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Autore Discussione: Mimmo CANDITO, giornalismo in lutto: addio al reporter Mimmo Candito  (Letto 31610 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 26, 2012, 09:17:34 am »

26/1/2012

Le primavere e la libertà

MIMMO CANDITO

E’possibile che non sorprenda («non fa notizia») che la classifica mondiale della libertà di stampa del 2011 abbia ai primi due posti la Finlandia e la Norvegia, e sbatta in fondo alla lista l'Eritrea, il Turkmenistan, e il Nord Corea. Sono posizioni, le prime e queste ultime, che si ripetono con costanza, anno dopo anno. Ma dovrebbe invece interessare la registrazione dei mutamenti dei Paesi del Maghreb, protagonisti di quella Primavera che ha cambiato profondamente il corso della storia dei popoli del Medio Oriente. I numeri nel listone dei 179 Paesi del mondo, non sono granché confortanti, stanno tutti schiacciati ancora nella parte bassa. E se la Tunisia, caso unico, guadagna 30 posti e risale dal 164 al 134, per gli altri ci sono scivoloni amari: l'Egitto perde 33 posti, va giù la Libia, non parliamo nemmeno della Siria che già era messa malissimo, precipitano Bahrein e Yemen, e perfino l'Iraq (che non è Maghreb ma sta comunque nella galassia araba) perde 22 posti per via dell'uccisione di 2 giornalisti e delle bombe e degli assalti contro i media locali.

Insomma, tutto ciò che è stato raccontato in quest’anno appena passato, di una Rivoluzione che ancora non si realizza, d'una speranza disastrata da scontri di piazza, guerre civili, repressioni di un potere sempre più in crisi, finisce per riflettersi nella restrizione degli spazi informativi, che attraverso Internet erano invece stati l'autentico volano d'una dinamica inarrestabile. La contraddizione denuncia che il potere politico ch'era stato smantellato da una «rivolta informatizzata» ne ha colto bene il ruolo determinante, e con rapidità ha provveduto a bloccarne la pratica d'uso, attraverso la repressione militare dei media e l'arresto di blogger che pilotavano i flussi informativi di contestazione. Evidenziando quella contraddizione, ora la classifica di «Reporters Sans Frontières» registra anche la mutazione che assegna a Rete e Blog un ruolo sempre più centrale nella determinazione della conoscenza. Mettere a tacere, silenziare, spengere, per poter continuare a sopravvivere.

Il riflesso arriva fino all'Italia - che scivola di 11 posti, al 61° - per via dei ripetuti attacchi che la «legge bavaglio» del governo Berlusconi intendeva portare alla circolazione delle informazioni, e si manifesta fin negli Usa, che precipitano dal 27 al 47, per gli arresti di 25 mediamen che coprivano le manifestazione di «Occupy Wall Street» e per progetti normativi che interferiscono con la libertà della Rete. Il mondo appare oggi meno libero di un anno fa; ma è un mondo che cambia, e ogni dinamica crea prospettive, opportunità. Il giornalismo può esserne strumento essenziale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9695
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« Risposta #31 inserito:: Luglio 13, 2012, 10:15:24 am »

12/7/2012 - ANALISI

In Libia vince il fantasma di Gheddafi

MIMMO CÁNDITO

Potrà anche apparire come una beffarda ironia della Storia, ma la realtà è che questa sorprendente vittoria dei moderati in Libia è l’ultima eredità di Gheddafi. Si può legittimamente dire tutto il male che si vuole dei suoi 40 anni di violenze, tuttavia, quando vedremo sedersi sulla tribunetta del Parlamento non un barbuto seguace della Fratellanza Musulmana, ma un glabro signore di modi occidentali che, certamente, anche lui, ringrazierà Allah, e però poi farà riferimento ai valori della democrazia e al tempo nuovo che il suo Paese si appresta a vivere, ebbene, tutto questo lo dovremo a quel dittatore che aveva fatto della Libia un feudo personale.

E’ politicamente scorretto trovare qualche traccia perfino positiva nella vita e nella eredità di un dittatore. Ma la “serendipity” è una straordinaria avventura della complessità del reale, e se Jibril e la sua Alleanza di forze moderate hanno ora potuto guadagnarsi la maggioranza dei consensi elettorali, questo risultato nasce anche dal processo di laicizzazione che Gheddafi aveva guidato nella costruzione della sua Jamahiryia.

Le Primavere arabe hanno aperto un terreno di confronto dove, in ogni singolo paese, lo scontro più aspro ha sempre avuto come attore protagonista il movimento islamista: quale che ne fosse il nome, che si chiamasse Fratellanza Musulmana o Partito della Giustizia, era comunque un raggruppamento di forze, di personalità, di progetti, che puntava a raccogliere la maggioranza dei consensi grazie a una proposta che nel recupero politico della religione riusciva a sanare il vuoto identitario lasciato dal crollo dei vecchi regimi. In assenza di strutture politiche consolidate, e credibili, l’esercizio collettivo della pratica della fede era un rifugio dove i valori simbolici davano una confortante garanzia di fronte al rischio della palingenesi rivoluzionaria.

In Libia, questo non è avvenuto. A Tripoli, come a Bengasi, a Sirte, o anche laggiù nella calura sabbiosa di Sebha, il richiamo del muezzin riempie ancora i silenzi del cielo per cinque volte ogni giorno, e il venerdì nelle moschee il sermone dell’imam trova sempre orecchie attente; ma i quarant’anni di gheddafismo hanno posto la religione al margine della vita sociale, sostituendola con un costume che – pur senza ignorare l’Islam – privilegiava uno stile di vita tentato dalle abitudini e dalle fascinazioni del modernismo consumista. La caccia del regime a qualsiasi conato di formazione politica religiosa è stata spietata, e se pure a Derna, nel cuore antico della Cirenaica, s’era formato uno dei nuclei più intransigenti del jihadismo (la componente nazionale più numerosa del terrorismo qaedista è stata quella libica, in proporzione alla ridotta dimensione demografica del paese), un minimo di sospetto era sufficiente per finire i propri giorni nelle galere di Gheddafi.

Bastava comunque vivere le battaglie della Rivoluzione del 17 febbraio tra le file dei giovani twarr, un anno fa, dovunque, ad Ajdhabya come a Misurata o nella stessa Tripoli in rivolta, per capire subito come il grido che accompagnava la loro guerra – Allah u-akhbar, Allah è grande - non fosse per nulla un inno religioso, ma soltanto l’impeto liberatorio di una identità che accomunava clan, tribù, etnie, radici localistiche. E se pure qualcuno degli shebab rivoluzionari talvolta s’inginocchiava verso la Mecca, quella guerra era comunque anche per lui una guerra «laica», di libertà e di riscatto.

Due sono le componenti, sociali e politiche, che hanno retto la costruzione culturale di questo laicismo libico: un reddito relativamente alto, grazie ai proventi del petrolio, e una sorta di statalismo che nella fantasiosa struttura della Jamahiryia pilotava i rapporti tra il potere e la vita quotidiana. Naturalmente, tutto questo non vuol dire che Jibril non sia un fervente musulmano, né che dell’Islam non terrà conto nella costruzione del governo; ma la sua vittoria è anche la vittoria della complessità del reale nella vita dei popoli. Che sopravvive anche quando le rivoluzioni ne cambiano il corso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10322
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:40:06 pm »

15/9/2012

La storia è più lenta delle illusioni

MIMMO CÁNDITO

Ma possibile che questa dannata velocizzazione che sta portandosi via il fiato da dentro l’anima del nostro vissuto, possibile che intorbidi davvero il nostro cervello, che ci impedisca ormai di ragionare, di riflettere? Viviamo in affanno, ogni fatto si consuma in un brillìo rapido, leggiamo e cataloghiamo come una folgore ogni fotogramma della Storia, ma non siamo più capaci di seguire pazientemente l’intera sua sequenza. Come scrive Zigmunt Bauman, ormai viviamo schiacciati dentro un tempo puntillistico, ogni punto chiuso in sé, isolato, quindi anche insignificante, debitore insolvente della dimensione del tempo.

Meno di due anni fa, la Primavera araba ci ha incantato e affascinato, vi vedevamo il trionfo dell’illuminismo della nostra civiltà; e davamo per acquisito quello che invece stava appena nascendo. Era stata la Tunisia, a partire; poi era arrivato l’Egitto, poi lo Yemen, il Bahrein, poi la Libia, si muovevano folle in Algeria, in Libano, in Giordania. Sbocciava la democrazia, e una primavera era già diventata estate.

Ci sbagliavamo, certo; proiettavamo sull’altra sponda del Mediterraneo le nostre illusioni. E oggi che anche laggiù le illusioni devono misurarsi con la spigolosità cruda e dura della realtà, allora passiamo subito al nuovo fotogramma, quello del fallimento, della delusione amareggiata, anche del giudizio saccente sulla inferiorità delle altre civiltà. La Primavera che già è morta, perché come si vede dai giornali essa è impossibile a quella latitudine: «quelli» sono arabi.

La Storia è paziente, non ha fretta. Anche la democrazia è paziente, deve esserlo, perché deve conquistare le menti, il costume, il senso comune, le abitudini irriflessive. Ci vuole tempo, e arabi e europei allo stesso modo – pur con le loro incontestabili differenze – devono cedere al Tempo il dominio dello sviluppo delle cose.

Sotto lo stupore disperato del massacro siriano, sotto la nuova insofferenza delle masse egiziane, sotto l’esplodere angoscioso dell’assalto di Bengasi, stiamo già passando al fotogramma del fallimento della Primavera, e abbiamo dimenticato quanta incertezza, quanti turbamenti, quante retromarce, quanta violenza anche, hanno accompagnato la nascita e il consolidamento della democrazia in quei paesi dell’Est europeo che per mezzo secolo avevano fatto da satelliti al sol dell’avvenire sovietico. E abbiamo dimenticato anche quante cronache amare ha dovuto raccontare, e quanto sangue, il lungo rientro alla democrazia delle dittature mediterranee, la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli. Anche il nostro stesso paese. Che pur erano tutte, o quasi tutte, società nelle quali il sentimento della libertà individuale aveva comunque radici, un costume, una cultura.

In un suo editoriale di ieri, l’«Economist» scriveva di ciò che sta accadendo dal Mediterraneo al Golfo - come di una «disfunzione araba». Ne elencava doverosamente i fatti tragici di questi ultimi mesi, i morti, le guerre, la violenza; le speranze deluse. Però riconosceva poi che «gran parte del mondo arabo eppure va nella direzione giusta», e questo perché l’analisi non si fermava al fotogramma ma teneva lo sguardo lungo.

Vi è comunque, e conta certamente, un elemento di diversità, tra quanto sta accadendo in questa transizione araba e le transizioni delle democrazie europee. Il fattore religioso. La pace di Westfalia aprì un tempo nuovo in Europa, ma una Westfalia non sta nella mappa del Medio Oriente; l’uso politico della fede religiosa inquina e intorbida i processi di modernizzazione, blocca l’evoluzione laica (liberale, dunque, illuminista) delle società, ne tarda la sedimentazione, appiattendo sui dogmi della fede gli stessi processi identitari «nazionali».

La Primavera araba aveva anche un bisogno collettivo di libertà ma, soprattutto, aveva un bisogno collettivo e individuale di riscatto sociale, di conquista d’una quieta vivibilità economica, della uscita dalla desolazione antica dei «dannati della terra». Di tutto questo, finora si sono avute soltanto parcelle, significative ma alla fine insufficienti: la libertà si è quasi sempre fermata sulla soglia del processo elettorale, e il desiderio di star meglio, di avere un lavoro, una speranza, di farsi finalmente borghesia, si è arenato nella cacciata delle vecchie consorterie di potere. L’elemento identitario della religione è allora apparso a molti il fattore con cui puntare a recuperare la capacità d’incidere su un processo che si stava esaurendo.

E però, ugualmente, continuare a voler aiutare il mondo arabo – la stragrande maggioranza del mondo arabo – nella sua lenta, difficile, costruzione di una società democratica non è soltanto una scelta illuminista; è anche una scelta di Realpolitik. Facciamo i conti di quali vette insostenibili raggiungerebbe il prezzo del petrolio se davvero Israele attaccasse il nucleare iraniano, e comprendiamo subito di come il ragionare con calma, non la velocizzazione, non il puntillismo, aiutino a leggere correttamente la sequenza su cui si dispongono i fotogrammi della Storia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10529
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 07, 2012, 03:26:56 pm »

Editoriali

06/10/2012

Le piccole verità che mettono in scacco i regimi

Mimmo Cándito

C’è un’ ossessione inquieta che accompagna sempre, e straluna, i giorni agri dei regimi, quale che sia la bandiera sotto la quale le loro liturgie chiedono di identificarsi. E’ l’ossessione del disvelamento, della rottura semantica del «logos» dentro cui mascherano la loro identità. Da sempre questa ossessione è stata proiettata simbolicamente sulle pagine dei giornali. E se, oggi, si va passando sempre più all’autonomia selvaggia della Rete, dove non necessariamente sono i movimenti ideologici organici a tentare lo sfregio ma, piuttosto, e frequentemente, la voce dell’Uno che narra soltanto il sé del pensiero e della ribellione, questo non muta affatto il senso della relazione tra potere e verità. Anzi, i regimi devono piegarsi a contorcimenti di cui non hanno costume, e che li trascinano nelle pieghe di coperture pateticamente anacronistiche.

 

Yoani Sánchez, la blogger in carcere all’Avana, propone con compiutezza estrema la dimensione di questo problema. Il suo ruolo, di narratrice d’una realtà quotidiana piccola, minuta, microcosmo variegato d’un vissuto collettivo che in pubblico deve mostrarsi sempre rispettoso dell’ufficialità ideologica, trasforma alla fine i piani della rappresentazione, trasportando verso una caratterizzazione globale il significato dei fatti che racconta dal basso. Questa dimensione personale, fotogrammi scontornati d’ogni impianto relazionale con le grandi problematiche del potere, si sottrae al giudizio dello scontro politico; appare manifestazione quieta d’un «neorealismo» in bianco e nero dove mai vengono sventolate le bandiere della rivolta e mai il regime può trovare ragioni per denunciarne un intento destabilizzatore; e però la ricostruzione piana della realtà, la sua quotidianità difficile, i suoi piccoli drammi, i suoi tormenti consumati nella privatezza di storie senza qualità, finiscono per guadagnarsi un più alto piano espressivo, che negli spaccati di vita comune ingloba un incontestabile giudizio sul sociale e sul politico.

 

Per i regimi, abituati alla repressione dei media tradizionali, diventa più difficile imporre il conformismo ora, quando il blogger si muove a livello del marciapiede, camminando tra le gente, ascoltandone le parole comuni, raccontandone i malumori, le speranze, le frustrazioni. In Egitto, in Tunisia, a Teheran, ora a Cuba, la risposta dei regimi alla sfida delle emozioni private raccontate nella blogosfera si mostra spesso impacciata, costretta a mascherare sotto altre accuse l’impianto che destabilizza il potere. Vi sono tuttora le forme canoniche della repressione, il controllo dei media come in Venezuela o in Russia, e la violenza sui giornalisti; però sbattere in galera un blogger che racconta quanto sia difficile comprare una pagnotta, o aiutare un vicino a sbrogliarsi i problemi quotidiani, impania i guardiani del regime, e li lascia a mani nude. E’ la rivoluzione in bianco e nero, Zavattini e Blasetti per le strade dell’Avana e di Teheran.

da - http://lastampa.it/2012/10/06/cultura/opinioni/editoriali/le-piccole-verita-che-mettono-in-scacco-i-regimi-jJvcry6LMdblMBuiYBiBmJ/index.html
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 19, 2012, 09:12:54 pm »

Editoriali
19/11/2012

La rivolución avanza, ma a piccoli passi

Mimmo Cándito

Andate a Miami, se davvero volete sentire la febbre di Cuba. Ma non andate a Calle Ocho, che è sempre più per turisti; no, no, andate nei quartieri d’affari di Downtown, tra i grattacieli di vetro che specchiano l’avenida Brickell, oppure a Miami Beach, lungo Ocean Drive e la Washington; e lì davvero si sentirà il peso e il ruolo che ormai hanno i cubani della terza generazione, la finanza che controllano, le poltrone di sindaco e di presidente della contea che posseggono quasi per diritto, i soldi facili che smerciano tra boutiques rutilanti e alberghi di fascinosa sapienza decò. Sono loro, questi cubani che sono cubani nella faccia e nel nome ma sempre più yankee nel passaporto e nel potere, sono loro con i loro soldi investiti dall’altra parte di Key West a dire quanto vera – e però anche quanto lenta – sia la nuova revoluciòn che Raúl sta pilotando per le strade di Cuba.

 

Loro, con tutto questo potere e tutta la voglia di rivincita, si stanno preparando a riappropriarsi della «loro» isola perché sanno bene che il vento sta girando, ne seguono le cronache, mandano laggiù milioni di dollari con spericolate triangolazioni finanziarie, fanno ogni giorno migliaia di telefonate all’Avana per sapere, contrattare, allacciare nuovi rapporti; ci puntano, però sanno anche che il tempo è lento. È un tempo che non torna indietro, questo è sicuro; ma a chiamarlo «revolución» bisogna usare la «r» minuscola.

 

Prendiamo la blogger Yoani Sánchez, che ha già la valigia pronta, da quando – il 16 ottobre – il nuovo Líder (semi) Máximo ha tolto il divieto a espatriare. Ma Yoani deve aspettare ancora due mesi, e poi forse partirà. Forse. Perché la nuova revolución fa proclami e lancia solenni segnali, però poi – nella concretezza della vita quotidiana – i proclami e i segnali si sgonfiano tra le pastoie della burocrazia, le lentezze esasperanti di un sistema anchilosato, anche la paura che il cambiamento introdotto si trasformi in una valanga incontrollabile. 

E allora, bisogna aspettare. All’ultimo congresso del Pcc erano state annunciate 313 riforme, davvero una Revolución; e non erano nemmeno le prime: qualcuna ha funzionato, qualcuna rantola, ma comunque la Cuba di Raúl sta certamente cambiando faccia. Libera (nei fatti semilibera) compravendita di case, libertà (sotto condizione) di acquisto di un’automobile, comunque più d’un milione d’ettari di terre date in usufrutto a 146 mila contadini, licenze di negozi e artigianato concesse a 340 mila lavoratori autonomi, licenza di tenere un ristorante o fare l’affittacamere, rimesse più facili di denaro dall’estero, nuovi permessi di rientro di parenti dagli Usa, facilitazioni più ampie per gli stranieri.

 

Tutto si scuote, vacillano vecchie abitudini, ma nascono anche delusioni e malumori nuovi. Ma, dopo un regime che ha governato e controllato tutto per più di 50 anni, la ruggine d’un potere e d’un costume che premiavano esclusivamente il silenzio e il conformismo fatica a scrostarsi, e tutto si fa faticoso, lento, sempre incerto. Dicono che a Cuba la Russia e il suo comunismo non contano più, che questo è il modello cinese, l’interscambio commerciale con la Cina è passato dai 400 milioni di dollari del 2000 ai due miliardi di dollari dell’anno scorso. Si cambia con prudenza, dice il modello cinese; poi, in realtà, a Pechino, le cose vanno assai meno lente che a Cuba, dove il progetto inevitabilmente è artritico. Comunque, all’Avana ha aperto una sede l’Istituto Confucio: è boom di iscrizioni, sono già un migliaio i cubani che vogliono imparare il mandarino.

da - http://lastampa.it/2012/11/19/cultura/opinioni/editoriali/la-rivolucion-avanza-ma-a-piccoli-passi-CZckbc8V8h6ECrQckrQgbL/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 01, 2012, 06:42:58 pm »

Editoriali
01/12/2012

Anche 25 milioni di curdi rivendicano una Patria

Mimmo Cándito


Son piombate con un turbinio sfrenato di emozioni fin dentro il cuore antico della Mesopotamia, le feste che stanno impazzando a Gaza e Ramallah. La Palestina è laggiù, quasi sulle sponde del Mediterraneo, lontana dalle montagne di Erbil, dalle terre aspre di Dyarbakir, dai pascoli verdi che s’allungano nel nord gelato dell’Iran, lontana anche dalle bombe di Aleppo e dai signori della guerra siriana. Ma da quando, ieri, la bandiera della nuova Palestina si abbandona orgogliosa e legittima al vento freddo dello Hudson, anche a Mosul, Erbil, o Dyarbakir, soffia un vento nuovo. Che non è ancora quello di New York, ma basta comunque a riaccendere fuochi ardenti di speranza. Sono i fuochi del Kurdistan, il fantasma deluso d’uno Stato che tra il ’20 e il ’23 nacque senza mai nascere e però ora vede farsi concrete le illusioni che, ancora dopo un secolo, stanno piantate con forza dentro il cuore della sua gente. 

 

Se sono in 5 milioni i palestinesi che hanno ottenuto un primo riconoscimento delle loro attese, i curdi – che sono 25 milioni – trovano nel voto dell’Onu ragioni ancora più forti per rinnovare la loro rivendicazione d’una patria che sia anche uno Stato. I numeri non sono la storia e nemmeno la forza del diritto, ma anch’essi contano, hanno un peso, impongono scelte, determinano alleanze politiche e, magari, aprono conflitti. E per il Kurdistan i numeri non rappresentano una geografia limitata, comunque omogenea, come per la Palestina, ma invece strappano via frontiere consolidate, storie nazionali, poteri governativi di difficile composizione: quei 25 milioni di curdi vivono, infatti, e sognano una loro patria, divisi tra i 14 milioni di curdi turchi, i 5 milioni di curdi iracheni, i 5 milioni di curdi iraniani, e il milione scarso di curdi siriani. Frantumare le storie politiche di questi paesi per ricompattarle in un unico nuovo spazio omogeneo che dovrebbe avere il nome, appunto, di Kurdistan sarebbe per la storia di quell’area più distruttivo di una gigantesca bomba atomica. Forse farebbe meno vittime dirette, ma certamente imporrebbe il progetto armato (certo, le armi che già sparano in Turchia) d’un sisma che allargherebbe la sua sconvolgente onda d’urto in ogni angolo del pianeta.

 

La vittoria diplomatico/militare dei palestinesi (sia pure nei limiti reali che gli equilibri strategici del Medio Oriente le impongono) è destinata comunque ad avere una ricaduta diretta sulla intera cosmogonia dei nazionalismi riaccesi nella crisi identitaria provocata dalle fratture della mondializzazione. Pensiamo al «genocidio armeno», che tuttora crea rancori profondi tra la Turchia e molti paesi d’Europa, pensiamo alle guerriglie nazionaliste in tante parti dell’Asia, pensiamo al Tibet che tanto inquieta Pechino, pensiamo al Kashmir, pensiamo anche a ciò che sta accadendo in Catalogna o che segna ampia parte della vita politica basca. I processi della storia non sono segnati solo dalla razionalità, subiscono spinte e trasformazioni che spesso provocano conseguenze imprevedibili. Moisi ha raccontato di una «geostrategia delle emozioni», dopo il «clash» delle civiltà immaginato da Huntington. Ci siamo dentro, ma a contare sarà sempre il ruolo delle armi.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/01/cultura/opinioni/editoriali/anche-milioni-di-curdi-rivendicano-una-patria-Z9CDQvAzTnTUY4q7P4gkfK/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 09, 2013, 12:08:07 am »

ESTERI
07/03/2013 - personaggi

Il “cubano” e il “militare”

La sfida all’ombra del lutto

Maduro vuole legami con l’Avana, Cabello invece un Paese più forte e autonomo

Mimmo Candito

E’ soltanto la faccia ufficiale del Venezuela, questa che le tv d’ogni parte del mondo ci stanno dando nel loro intenso racconto d’una morte annunciata, la faccia d’un pianto esposto pubblicamente a segnare il lutto corale d’un intero popolo che ha perso il suo Comandante. Ma, a guardar bene dentro quelle immagini, questo popolo in lacrime - indios, meticci, militanti della «revolución bonita» in divisa - è poi soltanto una parte di quel miscuglio di storie, di razze, di nazionalità, d’interessi, che fa il Venezuela d’oggi, perché nelle inquadrature tutte uguali, nelle parole tutte simili d’una disperazione comune, appare vistosamente che però mancano la facce dei «bianchi», quella borghesia «compradora», speculatrice, arraffona, che s’era pasciuta a dovere della corruzione che un tempo dominava la spartizione di Miraflores, e che è la stessa che ha sempre votato contro Chávez, che lo ha odiato a morte fin dal primo giorno, che gli ha organizzato contro sabotaggi, scioperi, perfino un golpe con tanto di appoggio Usa. 

Il Venezuela del giorno dopo è un paese diviso in due con la prevalenza ancora dei chavisti e però con quelli «contro» che nei loro palazzi ben serrati, ora si preparano a organizzarsi la rivincita. C’è da disegnare una strategia, organizzare un piano che sappia sfruttare il vuoto di potere (psicologico più ancora che politico) che sempre accompagna la scomparsa dell’Uomo forte; ed Henrique Caprìles, il giovane leader dell’opposizione, lo stesso che Chávez ha battuto al voto quattro mesi, ha lanciato un appello alla «unità della famiglia venezuelana»; è una buona mossa di sagacia politica, distendere gli animi, mostrare la stoffa dell’uomo di Stato, far dimenticare tutti i traffici sporchi e le manovre golpiste dei più oltranzisti tra i nemici del Colonnello.

E però c’è anche dell’altro che le telecamere non mostrano e non possono mostrare perché è il tessuto intrecciato e inestricabile delle fazioni che compongono la storia del chavismo, dove la lotta per la conservazione dei privilegi e della gestione d’affari si era irrigidita già dopo le prime notizie della gravità del tumore del Comandante e che però dopo la morte ufficiale sta ormai misurando una tensione pronta a scatenarsi. Ci sono micropoteri che il regime aveva coltivato in ogni snodo della macchina burocratica che il chavismo aveva organizzato nella lunga fase della sua occupazione dello Stato, e sono piccole strutture che convivono senza farsi troppi danni nella concorrenza di un esercizio quotidiano del sottogoverno, le istituzioni pubbliche, il comparto petrolifero, le cooperative, la spartizione dei sussidi e dell’aiuto pubblico; ma ci sono anche - e questo è il grumo nel quale s’invischia il futuro del regime - le due grandi fazioni che spaccano a metà il chavismo.

Da una parte stanno «i cubani», quelli che guardano all’Avana con un legame stretto d’interessi comuni e di prospettive politiche e ne coltivano le relazioni contando sull’appoggio della folta presenza di agenti e di uomini dei servizi inviati a Caracas dai Castro; li guida Nicolás Maduro, il vicepresidente, l’uomo di fiducia di Chávez, il suo compagno di sempre, l’ex autista di bus che ha saputo costruirsi una storia pubblica e un futuro creando una rete di amicizie e di favori che la cogestione del potere gli facilitava senza troppi problemi. Dall’altra stanno quelli delle forze armate, l’esercito anima e scheletro del chavismo, interprete fedele e rispettoso del progetto politico del Comandante, suo esecutore puntuale, sostenuto da un forte spirito nazionale e dal convincimento che il Venezuela abbia a difendere in autonomia un ruolo rilevante nelle strategie globali del subcontinente; li guida Diosdado Cabello, presidente del Parlamento, che ha dalla propria parte la legittimazione che gli arriva dall’essere la seconda carica istituzionale dello Stato e dall’avere una storia politica di lungo corso, compagno di Chávez già dal tentato golpe del ’92.

Fisicamente diversi, più popolano e massiccio Maduro e più molle e borghese Cabello, tra i due non corre buon sangue, per la concorrenza aspra che già li divideva all’ombra del Comandante, ma anche per le troppo voci di traffici che Cabello appariva gestire in modo disinvolto, servendosi del potere e infischiandosene delle perplessità che lo accompagnavano. All’annuncio ufficiale della morte di Chávez, Cabello ha immediatamente ordinato la mobilitazione dell’esercito, «a difesa dell’unità della patria e contro le manovre dei nemici del paese»; nello stesso tempo, Maduro ha messo in condizioni di allerta le formazioni politiche (e le strutture paramilitari) che costituivano l’ossatura pubblica del potere chavista.

Difficile immaginare uno scontro, in questi giorni di lutto e, soprattutto, di vigilanza; difficile anche immaginare che qualcuno degli «esqualidos» voglia saltare al di là dell’esortazione all’«unità della famiglia venezuelana» lanciata già dal primo momento nel tweet di Capriles. L’attesa si consumerà scrutando quali siano le mosse dell’avversario. Ma non potrebbe essere altrimenti: scomparso il Capo, bisognerà vedere nel concreto chi abbia più forza e chi più spregiudicatezza. Nelle inquadrature delle televisioni, tutto questo non si vede; però è il vero Venezuela del dopo Chávez. 

da - http://lastampa.it/2013/03/07/esteri/il-cubano-e-il-militare-la-sfida-all-ombra-del-lutto-0Z6y1HVGSczsQg6f1ItpEI/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Settembre 03, 2013, 05:05:03 pm »

Editoriali
02/09/2013

Le tre spade di Damocle

Mimmo Cándito

Un vecchio proverbio arabo ammonisce: «Non accendere mai un fuoco quando il vento soffia. Potresti bruciarti». 

La Siria oggi è un fuoco bastardo, brucia che controllarlo diventa pericoloso, perché non sai da che parte vada a soffiare il vento.

Obama, però, quel proverbio mostra di averlo appreso troppo tardi, e il rischio di non poter controllare l’escalation della guerra gli sta addosso, rendendolo ancor più titubante di quanto ormai lo accusi larga parte dei media americani.

Infatti, da qualsiasi parte si osservi quanto sta avvenendo sul terreno, ci s’imbatte ovunque in focolai potenziali di deflagrazione; e sebbene siano ancora in pochi a richiamare similitudini che ricordino la crisi dei Balcani all’inizio del secolo scorso - la crisi che poi portò alla Prima guerra mondiale - non c’è dubbio che una ulteriore drammatizzazione del conflitto siriano, quale si avrebbe con l’attacco missilistico americano, richiamerebbe sul campo tutti gli attori che potrebbero finire per allargare in termini alla lunga incontrollabili quella che tuttora resta, comunque, una crisi regionale.

 

Chiunque abbia viaggiato per il Medio Oriente e la sua lunga storia di conflitti conosce quanto sempre si ripete in quelle capitali: che non c’è guerra possibile nelle terre della Mezzaluna se non vi sia coinvolto l’Egitto - perché l’Egitto per la sua dimensione politica e demografica e per la sua storia ha una indiscussa centralità nel mondo arabo - e che però non c’è pace possibile nelle terre della Mezzaluna se non vi sia coinvolta la Siria, perché da sempre la collocazione geografica, l’asprezza del suo regime, la sua minacciosa contiguità con Israele, le danno in mano le chiavi con cui serrare la destabilizzazione dell’area che si aprì nel secolo scorso con la nascita dello Stato ebraico.

 

Quanto sta avvenendo in Siria ormai da due anni ha profondamente trasformato il profilo iniziale dello scontro militare sul terreno; e se in principio lo sfondo delle Primavere arabe raccoglieva in termini credibili la rottura tra un regime autoritario e la sopportazione d’una parte della sua società, oggi a quella guerra diciamo di democrazia si sovrappongono altre due o tre guerre, di etnie (gli alawiti contro gli altri gruppi locali), di religione (i sunniti dell’Islam contro gli sciiti), di terrorismo (le infiltrazioni di Al Qaeda che punta strumentalmente a fare della Siria il nuovo Afghanistan), soprattutto di potere (l’Iran che, passando attraverso il Libano, punta a realizzare con la Siria un conglomerato «rivoluzionario» capace di destabilizzare l’equilibrio dell’intera regione per diventarne il nuovo dominus; non a caso l’Arabia Saudita interviene ormai pesantemente nel conflitto e comunque già da tempo i regni e gli sceiccati del Golfo discutono apertamente di una possibile dotazione nucleare, in termini evidentemente anti-iraniani).

 

Se tutto questo è già avvenuto mentre sul terreno gli attori che intervenivano erano comunque quelli che con qualche approssimazione è possibile definire «locali», e si mantenevano al margine le componenti extraregionali (Washington e Mosca influivano certamente sullo svolgimento del conflitto, con armi e assistenza militare, ma il loro ruolo non incideva direttamente sulle operazioni belliche), una volta che invece gli Usa decideranno di mettere in pratica quello che Obama ha ormai apertamente proposto come scelta dovuta del suo Paese, appare inevitabile che lo scenario muti ulteriormente, e in misura che è davvero difficile immaginare senza rischi incontrollabili.

 

I fattori di destabilizzazione (quasi le «piaghe» di cui ammoniva Mosè) sono tre. Il primo è l’attivazione di un esteso programma terroristico, che coinvolga, ben al di là delle frontiere siriane, i Paesi europei e gli Usa. La rete antiterroristica del mondo occidentale è oggi ben solida e strutturata, ma - come ha dimostrato l’attentato alla maratona di Boston - la capacità di infiltrazione delle cellule e dei militanti jihadisti può superare qualsiasi sbarramento. E un futuro di nuovo molto amaro si aprirebbe per il nostro mondo.

 

Secondo fattore di destabilizzazione è la probabile reazione iraniana. Teheran non nasconde affatto il proprio ruolo attivo nella guerra siriana, né cela le ambizioni di potere che muovono dal khomeinismo e dal suo programma nucleare in fase ormai di completamento. L’attacco americano sulla Siria suonerebbe come una sfida diretta, alla quale l’Iran non potrebbe non opporre una risposta dello stesso livello: e qui si va su una lista di possibili tattiche di contrasto che vanno dalla chiusura dello Stretto di Hormuz (con tutte le immaginabili implicazioni sul mercato del petrolio e sulla accentuazione della crisi economica dell’Occidente) a un pesante attacco missilistico di Hezbollah contro Israele, accompagnato da operazioni siriane che muovano dalle alture del Golan. Diventerebbe allo stesso modo inevitabile la reazione di Tel Aviv, e l’escalation toccherebbe tanto il Libano quanto l’Iran, con l’attacco diretto sulle installazioni nucleari e un possibile coinvolgimento di altri Paesi musulmani.

 

Terzo fattore di destabilizzazione è il ruolo che la Russia si troverebbe costretta a svolgere. Sebbene siano oggi operative nel Mediterraneo alcune unità navali russe, non appare credibile che questo comporti un loro intervento diretto contro la VI Flotta, perché l’azzardo comporterebbe inevitabilmente l’esplosione, davvero, della Terza guerra mondiale. Putin sta giocando con comprensibile spregiudicatezza la carta che Obama gli ha offerto, e sfrutta in termini politicamente propagandistici le difficoltà nelle quali il governo americano si trova a doversi districare. Ma, da questo, ad arrivare a un confronto militare diretto con gli Usa ci sta di mezzo assai più della crisi siriana. Tuttavia, la Russia può sicuramente approfittare dell’attuale debolezza tattica americana per guadagnarsi uno spazio politico - tattico e strategico - negli attuali equilibri mondiali, confortando le proprie ambizioni di recuperare un credibile ruolo di competitor globale degli Usa e guadagnando, non solo nel Medio Oriente, un ruolo potenziale di partner forte, serio, comunque alternativo (il vecchio ruolo della vecchia Unione Sovietica).

 

I tre fattori non sono alternativi l’uno all’altro, e una loro congiunzione cambierebbe per un lungo tempo a venire la storia del nostro stesso stile di vita. Quando gli arabi ammonivano con il loro antico proverbio, una saggezza antica accompagnava le loro parole. Il fuoco ormai è stato acceso, e brucia; rischiamo tutti di bruciarci alle sue fiamme.

da - http://lastampa.it/2013/09/02/cultura/opinioni/editoriali/le-tre-spade-di-damocle-OWdtXzPcca2dfgWEWc44BP/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:22:32 pm »

 12/10/2013

La Libia è una guerra per bande 250.000 miliziani goverano

Mimmo Candito

Ma come stupirsi, se ieri alle prime luci dell'alba, a Tripoli, un centinaio di miliziani armati che parevano bardati per la guerra atomica hanno tirato giù dal suo letto il premier, e se lo son portato via, in brache e camicia, le pantofole ai piedi, ancora mezz'addormentato, tra uno sgommare di fuoristrada impazziti e grida esultanti di “Allah u-akbar”. Come stupirsi, nella Libia d'oggi, dove non passa giorno che i titoli dei media non raccontino di almeno un morto ammazzato in qualche sparatoria tra bande rivali, o d'un sequestro di qualche malcapitato che faceva il politico. Certo, i tanti malcapitati senza nome contano poco, ormai appena una notizia in prima, ma se il malcapitato è invece il capo del governo, Ali Zeidan, la faccenda appare allora più drammatica, e si può anche capire perchè perfino la Nato subito abbia fatto vedere i muscoli e abbia rassicurato: se serve, noi siamo qui. 

In Libia si sta combattendo una vera guerra per bande; ma non di quattro disgraziati che s'ammazzano tra loro, no, qui la guerra è una storia seria, di dimensione gigantesche, con 250 mila uomini inquadrati come solo gli eserciti fanno, stipendiati dai vari Ministeri, per “tenere l'ordine” ma in feroce concorrenza tra di loro, più un altro milione forse che – anche se non fa il miliziano di professione – comunque il kalashnikov lo tiene ben oliato sotto il letto, e lo tira fuori, e lo usa senza risparmio. 

Ai tempi di Gheddafi, la Libia era una specie di immenso deposito d'armi, c'erano più armi che scarpe. Il Colonnello, poveraccio ora che gli hanno fatto fare quella fine terribile, stuprato e linciato come una pecora che bela perduta, lui le armi le comprava da chiunque, italiani, francesi, russi, americani, tedeschi, e le disseminava in ogni angolo del paese, più o meno tra le mani di quelli che giuravano fedeltà eterna alla Jamahiryia. Poi però – poco meno di due anni fa – quando la Jamahiryia finì per sempre, tutto quel bendiddio sparì d'incanto, in mille rivoli senza patente né bollino ufficiale. E nacquero ben 1.725 bande di “rivoluzionari” (li chiamano i Twarr). 

Un giorno che ho chiesto al sindaco di Tripoli chi tenesse l'ordine nella capitale, per i posti di blocco che spuntavano su come funghi, o per le sparatorie che addobbano il paesaggio acustico d'ogni quartiere, il pover'uomo allargò le braccia, sconsolato. Eravamo nel vecchio palazzo delle Regie Poste Italiane, dove il Municipio di Tripoli si è sistemato alla meglio, e anche lui, il Sindaco, pareva un sopravvissuto. “Ma che ordine vuole che io possa tenere; qui, e in tutta la Libia, a comandare sono 40 bande di uomini armati fino al collo”. 

Le 40 bande nelle quali si sono poi fuse le inziali 1.725 sono divise per aree geografiche, per struttura tribale, per fidelismo religioso. Se la banda di Zintan controlla l'aeroporto e la montagna, quella di Misurata comanda nelle aree centrali del paese e sotto la marina, e poi c'è quella che vuole Derna islamizzata, la banda dei Martiri della rivoluzione di febbraio a Bengasi, il Battaglione di Rafallah in Cirenaica, i Martiri di Abu Salim, la Khatiba al-Sawaip, la Brigata Sadum al-Suwayli. Ci sono quelli che hanno sequestrato Zeidan, la Camera della Rivoluzione stipendiata dal Ministero dell'Interno, ci sono i tantissimi miliziani dello Scudo libico che stanno a libro paga del Ministero della Difesa e sono presenti dovunque, tra mare e deserto, e poi, soprattutto, c'è Ansar al-Sharia, che come dice il nome vuole fare della Libia un emirato islamico e pare stia organizzando un gruppone gigantesco dove far confluire tutti gli uomini del Movimento per il Jihad nell'Africa settentrionale. 

Il povero Ali Zeidan è finito preso in mezzo a tutta questa guerra, maltrattato – pare – perchè aveva dato via libera ai Navy Seals che una settimana fa hanno rapito il feroce Abu Anas al-Libi in piena Tripoli. Gli islamisti hanno gridato vendetta, e dal Congresso sono partiti ordini che volevano restaurare la “dignità nazionale” vilmente danneggiata. Ma intanto anche il petrolio, che fa la ricchezza vera della Libia, stenta a esser pompato con tutti questi miliziani tra pozzi e raffinerie, e il governo italiano fa un vertice straordinario per capire che diavolo sia questa Libia post-Gheddafi che ci vende il suo petrolio con l'Eni a far buona guardia al bidone. 

da - http://lastampa.it/2013/10/12/blogs/il-villaggio-quasi-globale/la-libia-una-guerra-per-bande-miliziani-goverano-VSe88OPCpe7a6SzynO3R8N/pagina.html
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 09, 2015, 10:22:05 pm »

Il Califfo, l’Iran e la battaglia di Tikrit. 30 mila uomini fanno la storia

Mimmo Cándito
08/03/2015

Non se ne parla molto, ma a Tikrit si sta combattendo una battaglia che potrebbe perfino cambiare la storia del Grande Medio Oriente, almeno la storia quale è segnata oggi dalle forti ambizioni d'un Califfato che proclama di voler raccogliere dietro le proprie bandiere nere i popoli arabi, tutti, dall'Atlantico fino al Golfo. E anche oltre, l'intera galassia della Umma di Allah.

Vediamo, dunque. Tikrit è una città della piana mesopotamica, una piccola e polverosa città a un centinaio di chilometri a nord di Baghdad che non ha altra storia se non quella di essere stata la terra dov'è nato Saddam Hussein. Morto impiccato il Raìss dodici anni fa, di Tikrit non s'è più parlato, fin che i jihadisti che stanno conquistando Siria e Iraq (e Libia) agli ordini di un invasato Abu Bkr al Baghdadi hanno spinto verso sud la loro travolgente avanzata, minacciando direttamente la stessa capitale. Il governo iracheno ne ha sentito davvero il fiato sul collo, e ha chiesto aiuto: non soltanto agli americani, che già lanciavano raid di alleggerimento nelle terre del nord per bloccare ai tagliagole dell'Is la strada di Erbil, ma anche – e, forse, soprattutto - alla grande patria sciita dell'Iran. Tikrit era diventata l'avamposto più minaccioso del Califfo, un balzo non impossibile l'avrebbe portato fin sui ponti di Baghdad, e poi forse verso Teheran.

Bisognava fermarlo. Obama, riunito il Consiglio nazionale della sicurezza, ha rafforzato con dichiarazioni bellicose il proprio impegno a fianco del governo iracheno, anche con un qualche margine di ambiguità sul possibile intervento sul terreno, e però – nel concreto – ha soltanto deciso di: intensificare le missioni aeree di bombardamento sulle retrovie dell'Is, e accelerare l'addestramento delle truppe irachene con l'invio di altre centinaia di “consiglieri militari”. Ancora segnato dall'eredità dell'interventismo di Bush, il presidente americano si muove con una cautela che il Congresso repubblicano pungola e disprezza. Ma di più non pare orientato a fare.

Storia diversa, invece per l'Iran. Teheran, patria della fede sciita, ha un rapporto, diciamo, privilegiato con l'Iraq del dopo Saddam, lo considera una sorta di territorio semicoloniale, ne sostiene con ogni mezzo il governo di netto dominio sciita, e guarda con comprensibile preoccupazione la seria minaccia che le formazioni sunnite del Califfo lanciano sul futuro di Baghdad.

L'Iraq è un'invenzione voluta da Churchill, è la sua “scommessa”, fatta dopo la fine dell'impero Ottomano, con l'unificazione delle tre province mesopotamiche, di etnia e cultura distinta: gli sciiti a sud, i sunniti al centro, i curdi al nord. Gli sciiti sono la maggioranza degli “iracheni”, quasi il 60 per cento; i sunniti sono poco più del 20 per cento, il resto sono curdi. Nella lunga dittatura di Saddam, sunnita anch'egli, il potere sunnita schiacciava, umiliava, perseguitava gli sciiti; caduto Saddam, gli sciiti non solo hanno preso il potere ma anche lo esercitano con una egemonia simile (in molte pratiche di violenza e di sopruso) a quella del Raìss. Gli americani hanno tentato di convincere il capo del governo di Baghdad, Maliki, ad aprire a un qualche compromesso con la minoranza sunnita, ma hanno ottenuto poco o nulla, nonostante la montagna di dollari passata a Maliki; né molto è cambiato con il nuovo premier, Abadi, e il risultato è che un odio ormai irrecuperabile divide gli sciiti iracheni dai sunniti iracheni. Al Baghdadi, sunnita come tutta la milizia ai suoi ordini, si muove dunque con un doppio progetto: reimporre il potere sunnita in Iraq, e allargare questo potere politico/religioso anche al di là della frontiera mesopotamica.

Tikrit è oggi il tavolo dove si sta giocando la mano più importante di questa drammatica partita. Prima ancora della difesa di Erbil, prima ancora di un possibile assalto a Mosul, nella vecchia città di Saddam si misura la possibilità reale, concreta, di battere il Califfato: se l'esercito “iracheno” riesce a scacciar fuori da Tikrit le bande jihadiste di al Baghdadi, allora la presa del Califfo si allenta, la strada per Mosul si fa aperta, svanisce la capacità propagandistica dell'Is nel mondo musulmano, e lo stesso futuro dello Stato islamico s'incrina fino a vacillare nelle sue fondamenta territoriali e politiche; ma se, invece, il Califfo respinge l'assalto e tiene il controllo del territorio, allora il radicamento dell'Is guadagnerà forza e credibilità ulteriore, la predicazione sunnita acquisterà nuova consistenza e nuovi adepti, e Baghdad diventerà fronte di prima linea d'un retrovia che arriva fino a Teheran.

Sul fronte di Tikrit si stanno oggi confrontando le formazioni più agguerrite del Califfo contro 30 mila uomini che attaccano dal sud. E' una battaglia gigantesca, cominciata alcuni giorni fa, con i jihadisti che stanno mettendo in pratica le tattiche della guerriglia per rallentare l'avanzata di Abadi rafforzando, intanto, le difese della città e, dalla parte opposta, da sud, con uno schieramento che prepara l'attacco diretto usando pesantemente artiglieria e bombardamenti aerei. Bombardamento, però, della sola aviazione irachena; gli americani non ci sono.

E qui è uno dei punti nevralgici che fanno davvero, di questa battaglia, un tornante della storia. Gli americani avrebbero voluto che l'attacco al Califfo venisse preparato con più cura, che venisse cioè completato l'addestramento militare dell'esercito iracheno, e che la tattica fosse comunque concordata tra il Pentagono e il ministero della difesa di Baghdad. Ma non per un problema di coordinamento tra comandi generali, o per una difesa di ruoli equilibrati; no, no, tutt'altro: di quei 30 mila uomini lanciati oggi all'assalto di Tikrit, i soldati dell'esercito iracheno sono meno di un terzo, neanche10.000 uomini, mentre il grosso – più di 20 mila uomini - è formato da miliziani sciiti, soprattutto i duri e puri di al Sadr, gente che ha sempre fatto la guerra agli americani durante gli anni di Bush e che ha trattato le popolazioni sunnite con  ogni durezza possibile (il rischio ora è che l'attacco ai jihadisti del Califfo si trasformi poi in un bagno di sangue di vendetta contro gli abitanti sunniti di Tikrit e delle altre città "liberate"). Non solo, ma a guidare questa operazione c'è poi il più alto potere militare iraniano, quel gen. Qassim Suleimani nemico storico degli Stati Uniti, capo dell'intelligence degli ayatollah, e comandante delle formazioni dei pasdaran iraniani che sono la vera punta di lancia delle truppe "irachene".

Un colossale paradosso accompagna perciò questa battaglia: che a combatterla contro un nemico dichiarato dell'Occidente non ci sono gli americani ma, sostanzialmente, quegli iraniani che degli Stati Uniti sono – finora, almeno – avversari storici quando non nemici patentati. A Baghdad, americani e iracheni si riuniscono attorno al tavolo del ministero della Difesa come se non ci fosse alcun dissapore; il ministro dice più meno serenamente che “con loro ce l'avremmo fatta prima, ma ce la faremo anche da soli”, e i generali americani, anch'essi sereni in apparenza, dicono che comunque il coordinamento va avanti, accompagna l'attacco. Se, però, a guidare sul terreno ci sono gli uomini dell'ayatollah, allora non solo si va squarciando il velo di ogni ipocrisia politica sulla natura della guerra al Califfo, ma si conferma nei fatti che l'Iran si guadagna sul campo di battaglia il suo ruolo di egemonia nella regione del Golfo. Con tutto ciò che questo comporta per il futuro di Israele, e con la sempre più evidente irritazione dell'Arabia Saudita, del suo petrolio, e del futuro degli equilibri globali tra sunniti e sciiti.

Ma questo lo discuteremo tra qualche giorno. Ora guardiamo alla battaglia di Tikrit, vi si gioca la Storia. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/03/08/blogs/il-villaggio-quasi-globale/nella-battaglia-di-tikrit-uomini-fanno-la-storia-2Cp5guxZhYOFNlFtpyFV5O/pagina.html
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 09, 2015, 10:32:48 pm »

Renzi retromarcia (meno male) Ma che sappiamo della Libia?

Mimmo Cándito
17/02/2015

Beccati come due dilettanti allo sbaraglio, il ministro Gentiloni che già parlava di guerra e la ministra Pinotti che già mandava in Libia 5000 nostri soldati, sono stati zittiti da Renzi, che li ha rimessi in riga esortandoli a non cedere agli "isterismi". Meno male, le nostre caserme restano a fare la loro routine. Solo che il danno era ormai stato fatto, e la ventola della guerra si è perciò messa a vorticare follemente nella testa degli italiani, convincendoli che la guerra non solo è necessaria ma anche inevitabile (negli studi della comunicazione, questo si chiama "effetto consumato": puoi smentire quanto vuoi, e però quello che hai detto una volta, una traccia la lascia sempre).

Questa storia della guerra da fare, che - dicono - è una guerra di civiltà (contro la barbarie) e di religione (contro il Male, perché il Bene siamo noi), è una pericolosa deriva del dibattito su quanto sta accadendo in Medio Oriente, e sul ruolo dell'Islam nel mondo moderno. Ad alimentarla sono studiosi e praticoni di varia professione, che speculano sulla paura dell'"altro", danno di quest'"altro" una immagine discreditata, impoverita nella sua, invece, diversità, e proiettano su dimensioni mistico/teologiche e di scontro di civiltà una guerra che si sta combattendo all'interno del mondo musulmano per prevalenti ragioni di potere (i sunniti contro gli sciiti, le ambizioni dell'Iran e le resistenze dell'Arabia Saudita). A guidarla, questa guerra agitata con bandiere già al vento di un nazionalismo ahimè di bassa lega, sono soprattutto i media, e molti loro giornalisti, che ritirano dal passato le invettive dell'Oriana Fallaci contro un Occidente vile e perdente, e le applicano a quanto accade oggi con i drappi neri dell'Is e le incertezze strategiche di Usa ed Europa.

Ieri, ho visto in tv un Sallusti che invocava una nuova guerra italiana sulla quarta sponda, perché - raccontava lui- è ossessionato dalla paura che l'Is mandi un aereo a distruggere il cupolone di San Pietro, come fece al Qaeda con le Torri di New York. Ora, due sono le cose: o Sallusti non sa quello che dice (gravissimo per un direttore di giornale), oppure sfruculìa consapevolmente gli istinti più bassi e le paure più angosciose del suo pubblico timorato, conservatore, e forse anche un pochino razzista (addirittura dice che quell'aereo arriva "in 20 minuti" sul bersaglio - neanche fosse... il razzo della Luna). Possiamo tranquillizzarlo che simili paure sono solo roba da fumetto propagandistico, la difesa contraerea del nostro paese saprebbe fare il proprio lavoro, se mai fosse necessario - ma non con i "20 minuti" di calata dell'Unno su Roma. I "cosacchi", insomma, neanche questa volta arriveranno ad abbeverare i loro cavalli a Piazza Navona.

Semplicemente, l'Is non ha i sistemi d'arma per poter minacciare veramente l'Italia, e fa solo propaganda ("Siamo già a Sud di Roma!"). Ma fa propaganda benissimo, anzi vince già la sua guerra psicologica, perché la forza comunicativa dei suoi "segnali" è sfruttata con piena consapevolezza dell'effetto che produce, e questo effetto è moltiplicato dalle tecniche mediatiche della comunicazione moderna, con videoclip di straordinaria qualità professionale, e dalla compiacenza che gli offrono certi media, sempre scatenati quando si tratta di enfatizzare paure, irrazionalità, angosce collettive, timori della diversità.

Questo mio tentativo di razionalizzare una realtà in forte evoluzione non vuol dire affatto che l'Is non sia un pericoloso bubbone che si sta sviluppando anche in NordAfrica, ma è comunque un "bubbone" che può essere confrontato ed estirpato con l'uso di strumenti appropriati. Il primo di questi "strumenti" è la preparazione di un sistema di controllo diretto a limitare progressivamente l'efficacia delle operazioni dell'Is, sistema che non può ancora essere una spedizione militare italiana e/o europea - che verrebbe vista dai libici e dall'intero mondo musulmano come una spedizione neocoloniale, di occupazione militare - ma anzitutto l'individuazione di quelle componenti locali (le tribù e i clan) che abbiano maggiori probabilità di guidare una neutralizzazione degli scontri e delle infiltrazioni, e su queste componenti di leaderismo intervenire con forme di sostegno, di appoggio politico ed economico, di riconoscimento di ruolo.

Oggi sono 4 anni dalla rivoluzione che portò alla fine di Gheddafi e del suo regime. Per 40 anni, Gheddafi aveva tenuto unita la Libia (che in realtà ha 3 anime, Tripolitania, Cirenaica, e Fezzan, messe assieme dal colonialismo italiano all'inizio del secolo scorso), la teneva unita con la ferocia sanguinaria del suo potere assoluto e con l'accorta redistribuzione della ricchezza dei petrodollari tra le tribù. Morto Gheddafi, la Libia si è spappolata, e si è spappolata prendendosi di brutto i giganteschi arsenali di armi che il Raìss aveva accatastato: oggi in Libia c'è più di un milione di miliziani armati fino ai denti, frammentati in circa 1.250 bande di ogni natura (tribale, clanica, familiare, religiosa, laica), molte della quali paradossalmente stipendiate dal denaro dello Stato come "formazioni di sicurezza". Le istituzioni non hanno però alcuna credibilità né alcun potere diretto, e il paese è nominalmente guidato - ma solo nominalmente - da due governi, uno a Tripoli e l'altro a Tobruk. E l'islamismo, che Gheddafi aveva decapitato senza alcuna pietà, ha potuto ritrovare presenza e intervento sulle base delle divisioni tribali.

L'Is si è inserito in questo vuoto politico, trovando alleanza con alcune di queste bande armate, e proponendo una sua leadership grazie alla forza del suo messaggio mediatico e alla fascinazione della sua violenza "purificatrice". Ma in Libia è un corpo estraneo, e come un corpo estraneo viene vissuto, al di là delle alleanze tattiche guadagnate in questi mesi.

L'Is però ha un messaggio religioso stampato sulle sue bandiere nere, e di questo messaggio - e della sua capacità di attrazione - hanno timore molti regimi arabi, a cominciare dall'Egitto e dall'Algeria, paesi confinanti con la Libia e che in passato hanno avuto guerre sanguinose combattute contro formazioni islamiste, i Fratelli Musulmani in Egitto, i Gruppi Islamici in Algeria. Cairo ed Algeri non vogliono tornare a quei giorni tragici, e potrebbero perciò costituire il primo nucleo di una forza interaraba costruita per favorire una pacificazione; progetto tutt'altro che agevole, ma che può comunque essere immaginato nel lento disegno di controllo dell'Is di cui parlavo prima (altro che la la guerra di Gentiloni e Pinotti e Sallustri!). 

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/17/blogs/il-villaggio-quasi-globale/renzi-retromarcia-meno-male-ma-che-sappiamo-della-libia-kHHCCh7juIS1qr10vB2PDJ/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Maggio 01, 2015, 11:45:40 am »

   "Vietato ai cani e agli italiani" (quando fui migrante anche io)
Mimmo Càndito
27/04/2015

Ho letto della dichiarazione di Gianni Morandi che, di fronte a certe reazioni negative, infastidite, sugli sbarchi di migliaia di profughi, ricordava che anche noi italiani siamo stati emigranti, e subito la Rete era stata intasata di violenti attacchi contro il cantante.

Ho lasciato passare qualche giorno, per rispetto all'impegno di Morandi. Ora voglio portare un mio contributo di memoria, che credo possa comunque dare un qualche appoggio, da lontano, a quanto egli ci ricordava.

Sono stato un migrante anche io. In realtà, a quel tempo - era la prima metà degli anni Sessanta -  più modestamente si diceva "emigrante", con la "e", e quello sono stato anche io.

Vivevo a Reggio Calabria (aveva appena terminato il liceo, iniziavo l'Università, prima di "emigrare" a Genova), e in quegli anni dai piccoli paesi della mia terra c'era molta gente che partiva per la Germania, a cercare lavoro e fortuna. Erano gli "emigranti", contadini e manovali che tentavano di sfuggire dalla miseria di campagne senza speranza, con la valigia di cartone e la coppola in testa.

Allora, pur da ragazzo, mi interessavo molto di sociologia (cosa misteriosa, in quei primi anni Sessanta, appena agli inizi nella elaborazione della nostra cultura), e leggevo tutti i libri di sociologia americana che la piccola, preziosa, biblioteca dell'Usis presso la Camera di commercio teneva nei suoi scaffali, Riesman, Mills, Packard. Volli fare, dunque, una esperienza diretta, sul campo, trasformandomi in emigrante.

Chiesi alla mamma (papà era morto, noi eravamo una famiglia modesta, ma non povera) di aiutarmi a fare l'emigrante, quello che tanti ragazzi e tanti uomini di famiglie che noi conoscevamo erano davvero, e non "facevano". Sapevo bene che vi era una differenza di fondo, tra quei poveracci che partivano da disperati e me che, invece, "fingevo" di essere un disperato ma partivo, diciamo, per studio. E però assumevo il valore di quella differenza, e tentavo di controllarla per rendere più autentica la mia esperienza. Sapevo anche di avere strumenti culturali più articolati di tanti che partivano nel viaggio della speranza, ma mi riproponevo di non farmene condizionare: quello che mi interessava era apprendere direttamente delle difficoltà di vita in un ambiente completamente diverso, delle reazioni che queste difficoltà imponevano, e di come gli emigranti italiani subissero - o gestissero - queste reazioni.

Mi informai alla biglietteria della stazione Centrale, e mi feci dare dalla mamma 34.000 lire, che erano, giuste giuste, il prezzo di un biglietto di andata e ritorno in Terza classe per Duesseldorf, importante città industriale della Germania Occidentale. Se fosse stato necessario, non si sa mai, avevo il mezzo per poter comunque rientrare; e però partivo come un  vero "emigrante", con  i soldi contati e una povera valigia: vi stipai un paio di maglioni, calze e mutande, qualche pezzo di pane biscottato, due vasetti di marmellata e (soltanto questo, immagino, differente dagli emigranti "veri") una grammatica italiano-tedesco, che si usava nelle lezioni di tedesco che a quel tempo si potevano ascoltare alla radio, nel pomeriggio alle due, con i corsi anche di francese e di inglese. Ma di tedesco non sapevo davvero nulla, solo un po' di francese appreso a scuola e un pizzico di inglese studiato per mio conto con un giovanotto inglese che faceva l'insegnante a Reggio.

Arrivai a Duesseldorf distrutto dal lungo viaggio, stranito, incerto. Però, in testa al binario dove ero sbarcato vidi, sorpreso, interessato, alcune parole in varie lingue, e perfino (incredibile! che fortuna!) in italiano: il cartello diceva "Benvenuti, lavoratori. Se avete bisogno, possiamo aiutarvi". Era la Kolping Haus, un'organizzazione caritatevole evangelica, che dava assistenza alle migliaia di italiani che arrivavano a cercare lavoro.

Mi aiutarono, mi ospitarono in una soffitta, dove dormivamo in 24 emigranti di ogni paese, mi fecero il credito di un Marco al giorno, e mi insegnarono come fare i documenti per essere assunti in fabbrica. Trovai lavoro come manovale in un'acciaieria, mi alzavo alle 5 del mattino e ci tornavo al tardo pomeriggio. Pulivo le macchine, pulivo i capannoni, facevo i lavori d'ogni manovale, a poca distanza dai fuochi dell'altoforno.

Non c'erano italiani, nel mio capannone, soltanto tedeschi, quasi tutti tedeschi, con un portoghese e un colombiano. Quando avevo un attimo di pausa, mi nascondevo dietro un tavolone di ferro e leggevo qualche pagina della grammatica; poi chiedevo ai lavoratori tedeschi di verificare il mio apprendimento del vocabolario tedesco: il naso, la mano, il vestito, mangiare, lavorare, parlare... Mi seguivano incuriositi, ma mi trattavano anche con qualche disprezzo, e dicevano parole che io non capivo e però li facevano ridere di me. 

Un giorno, uno dei capiofficina mi sorprese con il mio libro: mi rimproverò aspramente, a lungo, con parole che non conoscevo ma il cui tono era assai chiaro; e mi portò in direzione, tenendomi per il braccio. I direttori mi interrogarono, duri, seri, sfogliando con curiosità quel libro della Eri che il capoofficina gli aveva consegnato; io cercai di spiegare quello che potevo, con il mio poco inglese che riuscivo a manovrare, e quei tre - serissimi, l'abito scuro, il disprezzo stampato in faccia - mi ascoltavano in silenzio. Credo dicessero parole assai dure sugli "Italianen", ma poco alla volta - appreso che ero un giovanotto che stava per andare all'università, e a quel tempo erano davvero pochissimi coloro che potevano fare lo studente - mi perdonarono: non mi licenziarono, ma mi imposero di non portare più in fabbrica quel mio libro. (Tra parentesi, erano tali le condizioni di lavoro nel capannone che, ogni volta che tornavo dalle macchine e dai torni a sfogliare il libro, le pagine che avevo lasciato aperte erano coperte da una sottile, diffusa, polvere di ferro.)

Non lo portai più, il mio libro di tedesco, e però mi facevo insegnare le parole dai miei compagni tedeschi. I quali, saputo chissà come, che non mi avevano licenziato perché ero ("addirittura") uno studente universitario, cambiarono completamente il loro atteggiamento verso di me: mi sorridevano, cercavano di aiutarmi nel mio lavoro pesante, arrivavano a invitarmi a cena a casa loro, che sarebbe stato un onore. Uno studente universitario! Una figura sicuramente di prestigio, un "signore"! Per rabbia rifiutai, perché ero la stessa persona che fino a un giorno prima loro avevano trattato con disprezzo e ora volevo vendicarmi. Sbagliavo, ma non ce la feci.

Imparai poco alla volta a capire di più, a tradurre quella lingua impossibile, e a districarmi. Un sabato sera mi feci coraggio, decisi di uscire, di andare in un locale vicino dove i tedeschi mi avevano detto che si poteva ballare, che c'erano molte ragazze sole. E ammiccavano. Ci andai, impacciato, timido, curioso, ma interessato soprattutto alle ragazze. Entrai titubante, guardandomi intorno, cercando di capire la gente dentro quel fumo e quella musica sparata a volume alto, e di guardare quelle ragazze bionde che a me sembravano tutte bellissime, fantastiche, come a Reggio nemmeno avrei potuto sognare.

Dopo qualche minuto mi feci coraggio, e appena l'orchestrina attaccò un pezzo mi avvicinai a una ragazza; non sapevo ballare, ma il desiderio d'immaginare chissà quale avventura facile e ora a portata di mano mi diede coraggio.

Una ragazza, bellissima, mi sorrise, e si alzò in piedi per accompagnarmi nel piccolo spazio dove le coppie già ballavano. Ma un uomo mi si avvicinò e, guardandomi in tutta la mia evidente diversità rispetto all’ambiente, mi disse "Nein, Nein", scuotendo la testa. Mi chiese chi mai io fossi. Gli risposi - con il mio poco tedesco - che ero uno studente italiano, e ricordando il nuovo rispetto che ora mi mostravano in fabbrica i miei compagni tedeschi ero certo di avere, così, un buon lasciapassare.

Quell'uomo ascoltò aggrottato, nel fragore alto della musica, poi disse nuovamente, duro, aspro, "Nein! Nein". Mi prese per il braccio (era molto più alto di me, e grosso, e forte), e mi accompagnò alla porta, dove mi mostrò con il dito teso un cartello che io nemmeno avevo visto quand'ero entrato, preso com'ero dal mio imbarazzo e dalla mia curiosità. Ora che sapevo un po' di tedesco, lessi e tradussi: "Vietato l'ingresso ai cani e agli italiani". Me ne andai, la ragazza che avevo invitato, bellissima, già ballava sulla pista tra le braccia di un ragazzo biondo.

Il mio progetto "sociologico" lo ressi per più di due mesi, rientrando in Italia giusto in tempo per l'inizio delle lezioni all'università. Appresi molto, parlai con molti emigranti "veri", presi nota dei loro rapporti difficili con gli operai tedeschi. E mi portai dentro, e mi porto tuttora, il segno forte di quella esperienza, e il cartello bianco appeso alla porta di quel caffè, con quelle sue parole sprezzanti, quel "Verboten" che mai dimenticherò e che subito mi torna addosso quando vedo attorno a me il disprezzo usato contro i migranti che vengono in Italia a cercare speranza, fortuna, una vita nuova.

Siamo stati migranti anche noi. Ci chiamavamo emigranti, a quel tempo, e ora lo abbiamo dimenticato.   

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/27/blogs/il-villaggio-quasi-globale/vietato-ai-cani-e-agli-italiani-quando-fui-migrante-anche-io-97VEH8OKm1bTFjxd6pyPOI/pagina.html
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« Risposta #42 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:54:36 am »

Francesco e Raul, perché è un incontro storico
La stretta di mano tra Castro e il Papa sancisce l’apertura del sistema politico cubano
REUTERS

Raul Castro e Papa Francesco

10/05/2015
Mimmo Càndito

Le due mani che stamani papa Francesco e Raul Castro si sono stretti in un saluto apparentemente formale, in realtà portano uno straordinario valore simbolico: segnano un passaggio della storia, sancendo solennemente l’apertura del sistema politico cubano. 

Fino a oggi, la Revolucion non ammette che vi possano essere altri soggetti isituzionali, oltre il Partito comunista: ogni progetto di creazione di forme e modelli concorrenti, o alternativi comunque, è sempre terminato con una durissima sanzione, la galera o l’esilio o, quando possibile, l’emarginazione in un ghetto (quello del dissenso) bollato con le violente contestazioni del «repudio popular». Nel tempo, questo programma di assoluta impermeabilità ha però dovuto riconoscere che il distacco della società cubana (o, almeno, di una sua parte sempre più ampia) dal regime si andava approfondendo, congiuntamente con una crisi economica senza prospettive di soluzione.

Era necessario ritrovare un legame che si stava erodendo molto pericolosamente, “inventarsi” un interlocutore credibile per i sentimenti popolari in modo da recuperare, attraverso questo soggetto, la vecchia ideologia che nel «nosotros» ufficiale, il «noi» collettivo, ci stava autenticamente tutto, la Revolucion e l’intero paese (ormai, e da tempo, la realtà era invece che il noi del regime non comprendesse più la società, che sentiva se stessa come «los otros», cioè gli altri dal potere). E questo distacco era una tabe che minava geneticamente il futuro del castrismo, e il suo stesso mito.

La Chiesa cattolica, un non-partito, e però una istituzione di intermediazione presente nel corpo è parsa una soluzione viabile per rafforzare il gattopardismo di un regime in crisi. La stretta di mani di Raul e Francesco non è una rivoluzione, ma la vale tutta.

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/10/esteri/francesco-e-raul-perch-un-incontro-storico-Uj7mFuqrHFheZTr3AZspUL/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:23:46 pm »

“Io, inviato sul fronte della guerra al cancro”
Mimmo Candito, storica firma della “Stampa”, racconta la sua battaglia contro la malattia
Inviato di guerra Mimmo Cándito scrive per «La Stampa» dal 1970

31/05/2015
Mimmo Candito

Sto bene. Ma ho un tumore nel polmone. Sì, ho un tumore al polmone destro. Punto. Non credo proprio che sia una notizia d’interesse (tranne che per me, naturalmente), eppure voglio parlarne, e parlarne pubblicamente. Ma, questo, per scuotere i tanti che – appena io dico «mi hanno trovato un tumore» - fanno doverosamente la faccia di circostanza, e abbassano il volume, e il tono, delle loro parole. Come si fa tra persone sensibili quando si parla a un morto, anche se è un morto che cammina.

La diagnosi 
Parto da lontano, alcuni anni fa. Erano più o meno questi giorni, e stavo a Miami; seguivo per la «Stampa» la storia dei cubani esiliati e i loro sentimenti verso l’isola che avevano dovuto abbandonare. Insomma, scrivevo al computer: le interviste, gli incontri, le facce, le storie, e però, quando mi piegavo verso il pc e la tastiera, provavo subito un forte dolore, dietro, tra nuca e spalle. Sarà la cervicale, pensavo. Andai in ospedale, da una mia amica medica di laggiù.

Mi portò da un suo collega, il quale confermò la mia supposizione. «Facciamo comunque una piccola radiografia, per valutare lo schiacciamento delle vertebre».

Quando, dopo, fissò la lastra sullo schermo, controluce, fece però una brutta faccia. E stette zitto.

Per trent’anni, allora, il mio lavoro di corrispondente di guerra mi aveva portato a camminare con occhi angosciati lungo i passi della morte, dentro guerre combattute nella verità nuda di chi ammazza o è ammazzato, tra teste squarciate e pance aperte, gambe mozzate, banchetti di mosche sulle budella ingrigite dal sole, e merda e macerie dovunque. Non poteva certo impressionarmi una vaga idea della morte sospesa nel lindore della cameretta sterile e ben in ordine d’un ospedale americano. Per questo ero sereno, quando dissi: «Com’è serio, dottore. C’è qualche brutta storia?».

 

Mi guardò un attimo, poi indicò un punto della lastra, che inquadrava il collo e la parte alta del torace. «Questa macchia biancastra, qui, vede, non dovrebbe esserci. Non lo so davvero, però potrebbe anche essere un tumore».

In America vanno giù diretti; il medico ti spiffera subito tutto, senza reticenze né giri di parole, per evitare poi vertenze legali e i milioni di dollari che magari gli toccherebbe pagare per danni («Eh, se me lo diceva subito...»). Mi guardò molto serio, e scosse la testa. «Potrebbe essere».

La prevenzione 
(Prima considerazione) Il tumore, spesso non sai d’averlo. Ci convivi, lui ti lavora dentro, e quando, alla fine, magari per un qualche accidente che non c’entra nulla, i medici lo scoprono, è ormai troppo tardi. La prevenzione, oggi lo sappiamo, diventa un atto fondamentale.

L’ospedale era il «Mount Sinai», un ospedale privato. Mi chiesero se avessi la carta di credito. Certo, ce l’ho, e in pochi minuti mi ritrovai su una barella; veloci, mi portarono per il corridoio a fare una Tac. Poi, mi lasciarono nel lettino d’una cameretta, improvvisamente da solo, la luce abbagliante della Florida nel cielo della finestra. Ero arrivato all’ospedale per un banale controllo, le braghe corte, la t-shirt, le espadrillas; e ora dovevo chiedermi se stavo per morire.

(Seconda riflessione) Come ci si comporta? mi chiedevo. Se muori in guerra, non hai domande da fare. Ma se invece ti vengono a dire che devi morire, e ti lasciano lì che nemmeno sai ancora se però sia vero o no, che si fa? E alla moglie, come lo si comunica?

Imbarazzo serio. Ma anche (Terza riflessione): hanno detto che «pare» che sia un tumore, e però, per te e per tutti, «tumore» significa che sei morto, che cammini e pensi e ti agiti e fuori c’è il sole, ma però sei già morto. Perché, nella tua testa, nella testa di tutti, il tumore è la condanna definitiva.

Entrò un dottore, il camice bianco, un sorriso appena accennato. Mi diede la mano e si presentò. Poi, senza quasi una pausa, aggiunse guardandomi negli occhi: «Dear Mr. Candìto, devo dirle che il suo è davvero un tumore. Ma questo suo tumore è inasportabile. Lei non ha speranze di vita». Mi diede nuovamente la mano, questa volta senza nemmeno l’ombra di un sorriso. E andò via.

 

(Quarta riflessione) E’ dunque vero che tumore significa morte, pensai come chiunque, scacciando dalla mia testa la speranza nascosta che, però, alla fine tutto si aggiusta. L’illusione che tocchi sempre a un altro, ma non a te.

Ora, all’improvviso, non era questione di partire per andare in guerra e avere l’abitudine a pensare in astratto che, sì la morte ti può anche agguantare, ma dentro di te sei sicuro che mai arriverà; e invece ora no, la morte era lì, su quel lettino, morte vera e non pensiero astratto. All’improvviso diventavi uno qualunque al quale hanno appena detto che sta per morire, e non c’è muretto dietro il quale proteggersi dai colpi di kalashnikov o dal razzo che sibila nell’aria e sta per pioverti addosso. Morire, e basta.

La sperimentazione 
(Quinta riflessione, però di oggi. No, non è affatto così, il tumore non è una condanna a morte; io imparai ad apprenderlo, in quei giorni, e per questo ora scrivo queste righe.)

La mia amica medica convinse il suo collega oncologo a fare «anche l’impossibile». Lui, il dottor Rogerio Lilembaum, uno scienziato di punta, vista l’«impossibilità» del mio caso, non applicò il protocollo, cioè quelle norme terapeutiche già comprovate per ciascun tipo di tumore e che sono comuni ovunque, in America come in Italia o in Ucraina. Tentò un «trial», una sperimentazione. L’esame istologico mostrava che nei vetrini c’erano tracce di metalli pesanti, titanio, uranio, e altro che comunque non sta nella vita quotidiana ma si trova soltanto in guerra; probabilmente, erano tracce d’una contaminazione, l’Afghanistan forse, o forse l’Iraq, o la Somalia, come tanti veterani dei marines o anche tanti soldati italiani in Kossovo. Lavorando con il computer sulla specificità del mio organismo e sulla eziologia del tumore, e adeguando a questo la terapia, mi dettò 45 sedute di radiazioni, e 6 cicli di chemioterapia mirata nel dosaggio delle componenti.

Furono mesi molto duri. (Sesta considerazione) Chi è malato di cancro vuole che si rompa la cortina di commiserazione che lo circonda, non accetta l’esorcismo pavido di chi non vuol mai usare la parola «tumore» e ripiega su «il brutto male»; non chiede pietà, e nemmeno l’insopportabile ipocrisia di chi dice «coraggio» e di nascosto fa gli scongiuri, vuole soltanto la comprensione d’un sentire comune perchè il tumore viene vissuto - da chi lo ha - come una malattia «sociale», qualcosa che non appartiene soltanto al malato ma fa parte d’una dimensione psicologica ed emotiva più ampia, che va anche al di là della cerchia familiare. 

La solidarietà 
Mandai perciò un sms a tutti i miei compagni di vita, gli inviati speciali con cui avevamo raccontato guerre e uomini nelle terre del mondo. Risposero tutti, subito; e poi, per non affaticarmi, delegarono uno di loro – Vittorio Dell’Uva, del “Mattino» - a seguire per tutti il mio problema, perché, se era una guerra ad avermi segnato, la guerra era stata un tempo vissuto in comune e il mio problema apparteneva perciò a tutti.

L’oncologo, intanto, mi aveva suggerito che, per quanto possibile, non mi facessi condizionare dalla consapevolezza del tumore. Seguivo sì una terapia, ma dovevo fingere a me stesso che tutto fosse come prima, prima di quella diagnosi imprevista.

Io a quel tempo, al mattino, tutte le mattine, facevo mezz’ora di nuoto, 25 vasche in piscina. Dovevo continuare a farlo, anche se la chemio era davvero distruttiva. Mi costava fatica ma dovevo continuare. E però un giorno che la terapia mi aveva stancato molto, arrivai alla undicesima vasca e dovetti smettere subito, per non affogare: non riuscivo più a respirare. 

Risalii dall’acqua e mi stesi a meditare. Sentivo la mia impotenza, avvertivo il tumore come una sfida perduta. E dunque c’ero arrivato, dovevo proprio morire.

La svolta 
Ma invece no, mi dissi di no, scesi di nuovo in piscina, ripartii a nuotare e a contare: una vasca, due vasche, tre vasche. Arrivai alla numero 25, e dissi a me stesso: ora fagli vedere tu, al tumore, chi sia più forte. Nuotai ininterrottamente per 55 vasche, un’ora e passa. E quando uscii dall’acqua, sapevo dentro di me che io avrei vinto, non il tumore.

E vinsi io. Il «trial» di Lilenbaum ebbe incredibilmente successo, diventò subito un «protocollo» comunicato nei congressi internazionali, all’interno di un 5 per cento dei successi a livello mondiale. E il tumore «inasportabile» mi fu asportato con un intervento molto rischioso. (Settima considerazione) Nella battaglia individuale contro il tumore, la componente psicologica è fondamentale. Il lavoro di Lilenbaum è stato preziosissimo, però ho imparato che la forza, l’energia, che scateni dal cervello, la tua volontà di non cedere al dominio del cancro, è una componente essenziale della terapia medica. 

L’altro ieri però, dopo i controlli periodici di tutti questi anni, controlli sempre «negativi», l’ultima Pet ha scoperto che ho di nuovo un tumore, nell’altro polmone, il solo che mi è rimasto. Inizierò presto la terapia, e non ho alcuna paura. Quando mi chiedono come sto, rispondo: «Sto bene, ho un tumore ma sto bene». Lo chiamo con il suo nome, tumore, e so che posso batterlo. Voglio però che lo sappiano anche quelli che hanno un tumore, e i loro familiari, e i loro amici. Perchè devono imparare che si possono nuotare 55 vasche, e alla fine anche si vince.

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/31/societa/io-inviato-sul-fronte-della-guerra-al-cancro-FiY0xL7fHrDV1ueBwx78rK/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Luglio 20, 2016, 05:17:41 pm »

Erdogan e la metamorfosi dell’uomo eletto che diventa autoritario
Epurazioni di massa dentro scuole e moschee: la vendetta del Sultano

20/07/2016
Mimmo Cándito

Il vento della vendetta sta spazzando le scuole della Turchia, riportandola a un tempo arcaico assai lontano dai secoli illuminati della Sublime Porta. Via, tutti via. Via i rettori, via i presidi, via i decani. Prima erano stati i generali, a pagare, i soldati, i servizi segreti, anche i giudici, ora va via anche la testa pensante della Turchia, lasciando intendere che Erdogan vuole avere piano controllo del pensiero, della libertà del giudizio, dell’autonomia della intelligenza. Via, fuori dalla scuola, fuori dalle università, fuori da centri di ricerca. Ogni regime autoritario vuole creare «l’uomo nuovo», tende a rimodellare con il suo afflato la mente, il cervello, il pensiero, dei cittadini.

Ma Erdogan è a tutt’oggi il capo di Stato eletto con libere elezioni, con un Parlamento e un sistema giudiziario che ne dovrebbero bilanciare il potere, e una struttura politica che punta credibilmente a essere accolta nel corpo istituzionale della Unione Europea. Ora la replica a quanto sta avvenendo in Turchia spetta alle capitali europee.

Titolari di storie che hanno costruito nei secoli la tutela della libertà della ricerca intellettuale come elemento fondante di una comune, irrinunciabile, identità. L’editto sulle epurazioni di massa è stato emesso dallo Yok, Consiglio per l’Alta Educazione, che guida e sovrintende le università turche. Formalmente, lo Yok chiede le dimissioni di tutti i 1577 docenti che hanno la responsabilità scientifica degli atenei di Ankara, Istanbul, Smirne, Antalya, di ogni parte della Turchia, dall’Anatolia fin giù alle terre dell’Asia Minore. La richiesta di dimissioni cela il progetto di una purga totale, rafforzata dal licenziamento immediato di 15.200 funzionari della pubblica istruzione e di 21 mila docenti di scuole private. E poi vengono chiuse radio e stazioni televisive, vengono sbattuti in galera i giornalisti, licenziati in tronco cronisti e opinionisti. 

Quando, cento anni fa, Kemal Atatürk prese il potere, e lo esercitò con la mano autoritaria di un militare che si fa politico, i suoi editti puntarono a cancellare l’egemonia della storia religiosa del suo Paese ma ne rispettarono e ne tutelarono la storia intellettuale: abolì il fez come simbolo di una identità da cancellare e troncò l’integrazione tra potere politico e potere religioso, cancellò anche la vecchia scrittura araba e la sostituì con le lettere dell’alfabeto latino però mai arrivò a purgare le teste pensanti della scuola della nuova Turchia che abbandonava l’eredità dell’Impero Ottomano. Cambiarono certamente i testi scolastici ma l’apporto delle intelligenze fu richiesto e conservato sia pur all’interno di un disegno di rifondazione della identità nazionale. Erdogan, che pure ordina ai suoi cameramen di riprenderlo con alle spalle una enorme gigantografia severa di Atatürk, avanza sprezzante di ogni identità e si spinge in un territorio dove la devastazione delle coscienze pare essere l’unico obiettivo che lo interessi. E non per fedeltà a una utopia che realizzi una società nuova ma per consolidare il potere.

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