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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 122256 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:20:41 pm »

La politica assente
Il treno giudiziario dei diritti

Di Michele Ainis

Sul divorzio breve l’ha spuntata: dal maggio scorso è legge. Anche se i primi a usarla sono stati Civati e Fassina, rompendo il matrimonio col Pd. Viceversa sugli altri temi etici Renzi arranca, temporeggia, svicola. Il suo governo corre come un treno, ma sul binario dei diritti la locomotiva è ferma in galleria. Tuttavia i passeggeri non rimangono appiedati, perché montano a bordo di un treno giudiziario.

Stazione d’arrivo: Strasburgo, dove ha sede la Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza che ci impone il riconoscimento delle unioni gay è solo l’ultima d’una lunga filastrocca. In precedenza siamo finiti in castigo o per eccesso di diritto (con le due pronunzie del 2011 e del 2013, contro il reato di clandestinità e contro il sovraffollamento carcerario) o per difetto (da qui la sentenza del 2014 sul diritto d’attribuire ai figli il cognome della madre, nonché la condanna del 2015 perché l’Italia non punisce il reato di tortura). Ma i viaggiatori partono da Roma, dove c’è un doppia stazione ferroviaria. Alla Cassazione, che ha appena sancito il diritto di cambiare sesso senza subire mutilazioni genitali. E alla Consulta, che l’anno scorso demolì la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, mentre dal 2010 denuncia anch’essa la mancanza di ogni disciplina sulle coppie omosessuali.

E la politica? Continua a contemplare il vuoto. Quello sul diritto d’asilo, per esempio: la Costituzione evoca una legge, dopo 68 anni stiamo ancora ad aspettarla. L o ius soli , per fare un altro esempio: ovvero la cittadinanza ai figli degli immigrati regolari, un’altra promessa fin qui disattesa dal governo. Il testamento biologico: regolato negli Usa non meno che in Europa, mentre in Italia l’idea di regolarlo è deceduta insieme a Eluana Englaro. Né più né meno della legge sull’omofobia: approvata dalla Camera nel settembre 2013, desaparecida al Senato. Sarà per questo che la riforma costituzionale, nella sua ultima versione, amputa le competenze legislative del Senato sui temi etici. In queste faccende, la regola parlamentare è l’incompetenza. Tanto c’è sempre la competenza giudiziaria, che in 11 anni ha macinato 33 sentenze sulla fecondazione assistita, riscrivendo l’intera normativa.

Domanda: perché? Da cosa dipende il protagonismo della magistratura? Potremmo rispondere che succede dappertutto: così, a giugno la Corte suprema degli Stati Uniti ha decretato il matrimonio gay, mentre in Olanda un giudice ha condannato lo Stato per l’immobilismo nelle attività di mitigazione del clima. Tuttavia sono eccezioni, non la regola. La regola eccezionale funziona solo qui, e funziona puntuale come un orologio. Potremmo osservare allora che la tutela dei diritti costituisce lo specifico mestiere di ogni magistrato; però altro è tutelarli, altro è crearli dal nulla come Giove.

No, l’interventismo dei giudici italiani deriva dall’assenteismo dei politici italiani, dall’ horror vacui che regola la vita delle istituzioni. E in Italia il vuoto normativo deriva a sua volta dal potere interdittivo d’un alleato di governo o una corrente del partito di governo che sposa posizioni integraliste. Alle nostre latitudini, trovi sempre qualcuno più papalino del Papa. I giudici, viceversa, non se lo possono permettere. Dinanzi ai loro occhi sfilano uomini e donne in carne e ossa, con le loro sofferenze. Persone, non elettori. E la società italiana soffre d’una mancanza di tutele sui temi della vita e della morte, della sessualità, della protezione dei più deboli. I giudici lo sanno, i politici evidentemente no.

25 luglio 2015 (modifica il 25 luglio 2015 | 07:13)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_25/treno-giudiziario-diritti-16daa6e2-328a-11e5-9218-89280186e97d.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:26:33 am »

IL CAMMINO DELLA RIFORMA
L’indipendenza della Rai esige regole stabili e certe

Di Michele Ainis

Ieri è andata in onda la prima fiction della nuova stagione: la riforma della Rai. Con uno sceneggiato, o forse con una sceneggiata, fate voi. Quella imbastita dalla minoranza della maggioranza, votando insieme alla maggioranza della minoranza sul finanziamento della tv di Stato. O anche quella del governo. Aveva detto: mai più vertici Rai eletti con la legge Gasparri, e infatti il 4 agosto i nuovi vertici verranno eletti applicando la Gasparri. Da chi? Dalla commissione parlamentare di Vigilanza, dove intanto i centristi chiedono un riequilibrio. Tradotto: più posti in Vigilanza per incassare posti nel prossimo cda.

È la legge sempiterna della televisione pubblica: si chiama lottizzazione, una lotteria dove ogni partito ha in tasca il biglietto vincente. Nel corso dei decenni è cambiato il nome dei partiti, ma resta sempre attuale la battuta confezionata ai tempi di mamma Dc. «In Rai hanno assunto cinque giornalisti: due democristiani, un socialista, un comunista e uno bravo». È cambiato, inoltre, il numero dei consiglieri d’amministrazione: prima 6, poi 16 con la riforma del 1975, poi 5 dal 1993, poi 9 dal 2004, ora diventeranno 7. Insomma, la politica continua a dare i numeri, ma alla Rai servirebbe invece una parola, una soltanto. L’indipendenza.

È quest’attributo, infatti, che giustifica l’esistenza del servizio pubblico radiotelevisivo. Come dichiarano due risoluzioni del Parlamento europeo (approvate nel settembre 2008 e nel novembre 2010). Come ribadisce una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (15 febbraio 2012). Come afferma, in Italia, la Consulta, fin dalle due storiche sentenze del 1974 (la 225 e la 226). E l’indipendenza s’applica, anzitutto, nei riguardi del governo. Come? Proteggendo dai suoi artigli il direttore d’orchestra. Altrimenti la Rai dovrà suonare uno spartito dettato dal partito (di governo).

Qui però cominciano le dolenti note. Già la legge Gasparri consegna all’esecutivo la scelta di 2 membri su 9 del consiglio d’amministrazione. Rendendolo così quasi indipendente dal governo, e celebrando perciò l’ossimoro, perché l’indipendenza o c’è o non c’è, come la gravidanza: nessuna donna è mai stata quasi incinta. La legge Renzi trasforma la semi-indipendenza in semi-dipendenza, dato che i consiglieri d’estrazione governativa salgono in percentuale (2 su 7). Di più: con questa legge, sempre il governo propone il direttore generale, che avrà i poteri di un amministratore delegato. Bene, se il nuovo ruolo saprà garantire un’iniezione d’efficienza. Male, perché in nessun grande Paese europeo il vertice dell’emittente pubblica costituisce un’emanazione dell’esecutivo. Come ha osservato Ingrid Deltenre, direttrice dell’European Broadcasting Union, in un’audizione al Senato.
Ma l’indipendenza è una creatura fragile, precaria.
Per mantenersi in salute ha bisogno di molte medicine, nessuna esclusa. Per esempio, quanto alla durata dell’incarico. Non a caso, negli Stati Uniti, i giudici della Corte suprema vengono designati a vita, mentre in Italia i loro colleghi giurano per 9 anni. Il nuovo cda della Rai, viceversa, scadrà dopo 3 anni. Troppo poco, quando in Germania e in Francia la durata è 5 anni, in Austria e in Belgio 6, in Inghilterra e altrove non incontra limiti di tempo. E troppe riforme sul capezzale della tv di Stato, troppi custodi che s’intralciano a vicenda (dalla Vigilanza all’Autorità per le comunicazioni, dalla Consulta all’Antitrust). L’indipendenza, affinché sia praticata con successo, esige regole stabili, certe, e se possibile omogenee.

Da qui un problema, che prima o poi dovremmo pur risolvere. Alle nostre latitudini sbucano garanti come funghi, ma ciascun fungo ha le sue spore. Sicché talvolta viene generato dai presidenti delle Camere (è il caso, per esempio, della Commissione sullo sciopero), talvolta dall’intero Parlamento (come il Garante della privacy), talvolta dal governo (così il governatore della Banca d’Italia). Sarebbe troppo chiedere l’applicazione d’un unico sistema?

1 agosto 2015 (modifica il 1 agosto 2015 | 07:17)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_01/indipendenza-rai-esige-regole-stabili-certe-de1b0252-380b-11e5-90a3-057b2afb93b2.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:25:18 pm »


Rischi
Gli incarichi gratuiti svalutano il lavoro (favorendo i baratti)
Si è diffusa la convinzione che le prestazioni non retribuite siano giuste. Ma è solo demagogia che genera altri scambi: dai favori per i consulenti all’indennità per i politici

Di Michele Ainis

Se è gratis, c’è l’inganno (Ignazio Silone, «Fontamara»). E allora l’Italia è la Repubblica degli inganni. Provate a digitare su Google «consulente a titolo gratuito»: vengono fuori 606 mila risultati. Nonché il fior fiore delle amministrazioni pubbliche, dal governo nazionale al Comune più sperduto. Ultimo caso: la nomina di 20 direttori nei principali musei italiani. 7 su 20 sono stranieri, altri 4 tornano dall’estero, sicché procureranno un bell’esborso al nostro erario, rispetto alla promozione dei soprintendenti; in compenso la commissione selezionatrice ha lavorato gratis (articolo 4 del bando di concorso).

Ma ormai questa è la prassi, la regola non scritta. Anzi no, sta scritta a lettere di piombo nella riforma Madia: per i pensionati, solo incarichi non retribuiti. Dopo di che succede che la politica si spartisca le poltrone nel cda della Rai, scoprendo a cose fatte che 4 nuovi consiglieri su 7 sono pensionati. Perciò o rinunziano al posto o all’emolumento. Domanda: ma voi ci andreste a lavorare gratis? Non vi sentireste forse un po’ umiliati, sfruttati, raggirati?

Sennonché questi volgari sentimenti non vanno più di moda. Là fuori c’è tutto un popolo di consulenti che non bada a spese, contentandosi del rimborso spese. L’anno scorso Renzi ha designato 7 consiglieri economici, tutti rigorosamente a titolo gratuito. Quest’anno lo ha imitato, per esempio, il governatore dell’Abruzzo (6 incarichi di collaborazione). Dal gennaio 2015 il Comune di Genova ha elargito 11 consulenze, e 5 sono gratis. Gli stessi numeri (6 su 14) s’incontrano al ministero del Lavoro, o meglio del Dopolavoro. In agosto il sindaco di Positano ne ha firmate 11, inclusa una consulenza per i rapporti con l’Azerbaigian; ovviamente a costo zero. A Castellammare di Stabia il sindaco ha nominato consulente di fiducia suo cognato, senza spese né per la famiglia, né per l’amministrazione.

I comuni siciliani, poi, hanno più consulenti a titolo gratuito che impiegati. Così, a Monreale lo psicologo Terzo è al suo terzo incarico. A Piazza Armerina divampa la polemica: pare che fosse vuoto il curriculum degli incaricati, oltre che il loro portafoglio. Mentre non si contano i casi in cui l’ex assessore si trasforma in consulente: senza busta paga, però conservando la sua stanza. È successo, per esempio, a Castelvetrano; ma anche Crocetta ha nominato consulente non retribuito un suo precedente assessore.

Come si è generato il fenomeno in questione? Sommando il vecchio al nuovo. Nel primo caso entra in gioco un fattore culturale, il nostro rapporto col denaro. Gli americani, laicamente, non se ne vergognano; in Italia, viceversa, la tradizione cattolica considera i quattrini «lo sterco del demonio». La seconda ragione deriva dall’onda di disgusto via via montata dinanzi allo scialo di cui si è resa protagonista la politica; sicché quest’ultima ha reagito con risposte demagogiche, per rabbonire l’opinione pubblica. Ma in realtà diseducandola, offrendole una pedagogia al contrario. Perché un conto è porre un tetto (240 mila euro) alle retribuzioni dello Stato, come decise il premier cominciando la sua avventura di governo; tutt’altra faccenda è stabilire, come unico punto irrinunciabile della riforma costituzionale, che i senatori debbano lavorare gratis.

Che ne otterranno in cambio? Magari l’immunità penale, un bene più prezioso del denaro. E come verrà ricompensato il consulente? Con favori, protezioni, «entrature». Insomma col biglietto d’ingresso in un circuito dove non conta il merito, bensì le conoscenze. Per i più giovani, non è proprio un bell’esempio. Specie se a loro volta dovranno faticare gratis in uno studio d’avvocato o d’architetto. Sennonché la retribuzione del lavoro è la misura della sua utilità sociale; non a caso viene prescritta dalla Costituzione (art. 36). A meno che non si tratti di un’attività politica, ma allora scatta il diritto all’indennità (art. 69). Dunque questa moda dell’incarico gratuito si risolve nella svalutazione del lavoro, su cui si fonda la Repubblica (art. 1). Sicché, una volta di più, la nostra Carta viene elusa. Con una massima recitata sottovoce: ti pago sottobanco. Mentre noi tutti spalanchiamo gli occhi sul bancone, senza degna d’uno sguardo il banchiere che traffica di sotto.

22 agosto 2015 (modifica il 22 agosto 2015 | 15:15)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_22/gli-incarichi-gratuiti-svalutano-lavoro-favorendo-baratti-a1fddd7c-48bd-11e5-adbb-a52649bc660c.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:32:51 am »

Il potere diretto del leader
Le mutazioni politiche in un Italia che cambia pelle

Di Michele Ainis

L’ Italia cambia pelle, anche se gli italiani non si spellano le mani per l’applauso. Cambia la sua geografia istituzionale, sia nelle istituzioni politiche sia in quelle burocratiche, economiche, sociali. Il nostro premier riuscirà più o meno simpatico, ma di sicuro sta spingendo sull’acceleratore. Il governo Renzi I ha superato la boa dei 500 giorni, e in quest’arco temporale ha messo sotto tiro la scuola, la Pubblica amministrazione, la Rai, il mercato del lavoro, le prefetture, le Camere di commercio, le Province. E ai piani alti del sistema la legge elettorale, il Senato, le competenze delle Regioni. Con quali effetti? C’è una direzione, c’è una parola d’ordine che riassume l’epopea riformatrice?

Le paroline sono tre: verticalizzazione, unificazione, personalizzazione. Nelle scuole comanderà un superdirigente, con poteri di vita e di morte sui docenti. Alla Rai un superdirettore, con le attribuzioni dell’amministratore delegato. Nelle imprese il Jobs act, allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager. Diventano licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capogabinetto del ministro regnerà come un monarca. Nel frattempo viene destrutturato il territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). Così l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra il leader nazionale e gli elettori.

Anche perché tutte le istituzioni collegiali sono in crisi. Vale per i consigli regionali come per quelli comunali, oscurati dall’autorità del sindaco. Vale per il Consiglio dei ministri, che per lo più si limita a timbrare decisioni già annunziate in conferenza stampa. E vale, da gran tempo, per le assemblee parlamentari. Che in questa legislatura si sono spappolate come maionese: Forza Italia si è divisa in tre, il Partito democratico ospita due truppe armate l’una contro l’altra, i 5 Stelle hanno subito un’emorragia fluviale, dentro Scelta civica s’è ripetuto l’esperimento di Hiroshima: la scissione dell’atomo. La frantumazione dei gruppi parlamentari parrebbe un intralcio all’attivismo del governo. I conti, qui, si faranno alla fine.

Ma la concentrazione del potere sarà probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione delle Camere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio dell’Italicum: al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al Capo. E da lui giù verso i tanti capetti che stanno per mettere radici nel paesaggio delle nostre istituzioni. Offrendo (almeno in apparenza) una ragione postuma a Mosca e a Pareto, che un secolo fa avevano pronosticato la deriva oligarchica delle democrazie. Ma con il dubbio che sempre a quel tempo inoculò Max Weber, nella sua conferenza sulla scienza: «Il profeta, che tanti invocano, non c’è».

7 agosto 2015 (modifica il 7 agosto 2015 | 07:24)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_07/potere-diretto-leader-3467c352-3cc1-11e5-a2f1-a2464143b143.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Settembre 15, 2015, 04:57:15 pm »


L’editoriale
Senato, le liti sulla forma

Di Michele Ainis

La riforma del Senato è in viaggio. Verso dove? Mentre i partiti s’accapigliano sull’elettività dei senatori, rimane sotto un cono d’ombra il senso stesso del procedere, la sua direzione. Eletti o negletti, che mestiere toccherà in sorte a lor signori? Qui sta il punto decisivo. Perché sono le funzioni di ogni organo, più ancora che il suo titolo d’investitura, a scolpirne il ruolo. Perché un Senato inutile costituirebbe altresì uno spreco: puoi togliere la busta paga ai senatori, ma il Palazzo ha un costo, bollette e funzionari devi pur pagarli. E perché le istituzioni possiedono una propria dignità, non meno delle persone. Senza, la vita non merita più d’essere vissuta. Vale per Welby, vale per il nuovo Senato.

Nel 1946, al debutto della Costituente, i due maggiori partiti mossero da concezioni opposte del Senato. La Democrazia cristiana intendeva farne un’assemblea rappresentativa dei territori e degli interessi produttivi; questo perché - diceva Mortati - le istanze regionali prendono corpo in un tessuto economico e sociale, diverso da Regione a Regione. Viceversa il Partito comunista, in sintonia con la posizione dei comunisti francesi all’alba della Quarta Repubblica, puntava su un sistema monocamerale; ai suoi occhi il Senato - come la Consulta - non era che un «inciampo», per usare l’espressione di Togliatti.

Quelle due soluzioni avevano quantomeno il pregio della linearità, della chiarezza. Non è poco, perché se le idee sono confuse generano pasticci, e i pasticci si traducono in bisticci. Nel prossimo futuro potremmo ottenerne una riprova, circa il condominio legislativo d’un ventaglio di materie fra Camera e Senato, che spetterà ai loro presidenti districare. Anche se, per dirla tutta, i senatori avranno ben poche funzioni da rivendicare. Erano già misere nel testo concepito dal governo; al giro di boa la Camera le ha ulteriormente sforbiciate. Via la competenza sui temi etici, dalla sanità alla famiglia. Via l’attribuzione solitaria del controllo sulle politiche pubbliche, sull’attuazione delle leggi, sulle nomine decise dal potere esecutivo. Via l’esclusiva nei rapporti con l’Unione Europea. Via l’elezione di due giudici costituzionali. Via il concorso paritario del Senato perfino sulle leggi d’interesse regionale.

Un paradosso, giacché il Senato - scrive nero su bianco la riforma - «rappresenta le istituzioni territoriali». Già, ma come? Attraverso una caricatura della Camera dei deputati, con meno funzioni, meno componenti. Non una seconda Camera, bensì una Camera secondaria. Il cui modello sta nel Bundesrat austriaco, anch’esso eletto in secondo grado dalle Diete provinciali, come il Senato dai Consigli regionali. Da quelle parti lo ritengono insignificante, però almeno l’organo è coerente. Noi, invece, chiediamo ai poeti di rappresentare le Regioni, includendovi i 5 senatori nominati per meriti artistici dal capo dello Stato. E ne lasciamo fuori i parlamentari eletti all’estero, che rappresentano pur sempre un territorio. Nonché i governatori, che sono i portavoce delle comunità regionali.

Da qui l’esigenza di metterci rimedio. Comunque si risolva la querelle sull’elezione diretta del Senato, è ancora più importante restituirgli una missione, un’anima. Senza più il voto di fiducia sui governi, ma conservando la fiducia popolare su questa antica istituzione. Anche perché, altrimenti, nel referendum saranno i cittadini a sfiduciare la riforma.

9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 07:50)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_09/senato-riforme-lite-forma-ainis-62c5b192-56b0-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Settembre 19, 2015, 11:18:25 am »


L’analisi
Ddl Boschi, quelle sette bugie e la verità sulla riforma
Che cos’è una bugia? È solo la verità in maschera, diceva lord Byron. Difatti al Carnevale delle riforme la verità si maschera, s’occulta, si traveste. La verità genera falsi d’autore e quei falsi diventano poi luoghi comuni, accettati da entrambi i contendenti. L’ultima balla è anche l’unica credibile: se v’impuntate sull’elettività dei senatori potremmo sbarazzarci del Senato, dichiara la ministra Boschi. Perché no? Dopotutto il monocameralismo funziona in 39 Stati al mondo. E dopotutto meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno. Ma per ragionare a mente fredda dovremmo intanto liberarci dalle bugie che ci raccontano. Ne girano almeno sette, come i peccati capitali.

di Michele Ainis

Revisioni costituzionali
Primo: in Italia si tentano riforme costituzionali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco. Questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme.

Il ruolo delle Camere
Secondo: Vade retro gubernatio. La Costituzione è materia parlamentare, non governativa. Sicché l’esecutivo deve togliersi di mezzo, abbandonando la pretesa di dirigere l’orchestra. È l’argomento sollevato dalle opposizioni, così come l’argomento precedente risuona in bocca alla maggioranza. Ma è falso pure questo. O meglio: sarà esatto nel paradiso dei principi, non nell’inferno della storia. Nel 2001 la riforma del Titolo V venne accudita dal governo Amato. Nel 2005 la Devolution era stata scritta di suo pugno dal ministro Bossi. Nel 2012 l’obbligo del pareggio di bilancio fu imposto dal governo Monti. Ma già nel 1988 il gabinetto De Mita si era presentato agli italiani come «governo costituente».

Terzo: la riforma è indispensabile per accelerare l’iter legis. Giacché in Italia il processo legislativo ha tempi biblici, che dipendono dal ping pong fra Camera e Senato. I dati, tuttavia, dimostrano il contrario. Il tempo medio d’approvazione dei disegni di legge governativi era 271 giorni nella XIII legislatura (1999-2001); in questa legislatura è sceso a 109 giorni. Mentre nel quinquennio precedente (2008-2013) il Parlamento ha licenziato la bellezza di 391 leggi. No, non è una legge in più che può salvarci l’anima. Semmai una legge in meno, e anche una fiducia in meno. È la doppia fiducia, non il doppio voto sulle leggi, che ha reso traballanti i nostri esecutivi.




L'elezione diretta
Quarto: l’elettività dei senatori. Serve per assicurare un contrappeso al sovrappeso della Camera, dice la minoranza del Pd. Falso. Come ha osservato Cesare Pinelli, l’elezione diretta determina l’una o l’altra conseguenza: un’assemblea con gli stessi equilibri politici della Camera, ovvero con equilibri opposti. Nel primo caso il Senato è inutile; nel secondo è dannoso. Del resto l’elezione popolare non c’è in Francia, né in Germania, né in varie altre contrade. Non c’è nemmeno in Inghilterra, tanto che il governo (nel 2012) aveva pensato d’introdurla. Ma i Lord inglesi si sono ribellati all’elettività, come i senatori italiani si ribellano alla non elettività.

Quinto: dipenderà da Grasso, il signore degli emendamenti. Se apre il vaso di Pandora dell’articolo 2, se rimette in discussione i criteri di composizione del Senato, la riforma s’impantana. Ma non può farlo, perché in Commissione la Finocchiaro li ha già dichiarati inammissibili. Giusto? No, sbagliato. In primo luogo c’è almeno un precedente: nel marzo 2005 quattro emendamenti (firmati da Bassanini, Zanda e altri) vennero recuperati in Aula dal presidente Pera. In secondo luogo non è Grasso che vota, lui mette ai voti. E la maggioranza o c’è o non c’è: se manca sull’articolo 2, mancherà pure sugli altri articoli in esame. In terzo luogo la pallina dovrà comunque rimbalzare sulla Camera, dato che il governo stesso punta a correggere diversi aspetti del testo fin qui confezionato. C’è ancora tempo per il giudizio universale.

I costi
Sesto: con la riforma otterremo un Senato a costo zero, perché i senatori-consiglieri regionali non intascheranno alcuna indennità. Davvero? Mica verranno a Roma in bicicletta: treni e alberghi ci toccherà comunque rimborsarli. Ma dopotutto basta un’occhiata al bilancio del Senato. Nel 2014 Palazzo Madama ha speso oltre mezzo miliardo, di cui 79 milioni per i senatori, quasi il doppio (145 milioni) per il personale. L’unico Senato gratis abita nei Paesi dove non c’è il Senato.

Settimo: o la riforma o il voto. È l’arma nucleare minacciata dal governo per spegnere il sacro furore dei dissidenti, però trascura un elemento di non poco conto. Voteremmo, infatti, con il Consultellum, un proporzionale puro; e il primo a rimetterci sarebbe proprio Renzi. È vero casomai l’opposto: dopo la riforma, voto anticipato. Come detta la logica delle istituzioni, perché non si può tenere in moto un’automobile cambiandone il motore. E come suggerisce, guardacaso, una doppia coincidenza: l’Italicum, la nuova legge elettorale, entrerà in vigore nel luglio 2016; e un paio di mesi dopo il governo intende celebrare il referendum sulla riforma costituzionale. Sarà per questo che in Parlamento vogliono tirarla per le lunghe. Il tempo porta consiglio, ma il tempo dei parlamentari porta pensione.

18 settembre 2015 | 07:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/cards/ddl-boschi-quelle-sette-bugie-verita-riforma/urne-anticipate.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Settembre 27, 2015, 11:24:33 am »


L’intesa sulla riforma del Senato
Un passo in avanti e tre dubbi
Di Michele Ainis

«E tu, donna, partorirai figli con dolore» (Genesi, 3, 16). Vale per le creature umane, vale per un’istituzione femminile che si chiama Repubblica italiana. Solo che nel primo caso la gravidanza dura nove mesi, nel secondo ne sono trascorsi già diciotto. Nel frattempo la riforma costituzionale è alla terza lettura, ne mancano altre tre. Dopo l’accordo politico di ieri, tuttavia, il parto s’avvicina. Ed è un bene, perché una gestazione troppo prolungata rischia d’uccidere il bambino. Ma con quali sembianze s’affaccerà al mondo il pargoletto?

Diciamolo: decisamente più aggraziate rispetto all’ultima ecografia, e anche rispetto alla penultima. Gli emendamenti concordati recuperano il ruolo di garanzia del Senato, quantomeno rispetto all’elezione dei giudici costituzionali. Gli assegnano funzioni di controllo, che si erano perse un po’ per strada. Ne fanno un organo di raccordo sia verso il basso (le Regioni) sia verso l’alto (l’Europa). Infine introducono il principio dell’elettività dei senatori, sia pure con modalità da precisarsi in una legge successiva. Questo giornale l’aveva chiesto con un editoriale del proprio direttore (21 settembre). E soprattutto lo chiedeva il 73% degli italiani, come attesta il sondaggio Ipsos pubblicato il 16 settembre dal Corriere.

Diciamolo di nuovo: è un bel passo in avanti. Dimostra che anche Renzi l’inflessibile sa essere flessibile, quando serve per incassare un risultato. Lui stesso, d’altronde, ha ricordato che il testo originario del governo ha già subito 134 modifiche, nel ping pong fra Camera e Senato. Però non è finita, non ancora. E il lieto fine reclama ulteriori aggiustamenti su tre aspetti.

Primo: il metodo. Fin qui abbiamo assistito a un match di pugilato fra maggioranza e minoranza del Pd. Ora i due pugili si sfilano i guantoni, evviva. Ma in Parlamento non abita il partito unico fascista, ci sono pure gli altri. E andrebbero ascoltati, coinvolti, valorizzati. Sia perché la riscrittura della Costituzione esige il massimo sforzo per ottenere il massimo consenso. Sia per evitare ostruzionismi devastanti. Qualche contatto in più con gli esponenti della Lega, per esempio, ci avrebbe forse risparmiato il Carnevale degli emendamenti (85 milioni) allestito da Roberto Calderoli.

Secondo: le forme. Perché in ogni testo normativo i principi vanno poi tradotti in commi, e i commi si dislocano all’interno degli articoli. Se un comma è fuori posto, se un articolo è mal scritto, allora il principio resta informe, oppure si converte in una maschera deforme. È quanto rischia d’accadere con l’emendamento sull’elettività dei senatori: un unico periodo di 48 parole, e con due sole virgole. Prima di recitarlo bisogna fare un bel respiro. Per piacere, fate in modo che la Costituzione italiana sia scritta in italiano.

Terzo: i vuoti. Rimangono omissioni, lacune da colmare. Quanto al rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, per esempio; e sarebbe anche un’occasione per tirare dentro i 5 Stelle. Quanto all’elezione del capo dello Stato: dal settimo scrutinio bastano i tre quinti dei votanti, anche se vota una sparuta minoranza. Quanto all’ iter legis, dove serve una cura dimagrante, perché dieci procedimenti legislativi sono davvero troppi. Quanto alla linea di confine tra materie statali e regionali, dato che in questo campo ogni pasticcio genera un bisticcio. Non è un’impresa erculea, ci si può riuscire. E se si può, si deve.

michele.ainis@uniroma3.it

24 settembre 2015 (modifica il 24 settembre 2015 | 09:01)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_24/riforma-senato-editoriale-ainis-03031bf8-6279-11e5-95fc-7c4133631b69.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Ottobre 12, 2015, 11:28:50 am »

Mezze verità (e scelte)
La Nazione sul piano inclinato

Di Michele Ainis

Guerra o pace? Né l’una, né l’altra: noi siamo per la guerra pacifica. Due Camere o una sola? Lasciamole agli altri queste soluzioni rozze; in Italia avremo una Camera e mezza. E da chi verrà eletto il nostro mezzo Senato? Dal popolo o dai consiglieri regionali? Risposta: lo eleggeranno i cittadini attraverso il Consiglio regionale. E il matrimonio gay? Niente da fare, però il Parlamento sta approvando le unioni matrimoniali. Meglio il parlamentarismo oppure il presidenzialismo? Meglio il presidenzialismo mascherato dentro un parlamentarismo taroccato.
È la nostra inclinazione nazionale: ogni decisione corre sempre su un piano inclinato. Anche quando si tratta di decidere fra attacco e difesa, fra resistenza e indifferenza. Anche se di mezzo c’è una guerra, ovviamente senza dichiararla.

Useremo, pare, quattro bombardieri contro l’Isis; ma c’è voluta un’anticipazione del Corriere per scoprirlo. E come potrà scoprirlo il Parlamento? Forse con un’informativa del governo, forse con un voto in commissione. Tuttavia non è questa la regola: perché la Costituzione ammette la sola guerra difensiva (articolo 11) e a condizione che venga deliberata dalle Camere (articolo 78). Magari sarà una regola sbagliata, ma allora cambiamola invece d’aggirarla. Nella primavera del 1999, durante i bombardamenti in Kosovo, fu Clemente Mastella a suggerirne la modifica; ottenne soltanto una modifica verbale, perché da lì in poi le guerre sono diventate «ingerenze umanitarie». N el frattempo la Costituzione sta cambiando, o forse no. Perché la novità più innovativa non è scritta nero su bianco nel testo di riforma, bensì nella legge elettorale. Con un premio di maggioranza concesso al partito - anziché alla coalizione - intascheremo l’elezione diretta del presidente del Consiglio, senza correggere una virgola della nostra forma di governo parlamentare. Che dunque rimarrà viva ma esangue, come una fanciulla addentata dal vampiro. Il presidenzialismo venne già proposto dai monarchici nel 1957; successivamente dai missini; poi da Craxi nel congresso di Rimini del 1987; dalla Bicamerale di D’Alema nel 1997; da Berlusconi nel 2008. Nessuno di loro vi riuscì, per la medesima ragione che sta permettendo a Renzi la riuscita. Difatti alle nostre latitudini vige una regola d’acciaio: se vuoi fare, non lo devi dire. E se invece dici, usa almeno due parole: una per dire, l’altra per disdire.

È il caso del nuovo articolo 57 della Carta, che disciplina la composizione del Senato. Il comma 2 ne stabilisce l’elezione, il comma 5 la durata. Ma la norma elettorale ha una gamba di qua e una gamba di là: nel comma 2 decidono i Consigli regionali, nel comma 5 gli elettori. Contorsioni logiche, acrobazie semantiche. Del resto siamo pur sempre il Paese che ha introdotto il divorzio senza menzionarlo. Sicché la legge n. 898 del 1970 divorziò dal vocabolario, riferendosi sempre e soltanto allo «scioglimento del matrimonio», alla rottura della «comunione spirituale e materiale tra i coniugi». Mezzo secolo dopo, stiamo per fare il bis con il matrimonio omosessuale. Nel disegno di legge Cirinnà non figura nemmeno una volta l’aggettivo, mentre il sostantivo si traduce in un’«unione civile», anzi in una «specifica formazione sociale». La forma della formazione, ecco il problema.
C’è una vittima, c’è un agnello sacrificale nei nostri costumi politici e giuridici. Ne fa le spese la legalità, perché in Italia la legge è opaca, ingannevole, insincera. E in ultimo nessuno mai risponde delle proprie azioni, delle proprie decisioni. Per rispondere, d’altronde, servirebbe una domanda chiara, come quella d’un bambino. Invece la Repubblica italiana è diventata adulta, ma non è né vergine né madre: è sempre leggermente incinta.

michele.ainis@uniroma3.it
12 ottobre 2015 (modifica il 12 ottobre 2015 | 07:38)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_12/nazione-piano-inclinato-04cf8172-709f-11e5-a92c-8007bcdc6c35.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Ottobre 31, 2015, 12:38:20 pm »

Giustizia, questione di misura
Di Michele Ainis

I giudici italiani hanno appena celebrato il loro 32º congresso. Ce ne rimane un’eco d’accuse e controaccuse fra politica e giustizia, secondo tradizione. Eppure quel congresso puntava a una questione ben più rilevante della polemica sulle correnti giudiziarie o sulle intercettazioni. Economia e giustizia: come coniugarle? Non lo sappiamo, però sappiamo come farle bisticciare. La sentenza costituzionale che ha annullato le promozioni di 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate, mettendo in crisi l’Agenzia e facendo ballare la poltrona della sua direttrice, non è che l’ultimo episodio della serie.

In questa baruffa non c’è un colpevole, tuttavia non c’è nemmeno un innocente. Mettiamola così: la politica fa troppe leggi, la magistratura le prende un po’ troppo sul serio. L’una e l’altra, insomma, fanno il proprio mestiere, ma senza preoccuparsi del mestiere altrui.

Questo vale, innanzitutto, nei riguardi del potere legislativo. Difatti, che cos’è la legge? Uno specchio dei nostri amori, dei nostri umori.

Siamo noi, la legge. Sennonché la società italiana è diventata volubile come una farfalla; la politica ne insegue gli svolazzi, disegnando norme che durano quanto un battito d’ali (esempio: il saliscendi sui limiti al contante, da 5.000 euro a 1.000, da 1.000 a 3.000); l’instabilità legislativa nuoce all’economia, gonfia la discrezionalità del potere giudiziario; e piovono i conflitti.

Sulla giustizia pesa inoltre una legislazione schizofrenica, che da un lato cerca di saziare la fame di diritti, e la sazia aprendo il rubinetto del diritto (abbiamo in circolo 50 mila leggi statali e regionali); dall’altro lato rincorre la domanda d’efficienza e di risparmio che intonano in coro gli italiani, e vi risponde negando in molti casi la tutela giudiziaria. Succede, per esempio, sul fronte della giustizia amministrativa. Dove si sta verificando una fuga dalle garanzie attraverso l’uso di rimedi alternativi a quelli giurisdizionali, attraverso le regole di soft law, attraverso oneri economici che scoraggiano i ricorsi (ormai i contributi unificati dei due gradi di giudizio, per i contratti di qualche rilievo, ammontano a 15 mila euro). Contemporaneamente viene compresso il diritto di difesa; si nega l’annullamento dei contratti per l’aggiudicazione delle grandi opere, stabilendo una tutela puramente risarcitoria, che poi ricade sulla collettività mediante la tassazione; vengono ridotti i controlli preventivi di legittimità, o altrimenti si concentrano in un’unica autorità (l’Anac), che tuttavia non può controllare l’universo; e ovviamente si mette alla berlina il giudice, quando una sentenza provochi ritardi nell’esecuzione dei lavori.

Però quest’ultimo tradisce la sua specifica funzione quando a sua volta divorzia dal buon senso, che nel diritto - come nella vita - coincide con il senso della misura. Nelle questioni giuridiche, difatti, la quantità diventa qualità; e questa massima vale anche per la dimensione economica su cui nuota la tutela dei diritti. Qualche esempio. A Como, nel 2004, un barbone è stato sorpreso a rovistare tra i rifiuti, venendo immediatamente denunziato per furto di cosa pubblica. A Milano, nel 2005, un marocchino è stato processato per una truffa da 28 centesimi, impegnando per mesi magistrati, cancellieri, traduttori. A Trieste, nel 2009, i giudici hanno inflitto una multa di 25 euro a un detenuto curdo: aveva tentato d’impiccarsi riducendo a striscioline due federe, e perciò distruggendo un bene della pubblica amministrazione. A Roma, nel luglio 2015, la seconda sezione penale del tribunale ha processato un romeno incensurato per furto aggravato di un bene pubblico: aveva raccolto 22 pigne.

Non che il nostro ordinamento sia cieco rispetto alle grandezze su cui incide ciascun comportamento giuridicamente rilevante. Per dirne una, nell’aprile scorso è entrato in vigore il nuovo art. 131-bis del codice penale, che funziona da esimente «per l’esiguità del danno o del pericolo». Ma la via maestra passa attraverso l’uso dei principi generali, che mettono in comunicazione il diritto con la storia, con la società, con il costume, e per l’appunto con l’economia. È questa la finestra cui deve affacciarsi il giudice. Senza inventare nuove regole, senza forzare le regole esistenti; più semplicemente, adeguandole ai casi della vita.

(michele.ainis@uniroma3.it )
29 ottobre 2015 (modifica il 29 ottobre 2015 | 08:31)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_29/editoriale-ainis-giustizia-611a6f4e-7e02-11e5-b052-6950f62a050c.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Novembre 11, 2015, 06:15:32 pm »

Sentenze e opinioni
Assolti? C’è sempre un però

Di Michele Ainis

E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare.

Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto.
Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio.

Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente?

Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta.

michele.ainis@uniroma3.it
11 novembre 2015 (modifica il 11 novembre 2015 | 07:20)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_11/assolti-c-sempre-pero-d0d6bb70-883a-11e5-a995-c9048b83b4c2.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Dicembre 02, 2015, 07:52:42 pm »

Ora scegliamo con il sorteggio i tre giudici della Consulta

Di Michele Ainis

T’indigni, t’intossichi, t’arrabbi. Ma poi rifletti. E allora ti ritorna alla mente una vicenda, sepolta fra le pagine della nostra storia costituzionale. Nel 1946 i siciliani ottennero, primi fra tutte le popolazioni regionali, il loro statuto. In quel testo c’era (c’è) il battesimo di un’Alta corte, con funzioni di tribunale costituzionale. E infatti l’Alta corte operò dal 1948 al 1955, macinando decine di sentenze. Nel 1956, però, la Consulta tenne la sua prima udienza pubblica.

Un bel pasticcio: due organi gemelli, come se l’Italia avesse un doppio presidente. La soluzione? Semplice: nel frattempo l’Alta corte era rimasta orfana di tre giudici, il Parlamento non provvide mai a sostituirli. Sicché la prima fu cancellata in via di fatto, senza che nessuno si prendesse il disturbo d’abrogare i 7 articoli dello statuto siciliano che ne regolano il funzionamento.

«A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina» diceva Giulio Andreotti. Domanda: e se fosse questa la recondita intenzione dei killer acquattati in Parlamento, che impediscono d’eleggere i 3 giudici mancanti? Dopo un anno e mezzo, dopo 28 votazioni andate a vuoto, il sospetto è più che legittimo. Così, senza esporsi né contarsi, la politica si sbarazzerebbe d’un intralcio che annulla le leggi del governo, boccia i referendum dell’opposizione, s’azzarda perfino a riscrivere le norme elettorali. Delitto perfetto. E oltretutto consumato all’ombra del voto segreto: tutti colpevoli, nessun colpevole, come nei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie.

In questo caso, tuttavia, il delitto è già stato commesso. Perché l’impotenza di cui dà prova il Parlamento gli rovescia addosso un’onda di discredito, quando le nostre istituzioni avrebbero urgenza, viceversa, di recuperare credito da parte della cittadinanza. Perché quelle 28 giornate trascorse a scrutinare schede potevano spendersi in modo più proficuo, discutendo le norme che occorrono al Paese. Perché mentre là fuori rimbombano gli spari servirebbe unità tra le forze politiche, non disgregazione. Perché intanto questa giostra assassina fucila le persone, i candidati ufficiali con la loro storia, la loro reputazione. E perché infine ha già azzoppato la Consulta, amputandola della sua componente più «politica» (i 5 giudici d’estrazione parlamentare). Non è un dettaglio irrilevante: nella miscela dosata dai costituenti, a questi ultimi tocca il compito di riequilibrare le interpretazioni dei giudici togati. Difatti ogni Costituzione ospita regole politiche, a differenza del codice stradale.

La via d’uscita? Non lo scioglimento delle Camere, come a suo tempo minacciò Cossiga: sarebbe un rimedio peggiore del male. Ma una situazione disperante reclama soluzioni disperate. L’articolo 135 della Costituzione stabilisce che la Consulta sia integrata con 16 cittadini estratti a sorte, quando giudica sulle accuse contro il capo dello Stato. Ecco, sorteggiateli i tre giudici mancanti. E non ne parliamo più.

2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 07:52)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_02/ora-scegliamo-il-sorteggio-tre-giudici-consulta-77a6ba5e-98bc-11e5-85fc-901829b3a7ed.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:07:45 pm »

La politica, i valori
Le parole e il senso perduto
Ne riconosciamo il suono, ma non ne comprendiamo più il significato

Di Michele Ainis

Un altro anno se ne va, con il suo carico d’affanni. E di parole: troppe, vocianti in ogni dove, discordi come le note strimpellate da un bambino. Ecco, le parole. Ne riconosciamo il suono, ma non ne comprendiamo più il significato. A forza d’abusarne, le abbiamo logorate. Laicità, democrazia, riforme: quali informazioni, quali concetti ci trasmettono? Credevamo di saperlo, non ne siamo più tanto sicuri. O forse sarà perché il mondo cambia in fretta, mentre da parte nostra non troviamo le parole nuove per descriverlo. La guerra, per esempio. È un’esperienza bellica quella che stiamo attraversando? Nessuno Stato ha convocato i nostri ambasciatori per dichiararci guerra. Là fuori non c’è un esercito nemico, con la sua divisa blu. Non esiste nemmeno una linea del fronte, eppure da qualche tempo ci sentiamo tutti al fronte. E sacrifichiamo una per una le nostre libertà, per guadagnarne maggiore sicurezza. Lo facciamo in difesa dei nostri valori, nel momento esatto in cui li stiamo ricusando. Come soldati della democrazia, altra parola ormai divenuta incerta. Perché qui attorno chiunque si proclama democratico, i politici, gli intellettuali, i nonni, le zie. Ma se tutti sono democratici, nessuno è democratico. L’identità si ritaglia in opposizione all’altro, così come il popolo italiano si distingue dal popolo russo o americano. Nel febbraio 2007 il manifesto fondativo del Pd esordiva con questa frasetta: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Sarebbe possibile volgerla al contrario? Avrebbe senso scrivere: «Noi, gli antidemocratici, odiamo l’Italia»? No, e allora quella frase non significa più nulla.

Wittgenstein li chiamava «crampi mentali»: l’immagine dell’oggetto si dissocia dalla sua sostanza, sicché ciascuno ci vede un po’ quel che gli pare. Come racconta un volumetto di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti (La buona logica), la nostra percezione spesso è falsata da queste trappole visive. Che poi si trasformano in trappole verbali, generando in ultimo altrettante logomachie: dispute sulle parole, non sulle questioni. Chiunque accenda a un’ora tarda la tv, sintonizzandosi sul talk show di turno, ne può collezionare un campionario. Come dimostra l’eterna querelle sulle riforme, per fare un altro esempio.

C’è mai stato un governo che non si sia dichiarato riformista? Mai: tutti i governi, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, ci hanno sventolato sul naso le proprie riforme. D’altronde ogni legge introduce una riforma sulla legislazione preesistente, e i governi stanno lì per dettare le leggi. Tuttavia, di nuovo: se tutti sono riformisti, nessuno è riformista. Forse è questo a intossicare la nostra vita pubblica, l’assenza d’un linguaggio rigoroso. E più onesto, più sincero. Una riforma, se è davvero tale, pesta qualche piede, e ne riceve in contraccambio dei calcioni. Se tutti stanno buoni e zitti, significa che non è successo niente. È una riforma la Buona Scuola? Certo, a giudicare dal vespaio di reazioni che ha destato. E la riforma Madia sulla pubblica amministrazione? Fin qui procede nel sonno degli astanti, senza incontrare opposizioni. Dunque c’è la parola, non la cosa.

D’altronde pure l’opposizione ha perso i suoi colori. Destra e sinistra restano categorie del codice stradale, non più della politica. Sono di sinistra i 5 Stelle? Probabilmente no, però neanche di destra, e men che mai di centro. Allora cosa sono? Per definirli, un’altra pioggia di parole trite: populismo, estremismo, antipolitica. Le stesse che usiamo per la Lega di Salvini, benché i due movimenti muovano verso contrarie direzioni. Il senso di marcia, ecco il senso di cui sono ormai prive le parole. In quello specchio verbale si riflette il nostro spaesamento.

10 dicembre 2015 (modifica il 10 dicembre 2015 | 08:22)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_10/parole-senso-perduto-d70843e2-9f05-11e5-a5b0-fde61a79d58b.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Dicembre 23, 2015, 06:10:24 pm »

Governo e maggioranze
La politica dei forni (più di due)

Di Michele Ainis

Quanti partiti, quante maggioranze puntellano l’esecutivo Renzi? Ufficialmente governa con Alfano, matrimonio d’amore o forse d’interesse. Tuttavia la sua riforma più importante - quella costituzionale - fu benedetta a suo tempo dal patto del Nazareno, copyright Silvio Berlusconi. Senza quest’ultimo, ma insieme a Vendola, ha fatto eleggere il presidente Mattarella. Invece con Grillo va a braccetto per le nomine in Rai (Freccero), per quelle alla Consulta (prima Sciarra, poi Modugno, Barbera, Prosperetti), per la legislazione sui temi etici (il ddl Cirinnà sulle unioni civili è sostenuto dal Pd e dai 5 Stelle).

Di volta in volta c’è chi prende cappello: la minoranza del suo stesso partito vota contro l’Italicum, Alfano minaccia interpellanze all’Onu se passa l’adozione gay. Ma le reazioni parrebbero iscriversi nella dinamica amorosa, non in quella politica. «Bugiardo, mi hai tradito» tuona per esempio Forza Italia, dopo l’accordo fra democratici e grillini sui nuovi giudici costituzionali. «Hai scelto un’altra al posto mio». Nessun peccato: in politica la fedeltà è una colpa, l’adulterio una virtù. Però in queste vicende Casanova è anche Camaleonte. Sicché Renzi indossa la maschera di Berlusconi quando abolisce l’Imu, di Vendola quando timbra la legge sul divorzio breve, di Grillo quando promette di fare soltanto due mandati, di Salvini quando bisticcia con Merkel.

E ogni volta il pubblico applaude la controfigura, non il figuro che le sta alle spalle. Mentre frotte di parlamentari ammainano le loro insegne di partito per iscriversi al Pd. Almeno in questo caso, la copia funziona meglio dell’originale.

È la cifra politica del governo Renzi: l’incorporazione. Anziché sfidare gli avversari in campo aperto, li saggia, li assaggia, infine se li mangia. Però stavolta il nuovo rispecchia l’antico. «Politica dei due forni», si chiamava così ai tempi d’Andreotti. Negli anni Sessanta scegliendo fra la destra dei liberali (e dei missini) e la sinistra dei socialisti, quali alleati della Dc al governo; negli anni Settanta fra socialisti e comunisti. Adesso i forni sono tre, forse anche quattro, contando Verdini. O cinque, dato che la minoranza Pd è un partito nel partito. Meglio così, la concorrenza fa diminuire i prezzi. Ovvero le pretese dei fornai, e d’altronde fu esattamente questa l’intenzione di Andreotti. Il Psi vuole una banca, un ministero, una leggina di favore? Gli converrà abbassar la cresta, sennò la Dc può sempre trovarsi un altro fidanzato.

In quegli anni ormai lontani l’Italia attraversò un periodo di sviluppo, di crescita economica e civile. Ma all’interno d’una democrazia bloccata, senza ricambio alla guida del governo. Palazzo Chigi era una dependance di Palazzo Cenci-Bolognetti, sede storica dei democristiani. Nell’ultimo ventennio, viceversa, abbiamo sperimentato un sistema bipolare, alternando esecutivi di destra e di sinistra. E adesso siamo qui, dinanzi all’ultima curva del circuito. Laggiù, sull’orizzonte, s’intravede già il traguardo. È la Terza Repubblica, con i suoi homines novi, col suo corredo di riforme costituzionali ed elettorali.

Già, l’Italicum. Carta vince, carta perde. Ma la vittoria va al partito, non alla coalizione. Se i nanetti vogliono spazio, dovranno chiedere asilo nelle liste dei giganti, di quei due o tre partiti in grado d’accaparrarsi il premio di maggioranza. Venendone, per l’appunto, incorporati, com’è già successo a Scelta civica nei riguardi del Pd, come domani, forse, succederà ad Alfano. Da qui la strategia del nostro premier, durante questo biennio di governo: dopotutto, lui si sta portando avanti col lavoro.

michele.ainis@uniroma3.it

23 dicembre 2015 (modifica il 23 dicembre 2015 | 07:53)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_23/politica-forni-piu-due-2727ae90-a93c-11e5-8f07-76e7bd2ba963.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Dicembre 30, 2015, 06:09:14 pm »

Lo smog burocratico frena la semplificazione

Di Michele Ainis

In Italia abbiamo in circolo 40 mila leggi statali e regionali, crepi l’avarizia. Ma ce n’è soltanto una perennemente rispettata. È la legge di Murphy sulle burocrazie: «Se qualcosa può andar male, lo farà in triplice copia». Le prove? Basta scorrere le cronache, dall’emergenza smog alla crisi bancaria. Dopo il tracollo di 4 banche (e 130 mila azionisti) abbiamo scoperto che i controllori sono troppi, e giocoforza s’intralciano a vicenda: Consob, Banca d’Italia, Palazzo Chigi, ministero dell’Economia, Giurì bancario. Sicché il governo, per smaltire il traffico, ha chiesto aiuto a un sesto controllore, nella persona del presidente dell’Anac. Mentre il Parlamento s’appresta a battezzare una commissione d’inchiesta: e sette.

Quanto all’inquinamento, lo smog burocratico è anche più velenoso di quello atmosferico. Servono interventi uniformi e coordinati, dicono i sindaci. È una parola. Perché sull’ambiente le competenze si segmentano fra almeno 4 ministeri (Ambiente, Salute, Interno, Agricoltura), 20 Regioni, 110 Province, oltre 8 mila Comuni, Camere di commercio, Asl. Per sovrapprezzo, una legge del 1994 istituì l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente. Quella legge esordiva con l’articolo 01, proseguiva con gli articoli 1-bis, 1-ter, 2, 2- bis, 2-ter, poi saltava all’articolo 5. Insomma dava i numeri, perciò nel 2008 un’altra legge generò l’Ispra, restituendo finalmente la massima chiarezza. Come informa il suo sito web, quest’ultimo istituto ha difatti il compito di coordinare le 21 Arpa-Appa che compongono il sistema.

Se fosse ancora in servizio, Alberto Sordi — nei panni del vigile Celletti — avrebbe il suo bel daffare. Perché nella cittadella pubblica è sempre ora di punta, l’ingorgo non ti lascia scampo; ma girano più vigili urbani che automobilisti. Così, al capezzale di mamma Tv s’accalcano la commissione parlamentare di Vigilanza, l’Autorità per le comunicazioni, il ministero, l’Antitrust. Sui diritti dei consumatori vigila la medesima Antitrust, insieme all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, al ministero dell’Economia, al Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, ai Difensori civici, a varie associazioni di settore. I controlli fiscali e contributivi chiamano in causa la Guardia di finanza, le Agenzie fiscali, i Monopoli di Stato, l’Inps, il ministero del Lavoro. E se la Forestale sta per chiudere i battenti, restano pur sempre all’opera 3 corpi di polizia civile, altri 3 a ordinamento militare, 2 corpi di polizia locale.

Nel 2011 la Banca mondiale (How to Reform Business Inspections) l’aveva scritto a chiare lettere: troppi controlli svuotano la stessa funzione di controllo, troppe competenze determinano il trionfo dell’incompetenza. Da qui l’esigenza di semplificare, anche se in queste faccende noi italiani non prendiamo lezioni da nessuno. La prima legge di semplificazione burocratica venne firmata da Bonomi nel 1921; dal 1997 si è trasformata in un obbligo annuale, benché il Parlamento l’abbia rispettato soltanto quattro volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). In compenso nella legislatura scorsa sono state almeno 5 le leggi che avevano per titolo la semplificazione di questa o quella disciplina. Risultati? Per dirne una, la materia degli appalti ha subito 6 riforme fra il 2008 e il 2012, divenendo via via più complicata.

D’altronde questo è il Paese che per ridurre i ministeri s’è inventato un nuovo ministero. Accade nel 1950, quando Raffaele Pio Petrilli ricevette da De Gasperi l’incarico di ministro per la Riforma burocratica. Invece nel 2016 ci sbarazzeremo della potestà concorrente, quel condominio legislativo fra Stato e Regioni fonte di pasticci e di bisticci. O meglio, ci sbarazzeremo del nome, non della cosa, giacché la revisione costituzionale lascia in vigore l’istituto sotto mentite spoglie. Così come finirà per sopravvivere la doppia officina delle leggi, nonostante la riforma del Senato: rimangono difatti 7 categorie di leggi bicamerali, oltre a varie subcategorie. Pazienza, vuol dire che alla fine della giostra potremo finalmente concentrarci sull’ultimo obiettivo: semplificare la semplificazione.

michele.ainis@uniroma3.it
30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:47)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_30/smog-burocratico-frena-semplificazione-df1fdde4-aec6-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Gennaio 14, 2016, 06:20:49 pm »

Senato
Una riforma incompiuta su ruoli e poteri
C’è il rischio concreto di dover aspettare molto tempo prima che arrivino le leggi che vengono promesse. Per motivare i cittadini a votare per il sì il premier può presentare già adesso il pacchetto delle norme attuative

Di Michele Ainis

Consiglio non richiesto ai nostri governanti: se volete convincere i dubbiosi, se volete fare Bingo nel referendum sulla riforma più formosa, aggiungete al pane un po’ di companatico. Il pane è la Costituzione cotta nel forno di Palazzo Chigi: 47 articoli caldi caldi. Il companatico consiste nel rosario di leggi che serviranno per attuarla, per darle sapore. Noi, fin qui, abbiamo esercitato le mandibole sul pane, dividendoci dopo averlo assaggiato: chi lo gusta, chi se ne disgusta. Ma è un errore, perché ogni revisione costituzionale detta un principio di riforma, non tutta la riforma. Tanto più in questa circostanza, dove su molti aspetti decisivi la riforma non decide, o meglio rinvia la decisione alla legge che verrà. Qual è infatti la critica sollevata dal fronte del no? Troppi poteri di governo, pochi contropoteri. Dunque troppa efficienza, poche garanzie.

Non è un’obiezione campata per aria. Dopotutto, il bicameralismo paritario costituiva una difesa, nel bene e nel male. Quante leggi ad personam o ad partitum ci sarebbero cadute sul groppone, senza l’altolà del Senato? Adesso la riforma ne prosciuga il ruolo, ma non lo compensa con un’iniezione di vitamine sul corpo del presidente della Repubblica, il garante per antonomasia. Anzi: anche i suoi poteri s’infiacchiscono, perdono vigore.

Di fatto, non sarà più lui a consegnare le chiavi del governo, perché il premier verrà deciso dal premium (di maggioranza) della legge elettorale. Inoltre il presidente cede espressamente (articolo 88) il potere di sciogliere il Senato, ma implicitamente anche la Camera: con un partito maggioritario per effetto dell’Italicum, sarà il suo leader a decretare vita e morte della legislatura.

Eppure non è detto che il Senato si trasformi in un orpello delle nostre istituzioni. Dipende per esempio dalla legge preannunziata dal nuovo articolo 55, che dovrebbe attribuirgli funzioni di controllo sulle nomine governative. Dipende, soprattutto, dalla legge che ne stabilirà i criteri d’elezione. Il testo di riforma la promette entro 6 mesi dal prossimo turno elettorale, ma non c’è da fidarsi.

Anche nel 1948 il termine d’un anno per indire le elezioni dei Consigli regionali fu prorogato all’anno successivo, poi all’anno dopo, e così via fino al 1970. E in questo caso, quale legge? Un conto è che i senatori vengano eletti su listini bloccati, ossia decisi dai partiti; un conto è che

corrano l’uno contro l’altro in una competizione aperta. Giacché allora la legittimazione del Senato, quindi la sua autorevolezza, quindi i suoi stessi poteri, ne uscirebbero giocoforza amplificati.

E l’opposizione? Un altro contrappeso, la cui stazza dipende tuttavia dai regolamenti parlamentari che dovranno sancire i diritti delle minoranze, a norma dell’articolo 64. E i cittadini? Nelle democrazie la sovranità appartiene al popolo, dunque è al popolo che spetta innanzitutto vigilare contro gli abusi del governo. Difatti il nuovo articolo 71 ci consegna due nuovi strumenti: il referendum propositivo e quello d’indirizzo.

Affidandone il battesimo, però, a una legge costituzionale seguita da una legge ordinaria, che forse vedranno i nostri nipotini. D’altronde la storia è maestra di vita: il referendum abrogativo introdotto dai costituenti rimase in frigorifero per 22 anni, prima che il Parlamento ricordasse d’approvarne la legge d’attuazione.

Insomma, questa riforma è ancora informe. Saranno le norme successive a precisare l’assetto dei poteri, lo specifico ruolo di ciascuno. Non solo dentro il recinto delle istituzioni, anche in materia economica e sociale. È il caso dell’articolo 122, che promette una legge per riequilibrare la partecipazione politica fra gli uomini e le donne.

E se quest’ultima rimanesse un desiderio? È il caso, inoltre, dell’abolizione del Cnel. Può significare la scomparsa dell’unico luogo istituzionale di confronto fra le organizzazioni economiche e lo Stato; oppure può significare la sostituzione di quel vecchio carrozzone ormai in disarmo con nuove strutture, più rappresentative e più efficaci. Dipenderà dalla legge sulla rappresentanza, se verrà scritta, e come verrà scritta.

Da qui il consiglio al presidente del Consiglio: meglio portarsi avanti nel lavoro, meglio anticipare le principali norme d’attuazione della Carta riformata. Se non con altrettante leggi (sarebbero incoerenti, prima che la riforma entri in vigore), almeno con un pacchetto di proposte, di disegni di legge. Perché in ultimo saranno gli elettori a timbrare la riforma, ma gli elettori sono curiosi e diffidenti come gatti. Se cerchi d’ingannarli, poi ti lasciano un graffio sulla pelle.

michele.ainis@uniroma3.it
14 gennaio 2016 (modifica il 14 gennaio 2016 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_14/riforma-incompiuta-ruoli-poteri-f11466be-ba83-11e5-8d36-042d88d67a9f.shtml
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