càndito

B interviene a piedi giunti a offendere e insultare ne "L'Infedele"

Gad Lerner cerca di contenere il fiume di ingiure

E' poco dopo la mezzanotte tra luned' 24 e martedì 25. E' appena terminata la trasmissione de La7 con tema dell'incontro le vicende giudiziarie di B in queste settimane. Poco fa, nella sua parte finale c'è stata una v iolenta - violentissima - intromissisione telefonica del presidente del Consiglio dei ministri che ha ingiuriato Lerner, la sua trasmissione, e le "cosiddette signore", presenti e ha invece elogiato con parole di fortissimo apprezzamento la consigliere regionale Minetti (indagata anche lei per favoreggiamento della prostituzione). In ultimo, ha invitato l'europarlamentare del suo partito Iva Zanicchi ad abbandonare la trasmissione, ma la cantante-onorevole se pur tentata ha alla fine resistito ed è tornata a sedersi.
Com'è da sempre suo costume, terminato il suo sconcertante sproloquio B ha troncato subito la comunicazione, rifiutando qualsiasi forma di dialogo e di contraddittorio.
Credo che nessuno pensi ormai che gli interventi di B siano sbotti di furia incontrollati, ma piuttosto fanno parte di una organica strategia della comunicazione politica (e per questo se ne parla qui). Il tono, le parole, la costruzione del pensiero, l'articolazione dell'intervento, colpivano per la evidente consapevolezza della proposizione funzionale di un preciso "messaggio" da mandare agli spettatori della trasmissione.Vi invito quindi ad analizzare questo episodio (e gli altri simili) sotto la spec ie della comunicazione politica all'interno dei processi propri della democrazia mediatizzata e, naturalmente, anche all'interno dello specifico italiano.
Che un capo di governo intervenga direttamente all'interno di una trasmissione che coinvolge la sua condizione giudiziaria è già stupefacente; che poi questo suo stile si concentri in un attacco tribunizio e si rifiuti a qualsiasi contestazione, be' aggiunge anomalia ad anomalia radicando comunque un costume che invia un preciso messaggio: il potere è al di sopra delle parti ed è incontestabile.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 06, 2011, 04:30:34 pm »

2/2/2011 - PICCOLI FALSH DI VITA QUOTIDIANA PER TENTARE DI CAPIRE UNA GUERRA

Reportage in Afghanistan. Num. 2, ovvero io embedded arrivo a Herat

Da Abu Dhabi a Herat, attesa, volo, i primi contatti

Vi ho lasciati che ero sbarcato ad Abu Dhabi e m'ero steso a tentare di dormicchiare. Ma, com'era immaginabile, sono rimasto steso sulla brandina un'oretta inutilmente: non riuscivo a riposare, e mi sono alzato. Ho lasciato la sacca e il montgomery nel container, sulle altre brandine tre soldati dormivano quieti, uno russava. La gran parte dei soldati era fuori, sul piazzale, a chiacchierare. Gli accenti della loro discussione erano molto significativi, e anche il volume della voce: dominavano (per numero di interventi e forza vocale) i campani con la loro larga parlata, poi i siciliani, e i calabresi con le loro aspirate; qualche raro accento era del Nord, certamente veneto e anche friulano. I ragazzi e gli uomini del Sud usavano molto il dialetto (o piuttosto un italiano intensamente dialettizzato);  quelli del Nord mescolavano la lingua con qualche rara parola dialettale, ma prevaleva di gran lunga l'italiano.
La ricostruzione della provenienza regionale di questo contingente conferma quanto ormai si sa delle nostre forze armate: che per il 60 % sono costituite da ragazzi del Sud, che fanno la scelta della divisa (anche per ragioni legate al mondo militare ma, soprattutto,) come uno sbocco professionale in un  mercato del lavoro che ai ragazzi - e specie al Sud - offre ben poche opportunità, se è vero che il 30 per cento dei giovani italiani sono disoccupati.
Ho ascoltato qualche minuto quell'intensa agorà; parlavano di calcio ma, soprattutto, delle loro esperienze d'armi; alcuni erano veterani che tornavano per un'altra missione in Afghanistan, e raccontavano ai loro compagni la propria esperienza.
Erano le 2 del mattino, faceva un po' freddo, la notte era stellata. Sono andato nello stanzone delle poltrone e dei pc; uno dei computer era libero, mi sono collegato a un'agenzia di notizie. Un gran titolo raccontava di altre indagini su Berlusconi e sulla consigliera Minetti, e di nuove pesanti ipotesi di reato. Alle mie spalle, una voce ha detto: "E basta! Speriamo che sia la volta buona che si toglie dai piedi". Era un soldato, un giovanotto con il viso lungo e un pizzetto rado, che da dietro leggeva la mia stessa notizia. Ho notato che non c'era rabbia nè furore, in quel giudizio; il tono non mi sembrava affatto di un ragazzo politicizzato, insomma non era la dichiarazione esplicita e rabbiosa di un antiberlusconiano militante. Piuttosto, mi pareva di cogliere un senso forte, reale, di stanchezza, di stuffaggine, l'insofferenza di chi vuoile liberarsi da qualcosa diventata ormai davvero  insopportabile. Dentro di me, pensavo che era una buona cosa. E per due motivi: 1) che forse nel nostro paese torna a manifestarsi la capacità della indignazione, andata smarrita o perduta per così lungo tempo (indignazione comunque, non a senso unico); 2) che la frase veniva da un giovanotto, poco più d'un ragazzo, e non mi interessava sapere se due anni fa lui avesse votato per Berlusconi o per il centrosinistra.
D'altronde, a bilanciare qualsiasi suggestione  schematizzante, quando ho abbandonato il pc e mi son mosso per lo stanzone ho visto che sullo schermo del televisore andava in onda la trasmissione berlusconiana "Kalispera"; al nostro arrivo, un paio d'ore prima, avevo visto sullo schermo una qualche manifestazione musicale, mentre ora qualcuno dei soldati aveva cambiato il programma e scelto Signorini. Non credo si possano trarre grandi conclusioni di sociologia d'accatto, ma con questa descrizione di una notte poco rilassata voglio dire che quell'attesa nella pista vuota e deserta di un aeroporto lontano mi sembrava mettesse in mostra un interessante e significativo spaccato della nostra società. O, se si preferisce, mi sembrava mettesse in mostra come sia molto approssimativo oggi parlare del nostro mondo militare come un corpo del tutto separato dalla società.
Sono uscito sulla pista, a passeggiare e sgranchirmi. Le ore d'attesa dovevano comunque passare e non avevo molta voglia di leggere tra i libri che portavo nel mio zaino. Poco dopo le 5 è arrivato un furgoncino delle nostre Forze Armate, e due soldati con la pettorina gialla hanno cominciato a distribuire un pacchetto con la colazione. Albeggiava, la luna era ormai bassa sull'orizzonte, le luci della città si stagliavano ancora nette, ma lontane.
Ho chiamato nel container, dove s'era assopito, Vittorio dell'Uva, l'inviato de "Il Mattino" di Napoli, un giornalista cui sono legato come un fratello, e la cui simpatia è seconda - forse - soltanto alla sua professionalità. Abbiamo raccontato le guerre di mezzo mondo stando uno accanto all'altro, ci vogliamo bene, abbiamo vissuto situazioni drammatiche che, raramente, molto raramente, ci riracontiamo con breve accenni di recupero dei sentimenti. E Vittorio, che pure è nato a Bolzano (potenza del melting pot italiano!), è davvero trascinante con la sua parlata dominata pesantemente dall'accento, e dal dialetto, napoletano (ma poi, quando deve fare la persona seria, si traveste benissimo).
Abbiamo fatto colazione rapida: succo d'arancia, un croissant, dei biscotti, latte, una banana.
Quando il sole ha cominciato a levarsi, laggiù, sul deserto, è atterrato un Hercules C-130. Sono bestioni con una gran pancia dove sistemare uomini e materiale, anche veicoli militari. Fanno un lavoro prezioso, ma sono scomodissimi: non sono insonorizzati (la testa ti parte frantumata dal frastuono nudo dei motori per tutta la durata del volo), e bisogna acquattarsi sui teli che sono calati lungo le fiancate. Insomma, anche il più scomodo degli aerei low cost è, al confronto, una espressione di comfort lussurioso. In tutti questi anni, sui C-130 avrò volato per qualche centinaio di migliaia di miglia, e un giorno magari mi daranno anche una tessera ad honorem.
Il volo è stato abbastanza rapido, quattro ore, e abbiamo spostato in avanti di 3.30 ore (non 3  non 4, per distinguersi dai vicini) le lancette dell'orologio. Siamo atterrati con l'usuale tecnica del landing militare, cioè quasi a caduta libera, con un grado d'accosto molto elevato.
Conosco abbastanza dello sterminato e affascinante territorio dell'Afghanistan, ma non ero stato mai a Herat. La città è dominata (da sempre) da uno dei "signori della guerra", Ismail Khan, che oggi è anche ministro dell'acqua e dell'energia del governo di Karzai, per uno di quegli strani aggiustamenti che la democrazia afghana ha concluso con i warlords che dominano il territorio fuori da Kabul.
La scelta di Herat come punto d'appoggio di questo reportage è dettata dal fatto che questa volta io viaggio da enbedded, cioè sono accompagnato e assistito dalle nostre forze armate e la base logistica e di comando delle truppe sta, appunto, a Herat, territorio dell'Ovest del paese, a circa 50 miglia dalla frontiera con l'Iran.
L'enbedding non è una novita del reportage di guerra, sebbene se ne sia parlato molto 7 anni fa, al tempo dell'attacco di Bush&Blair all'Iraq di Saddam Hussein. Da sempre, larga parte del war reporting è stato realizzato in condizioni di enbedding, sebbene in passato questa parola (vuol dire, più o meno, incastonato, ma io amo dire "incastrato" con la consapevolezza del doppio significato) non fosse nè conosciuta nè usata: la Prima e la Seconda guerra mo0ndiale sono state coperte da enbedded e così fu anche il Vietnam, sebbene poi in Vietnam si sia rotto quel dovere della "fedeltà alla bandiera" che sempre aveva guidato il lavoro dei giornalisti (si doveva scrivere "i nostri ragazzi" e li si doveva tutelare, a coso anche della verità).  L'enbedding è stato accompagnato, nel 2003, da forti polemiche, perchè molti lo vedevano come una straordinaria occasione per stare finalmente "al fronte", mentre altri, invece, ne valutavano tutti gli aspetti problematici di una riduzione della libertà d'azione e di movimento. Il fatto che comunque fosse stato inventato", e offerto ai reporter, dall'Ufficio Psicologico del Pentagono un qualche dubbio tra i media avrebbe dovuto accenderlo (davvero non riesco a vedere che l''UfPs faccia una scelta in favore del lavoro investigativo dei giornalisti): il giornalista enbedded viene assegnato a un reparto e lo accompagna in tutte le sue missioni, con la possibilità dunque di un racconto fatto "dall'interno"; contemporaneamente, però, si pone in una condizione nella quale può subire il controllo censorio del comandante del reparto o comunque sta in una posizione nella quale - proprio per il contatto costante e continuo con gli uomini che lo accompagnano - subisce inevitabili condizionamenti psicologici che scivolano all'interno dei processi propri dell'autocensura.
L'esperienza alla fine ha insegnato che si può pure utilizzare l'offerta dell'enbedding, ma purchè questa sia accompagnata, nel racconto del giornale, da una narrazione che comprenda l'intero orizzonte del corso della guerra (un giovane reporter del New York Times scrisse, alla fine del suo lavoro di enbedded con le truppe americane, che aveva "visto poco e capito ancor meno". Aveva visto quello che si poteva vedere dal visore del carro armato cui era stato assegnato, e aveva avuto ben poche notizie del resto del fronte, trovandosi dunque impossibilitato a cogliere in termini ampi quel poco che riusciva a scorgere con i propri occhi).
Sbarchiamo a Herat con un bel sole. Scendiamo in fila indiana dal portellone posteriore del C-130  storditi e con le orecchie ancora intronati. L'aeroporto è quello che si immagina debba essere un aeroporto militare, con soldati dovunque, aerei militari in partenza e in arrivo, elicotteri in cielo, armi dappertutto.
(qui chiudo. ho riscritto per ben tre volte questo racconto, perchè per tre volte è caduto il collegamento durante l'operazione di trasmissione del file, e sono non solo esausto ma anche incazzato. scrivere in condizioni difficili non è mai gradevole, anche se è il mio lavoro, ma soprattutto non è affatto gradevole dover ripetere e ripetere e ripetere la scrittura. e questo comporta, ovviamente, una sciatteria nella stesura del racconto e molte imperfezioni. ma spero di esserne perdonato. basta basta basta. faccio clic, e incrocio le dita

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=126&ID_articolo=299&ID_sezione=277&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 06, 2011, 04:31:32 pm »

6/2/2011 - CON PICCOLI FLSH DAL BASSO SI TENTA DI FAR CAPIRE L'AFGHANISGTAN OGGI

Reportage in Afghanistan. Num. 3, ovvero la guerra non è "la guerra"

Capire che cosa è Camp Arena e chi ci sta dentro

 Uno dice “Tu sei a Herat” e dunque tu sei in guerra. E s’aspetta un blog di sangue e di morti a ogni riga, perché se finora sono state ammazzate più di 100.000 persone – gente vera, di carne e vita, uomini donne bambini – e sono morti più di 3 mila soldati, e 36 erano anche italiani,  vuol dire che la guerra c’è davvero, e la guerra non è chiacchiere e riflessioni ma è, anzitutto  morti e distruzioni e rovine. Allora, sì, certamente siamo in guerra, e però non in guerra come la si pensa subito, che ti sparano da ogni angolo di strada o da dietro ogni montarozzo di terra, e che se non porti un fucile e non spari per primo non hai speranza di uscirne vivo. Perciò, il primo problema è tentare di far capire che cosa sia oggi “la guerra” in Afghanistan, e farlo capire dal basso, pianamente, con le semplicità apparentemente ovvie del vissuto quotidiano, come il format (cioè il linguaggio) di un blog richiede, a costo di annoiare i signori “sottuttoio”.
In uno dei commenti leggo infatti (con le difficoltà e i ritardi da quaggiù, in Afghanistan) che qualcuno si lamenta di aria fritta. Sono felice che chi legge si aspetti “di più”, è una sollecitazione positiva per chi scrive, è il confronto con la voglia di sapere e di conoscere, che è una qualità che in  giro è sempre più rara. Ma il rischio del “sotuttoio” sta sempre acquattato nell’ombra, e mi fa venire alla memoria la seconda guerra del Golfo, quella di Schwarzkopf (in questo blog-reportage parliamo di guerra, e dunque posso fare una leggera deviazione dall’Afghanistan). Quando, nel marzo del ’91, tornai in Italia dopo quasi 8 mesi passati nel Golfo a seguire, prima, le pressioni per scacciare Saddam Hussein dal Kuwait che lui aveva invaso e, poi, l’attacco finale di terra con la liberazione di Kuwait City, e fui invitato a tenere conferenze su e giù per l’Italia, da presto ebbi a imparare una cosa che all’inizio mi aveva sconcertato: che io, io, credevo di conoscere e sapere quello che la guerra era stata, ma – balle - m’illudevo di brutto, perché quelli che venivano ad ascoltarmi, loro sì che la guerra sapevano che cos’era. Perché, mentre io stavo laggiù, nel Golfo, e credevo di lavorare per capire e spiegare, e mi dannavo l’anima per non farmi infinocchiare dal generale Schwarzkopf, e dalle trappole e dalle astuzie diaboliche dei suoi spin-doctors, loro invece, loro, quelli che ora avevo seduti davanti a me nella sala della conferenza, loro la sera, ogni sera, alle 8 si erano calati l’elmetto sulla testa, lo avevano allacciato a dovere, si erano accomodati sul divano di casa, avevano acceso il televisore, e  per mezz’ora via! a vivere ed emozionarsi con le immagini e le storie della guerra. E loro sì che sapevano, non io.
Ma eccomi a Herat, dunque. La base alla quale sono stato assegnato si chiama Camp Arena, è una sterminata distesa di  tende, container modulari, aerei, elicotteri, carri blindati, centri di comando, postazioni di controllo satellitare, e poi soldati soldati soldati e ancora soldati, d’ogni arma e d’ogni specializzazione, e tutti in uniforme mimetica. Ce n’è quasi 8mila, la metà dei quali sono italiani, e italiano è il comando di questa piccola città militare dove coabitano (con sufficiente capacità di sopportazione e di reciproca comprensione) contingenti di 11 paesi. Camp Arema è un pianoro infinito di sabbia e pietre disteso dentro una conca ruvida di montagne, che la stringono sotto un cielo di luce intensa, da bruciarci gli occhi (e diciamo che è per questo – e non per fare i Rambo - che molti qui se ne vanno in giro con occhiali da sole che paiono venuti appena fuori da una pellicola di Hollywwod sulla guerra).
E poi la polvere, naturalmente. Una polvere lieve, impalpabile, sottile come il pensiero, che vola leggera e danza inafferrabile, poggiandosi dovunque a montare una patina sottile, impenetrabile. Polvere nell’aria, polvere sui panni, polvere negli occhi e sulla bocca, polvere sul computer, nelle tasche, sui fucili, i mitra, gli elmetti, i cannoni. Da sempre, da quando sono penetrato per la prima volta clandestino in Afghanistan e poi l’ho attraversato più e più volte in lungo e in largo, due sono le memorie forti che porto dentro di me, di questo disgraziato paese: una è la bellezza sconvolgente di questi passaggi – forse secondi soltanto all’altopiano etiopico – catene infinite di montagne azzurre, senza un uomo o una capanna che ne violino la purezza, e che si rincorrono e si inseguono dietro tagli improvvisi di gole senza fondo, di dirupi paurosi, di forrre inquietanti, di un inferno che nemmeno Dorè saprebbe incidere, eppure affascinanti nella convincente dimostrazione che esse danno della forza irresistibile che la natura ha quando si offre vergine, senza la violenza che la presenza dell’uomo pare imporle; e la seconda è questa polvere che ti si fa tua seconda pelle, che ti avviluppa inafferrabile, e ti è compagna muta dovunque, come e meglio della tua stessa ombra perché viene anche a dormire con te.
A Camp Arena si dorme in tenda, o in questa sorta di container modulari divisi da paratie interne fino a farne sedici piccole stanzette con, ciascuna, tre letti e poi, sul fondo, un vano per i cessi e uno per le docce. Gli scarponi si lasciano fuori, nel corridoietto, che pare cosa saggia e giusta per la salute di tutti. E quando cala sera, verso le 5 del pomeriggio, con il cielo che si fa buio d’improvviso, i soldati vanno in giro come tante lucciole vagabonde, con una torcia in mano a illuminare la sicurezza del passo nella oscurità silenziosa della notte (silenziosa fin quando aerei ed elicotteri non si alzano ruvidi per avviare le loro missioni).
Tre sono le cose che l’ufficio stampa ti consegna subito, alla registrazione: un elmetto, un giubbotto antiproiettile (e devi indossarli sempre, obbligatoriamente, quando esci dal campo in missione, perchè qui la guerra c’è davvero anche se la vedi poco), e un lasciapassare da appendere al collo e che ti individua come un civile comunque autorizzato a circolare tra  tutta questa gente in uniforme mimetica. Poi, se non ce l’hai già con te nella sacca che hai preparato a casa, pure un rotolo di carta igienica, perchè i soldati e i giornalisti cagano come tutti anche se non sta bene parlarne. E si mangia (bene) in una mensa assediata da code mostruose ma tranquille.
Poi, comincia  il lavoro.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 10, 2011, 06:03:34 pm »

9/2/2011 - PICCOLI FLASH DI VITA QUOTIDIANA PER CAPIRE CHE COSA E' QUELLA GUERRA

Reportage in Afghanistan. Num. 4: ovvero la guerra dentro un budello

I nostri soldati assediati nella "bolla di sicurezzza"

 FARAH
Un antico proverbio arabo dice che, se sei un’isola, ti devi fare amico l’oceano. Come non dargli ragione, e però anche come non storcere il naso e capire subito che i proverbi, sì vabbene, ma a che serve quando poi l’oceano dentro cui sei piantato è questo desolato, e pure bellissimo, “mare” di montagne, di dirupi, di forre strette, di burroni, di strapiombi mozzafiato, di baratri che ti stringono addosso ogni orizzonte e ti soffocano la gola e la tua stessa vita di soldato. Hai la bandiera, certo, hai i compagni e il sergente, hai gli ordini, hai il tuo mitra e laggiù anche il mortaio, hai la guerra che nessuno deve chiamare guerra, hai anche il cesso chimico, hai perfino un vecchio frigo e le razioni che una volta per settimana l’ aereo ti lascia cadere a due passi con il paracadute, hai tutto, insomma, per sentirti abbastanza a posto nella scelta che hai fatto, di voler essere un soldato di professione, ma poi l’isola è pur sempre un’isola, e la morte, la morte, sta acquattata lassù, dentro questo orizzonte soffocato, e ti guarda con occhi ciechi da dentro l’oceano di quelle montagne, quei dirupi, quelle forre inquietanti che ti strapiombano sopra che ti pare di poterle toccare con un mano e però nella notte ti danno gli incubi. Perché sì che sei un soldato ma sei anche un ragazzo, che vuole vivere. E fa di tutto per poter continuare a pensarlo.
Il cop “Snow” è uno dei più arrischiati avamposti dell’esercito italiano nella guerra d’Afghanistan. Sta piantato dentro il nulla nella valle del Gulistan, deserto e pietre dovunque, e, attorno, solo queste montagne nude e il silenzio, muto, angoscioso, di un mondo invisibile, perduto dentro agguati e incursioni che a bocca chiusa ti dicono: sei in territorio nemico, non dimenticarlo se vuoi vivere ancora. E’ nel budello stretto e lungo di Snow che un paio di settimane fa un soldato afgano, un soldato “amico”, ha ammazzato il primo caporal maggiore Miotto sparandogli a tradimento, a bruciapelo, e ancora oggi nel budello di Snow – sono 15 metri per 40 contornati da una murastro continuo di sacchi di terra e pietre alto 2 metri – i nostri soldati, poco più d’una ventina, convivono con i loro compagni afghani, una decina; stanno tutti assieme dentro il budello di sabbia e di sassi, di qua gli italiani, di là dietro un basso muretto gli afghani. Dentro si circola solo con le armi scariche; non sarebbe dovuto accadere, ma è accaduto. E Miotto è morto. “L’ho preso tra le mie braccia che ancora respirava”, dice a voce bassa il primo caporal maggiore Antonio Tursi. E non vuole dire altro.
In guerra si muore, anche quando è una guerra che guai a chiamarla così, perché a Roma saltano su a dire che non hai capito niente, che l’Italia è uno strumento di pace, e che la guerra invece la fanno gli altri, che sono cattivi, e si chiamano Taliban e sparano non si sa perché , forse per Allah, forse per l’oppio, o forse perché più semplicemente non vogliono questi scarponi stranieri che gli macinano la terra e gli vorrebbero imporre regole, norme, costumi, al posto di quelli  che il tempo, invece, ha fatto eterni, che valevano 200 anni fa e varranno ancora tra 200 anni.
“Snow” fa parte della Guerra numero 2. Ancora nessuno te l’ha spiegato, alpino che stai dentro il budello stretto e le montagne che, lì a due passi, ti mangiano il fiato. Guerra numero 2 perché oggi in Afghanistan si stanno combattendo, contemporaneamente, 3 guerre. La prima, la Guerra numero 1, è quella ch’è cominciata nell’ottobre del 2001, quando Bush tentava disperatamente un recupero al trauma distruttivo delle Torri di New York. Allora si chiamava “Enduring  Freedom”, sono passati 10 anni ma si chiama a quel modo lì ancora oggi. La raccontai passo dopo passo, dentro le montagne, tra le casupole di fango e di niente, nelle strade di Kabul e Jalalabd, ed era una guerra vera, di quelle che fanno morti a centinaia, a migliaia. I morti li fa tutt’ora, questa guerra, con le bombe sganciate da dentro il cielo e i Chinhook che scaricano marines e tempeste di fuoco; solo che a quel tempo la Guerra numero 1 trapanava l’intero l’Afghanistan, da Nord a Sud, da Mazari i-Sherif a Kandahar, mentre oggi è concentrata soltanto in qualche provincia residua, la valle dell’Helmand, Zabul, Kandahar, e poi la montagna che dovrebbe dividere l’Afghanistan dal Pakistan e invece non divide un bel niente e fa del Pakistan il santuario dei Taliban.
Di questa guerra si sa poco, quasi niente, se non per i rari reporter americani che il Pentagono fa enbedded e si porta a spasso con i marines che inseguono un nemico sempre lontano e sempre vicino. Poco o niente, ma è una guerra che continua, uguale, frustrante, nervosa, che un giorno ti pare di esserci riuscito e però il giorno dopo il nemico – i Taliban, gli insurgents come preferiscono dire gli americani – il nemico è di nuovo lì, a roderti il fegato e a scorticarti il culo, che spari e uccidi ma anche spari e muori. E non sai – non lo sa nessuno – quando finirà. Se mai finirà.
In questa guerra-guerra gli italiani non ci sono, almeno non ci sono ufficialmente perché da qualche parte si parla con insistenza di “truppe speciali” che invece ci sono già, in missione clandestina, e però non si capisce quali truppe siano e quali missioni abbiano.
Gli italiani stanno, comunque, nella Guerra numero 2, questa di “Snow” e dell’alpino che passa le sue giornate dentro il budello di 15 metri per 40 con la montagna che gli sta addosso e gli ricorda che la guerra è una guerra anche quando la chiami missione di pace. L’avamposto “Snow” (gli americani lo chiamano “Cop”, Combat outpost) fa parte della nuova strategia della Nato, quella che ha capito che la Guerra numero 1 sì, va avanti, ma non ce la fa a chiudere la partita: e allora ecco la Guerra numero 2 con la strategia delle “bolle di sicurezza”, tante piccole bolle, tanti Cop, sparsi in un territorio non definitivamente “nemico” e dove segni e radichi la tua presenza per conquistarti, poco alla volta, giorno dopo giorno, la sicurezza e il controllo del territorio.
“Il nostro compito – dice il sergente Stella – è di fare di “Snow” il check-point delle quattro strade che s’incontrano in questo pezzo di deserto e di montagne: usciamo da “Snow” con i nostri commilitoni afgani, ci piazziamo in questo crocevia, e blocchiamo il traffico delle armi, il fiume dell’oppio, i trasferimenti delle milizie talibane verso Nord”. E’ un lavoro rischioso, spossante, continuo; ma alla fine paga. “I traffici si sono ridotti di brutto, e la gente, la poca gente che vive in questo deserto, comincia a guardarci con rispetto. Come se non fossimo più i nemici, ma soldati che portano la sicurezza”. E la sicurezza è il bene più prezioso di un paese dove la violenza ha sempre sancito, nei secoli,  la legge del più forte, la legittimazione del potere. E’ piccola cosa? Vallo a dire all’alpino che sta dentro Snow, che sa che la vittoria (la pace?) non è il trionfo dei carri corazzati e dei B-52 e lui la costruisce giorno dopo giorno, rischiando la sua pelle e la bandiera che pende in alto senza vento, pesante di polvere e di routine.
E poi c’è la Guerra numero 3, quella di Petraeus e dell’approccio “all’italiana”. Che sarà il reportage inviato in Italia dall’Afghanistan domani, insh’allah.


da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Febbraio 20, 2011, 10:27:10 am »

Esteri

20/02/2011 - REPORTAGE

Banchi e cannoni, l'Italia alla guerra


In viaggio con i lagunari nei villaggi perduti dell’Afghanistan.

«Finché ci siete voi non temiano i taleban. Ma le bimbe a scuola, no»


MIMMO CÁNDITO

Fa perfino caldo, dentro questo Lince tutto armi e acciaio. Sarà per l’elmetto verdastro calato a pentola sulla testa e il giubbetto mimetico che mi stringe addosso che quasi non mi fa respirare, sarà perché quest’anno domineddìo si è dimenticato dell’inverno, e nel pianoro che stiamo attraversando lentamente, molto molto lentamente, c’è soltanto il deserto pietroso ma nemmeno un batuffolo di neve che quasi pare una vergogna per il decoro meteorologico dell’Afghanistan, sarà magari anche per la tensione e la paura che ci fa simili, me e i soldati che stanno con me dentro il Lince, gli occhi ben aperti, il mitra nelle mani, con la torretta del mitragliere, lassù, che cigola di metallo stridente ogni volta che lui la fa ruotare per controllare l'orizzonte giallo di sole e di polvere, sarà quello che volete, magari anche le brache di lana e il maglione spesso che mi son portato «perché in Afghanistan è inverno e fa un freddo boia», ma insomma qua dentro c’è un caldo che sembra d’essere tornati nelle pianure desolate dell’Iraq.

Siamo in un’altra guerra invece, ch’è la Guerra afghana numero tre, e più o meno ci sto anch’io, prestato per qualche settimana ai nostri soldati, che sono vestiti e bardati ormai come tutti gli altri Rambo d’ogni esercito - stesso elmetto, stessa mimetica, stessi anfibi, occhialoni scuri, visore notturno, microfonino attaccato alla guancia. È la guerra, uguale dovunque. E però, quando si parla di Afghanistan, e delle battaglie che qui si fanno e i morti e le rovine, se ne discute come se parole e i fatti avessero perduto ogni senso. Per capire, invece, che cosa significhi esserci dentro, se abbia senso starci, quali speranze ci siano di uscirne senza aver perduto inutilmente vite umane, speranze, miliardi di euro, perduto perfino il nostro dovere di rispettare quanto ci impone l’articolo 11 della Costituzione (quello che dice che l’Italia non fa la guerra, nemmeno quando la chiami missione di pace), allora bisogna anzitutto tagliare in tre parti questo enorme, affascinante, Paese di montagne, di deserti vuoti, di silenzi senza eco.

Perché, c’è la guerra afgana numero 1, che la fanno (quasi esclusivamente) gli americani, con le loro bombe dall’alto e i marines sul terreno, e si chiama - come 10 anni fa - Enduring Freedom e coinvolge più d'un terzo dell’Afghanistan, nelle province più dure del Talibanistan, lungo le illusorie frontiere con il Pakistan. E c’è la guerra numero 2, che è quella delle «bolle di sicurezza», gli avamposti spregiudicati (come il Cop «Snow» dov’è morto Matteo Miotto) piantati in un territorio di natura ambigua - non nemico, forse, ma neanche amico - e proposti come il primo progetto di un controllo militare che, progressivamente, assicuri una vivibile condizione di sicurezza e apra la strada alla pace stabilità d’una pace vera.

E poi c’è questa, appunto, del Lince con cui stiamo marciando cauti e a occhi ben aperti nel deserto vuoto che ci circonda, e che è la numero 3, quella che il gran capo di tutti, il generale Petraeus, ha chiamato «la guerra che conquista i cuori e le menti» ma che il nostro generale Bellacicco - che comanda l’intera regione occidentale - preferisce definirmi, e con qualche non celata soddisfazione, come «la guerra dell’approccio all'italiana».

Le etichette contano poco, alla fine, e la sostanza è che con questo convoglio stiamo andando ora a portare i banchi di legno - quelli a coppia, d’una volta, con il tavolino e i due sedili accostati - per una piccola scuola che gli italiani hanno già costruito nel villaggio di Kourmalek, a una cinquantina di chilometri a Est dalla base di Farah; e che se di banchi di scuola parliamo, non pare proprio la guerra, eppure una guerra comunque è.

Il convoglio con cui procediamo lentamente dentro nuvole rabbiose di polvere ha, infatti, ben poco di turistico. Avanti c'è un carro corazzato, il Dardo dei bersaglieri, con il suo cannoncino che punta l’orizzonte e apre la strada, poi ci sono 4 blindati Lince, quelli che possono resistere all’urto delle bombe nascoste nel terreno e hanno il mitragliere in torretta, poi i camion con i soldati del reggimento Lagunari e i banchi da regalare, e in coda - a dare ancora sicurezza - un altro Dardo. E se non è roba da guerra, guerra vera, questa, non saprei davvero come chiamarla.

Siamo partiti poco dopo l’alba dalla base della Task Force South, a Farah, un mare di grandi tende, grigie di polvere, dove il reggimento dei Lagunari e quello (il Cosenza) dei bersaglieri stanno accampati con ogni prudenza, custoditi da un grande dirigibile bianco che sta piantato su, in cielo, e ha una rassicurante telecamera che controlla e scandaglia l’intero orizzonte. Kourmalek è un grosso villaggio allungato dentro la pista del deserto che porta a Bakwah, una cinquantina di chilometri dalla base, verso Sud-Est; sono alcune decine di casupole di fango coperte da una cupoletta tozza, come i dammusi di Lampedusa.

«Khalam, khalam», grida la piccola folla di bambini, forse 30, forse anche 40 o 50, che vuole la mia penna e si stringe addosso a rubarmela nello slargo dove ci siamo appena fermati. I bimbi sono allegri come tutti i bimbi, ma intanto i Dardo e i Lince si sono piazzati in sicurezza coprendo con cannoncini e mitragliatrici ogni orizzonte, a 360 gradi, e i soldati ci accompagnano a ogni passo, le armi in mano, i loro microfoni che gracchiano ordini e informazioni. Sarà pure «all’italiana» ma questa è comunque una guerra, e la pelle è sempre in gioco, perché i talebani sono come l’aria che non li vedi ma possono stare dovunque.

Arriva il capo della shura del villaggio, una sorta di sindaco in turbante e sherwal khemiz, le brache larghe, una copertina sulle spalle, e una piccola corte di dignitari che gli fa seguito. Con larghi gesti di simpatia il colonnello Parmeggiani gli consegna i banchi, che i soldati portano subito nella piccola scuola; i bimbi gridano di felicità anche se sono scalzi e laceri, l’aria è tiepida, il «sindaco» si mostra soddisfatto, ha la faccia scaltra di un ladro di cavalli. Nero di sole, una gran barba nera sotto il turbante nero, gli occhi neri e duri, se l’incontri di notte gli dai subito il portafoglio, il «khalam», e perfino le scarpe. Verso di lui e il suo codazzo, Parmeggiani è l’ambasciatore di questa guerra all'italiana, che vuol dire che hai il mitra e i cannoncini che ti seguono dovunque e però hai anche i banchi da regalare, la scuola da costruire, e i sacchi di riso e di frumento che i soldati consegnano sorridendo.

Basterà tutto questo regalo e questa affettuosa cortesia, basterà per vincerla questa guerra numero 3? Mi tiro in un angolo il sindaco e l’interprete. Il sindaco scuote la testa, «No, talebani in giro è da molto che non ne vediamo», dice, e guarda senza guardarmi. Sì, gli dico, ma qui attorno vedo solo maschietti, neanche una femminuccia. «Ma la scuola è fatta per i maschietti». E le bimbe? «Non abbiamo maestre, qui, e dunque le bambine restano a casa...». E allora, se noi portiamo anche le maestre? «Eh, no. È lo stesso... Noi, qui, viviamo così da 200 anni, e per altri 200 anni sarà ancora così». Però in città le bambine vanno a scuola, e sono anche felici. «Ah, in città. Lo farei anch’io se fossi in città, ma io vivo qui. E la città è lontana». Non cambia nulla, allora? la scuola, i banchi, il riso, il frumento... «Sai, ora ci sono gli italiani, e va bene così. Ma quando gli italiani se ne andranno, i talebani torneranno». Sorride senza due denti, sembra proprio un ladro di cavalli.

A un caporale che mi sta accanto col mitra puntato a proteggermi, e che ha sentito la traduzione, racconto quanto diceva Kipling, che puoi fidarti di un serpente più di quanto tu possa di una prostituta, ma che devi fidarti d’una prostituta più d’un afghano. Il caporale dice di sì e batte con la mano sul mitra, anche lui sorride.

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« Risposta #21 inserito:: Marzo 20, 2011, 03:16:55 pm »

Esteri

20/03/2011 - LIBIA TRAMONTO DI UN REGIME

L'orgoglio panarabo del Colonnello ossessionato dall'Italia

Il dominio coloniale ha segnato tutta la sua storia politica

Aveva un sogno: riscattare i Paesi della Mezzaluna e l'Africa

MIMMO CÀNDITO

Una cicatrice sul braccio d'un bambino che giocava libero nel deserto può diventare anche il segno d'un destino predeterminato.
Ci sono infatti memorie che talvolta decidono una vita, anche quando soltanto di vita d’uomini qualunque si tratta. Se poi quella vita comanda il destino non d’un uomo soltanto ma il destino d'un intero popolo, allora la memoria lontana d'un bimbo può anche diventare un segmento incisivo sul tempo della Storia. Aveva appena 6 anni, Muammar Gheddafi, quando quella mina esplose. Era il 1948, e giocava con i suoi cuginetti in uno spiazzo polveroso della piana arida di Sirte. Trovarono invece una vecchia mina ch’era stata sepolta chissà quando dai soldati del Regio esercito coloniale d'Italia. I due cuginetti morirono, Muammar si ritrovò soltanto con quello strappo violento lungo tutto il braccio. Non lo dimenticò mai.

La sua storia di capo-popolo, il risentimento affondato nel petto, muovono anche da quel mattino lontano, quando l'odio per una ingiustizia subita senza colpa interverrà poi, nel tempo, in scelte politiche che appariranno dettate da emozioni che la razionalità d'una leadership raramente tiene in conto. E con l'Italia sempre - o quasi sempre - al centro d'un universo dove la geografia di due Paesi che stanno di fronte ha sicuramente un ruolo determinante ma dove a contare è anche il desiderio d'un risarcimento che metta assieme la memoria ferita d'un bambino e il riscatto d'una dominazione coloniale che umiliava il popolo. Il primo atto, quello simbolicamente fondante, è il decreto del 21 luglio del ’70, con cui il nuovo Consiglio della Rivoluzione - di cui un giovane sconosciuto capitano nato a Sirte ha preso il comando, esiliando con disprezzo quel re Idris d'una tribù dell'Oriente cireanico - ordina il sequestro di tutti i beni dei 20 mila cittadini italiani che ancora lavorano e vivono nella nuova Libia militarizzata, e ordina poi la loro espulsione immediata, da chiudersi in pochissimi giorni, un fagotto di tela o un cartone dove stringere quello che si può salvare nell’affanno d’una vita spezzata e la nave in porto che già aspetta.

Il 7 ottobre sarà poi per sempre il «giorno della vendetta». Ma l’Italia riaprirà comunque la sua ambasciata, e cercherà un percorso di riappacificazione, anche perché la Libia è intanto diventata una potenza petrolifera, e la politica energetica dell’Italia non può ignorare l'interesse che «la quarta sponda» offre agli investimenti dell’Eni, dopo che il giacimento di Zeltén ha fatto scoprire quale insensatezza fosse l'aver pensato a quella sponda come soltanto «uno scatolone di sabbia». Quanto più la politica energetica diventerà poi uno degli elementi essenziali delle strategie internazionali, dopo lo Yom Kippur e la rivoluzione araba del petrolio, tanto più il Colonnello tenterà d'imporre la sua visione del mondo alle vecchie potenze coloniali. E la sua visione, montata sul panarabismo di Nasser, sogna un riscatto dove i Paesi della Mezzaluna - e la stessa Africa - saranno chiamati a determinare i nuovi destini del mondo. Sono gli anni del terrorismo come strategia di una rivoluzione mondiale, e Gheddafi ne usa con spregiudicatezza ogni azione, finanziando movimenti e gruppi senza limite di frontiere, dall’Ira irlandese al Settembre Nero palestinese. L'Italia resterà nell’ombra di questa fanatica visione d'un nuovo tempo modellato dalla potenza dei petrodollari, e dovrà comunque barcamenarsi sotto le pressioni del Colonnello che minaccia sempre ritorsioni per un passato coloniale mai sanato, servendosi anche della cattura di qualche peschereccio di Mazara del Vallo da usare come leva di ricatto per aver mano libera nell’uccisione dei molti leader dell’opposizione libica che hanno trovato rifugio in Italia. Ma quando Reagan, il 15 aprile dell’86, dopo l'attentato a una discoteca di Berlino affollata di marines, decide ch’è giunto il tempo d'una lezione e bombarda Bengasi e Tripoli e la stessa caserma-residenza di Gheddafi, sarà soltanto una misteriosa telefonata (molti pensano di Craxi, presidente del Consiglio italiano) a mettere il Colonnello sull’avviso e a salvargli la vita. Riprende così il tempo dell'alternanza tra risentimenti d'antiche memorie e sviluppo di relazioni con Roma di buon vicinato, che troverà poi un primo radicamento di pacificazione nell'invito che Romano Prodi, presidente della Commissione dell’Unione Europa, rivolgerà a Gheddafi per una visita ufficiale a Bruxelles. Il Colonnello - che in questa alternanza aveva trovato il modo di scaricare verso Lampedusa due missili Scud B per ritorsione - ha intanto abbandonato la politica del sostegno al terrorismo, ha riconosciuto di fatto la responsabilità negli attentati al volo 103 della PanAm nel dicembre dell’88, e poi al Dc-10 dell’Uta nel settembre dell’89, e alla fine riceverà a Tripoli la visita ufficiale del capo del governo italiano, Massimo D'Alema. Non sono ancora i tempi che seguiranno, degli abbracci con Berlusconi a Roma e a Tripoli e di quel bacio della mano che segnerà la degradante umiliazione d'una politica d'affari senza dignità, ma certo si va spegnendo il bruciore di quella lunga cicatrice nel braccio destro d'un bimbo che giocava nel deserto. E verranno, alla fine, anche le passeggiate trionfali nelle piazze stranite di Roma.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 26, 2011, 03:16:12 pm »

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26/03/2011 - REPORTAGE

Ajdabiya, al fronte in ciabatte "Qui stiamo facendo la storia"


Il comandante dei ribelli è un ingegnere informatico: "Neanche il Che era un soldato"

MIMMO CÁNDITO

AJDABIYA

Questa è una storia di guerra, ma non di quelle della televisione, che hanno sempre un eroe bello e sfortunato, le palme sullo sfondo, e ti fanno piangere. No, questa è una storia senza eroi, una storia di gente qualunque, anche sfigata, e magari brutta, gente che si trova a fare la guerra senza nemmeno saperne bene la ragione e però la fa ugualmente, soltanto perché quando si è gente qualunque i doveri si rispettano sempre.

Bachir Marghei ha 40 anni, tre figlie e un maschietto, e fino a un mese fa era ingegnere petrolifero in una società di Bengasi. Ieri l'ho trovato sulla strada che porta ad Ajdabiya, un berrettaccio di lana lo copriva fin quasi agli occhi, e aveva una palandrana militare alle ginocchia e le scarpe da passeggio. «Alt!», ha detto alla mia macchina, e l'autista gli ha fatto: «Ma è un giornalista». Lui ha ripetuto no con la testa: «Stampa o no, se vai avanti ti ammazzano». Era l’ultimo check-point prima di raggiungere Ajdabiya, la città dentro cui è assediata una colonna di gente di Gheddafi. «La dentro saranno forse in 120, hanno 7 tank, una dozzina di katiuscia, e si cagano sotto dalla paura. Ma se ti avvicini ti stendono come niente».

Bachir non è un eroe, però da un giorno all'altro è diventato un soldato, il comandante di un importante check-point, e nemmeno se la tira. «C’era la libertà sulla strada della Libia, e io ho scelto». Sì, ma i tuoi, chi ci bada? «Ho un fratello a Bengasi, e poi i nostri vicini di casa danno sempre una mano a mia moglie».

Non è un eroe, però, vivaddio, è anche lui di carne. E di fronte al reporter che lo accarezzava sul braccio e gli dava solidarietà, non ha saputo tenersi: «La notte scorsa, approfittando che c'era un attacco degli aerei francesi mi sono avvicinato ai carri di Gheddafi. Strisciavo lungo un fiumiciattolo asciutto e stavo coperto da una duna di sabbia. All’improvviso ho visto il tank nel buio, di fronte a me, non più di 30 o 40 metri. Ho tirato con il mio lanciagranate, è esploso in fiamme». E si calava e si drizzava il suo berrettaccio.

Forse è per questo racconto che mi ha concesso di andare oltre, fino alla prima linea, dove nessun reporter può arrivare. L'interprete nicchiava, «Ma è pericoloso», mentre l'autista, un ragazzo che ha studiato in Florida, era tentato assai e spingeva il suo compagno parlandogli stretto in arabo. Siamo andati avanti lentamente, molto lentamente. La strada, al riparo della duna, era piena di soldati - chiamiamoli così, ma è una follia - e di pick-up parcheggiati, e tutti, anche i pickup, ci guardavano straniti sfilargli accanto. «Markhaba», buondì, buondì. Sembravano i figli dell’armata Brancaleone, un pugno di ragazzi, chi vestito da Rambo, chi con i jeans e un foulard chiccoso, chi con le braghe coloniali e la kefiah, chi in una improbabile uniforme, ma tutti, o quasi, con le scarpe da ginnastica o le ciabatte.

Siamo arrivati fin dove la duna si consuma, e forse da laggiù, dalla città, ci hanno visto, perché un tank ha tirato una cannonata che ha rotto il caldo ardente del sole. Non abbiamo fatto a tempo a sentire il tuono, che il colpo era già caduto a 100 metri da noi, sulla destra, alzando nel cielo una grande nuvola di sabbia. «Allah u akhbar», ha gridato in coro l'armata Brancaleone tirando su le braccia, e l'interprete si è tuffato sotto un pick-up. In mezzo minuto, da qui hanno risposto con un lancio di granate. Un lancio inutile, ma fa sempre cinema; e in guerra il cinema ha sempre effetto. Voleva dire: ehi, tu, cannone, guarda che qui ti teniamo d'occhio.

Fine della mia guerra. Si è avvicinato un altro comandante, piccolo, grasso, autorevole, con un giubbotto di pelle, le scarpe da passeggio, e un kalashnikov di traverso sul torace. Si è presentato: Mustafa al Serghesi, ingegnere informatico. Ingegnere anche lei? «Sì, ma ora comando il campo di addestramento di Bengasi. Mi passano sotto le mani circa 2000 ragazzi la settimana, e tutti questi li ho formati io», e allargava il braccio verso i figli di Brancaleone. Lo ascoltavo un po’ perplesso, poi gli ho detto con ogni cortesia possibile: «Vabbè, ma dall’informatica a fare la guerra nel deserto ce ne passa, mi pare». Mi ha guardato sprezzante, dal basso: «Perché, Castro e il Che erano dei soldati? Eppure hanno fatto la rivoluzione». L'ingegnere Mustafa non è nemmeno lui un eroe, in questa guerra senza eroi, ma mi ha dato una lezione solenne: «La motivazione, sai. Quando un uomo è motivato, nulla gli è impossibile. Gheddafi lo sta imparando». Poi mi ha stretto la mano, forte, tranquilla.

Siamo tornati da Bachir assai più veloci di quando lo avevamo lasciato. Gli ho chiesto della gente di Ajdabiya che sta scappando dalla città sotto assedio. Mi ha fatto vedere un’auto che si stava immettendo sulla strada (questa è ancora la vecchia strada di Italo Balbo, pur ripulita e riasfaltata), venendo da una piccola pista laterale che si perdeva nel deserto. Sono corso addosso all'auto, uno scatolone bianco guidato da un vecchietto con pochi denti. Dentro, affollati come in un pollaio, c'erano due donne e 11 bimbi di ogni età, dai neonati ai ragazzetti, «miei figli». Che Allah lo benedica. «Siamo scappati ieri notte, la città si è vuotata, la paura non ci faceva dormire, e non c’era più acqua né elettricità né niente da mangiare». E poi? «Abbiamo dormito dentro la macchina, accanto alle altre auto. Ce ne saranno un centinaio, e nel deserto la notte è fredda assai. Un vicino ci ha dato del pane per i bambini, che Allah lo salvi».
È ripartito verso Bengasi, dentro una nuvola di olio bruciato e di puzzo che chiudeva la gola.

Ma c'è un altro non-eroe di cui parlare, uno che si è avvicinato al finestrino del vecchietto mentre partiva, e gli ha dato un pezzo di carta con un numero di telefono scritto a penna. «Gli ho detto che lì può chiedere aiuto, gli daranno cibo e un tetto». Quest’ultimo noneroe si chiama Massud Bwiguiz (o un cognome simile, lo leggo male nel taccuino), faceva il panettiere ad Ajdabiya, poi la settimana scorsa è scappato e ora tiene il filo tra questi che scappano e un’organizzazione caritatevole. Lo spirito di solidarietà sta dentro l’Islam come dentro il Cristianesimo; qualcuno lo dimentica, qualcuno no. «Sto qui giorno e notte», ha detto con qualche pudore Massud, e si tirava la barbetta rossa sulla galabia zozza.

Ah, e la guerra? È fatta così, di ragazzi e ingegneri che sognano la libertà e però aspettano i razzi dei Mirage della Nato per poter vincere la loro battaglia. E sperare che il sogno non resti un sogno.

L’impotenza a chiudere è di Gheddafi ma anche dell’armata Brancaleone: per questo, tutti, in Libia, attendono il miracolo.

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« Risposta #23 inserito:: Marzo 31, 2011, 06:06:57 pm »

Esteri

31/03/2011 - LIBIA - LA GUERRA CIVILE

I ribelli perdono la città del petrolio

L'improvvisato esercito degli insorti è stato cacciato anche da Ras Lanuf.

I giovani si scoraggiano: dov'è Sarkozy oggi?

MIMMO CANDITO
INVIATO AD AJDABIYA

Quando uno ha visto in faccia la morte, e l’ha vista davvero, allora ha gli stessi occhi sbarrati che ha questo ragazzo impolverato, Hamed Kwisi, che sta arrivando qui, in retrovia, dalla battaglia di Ras Lanus e quasi non parla. È uno dei tanti ragazzi andati al fronte da volontari, con la kefyah al collo, le scarpe da tennis, e un fucile da agitare in aria per farlo ben vedere ai reporter che inseguono la battaglia come gli sciacalli la loro preda; ma ora per lui la festa è finita. Scuote la testa, pare rotto dentro, gli verrebbe da piangere, come si può piangere solo a vent’anni e per la prima volta nella vita si è capito che cosa sia davvero la paura, quella che ti chiude la gola e poi non dormi più come prima. «Credimi, non abbiamo nemmeno potuto recuperare i corpi dei nostri fratelli ammazzati. Dovevi esserci. Era un inferno, un inferno».

Ti guarda, ma nemmeno ti vede. «Tremava la terra e tremava il cielo. Ah, nel nome di Allah misericordioso, non potrò dimenticare mai». La festa pare finita. La cavalcata che domenica gli aveva fatto conquistare 400 chilometri di deserto, a lui e ai suoi compagni di questa armata Brancaleone, si sta trasformando in una disfatta amara, giorno dopo giorno. Inseguiti dalle truppe corazzate di Gheddafi, in appena una manciata di ore i ribelli hanno perduto As Suaan, Bin Jawad, Nowfilyia, Ras Lanus, Naguila, e ora sono sotto attacco a Brega. È una fuga disperata, più che una ritirata tattica, la confusione e la paura fanno sgommare i pick-up, s’incrociano grida, urla, e ordini, il cielo è tagliato dalle code dei missili che squarciano il deserto. «Un inferno, era un inferno». Povero Hamed, la sua Rivoluzione pareva un gioco felice, una specie di rito collettivo nel quale consumare, all’iniziazione alla libertà, i vent'anni suoi e di tanti suoi compagni.

Vanno ad arruolarsi nella Caserma del 7 aprile come se andassero a un party di adolescenti, trascinati da un entusiasmo contagioso, che mette nelle loro mani il dovere obbligato d’essere protagonisti di uno Stato nascente. Arrivano per chiedere informazioni a bordo della loro auto, finisce che si fermano dopo aver consegnato le chiavi a qualche amico. E però, queste passioni dei vent’anni la Rivoluzione le consegna anche agli adulti, quelli che mettono da parte il loro mestiere, professore, avvocato, fabbro ferraio, commerciante, e da un giorno all’altro si trasformano in soldati, anch’essi, della libertà. C’è uno spirito che verrebbe da chiamare risorgimentale, come i garibaldini di un’altra avventura impossibile. Qui una intera società pare travolta dalla voglia irresistibile, contagiosa, di essere, tutti, protagonisti e interpreti di un tempo nuovo. E l'armata Brancaleone diventa l’espressione di questa felice anarchia, quella che tutte le Rivoluzioni indossano al momento della conquista della libertà saltando forme istituzionali, gerarchie, regole di comportamento.

Sul fronte, lo schieramento di questa armata che pretende di sconfiggere Gheddafi e la sua potente macchina militare è formato da tre linee di fuoco: avanti vanno «le brigate speciali», un centinaio di uomini che hanno una professionalità militare sperimentata e usano le armi di maggior potenza in dotazione alla Rivoluzione; seguono i soldati di mestiere, quasi tutti passati dai vecchi comandi gheddafiani ai nuovi comandi rivoluzionari, e in ultimo si ammassano le reclute improvvisate ma entusiaste della caserma del 7 aprile, quelli con le scarpe da tennis o i mocassini, la kefyah al collo, e i jeans a vita bassa. Questi sono la parte più folkloristica dell’armata Brancaleone, ma in tutto non arrivano a 1000 uomini, anche se nessuno vuol dare una cifra ufficiale, e le armi che tutti hanno in dotazione sono quelle che hanno rubato dai depositi e dalle caserme al momento della Rivoluzione, un mese fa.

C’è qualche carro armato, una decina di lanciarazzi Grad (quelli dei missili a lunga gittata, con 40 bocche di fuoco), alcune decine di Katiusha (a 12 bocche di fuoco), una ventina di mitragliatrici antiaeree a 2 e a 4 canne, una cinquantina di pick-up montati di cannoncini da 105 e di cannoncini Duchka, e poi i Kalashnikov di dotazione, vecchi modelli, pesanti, quasi mai usati. Se la guerra diventasse una vera guerra - e non quella che è ora, dove vinceva chi non combatteva - i 10.000 soldati di Gheddafi, armati come un vero esercito, questi «soldati» della Rivoluzione se li mangerebbero in un solo boccone. Qui lo sanno tutti, e guardano il cielo, aspettando nuove armi e nuovi raid aerei. A un posto di blocco, ieri uno dei ragazzi gridava forte, di rabbia, qualcosa che non aveva bisogno d'essere tradotto. «Ma Sarkozy, dov’è oggi Sarkozy?».

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« Risposta #24 inserito:: Maggio 04, 2011, 05:15:58 pm »

4/5/2011

Le sfide della libertà di stampa

MIMMO CÁNDITO

Ieri era la giornata mondiale della libertà d’informazione; la parte del mondo che l’ha celebrata era assolutamente minoritaria. Quei Paesi - quasi 5 miliardi di abitanti - che non le hanno fatto una festa evidentemente non ne sentivano il bisogno. Avrebbero potuto celebrare un funerale, l’assenza di libertà d’informazione è anche la morte della società civile; ma a tiranni, dittatori, regimi autoritari, democrazie elettorali non si può chiedere di commettere suicidio. Si può soltanto denunciarli all’opinione pubblica.

Lo si è fatto un po’ dovunque, nel mondo. «Reporters sans frontières» ha pubblicato un rapporto che denuncia 38 «predatori di libertà», da Gheddafi a Putin, da Raúl Castro all’Eritrea, alla Birmania, anche all’Italia; la Fnsi ha chiamato a convegno i giornalisti del Maghreb perché discutessero con i giornalisti italiani la difficile costruzione d’una democrazia nei Paesi della «primavera araba»; televisioni, radio, giornali lo hanno voluto ricordare con testimonianze, memorie, reportage.

Ma la celebrazione più significativa è stata, paradossalmente, il contesto informativo nel quale quella celebrazione si trovava inserita. Con un numero impressionante di pagine e di analisi critiche, ieri i giornali di tutto il mondo hanno infatti raccontato la morte di Osama bin Laden: nel mentre si celebrava la festa d’una difficile libertà, si raccontava anche la fine d’uno dei maggiori responsabili, negli ultimi dieci anni, della sottrazione di spazi e di autonomia al giornalismo.

L’Undici Settembre non è stato soltanto una tragedia per l’America, e per larga parte del mondo che si batte contro l’intolleranza e la violenza; il crollo delle Torri ha dettato ai sistemi mediali un dovere di cautela, un obbligo di prudenza, un pavido accostamento all’analisi della realtà, che finivano per coincidere con l’esercizio di una pesante autocensura, quando non un’autentica - mai esplicita, certo - censura.

Il 19 ottobre del 2001, quando fu lanciato l’attacco americano all’Afghanistan, il segretario Condoleezza Rice invitò a Washington i direttori delle più autorevoli testate. «Gentlemen - disse - stiamo per entrare in guerra, il Paese è in una grave condizione di crisi; il presidente Bush vi chiede l’esercizio del massimo patriottismo». Ciascuno dei direttori rispose come meglio credeva; uno soltanto le disse: «Signora, riferisca al Presidente che la più alta forma di patriottismo che noi si possa esercitare è di stare addosso al governo perché sempre racconti al nostro popolo la verità».

Non sempre fu fatto, ancora oggi Paul Krugman lamenta sul «New York Times» l’insoddisfazione per avere ceduto troppo agli spin-doctors della Casa Bianca. Uno di quei «doctors» si chiamava Bin Laden.

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« Risposta #25 inserito:: Agosto 23, 2011, 10:06:23 am »

Esteri

23/08/2011 - REPORTAGE

Capitribù, jihadisti e voltagabbana

La rissosa armata dei nuovi padroni

Opposizione divisa su tutto: a succedere al raiss sarà chi ha saputo tradire al momento giusto

MIMMO CÁNDITO
DAL CONFINE TUNISINO

Scrutata nel buio di questo polveroso, e inquieto, posto di frontiera, con la Tunisia dolce e morbida che si allontana alle spalle, e di fronte lo spazio aperto della Libia, le montagne ruvide del Jebel Nafusa a destra e, poi, il pianoro, fin laggiù dove si allunga il deserto vuoto di Sebha perduto dentro l’oscurità della notte che scende rapida, la geografia di questa Libia sfasciata assomiglia drammaticamente alla storia politica che l’attende, ora che Gheddafi è una pagina amara del passato. Vallate aperte e verdi, pianure che occhieggiano il mare, il deserto infinito giù a Sud, e monti, alti e aspri come i berberi che li abitano, tutto segna l’orografia di una complessità e di una contraddizione che - nel dopo Gheddafi segnerà indecisa, e probabilmente caotica, la costruzione di un Paese, il Nation Building, nel quale si sono sempre affossati i progetti e le speranze dell’Occidente, quando hanno voluto ficcare il naso in faccende che spettavano ad altri popoli.

È un «naso» che questa volta non è arrivato fino a calpestare con gli stivali il terreno di combattimento, anche se i bombardamenti della Nato sono stati nettamente lo strumento con il quale si è squinternata la macchina repressiva del regime e la sua armata di giannizzeri e di mercenari. Tuttavia, ora che si tratta di fare i conti con il futuro, si accende l’inquietudine di come impedire che questo futuro sia un altro dei teatri di destabilizzazione nei quali pare inevitabilmente precipitare il mondo, dopo il crollo delle Torri, giusto dieci anni fa.

E la più forte delle inquietudini è certamente il ruolo che probabilmente giocherà nei nuovi equilibri il fondamentalismo islamico. Gheddafi aveva voluto una Libia laica, dove lo spazio della religione e gli ipersensibili processi di autoidentificazione che accompagnano l’Islam nella quotidianità delle società musulmane erano stati tenuti sotto rigido controllo, con quella stessa, feroce, indifferenza repressiva che il Colonnello riservava a tutte le forme di opposizione possibile. Era stato, il suo, un lavoro metodico, e niente affatto facile, ricordando che a Derna, nella Cirenaica che sta dall’altra parte di questa frontiera, sul confine egiziano, sorgeva uno dei centri religiosi più rigidamente integralisti dell’intero Maghreb (è da Derna che arrivavano quasi tutti i libici che Al Qaeda ha impegnato nelle sue operazioni in Afghanistan e nel Golfo, e anzi i terroristi libici costituivano - rispetto alle ridotte dimensioni demografiche della Libia - la componente nazionale più numerosa).

Molti di questi jihadisti sono stati ammazzati nelle guerre dove lavoravano, ma molti sono tuttora vivi e sono anche rientrati in patria. Quale sarà il loro ruolo nel Nation Building nessuno, tuttora, può dirlo: ma certamente conteranno, e anche molto, se la Cia fin dall’inizio della sollevazione di Bengasi, in un febbraio che oggi appare lontano quanto un anno luce, esortava il dipartimento di Stato e la signora Clinton, a usare molta, molta cautela nel riconoscere la legittimità politica del nuovo governo insorto, il Cnt.

E ai jihadisti si attribuisce anche, da qualcuno, la responsabilità dell’assassinio del generale Younis, comandante generale delle forze armate ribelli, fatto fuori più o meno misteriosamente qualche settimana fa, per via di una possibile vendetta consumata a causa del ruolo che egli aveva avuto nella repressione del fondamentalismo religioso, quando era ancora compagno di merenda di Gheddafi. Altri attribuiscono questa vendetta a uomini appartenenti a clan e tribù che furono duramente repressi da Younis, allora ministro degli Interni del Colonnello.

L’una spiegazione può valere l’altra. Ma ciò che è certo è che il Nation Building dovrà inevitabilmente misurarsi con una catena sanguinosa di vendette che la vittoria legittimerà contro quanti avevano goduto di potere e di forza, e di violenza, nel regime che è appena finito. Sarà difficile districarsi da questa catena, consapevoli tutti che più della metà dei componenti del Cnt trionfatore è fatto comunque di uomini che nel vecchio regime avevano onori e responsabilità ufficiali (lo stesso leader Jalil era ministro della Giustizia di Gheddafi, nel momento in cui ha abbandonato il Colonnello ed è passato con gli insorti).

Questi «disertori» si spalleggeranno a vicenda avendo tutti un passato comune poco commendevole. Ma tra di loro si incuneerà anche l’identità tribale, cioè l’appartenenza a famiglie e clan che hanno una lunga storia identitaria nella vita delle terre che hanno fatto la Libia (la Cirenaica a Est, la Tripolitania a Ovest il Fezzan a Sud). L’identità tribale comporta il riconoscimento e il forte valore connotativo dell’appartenenza che è un fattore che la realtà metropolitana tende a diluire ma che conserva tuttora una sua forte qualità solidaristica nella Libia allo sbando dell’oggi post-gheddafiano.

Terza incognita dunque di questo Nation Building assegnato ai vincitori è il valore dell’appartenenza, che è poi uno dei fattori che hanno deciso la sconfitta finale di Gheddafi, per il ruolo assunto dalle tribù ribelli del Jebel quando hanno deciso di rompere ogni relazione con il Colonnello e cedere alle sollecitazioni e agli impegni che arrivavano dagli emissari clandestini dell’Occidente. Resta infine la componente liberale di questo complesso, contraddittorio, confuso, e forse anche inquietante, nuovo governo libico. Sono, queste, figure che hanno vissuto all’interno del regime, in una condizione di quieta accettazione, senza identificarsi troppo e però anche senza mai prendere le distanze.

Questa componente è la più vicina alla cultura europea, ed è stata ampiamente influenzata dai ripetuti contatti con l’Occidente, soprattutto con l’Italia. Per tutti loro vale quanto mi diceva qualche mese fa a Bengasi il professor Gerber, costituzionalista dell’università di Tripoli e anche docente all’università di Tor Vergata a Roma: «Abbiamo preparato il progetto per la nuova carta costituzionale. Il primo punto riconosce l’eguaglianza di tutti, senza distinzioni di sesso, di razza, o di religione. C’è stato un lungo e aspro dibattito tra i 21 membri della mia commissione. Ho avuto qualche difficoltà a farlo approvare; spero che verrà mantenuto nel documento finale della nostra Costituzione». E guarda fuori dalla finestra, verso il verde delle terre della Cirenaica. Ma la Libia ha una orografia complessa, come vedo da questo confuso posto di frontiera perduto nel buio della notte.

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« Risposta #26 inserito:: Agosto 27, 2011, 04:25:15 pm »

Esteri

27/08/2011 - REPORTAGE

Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenari


MIMMO CANDITO
TRIPOLI

Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa.

Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero.

La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità.

Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore».

Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare.

«Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore.

E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»).

L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa.

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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 22, 2011, 06:04:07 pm »

Esteri

22/10/2011 - GHEDDAFI I MISTERI IRRISOLTI- RETROSCENA

Da Ustica all’atomica i segreti sepolti con lui

Dopo la sua scomparsa molti tirano sospiri di sollievo, a Oriente e Occidente

MIMMO CÁNDITO

Ancora non era nemmeno confermata la notizia che a Sirte lo avevano fatto fuori, che già il potere che ora in Libia comandava senza più oppositori metteva le mani avanti: «Noi non abbiamo mai dato l'ordine di ammazzare Gheddafi». I governi - quelli ufficiali e regolari quasi sempre, figuriamoci poi quelli autodefinitisi transitori - non mostrano molti pudori nel difendere pubblicamente le loro malefatte, contando sul convincimento che alla fine le verità istituzionali hanno una buona capacità di tenuta nel tempo; i "weakyleaks" arrivano sempre dopo, quando la memoria si è affievolita e, soprattutto, le regole del gioco e i suoi stessi protagonisti sono ormai cambiati. E allora, perché non credere a quanto dicono oggi e dicevano già ieri Jalil e soci?

Loro, Gheddafi non lo volevano morto, proprio per niente, loro che fino all'altro ieri erano stati suoi corifei e accanto a lui ne avevano cantato glorie e sapienza. E certamente non lo volevano morto proprio per niente la Francia mistificatrice di Ustica, la Nato del comando regionale di Napoli, l'America bombardiera di Reagan e Clinton, il Pakistan di quel genio folle di Abdul Kader Khan, l'Inghilterra dell' Mi-6 di Blair e Gordon Brown, e anche l'Italia, naturalmente, l'Italia che va dal Craxi& Andreotti della Prima repubblica fino al Berlusconi&Frattini della Seconda. In più, certo, una lunga lista di nomi illustri e di nazioni orgogliose, e di bande armate, con, dentro, anche una cinquantina di capi di Stato africani, larga parte dei Raìss del Medio Oriente da Nasser fino a oggi, i servizi segreti di mezzo mondo dal vecchio Kgb alla Cia di sempre, e poi la galassia del terrorismo internazionale che negli Anni Settanta e Ottanta ma fino ai giorni nostri dell'integralismo qaedista ha avuto mani in affari e traffici che il Qaìd intrecciava inseguendo il suo sogno, la sua ossessione, di poter salire, un giorno, sulla poltrona dove sta seduto il più potente dei Potenti della terra.

Un tale listone di Paesi e di capipopolo che coinvolge i destini e le fortune praticamente di ogni latitudine del pianeta può voler dire una cosa soltanto: che Gheddafi certamente su quella sedia tanto agognata non s'era potuto mai sedere, e però anche che in questi suoi 42 anni di potere assoluto aveva intanto intrecciato una rete così estesa e fitta di relazioni da poter comunque sopravvivere con tutte le sue folli ambizioni, pur in un mondo che mutava geneticamente. In quella rete ci stava di tutto, il baciamano di Berlusconi come i baci sulle guance di Blair, la tenda beduina montata su a due passi dall'Eliseo come le lettere affettuose che la Cia e l'Mi-6 indirizzavano a Moussa potente capo dei servizi segreti libici; non tutte erano uguali, queste storie, certamente, e però tutte avevano qualche ombra ben nascosta, qualche manovra o qualche traffico che era meglio non far conoscere. Solo che quella rete Gheddafi ora se la porterà via con sé nella tomba; e nella terra che ha coprirà quella tomba senza nome sarà sepolta anche la fitta sequenza di misteri, e di strategie politiche spesso inconfessabili, che il Qaìd vivo avrebbe invece potuto aiutare a svelare, con conseguenze che oggi, magari, farebbero fare sonni assai inquieti a molti dei potenti degli ultimi decenni.

La sua forza, la fonte del suo potere e del suo sogno, era il petrolio, la manna inarrestabile che sgorgava dai pozzi della Cirenaica e della Tripolitania, offrendogli una munifica cassa continua con la quale comprare sudditanze, comparaggi, alleanze, servizi sporchi, strumenti di pressione d'ogni tipo, fino agli attentati più spregiudicati e alle stragi più indifferenti. E nello scorrere del tempo, questa cassa continua si piegava a strategie che il Colonnello cambiava senza apparenti problematicità, adeguandosi ai fallimenti, o comunque alle irresolutezze, che vedeva trasparire dagli ambiziosi progetti su cui di volta in volta aveva puntato. E se il primo progetto era stato quello dell'inseguimento del panarabismo di Nasser - un inseguimento nel quale, dopo aver buttato a mare la basi americane, aveva spinto fiumi di denaro verso l'Egitto e la Siria - subito dopo, vinta la delusione, aveva montato il nuovo progetto di un Terzo Potere, altro dal capitalismo e dal comunismo, fino ad approdare, in ultimo, a un panafricanismo che a forza di pagamenti cash costruiva una corte ubbidiente di capi di stato del Continente nero con cui reggere la sua ambizione di farsi Re dei re.

In questo movimento scomposto, dove il disegno della destabilizzazione era la linea guida che pilotava le scelte tattiche, Gheddafi non poteva non urtare interessi consolidati, egemonie politiche e d'affari, equilibri strategici molto delicati, con la conseguenza che ogni atto compiuto in un simile territorio di poteri sensibili doveva misurarsi con una realtà di fatto e su questa intervenire, provocandone la reazione inevitabile. Nasce all'interno di questa dinamica l'uso strumentale che Gheddafi faceva di ogni movimento politico e di ogni forza d'opposizione militare ai poteri istituzionali, e da qui tutti gli episodi che oggi accompagnano la riflessione sulla sua morte «in guerra», nell'impossibile desiderio di recuperare finalmente la verità di quanto è accaduto, a Ustica, a Lockerbie, a Berlino, a Bab Al-Azizyia, nell'Irlanda ddell'Ira, nel Paese Basco, o anche in Afghanistan e in Pakistan.

Ustica, il missile che abbatte un volo dell'Itavia nel cielo e nel mare di quell'isola, resta il simbolo più efficace e più significativo di questo intreccio di interessi strategici internazionali, e di mistificazioni politiche, che hanno accompagnato nella tomba, ormai per sempre, i «misteri» di Gheddafi. Il depistaggio continuo, gli atti spregiudicati di disinformazione, le menzogne ufficiali che coinvolgevano alti gradi militari del nostro paese, della Francia, del comando Nato di Napoli, sono pezzi d'una storia che s'è fatto di tutto - da chi poteva - perché non si chiarisse mai. In questa storia (che poi ebbe una coda in un caccia libico precipitato sulle terre di Crotone), Gheddafi, e un attentato contro di lui, sono rimasti sempre sullo sfondo, legando al destino del Qaìd di Tripoli interessi politici che paiono essere stati manovrati ben al di là del ruolo di Roma o di Parigi.

Sotto questa storia, e sotto quella, per esempio, del volo di linea della Pan-Am esploso in volo sul cielo scozzese di Lockerbie, c'era certamente il ruolo di terrorista internazionale che il Colonnello si era scelto per favorire una destabilizzazione diffusa, che dal Mediterraneo e dalle logiche dei processi critici del mondo arabo si era poi spinta fino a Washington e alla Casa Bianca. Il bombardamento di Reagan sulla «reggia» di Bab AlAzizyia sta dentro questo stesso scenario, dove i morti americani della discoteca di Berlino sono solo il pretesto per una resa dei conti che con quei morti aveva solo una relazione indiretta. E sta sempre dentro questo scenario il progetto di Gheddafi di costruirsi la sua Bomba, utilizzando l'avidità commerciale d'uno scienziato pachistano, Abdel Karen Khan, che ha venduto materiale fissile e tecnologia nucleare a ogni angolo delpianeta.

Ora che Gheddafi era diventato un «buono», consegnando agli americani i suoi piani nucleari, la rivolta di Bengasi fattasi rivoluzione ha fornito un buon pretesto agli interessi francesi (e non solo francesi) per togliere comunque di mezzo il Colonnello. Certamente, nessuno voleva ammazzarlo. Ma in guerra si muore, e può anche accadere che una morte «in guerra» metta sotto un metro di terra anche mille scomode verità.

da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/425991/
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 28, 2011, 05:56:03 pm »

27/12/2011

Vittoria impossibile se non si tratta con taleban e Pakistan

Il controllo del territorio è labile: nel 2014 si rischia il disastro

MIMMO CÁNDITO

A essere a Kabul, un mese fa, per la grande adunata della Loya Jirga, ci si trovava a girare con occhi ben aperti in una città blindata come non mai prima, l'esercito che pattugliava a muso duro le strade principali, i cecchini sui tetti dei palazzi attorno all’assemblea numerosi più delle formiche, mentre due giorni di chiusura obbligata d’ogni negozio facevano muto e vuoto lo scorrere della vita quotidiana. C’era un’aria di tensione che i 2000 grandi vecchi delle tribù dell’interno traversavano con una evidente inquietudine; era come se la guerra afghana fosse appena ai suoi primi giorni, e sono ormai dieci anni, invece, che la guerra dilaga in ogni angolo del paese, tra montagne e vallate che la Nato sostiene di controllare oggi con i suoi eserciti e con le sue tecnologie d'avvenire e dove, però, il controllo è soltanto una amara illusione che dura quanto la luce del giorno; poi, quando cala la notte, i taleban escono fuori dai loro rifugi inafferrabili e l'Afghanistan torna a essere la trappola mortale che da due secoli a questa parte inghiotte soddisfatta gli stivali stranieri e le loro ambizioni.

C’è una drammatica contraddizione tra quanto si vede ufficialmente sul terreno e quanto passa, invece, nella costruzione mediatica di questo conflitto. Non che gli americani e la Nato non stiano dentro il corso della guerra, non che non continuino ad attaccare il nemico con aerei con droni e con le truppe a terra, non che non tentino di dirigere la battaglia verso una soluzione militare accettabile (qualcosa, insomma, che possa esser venduto come un pareggio e non una sconfitta); ma a viaggiare dentro l'Afghanistan si vede facile che questo formidabile impegno non appare adeguato a mantenere un equilibrio duraturo dello scontro, capace cioè di fissare una egemonia che corrisponda alle ragioni di quell’attacco lanciato da Bush sull’onda d’urto del 9/11 e diventato poi un impegno multinazionale di stabilizzazione dell’area Af-Pak.

La Loya Jirga d’un mese fa era stata convocata per confermare una sorta di legittimazione politica nazionale del potere del presidente Karzai; c’era da superare il mezzo fallimento di quella del 2010, quando i taleban avevano preso a cannonate le tende della riunione (e questa volta, prudentemente, la convocazione è stata fatta al chiuso, al sicuro, sotto un solido tetto di cemento armato), e c’era soprattutto da dare all’«alleato» americano l'immagine d'una partnership credibile per la definizione della strategia che dovrà seguire il ritiro definitivo delle truppe straniere. Così, ai 2000 grandi vecchi che agitavano le loro barbe bianche Karzai ha raccontato che «l’Afghanistan è come un leone, un po’ vecchio, un po’ stanco, un po’ malato; ma un leone resta sempre un leone, e nessuno osa pensare di poterlo attaccare, perché sa che ne verrebbe sbranato».

Forse Karzai esagerava. Ma il suo era un atto sostanzialmente dimostrativo, che doveva poi avere la propria ricaduta politica nella conferenza internazionale convocata in Germania per l’inizio di dicembre, giusto a dieci anni da quella che nel 2001 era sembrata celebrare il trionfo di Enduring Freedom e la sconfitta dei «seminaristi» di Omar e Bin Laden.

La conferenza di Bonn è stata celebrata secondo calendario, e Karzai ha chiesto ai suoi interlocutori ancora 10 anni di appoggio economico, politico, e militare, dopo la chiusura ufficiale del 2014. Ma in sala non c’era il convitato di pietra di questa guerra, il Pakistan. E se si scomodano a discutere di come fare una pace quelli che la guerra la stanno facendo, e però poi i taleban e i servizi segreti dell’Isi restano fuori dalla porta, loro che sono quelli che la guerra all’Isaf e agli americani la fanno davvero, allora c’è da pensare che la realtà impone strategie nuove e scenari diversi.

Allora, l’unica strada percorribile appare oggi quella del negoziato: trattare alla pari con i seminaristi inturbantati, concedendo qualcosa alle ambizioni territoriali di Islamadab e impiantando un equilibrio di fatto con le forze che combattono nelle varie regioni del paese, tra autonomie pashtun (coinvolgendo la Rete Haqqani) e autonomia tagika. Fare una guerra che è costata miliardi di dollari e decine di migliaia di morti e trovarsi poi ad avere nelle mani poco più del pugno di mosche non appare un gran risultato. Perché, se la cosiddetta

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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 06, 2012, 09:41:41 am »

6/1/2012

Il Cile cancella dalla sua storia la parola dittatura

MIMMO CANDITO

C’è da pensare che chi ha avuto, laggiù in Cile, questa bella pensata, di far grazia alla memoria di Pinochet, tentando di sostituire «dittatura» con una più pudica parola, «regime», non conosca nulla dell’ironia con la quale Manzoni fingeva di raccontare ai suoi 25 lettori che è «cosa evidente, e da verun negata, non essere i nomi se non purissimi accidenti». Sappiamo bene che le parole sono invece pietre, e che la loro scelta, la loro selezione, determinano assai più d’un astratto e inoffensivo «accidente»: creano realtà, conoscenza, identità.

L’ipocrisia è la veste da camera della politica, addobba ciò che non si deve vedere, lo adorna, ne nasconde le brutture e le miserie. Almeno, in pubblico. Quando, nel silenzio ovattato dello Studio Ovale, il consigliere diplomatico comunicò al presidente Roosevelt che in Nicaragua i militari avevano appena fatto un colpo di Stato, e che quella era proprio una brutta storia perché a prendersi il potere era stato un lercio figuro, un trafficone che in pochi anni era passato da sergente a generale, insomma un autentico figlio di puttana, Roosevelt perse la pazienza per quel panegirico troppo malato di etica e di morale, e battendo il pugno sul tavolo che aveva davanti sbottò: «Sarà pure un figlio di puttana, ma si ricordi che è comunque il “nostro” figlio di puttana». Questo, però, nel chiuso della Casa Bianca.

La politica coltiva i suoi «sons of a bitch», a ogni latitudine. E se la spregiudicatezza con la quale per larga parte del secolo passato Washington sollecitò, approvò, e resse, tutte le dittature che s’impiantavano a sud del Rio Bravo, dal cortile di casa del Centro America fin giù ai generali che, dalle parti di Baires, di Santiago, e di Montevideo, torturavano e ammazzavano a man bassa nel nome di Cristo e della Civiltà Occidentale, non molto di diverso, poi, è accaduto dalle nostre parti, dove soltanto di recente ci si è accorti che nel mondo arabo tutti i nostri «alleati», che per decenni avevamo coccolato per i buoni affari che ci consentivano di fare spartendo con noi i proventi d’ogni investimento, in realtà erano autentici «sons of a bitch», chi più chi meno, certamente, ma tutti della stessa categoria.

L’operazione di pulizia d’un passato disonorevole è stata tentata molte volte, in America Latina, sostenuta da trasformazioni politiche che hanno sì mutato le istituzioni ma hanno anche faticato a impiantare una cultura della democrazia. Il processo del cambio si è attenuato tra le ragioni della «memoria» e quelle dell’«olvìdo», tra la conservazione della conoscenza e l’inevitabile tentazione dell’oblio. In Argentina si è andati avanti per anni con un amaro pendolo che oscillava tra leggi di amnistia e riaffermazione del diritto; così in Uruguay, e in Cile. Alla fine le ragioni del diritto hanno saputo affermarsi, pur con qualche titubanza; ma l’operazione che si sta tentando ora a Santiago è diversa: si è passati dal parziale recupero d’approvazione delle leggi economiche di Pinochet - tentando di innestare un nuovo «accidente», la definizione semi-assolutoria di dicta/blanda al posto della dicta/dura - per arrivare ora a proporre, del tutto, la cancellazione della identità politica di quel tristo periodo che va dal ‘73 al ‘90.

Voler abolire per legge la specificità della «dittatura», trasferendola verso l’ambiguità del «regime», è un progetto che mira a cancellare l’identità d’una azione politica basata sulla violenza e sulla soppressione della libertà, per sostituirla con una più generica e anonima struttura nominale dell’esercizio del potere pubblico. Il 40 per cento dei cileni ha meno di 25 anni, ha dunque vissuto ogni giorno della propria vita - fin dall’atto stesso della nascita - in un tempo nel quale la dicta/dura era soltanto passato, storia, talvolta anche cronaca; a conservarne la memoria c’erano quelle lapidi grigie e quei nomi che stanno a pochi passi dal cancello d’ingresso del cimitero di Santiago ma, soprattutto, c’era un vissuto concreto, forte, reale, di larga parte del Paese, quale che fosse la scelta politica che questo avesse fatto.

Oggi questa memoria di carne si è fatta meno forte, il progetto del ministro Beyer vuole cancellarlo; poi, forse, potrebbe venire il tempo per cancellare quei nomi e quelle lapidi grigie che stanno a pochi passi dal cancello del cimitero. Ancora oggi c’è sempre qualcuno che va a pulirle, a toglierli il velo di polvere, a bagnare qualche raro fiore portato senza nome: ma sono vecchi uomini e vecchie donne. Beyer osserva da lontano, e aspetta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9620
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