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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 121582 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Marzo 07, 2015, 04:31:12 pm »

Riforme necessarie ma non punitive
Il disordine delle regole sconvolge le professioni
Adesso divampa un fenomeno senza precedenti: l’implosione delle lobby

Di Michele Ainis

L’Italia unita non è mai stata troppo unita. Corporazioni e campanili recano i segni di un’antica divisione, cui generalmente manca ogni visione. Mai un progetto slacciato dal proprio tornaconto, mai una scintilla di solidarietà. Ma adesso divampa un fenomeno senza precedenti: l’implosione delle lobby. E dei partiti, e delle parti sociali. Perché alla guerra contro il nemico esterno si va sostituendo la guerra intestina, il conflitto tra fazioni armate l’una contro l’altra. E forse è questa l’eredità più consistente che ci lascia in corpo l’anno I del governo Renzi I.

Non che le categorie professionali abbiano smesso di combattersi. Per dirne una, a febbraio il disegno di legge Concorrenza ha acceso livori e furori. Derby fra notai e avvocati, dato che questi ultimi potranno surrogare i primi nella compravendita d’immobili fino a 100 mila euro. E contro gli avvocati pure i commercialisti (perché loro sì e noi no?). Infine geometri e architetti contro l’apertura del mercato privato alle società d’ingegneria. Mentre fra avvocati e medici, sempre il mese scorso, s’è aperta una battaglia a colpi di spot televisivi. Da un lato, l’esortazione a denunziare la malasanità; dall’altro, la maledizione nei confronti degli «avvoltoi» dei risarcimenti.

Scaramucce, rispetto allo scontro che infuria in ogni dove. Perché la notizia di giornata è questa: lo scontro s’estende a tutti i corpi associativi, e per l’appunto si consuma al loro interno, volge in lotta fratricida. Nella magistratura l’unità delle correnti, da sempre divise per accaparrarsi posizioni, e però sempre coese nella difesa corporativa del potere giudiziario, è andata in fumo sulla riforma della responsabilità civile: i moderati volevano lo sciopero, le correnti di sinistra no. Nel frattempo si spacca Magistratura indipendente, in sospetto di connivenza col governo per interposto sottosegretario (Cosimo Ferri); e Davigo fonda una nuova corrente. Ma si spacca altresì la Cgil, dilaniata dal conflitto tra Camusso e Landini. Si spacca la Lega Pro del calcio (29 club contro altri 29 sulla fiducia al presidente Macalli). E si spacca, in generale, ogni categoria investita dalle riforme del governo.

Così, la riforma Delrio delle Province ha avuto l’effetto di porre i loro dipendenti contro gli altri dipendenti pubblici. La riforma Giannini della scuola promette d’innescare una contesa fra precari semplici e abilitati. La riforma Madia dell’amministrazione, insieme al tetto sugli stipendi pubblici, ha riacceso il malanimo fra impiegati e dirigenti. I chirurghi sono sul piede di guerra contro il comma 566 della legge di Stabilità, che li equipara alle altre professioni sanitarie. A dicembre i giovani avvocati si sono rivoltati contro la Cassa forense: in seguito a un regolamento del governo, quest’ultima ha trasformato i contributi previdenziali in un salasso. All’università la penuria di risorse ha posto, ormai da tempo, i ricercatori contro i professori. Con il futuro accorpamento dei tg, anche alla Rai si preannunziano lotte per la sopravvivenza. Senza dire del progetto d’unificare le forze di polizia, sempre annunciato e sempre rimandato: 5 corpi sono troppi, ma alla fine della giostra c’è il rischio che ne rimanga in piedi uno soltanto, con una pistola fumante tra le mani.

Dice: ma dopotutto non c’è di che allarmarsi, se qualcuno s’arrabbia significa che qualcuno ci rimette, significa perciò che le riforme stanno cambiando la faccia plumbea di questo Paese. Vero, ma fino a un certo punto. Non se monta una rabbia di tutti contro tutti. Non se la divisione penetra come un coltello nel corpaccione dei partiti, delle stesse istituzioni. A destra, Forza Italia è spaccata tra Berlusconi e Fitto, la Lega tra Zaia e Tosi. A sinistra, il Pd ha più correnti del Mar dei Caraibi. Non solo nella minoranza, frastagliata tra bersaniani, civatiani, lettiani, cuperliani, fioroniani, bindiani, dalemiani. Non solo in mezzo con i Giovani turchi, un piede di qua, l’altro di là. No, anche la maggioranza si scheggia in varie minoranze. A breve - con la benedizione di Delrio - il battesimo dei catto-renziani, autonomi e distinti dai renziani-renziani. Di questo passo lo stesso Renzi finirà tagliato in due come il visconte dimezzato di Calvino.
Infine il seme della discordia mette radici nella cittadella delle nostre istituzioni. Attraverso l’abuso dei decreti, che ha provocato ruvide carezze fra la presidenza della Camera e quella del Consiglio. E di nuovo attraverso le riforme. La legge elettorale, che distingue fra capilista bloccati e candidati votati, alimentando un bel dubbio di legittimità costituzionale. Il Parlamento prossimo venturo, con una Camera d’eletti e un Senato di negletti. Divide et impera , dicevano i latini. Ma a forza di dividere, nella bandiera italiana rimarranno soltanto le bande. Armate.

4 marzo 2015 | 18:35
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_marzo_04/disordine-regole-sconvolge-professioni-7e480a98-c293-11e4-9c34-ed665d94116e.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Marzo 16, 2015, 11:40:29 pm »

Le parole che mancano
Il potere senza contrappesi

Di Michele Ainis

Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.

Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 - che regola la funzione legislativa - s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione. Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.

In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.

Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’ iterlegis . E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché - di fatto - il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura.

Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.

11 marzo 2015 | 08:32
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_11/potere-senza-contrappesi-99dc6252-c7b8-11e4-a75d-5ec6ab11448e.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Marzo 17, 2015, 12:06:46 am »

Riforme annunciate
Il testo seguirà (con calma)

Di Michele Ainis

La madre dei cretini è sempre incinta, diceva Longanesi. In Italia, anche la madre delle leggi. Perché ne abbiamo troppe in circolo, e per lo più sconclusionate. Solo che da un po’ di tempo in qua il parto dura più della stessa gravidanza. Ciclicamente il governo annunzia il lieto evento, appende un fiocco rosa sull’uscio di Palazzo Chigi, convoca parenti e conoscenti. Tu corri, tendendo l’orecchio per ascoltare i primi vagiti dell’infante. Invece risuona un’evocazione, un presagio, un desiderio. La legge non c’è, non c’è ancora un testo. C’è soltanto un pretesto.

Le prove? Sono conservate nei verbali del Consiglio dei ministri. Scuola: annunci al quadrato e al cubo durante i geli dell’inverno, finché il 3 marzo sbuca la notizia: il governo ha approvato le slide, evidentemente una nuova fonte del diritto. In compenso 9 giorni dopo approva pure un testo, che però è più misterioso del segreto di Fatima. O della spending review: difatti i report di Cottarelli non sono mai stati resi pubblici. Riforma della Rai: batti e ribatti, poi il 12 marzo via libera alle linee guida, altra nuova fonte del diritto. Falso in bilancio: sul Parlamento incombe da settimane l’emendamento del ministro Orlando. Nessuno l’ha letto, forse perché lui non lo ha mai scritto. Jobs act: il 20 febbraio il Consiglio dei ministri timbra due schemi di decreto, le commissioni parlamentari competenti non li hanno ancora ricevuti. E via via, dal Fisco (il 24 dicembre venne approvato un comunicato, non un testo) alla legge di Stabilità (che si materializzò una settimana dopo la sua deliberazione, peraltro senza la bollinatura della Ragioneria generale).

A leggere la Costituzione (documento non ancora secretato), due sono gli strumenti con cui il governo ci governa. Con i disegni di legge, che però sono diventati più imperscrutabili dei disegni divini. Con i decreti legge, sempre che ne ricorra l’urgenza. Tuttavia quest’ultima viene a sua volta contraddetta dalle doglie interminabili con cui nasce ogni provvedimento. Per esempio i due decreti (quello sulla giustizia e lo sblocca Italia) decisi lo scorso 29 agosto, ma ricevuti dal Quirinale il 12 settembre. O il decreto Madia sulla Pubblica amministrazione, deliberato il 13 giugno e poi tenuto per altri 11 giorni in naftalina. Nel frattempo accade che i ministri radunati nel Consiglio votino non su un testo bensì su un titolo, approvato «salvo intese» (fra chi?). Che altri ministri annuncino modifiche a norme inesistenti, perché non ancora emanate dal capo dello Stato (Orlando il 6 settembre, a proposito del decreto sulla giustizia). Che gli studenti scendano in piazza contro la Buona scuola, pur essendo una riforma ancora senza forma.

Insomma troppe grida, da una parte e dall’altra. Nel 1979 il Rapporto Giannini denunziò le «grida in forma di legge», ossia il pessimo costume di confezionare norme inapplicabili. Oggi denunzierebbe le grida in forma di prelegge. Però un rimedio c’è, basta volerlo. Come prossimo ministro, Renzi ha bisogno di un ostetrico.

michele.ainis@uniroma3.it
14 marzo 2015 | 10:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_14/testo-seguira-con-calma-riforme-annunciate-ainis-63a4211c-ca14-11e4-8e70-9bb6c82f06ec.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Marzo 28, 2015, 04:37:48 pm »

Accentramento
La tentazione (renziana) della semplificazione
Il premier, che è anche segretario del Partito democratico e titolare di tre dicasteri, interpreta lo spirito dei tempi, che richiede a gran voce maggiore unificazione
Ma gli eccessi rischiano di lasciarci prigionieri in un guscio vuoto

Di Michele Ainis

Dal 22 febbraio 2014 il segretario del Partito democratico è anche presidente del Consiglio. Dallo stesso giorno il presidente del Consiglio è anche ministro per le Pari opportunità. Dal 30 gennaio 2015 il ministro per le Pari opportunità è anche ministro per gli Affari regionali. Dal 23 marzo 2015 il ministro per gli Affari regionali è anche ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Troppi poteri in un solo potentato? No, sono ancora troppo pochi. Perché questo vuole lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Un venticello che Matteo Renzi respira a pieni polmoni, e lo risputa fuori in norme, azioni, progetti di riforma. Incontrando l’applauso delle folle, anziché un’onda di sospetto. Lui l’ha capito, noi forse stentiamo un po’ ad accorgercene. Questa è l’epoca dell’unificazione.

Eppure basterebbe volgere lo sguardo al paesaggio che attraversiamo tutti i giorni. In quel quartiere c’erano tre o quattro botteghe alimentari, ora c’è un supermercato. O meglio c’era, perché i supermercati vengono divorati a loro volta dagli ipermercati. C’erano pure alcuni vecchi cinema, ma li ha sostituiti un multisala. Succede altrettanto nelle professioni, dove per esempio gli studi legali si sono trasformati in fabbriche, ciascuna con decine d’avvocati alla catena di montaggio.

Succede altresì nella cultura, nell’informazione, nella scuola. Messaggerie e Feltrinelli hanno costituito una joint venture che accorpa la distribuzione di 70 milioni di volumi l’anno. Quanto alla loro produzione, l’offerta di Mondadori su Rcs Libri promette di controllare il 40% del mercato. Nel campo dell’educazione, una legge del 2011 ha stabilito l’accorpamento degli istituti scolastici; l’anno dopo la Consulta l’ha bocciata, ma solo perché questa decisione spetta alle Regioni. Mentre il disegno di legge sulla «Buona scuola» prevede la fusione dei due enti (Indire e Invalsi) che s’occupano di valutazione. Accadrà pure alla Rai, con l’accorpamento dei Tg. O forse è già accaduto: basta spingere sui tasti del telecomando per scoprire che tutti i talk show sono lo stesso talk show, con gli stessi ospiti, lo stesso fastidioso cicaleccio.

Sicché l’unificazione genera uniformità, e quest’ultima ci cuce addosso un’uniforme. Ormai la indossano, d’altronde, pure le nostre istituzioni. Il Senato ha appena deciso di ridurre le 105 prefetture alla metà. La Giunta toscana propone di concentrare le Asl in una megastruttura. Dalla Sicilia alla Liguria, s’avviano progetti di fusione delle Camere di commercio. I piccoli tribunali sono già stati soppressi da un decreto del 2012. La legge n. 56 del 2014 accorpa i piccoli comuni. Ma il loro corpo resta pur sempre esile, rispetto al gigantismo delle nuove città metropolitane. O delle macroregioni su cui s’esercita una commissione istituita dal governo: nascerebbero l’Alpina, il Triveneto, il Levante, e via giganteggiando.

Dopo di che su questo paesaggio erculeo vigilerà un ciclope con un occhio solo sulla fronte: il partito premiato dall’Italicum, che per l’appunto conferisce un premio in seggi alla lista, non alla coalizione.

Piccolo è bello, si diceva un tempo. Magari sbagliando, perché l’eccesso di chiese e campanili aveva disgregato la nostra identità comune. Anche l’eccesso di semplificazione, però, rischia di lasciarci prigionieri dentro un guscio vuoto. «Non si può unificare un Paese che conta 256 tipi di formaggi», recita un aforisma di De Gaulle. E il formaggio, una volta, piaceva pure a noi italiani.

michele.ainis@uniroma3.it
27 marzo 2015 | 09:49
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_27/tentazione-renziana-semplificazione-b9ea4e2e-d456-11e4-831f-650093316b0e.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:31:21 pm »

Legge elettorale
Le travi che accecano l’Italicum

Di Michele Ainis

Aprile è il mese più crudele, diceva Thomas Eliot. Quest’anno la sua crudeltà s’esercita sulla legge elettorale. Mercoledì scorso è iniziato l’esame in Commissione; il 27, giorno di paga, a pagare sarà l’Aula. Ma dov’è la cattiveria dell’Italicum? Non nel suo concepimento, benché uno dei due genitori (Berlusconi) l’abbia ripudiato. Dopotutto, senza questa nuova creatura, dovremmo allattare quella vecchia: un proporzionale super (il Consultellum), che a sua volta allatterebbe mille partitini in Parlamento. È la sua gestazione, tuttavia, a procurarci il mal di pancia. È la traduzione dei principi in regole. Perché regole fasulle possono ben falsificare ogni valore, tramutarlo in disvalore.

Da qui l’allarme suonato dalla minoranza del Pd. Preoccupazione giusta, ma per ragioni sbagliate. Dicono: sommando la nuova legge elettorale all’abolizione del Senato, s’avvia una deriva autoritaria. Troppo governo, poco Parlamento. Dunque senza correttivi all’Italicum non voteremo la riforma della Carta. E no, non è la Costituzione che diventa incostituzionale a causa della legge elettorale, ma casomai l’opposto. Bisogna distinguere i due piani, altrimenti si cade dalle scale. Ri-dicono: i capilista bloccati sono una vergogna, dateci le preferenze. Come se non fossero ancora una volta una vergogna i 26 mila voti di preferenza incassati da Fiorito (scandalo dei gruppi consiliari in Lazio) o gli 82 mila di Ferrandino (scandalo delle Coop di Ischia). Come se le preferenze plurime non fossero già state introdotte dall’ Italicum, insieme alle pluricandidature. Anzi: l’abuso delle seconde favorirà l’uso delle prime. S e vengo eletto in 10 collegi come capolista, poi dovrò sceglierne uno; sicché gli altri 9 posti al sole andranno ai candidati più votati.

Ma loro vedono la pagliuzza, non la trave. Invece entrambi gli occhi di questa legge elettorale vengono accecati da due travi: di merito e di metodo. Perché in primo luogo alleverà un gigante con tanti cespugli, per riprendere l’espressione di Antonio Polito (Corriere, 8 aprile). L’ Italicum premia il partito vittorioso, determina l’investitura diretta del premier, però con una soglia d’accesso al 3% spegne l’opposizione, la frantuma, le impedisce ogni funzione di controllo. Il voto diventa un plebiscito, il plebiscito muta i parlamentari in plebe. E perché in secondo luogo la legge è viziata anche nel metodo, dato che s’applica a una Camera, quando il Parlamento ne ospita ancora due. La clausola di salvaguardia - che posticipa i suoi effetti al 1º luglio 2016 - è un ombrello bucato: nessuno può garantirci che a quella data la riforma del Senato sarà approdata in porto. E allora avremmo un sistema stralunato, con due Camere armate l’una contro l’altra, un maggioritario di qua, un proporzionale di là.

La via d’uscita? Non certo un voto di fiducia, per blindare l’Italicum zittendo le opposizioni in Parlamento. C’è un precedente, è vero: De Gasperi nel 1953, rispetto alla «legge truffa». Pessimo precedente, dato che la materia elettorale si coniuga alla materia costituzionale, secondo l’articolo 72 della nostra stessa Carta. E poi sarebbe come ammettere che la truffa si ripete, quando basterebbero un paio di correzioni per disarmare il truffatore. In primo luogo mettendo nero su bianco che la nuova legge elettorale entrerà in vigore soltanto dopo la cancellazione del Senato elettivo. E in secondo luogo alzando la soglia al 5%, come in Germania. O anche, perché no? Battezzando un premio di minoranza, per il partito che arrivi secondo in campionato. Così il potere incontrerà un contropotere. Renzi ha in gran sospetto ogni modifica, perché teme il riesame del Senato. Ma all’esame di Stato troverà comunque Mattarella, e dopo di lui pure la Consulta. Meglio evitare bocciature.

email: michele.ainis@uniroma3
13 aprile 2015 | 07:21
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_13/travi-che-accecano-l-italicum-87711f6a-e19c-11e4-b4cd-295084952869.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Aprile 23, 2015, 11:13:02 am »

Migranti e norme
Come punire i nuovi schiavisti

Di Michele Ainis

U n egiziano non è tutti gli egiziani. E nemmeno un somalo, un tunisino, un libico. Noi però, fin troppo spesso, facciamo di tutta l’erba un fascio. Li consideriamo uguali, e ugualmente minacciosi, solo perché hanno la pelle un po’ più scura e gli occhi sgranati dei bambini. Invece no, nessuno di loro è uguale all’altro. In quella truppa marciano colpevoli e innocenti, vittime e carnefici. E terroristi, certo. Ma sono di più i terrorizzati.

Dinanzi all’onda biblica dell’immigrazione, la prima esigenza è quindi di distinguere. La seconda, di reprimere. Perché c’è un delitto che non verrà punito mai abbastanza, in questa tragedia collettiva: quello degli scafisti, o degli schiavisti, se vogliamo chiamarli per nome e cognome. In Europa ci vorrebbe un altro Lincoln, per dichiarargli guerra. Sennonché gli europei non sanno più imbastire cariche, al di là dello scaricabarile. E il barile finisce regolarmente addosso a noi italiani. Ma l’Italia, il suo ordinamento normativo, quanto sa essere capace di castighi? E in che misura sa distinguere nel popolo che bussa alle sue porte?

A frugare nella nostra sartoria legislativa, scopriamo che ogni immigrato ha un abito diverso. Ma il sarto, ahimè, avrebbe bisogno degli occhiali. In primo luogo ci sono i rifugiati: quanti subiscono persecuzioni nello Stato d’origine, ai quali spetta il permesso di soggiorno. Ma il riconoscimento di tale condizione può avvenire solo dopo lo sbarco in terraferma: chi farfuglia di respingimenti in mare non sa di cosa parla. Poi c’è lo status di protezione sussidiaria o temporanea, e c’è infine il diritto d’asilo, garantito dall’articolo 10 della Costituzione allo straniero cui nel proprio Paese venga impedito l’esercizio delle libertà. Il diritto ad avere diritti, così lo definiva Hannah Arendt. Diritto di carta, tuttavia: dopo quasi settant’anni, non è mai stata licenziata una legge che ne stabilisca le condizioni d’esercizio.

In compenso la legge italiana nega il voto amministrativo agli immigrati regolari e nega la cittadinanza ai loro figli, anche se parlano in dialetto lombardo o calabrese. C’è quindi urgenza d’un tagliando normativo, per dividere Abele da Caino.

E c’è bisogno del pugno di ferro, rispetto a chi traffica con le persone come se fossero arance o saponette. La legge Turco-Napolitano contempla il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, punendolo con la reclusione fino a 5 anni; i topi d’appartamento rischiano 6 anni. È un errore: non si può essere garantisti con chi frusta questo carico umano per costringerlo all’obbedienza cieca, oppure lo scaraventa in mare. Poi, certo, esistono varie circostanze aggravanti. Tuttavia - per dirne una - l’anno scorso il Tribunale di Catania escluse l’omicidio volontario per due scafisti che avevano provocato la morte di 17 persone, contestando solo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E no, in questi casi i reati sono ben più gravi: sequestro di persona, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani. Applichiamoli, rendiamoli operanti. E magari chiediamo al Parlamento di spicciarsi ad approvare il reato di tortura. Per loro, ma dopotutto anche per noi: questo spettacolo di morte è una tortura collettiva.

michele.ainis@uniroma3.it
22 aprile 2015 | 07:24
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_22/come-punire-nuovi-schiavisti-aa295428-e8ae-11e4-88e2-ee599686c70e.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Aprile 25, 2015, 04:34:18 pm »

Giochi aperti
La figura che non vorremmo
L’eredità di Napolitano al Quirinale

Di Michele Ainis

Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato.

I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 - quando giurò da capo dello Stato - promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti.

Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. Scalfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo.

Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 - durante i nostri anni di piombo - per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione.

Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo».

Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate.

Primo: contano gli Accidents of personality, come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere - scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito - non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso.

Secondo: contano altresì gli Accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi - che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica - l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema.

Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano.

In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali.

michele.ainis@uniroma3.it
14 gennaio 2015 | 08:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_14/quirinale-chi-non-vorremmo-presidente-7bc6f18a-9bb5-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:33:47 pm »

Nuova legge elettorale
Le regole come atto di fede

Di Michele Ainis

Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci.

Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede. E il costituzionalismo alleva una ragione scettica, diffidente nei confronti del potere. Perché ha esperienza dell’abuso, sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente. Non sarà il caso di Renzi, ma può ben esserlo di chi verrà dopo di lui. D’altronde le regole del gioco durano più dei giocatori.

Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per correggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale. L’ avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra. Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum. Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente. Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri - su cui insiste, per esempio, D’Alimonte - è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): «governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare». Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.

michele.ainis@uniroma3.it

30 aprile 2015 | 07:16
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_30/regole-come-atto-fede-a3ce5854-eef7-11e4-a9d3-3d4587947417.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:17:07 am »

Emergenza drammatica
Immigrazione: il gesto di un’Europa avara
La folla dei migranti andrà divisa in quote diseguali tra 25 Paesi, tenendo conto delle loro popolazioni, del Pil, del tasso di disoccupazione

Di Michele Ainis michele.ainis@uniroma3.it

L’Unione Europea ha aperto un ufficio postale. Ma in questo caso i pacchi da spedire contengono persone, non merci. È l’effetto della relocation decisa dalla Commissione: la folla dei migranti andrà divisa in quote diseguali tra 25 Paesi, tenendo conto delle loro popolazioni, del Pil, del tasso di disoccupazione. A prima vista, un gesto di solidarietà da quest’Europa ben poco solidale. Finalmente ci lasciamo alle spalle il regolamento di Dublino, che scarica i flussi migratori sugli Stati in cui avvengono gli sbarchi. A seconda vista, una misura secondaria. Senza un’assunzione di responsabilità davanti all’emergenza più drammatica del terzo millennio. Senza un calcolo realistico delle sue concrete conseguenze. E infine senza rispetto per la dignità degli individui.

Per quali ragioni? Intanto perché il provvedimento s’applica ai richiedenti asilo. Non alle altre categorie d’immigrati, che sono il maggior numero: loro continueranno ad essere un rompicapo nazionale. L’anno scorso ne sbarcarono in Italia 170 mila, un record; nei primi quattro mesi di quest’anno il pallottoliere segna già 85 mila migranti assistiti dalle nostre strutture, un ultrarecord. Per identificarli attraverso il fotosegnalamento dobbiamo acquistare macchinari, reclutare personale. Per ospitarli servono alloggi, quando ci mancano perfino le caserme. Sicché nel 2014 abbiamo speso 650 milioni nella gestione degli immigrati, nel 2015 la stima s’impenna a 800 milioni. Tuttavia l’Europa ha stanziato la miseria di 60 milioni per tutti i 25 Stati coinvolti da questa nuova Agenda sulla migrazione. Nemmeno Arpagone, l’avaro di Molière, avrebbe fatto peggio.

La via d’uscita? Costruire campi d’identificazione in Africa, nei cinque Paesi della fascia sub sahariana. E lì respingere o accettare le richieste d’asilo, dirottando da subito i migranti nei vari Stati europei. Il governo italiano l’aveva già proposto l’anno scorso, ma l’Unione ha fatto orecchie da mercante. E il mercante ora progetta un esodo di massa, o meglio un trasferimento degli immigrati da una sponda all’altra del Vecchio continente, per rispettare quote e percentuali. Tu leggi il nuovo editto, e subito t’immagini aerei che rombano da Lubiana a Madrid, da Atene a Francoforte. T’immagini il loro carico dolente, e quasi sempre anche nolente. Quanti migranti vorranno separarsi dai luoghi, dagli affetti, dal lavoro che hanno trovato nel frattempo? E quanta forza militare servirà per addomesticare i più recalcitranti?
Eccola perciò la vittima di questa misura: la dignità, il rispetto che si deve a ogni individuo. E la dignità non ammette distinzioni fra stranieri e cittadini, né fra immigrati regolari e irregolari.

Come ha stabilito la Corte costituzionale nella penultima sentenza firmata anche da Sergio Mattarella (n. 22 del 2015), annullando una norma che negava agli extracomunitari ciechi la pensione d’invalidità, ove quelle persone prive della vista fossero anche prive della carta di soggiorno. Una lezione per l’Europa, ma pure per l’Italia. Perché non possiamo pretendere dagli altri il rispetto di questo valore, se non sappiamo rispettarlo a casa nostra. Sta di fatto che il Testo unico sull’immigrazione è stato denunziato in 264 occasioni dinanzi alla Consulta, oltre una volta al mese. Ciò nonostante, le nostre leggi hanno più buchi d’un gruviera. Manca una disciplina organica sulla gestione degli stranieri che reclamano asilo o in generale protezione umanitaria; eppure le soluzioni sono già nero su bianco, come quella elaborata dall’Isle nel 2014. Manca una differenziazione chiara fra i migranti economici e le altre categorie di sfollati. Manca la legge sul diritto d’asilo, benché siano trascorsi settant’anni da quando i costituenti la previdero. Manca altresì sui rifugiati, per estendere la tutela a chi venga perseguitato per ragioni etniche o sessuali, oltre che politiche. Manca un supporto normativo che garantisca ai migranti informazioni e procedure certe. Manca perfino il diritto ad avvalersi d’una lingua conosciuta.

Risultato: se non annega nelle acque del Mediterraneo, chi sbarca sulle nostre coste finirà per annegare tra i flutti della burocrazia italiana. A Roma non meno che a Bruxelles, urge acquistare un salvagente.

16 maggio 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_16/immigrazione-europa-avara-ainis-e4030dda-fb8a-11e4-bdb9-74ccd0f44566.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Giugno 05, 2015, 10:45:45 pm »

Democratici e regole
L’autogol giudiziario dei politici il problema delle liste

Di Michele Ainis

Una volta c’erano gli eletti; ma ormai sono di più i reietti. Perché i gironi infernali si moltiplicano, come i peccati via via elencati dalle leggi. Peccati dei sindaci o dei parlamentari, dei governatori o dei ministri. Ciascuno distinto dall’altro, come le categorie dei peccatori: ineleggibili, incompatibili, incandidabili, infine impresentabili. Ma di questo passo succederà che non si presenteranno al voto gli elettori.

È l’autogol della politica, specialità di cui fu campione lo stopper Niccolai. Loro sperano di guadagnare credito sottoponendosi all’analisi del sangue; invece ottengono discredito. Un po’ perché nelle vene della politica italiana circola ancora qualche litro di sangue infetto. Un po’ perché la cattiva politica degli ultimi vent’anni ha allevato un vampiro, che di sangue non ne avrà mai abbastanza. E allora puoi anche decidere, per esempio, di togliere il vitalizio agli ex parlamentari condannati (delibera del 7 maggio); quel vampiro obietterà che avresti dovuto togliergli la vita, non il vitalizio.

Non che la questione morale sia un affare secondario. È importante, eccome. Non per nulla la Costituzione (articoli 48 e 54) pretende la dignità e l’onorabilità di chi ricopra un ufficio pubblico elettivo. Ma i politici hanno trasformato la questione morale in una questione strumentale. Usandola cioè per mollare uno sgambetto all’avversario, per risolvere beghe di partito. Opponendo all’uso politico della giustizia l’uso giudiziario della politica. E in ultimo forgiando un guazzabuglio di norme contrastanti. Sicché parlamentari e ministri precipitano all’inferno dopo una sentenza definitiva di condanna. Gli amministratori locali dopo una condanna in primo grado. Ma all’Antimafia basta il rinvio a giudizio per dichiararti «impresentabile».

Ecco, gli impresentabili. Nell’autunno scorso la commissione parlamentare Antimafia approvò un codice di autoregolamentazione. Allora tutti d’accordo, mentre adesso abbondano i pentiti. D’altronde pure questo è un film già visto: ne sa qualcosa Berlusconi, che votò la legge Severino salvo poi rimetterci il seggio in Parlamento. Quanto al codice dell’Antimafia, chi lo viola non rischia alcuna sanzione. Dunque non è un codice, è una chiacchiera. Però i partiti chiacchierati devono spiegare all’opinione pubblica perché hanno scelto il candidato impresentabile (articolo 3). Difficile farlo, quando la lista nera viene infiocchettata a due giorni dal voto. Ma è anche difficile sorprendersi se l’Antimafia la redige, dal momento che quest’obbligo deriva dal codice medesimo (articolo 4). Eppure dal Pd monta un coro di reazioni stupefatte. Noi, invece, non ci sorprendiamo più di nulla. Nemmeno che l’imputato principale (De Luca) minacci di denunziare il proprio giudice (Bindi). Comunque la si giri, per il suo partito quella candidatura è un autogol: l’ennesimo.

C’è modo di mettere a partito la testa dei partiti? Sì che c’è, ed è pure un modo semplice. Basterebbe unificare i troppi rivoli di questo fiume normativo, dettando la stessa regola per chiunque chieda il nostro voto alle elezioni, dal Senato al Consiglio comunale. E servirebbe inoltre una legge sulle primarie, dove ciascuno fa come gli pare. Un’altra legge sui partiti, che la Costituzione reclama invano da 67 anni. Sulle lobby, quale esiste negli Usa da 69 anni. Servirebbe, in breve, una cornice di norme generali, concise, e possibilmente chiare. Dopo di che i politici facciano politica, lasciando la giustizia ai giudici. Anche perché, quando si pretende di fare due mestieri, per solito si procura un doppio danno.

31 maggio 2015 | 09:31
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_31/autogol-giudiziario-politici-6f95c748-0766-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Giugno 05, 2015, 11:04:58 pm »

Unioni civili
Nozze gay, il vento che viene dall’Europa
Gli estensori della nostra Carta fondamentale furono lungimiranti chiamando la famiglia una «società naturale». Significa che la dottrina rinunzia a definirla, affidandosi allo spirito dei tempi

Di Michele Ainis

Che cos’è il matrimonio? Per lo Stato, un contratto; per la Chiesa, un sacramento. Muove da qui il conflitto fra autorità civili e religiose sul matrimonio gay, dopo il referendum celebrato in Irlanda: la parola è la stessa, ma ciascuno le attribuisce significati inconciliabili. Eppure quel conflitto non si esaurisce in una logomachia, in una disputa verbale. Ha a che fare con l’abito laico delle nostre istituzioni; misura gli spazi di libertà che siamo disposti a riconoscere alle scelte individuali; e in ultimo interroga il senso stesso del diritto, la sua specifica funzione.

Quanto alla laicità, potremmo cavarcela tirando in ballo il «muro» fra Stato e confessioni religiose di cui parlava Thomas Jefferson, o l’altrettanto celebre massima di Camillo Cavour («Libera Chiesa in libero Stato»). Potremmo ricordare che lo Stato nasce laico, o altrimenti non sarebbe nato. Nasce quando il potere politico divorzia dal potere religioso, attraverso un processo storico che ha origine nella Lotta delle Investiture (1057-1122), per approdare alla Costituzione francese del 1791, con la proclamazione della libertà di fede. Ma sta di fatto che la religione è tutt’altro che irrilevante nella nostra dimensione pubblica. E sta di fatto che l’ordinamento giuridico italiano è intessuto anche di valori religiosi: non per nulla la Carta del 1947 vi dedica ben cinque disposizioni.

Dunque la laicità non si traduce nell’indifferenza verso le religioni, bensì nella garanzia della loro libertà. E al tempo stesso della libertà di chi non crede, oppure di chi crede in altri culti rispetto a quello prevalente. Sennonché la libertà concessa all’uno può recare offesa alla sensibilità dell’altro. La querelle sulle nozze omosessuali è tutta in questi termini: quando il segretario di Stato vaticano parla di «sconfitta dell’umanità» è come se dicesse che quelle nozze sono una bestemmia. E la bestemmia, per l’appunto, viene punita dal codice penale.

Ma è una bestemmia il matrimonio fra due uomini e due donne? Dopotutto, sono fatti loro. Gli omosessuali non imprecano contro un Dio o un capo di Stato, chiedono soltanto lo stesso diritto del quale godono già gli eterosessuali. Qualcuno potrà esserne turbato. Ma qui viene in gioco la funzione della legge: strumento di difesa contro i comportamenti offensivi, però l’offesa dev’essere oggettiva, deve consistere in un’amputazione delle nostre libertà. In secondo luogo, nessuna norma galleggia sulle nuvole: dipende al contrario dalla storia, dall’evoluzione dei costumi. E oggi le società occidentali sono disposte a riconoscere un diritto che negavano in passato. Le nozze gay vengono già regolate in Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, oltre che in Irlanda. L’Italia s’avvia a una legge sulle unioni civili, quale esiste in Germania e in Austria. Bisognerà pur farsene una ragione.

D’altronde quest’esito è già iscritto nelle tavole costituzionali. I nostri costituenti furono lungimiranti, definendo la famiglia una «società naturale». Significa che il diritto rinunzia a definirla, affidandosi all’esprit du temps, allo spirito dei tempi. Che è uno spiritello un po’ paradossale, se è vero che i gay sono rimasti gli unici ad avere ancora voglia di sposarsi.

michele.ainis@uniroma3.it
29 maggio 2015 | 12:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_29/nozze-gay-vento-che-viene-dall-europa-ad89c47c-05d2-11e5-93f3-3d6700b9b6d8.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:48:06 pm »

Politica e giustizia, la nuova contesa tra poteri

Di Michele Ainis

L’ Associazione nazionale magistrati critica il governo: sulla giustizia riforme timide e incoerenti. La Corte dei conti punta l’indice contro le Province, o meglio contro i ritardi nell’attuazione della legge Delrio, con effetti distorsivi sul bilancio dello Stato. Il Consiglio superiore della magistratura duella con l’esecutivo a proposito delle misure anticorruzione. Infine Armageddon, la battaglia totale: quella ingaggiata dalla Consulta, con la sentenza n. 70 che demolisce i conti pubblici. Un bollettino di guerra che si limita, peraltro, a registrare gli scontri dell’ultima settimana. Ma se viaggiamo a ritroso, fin dal battesimo del governo Renzi, le pagine di questo bollettino diventano un trattato militare.

Storia vecchia, si dirà. Dopotutto la rissa fra politica e giustizia costituisce il lascito indelebile della Seconda Repubblica. No: storia nuova. Giacché fin qui ne offrivamo due chiavi di lettura, però sbagliando la scelta degli occhiali. Da un lato, Berlusconi, con i suoi conflitti d’interesse, con le sue sfuriate quotidiane contro i giudici. Dall’altro lato, la fragilità della politica, divisa in coalizioni ballerine, incapace d’assumere qualsivoglia decisione. È la legge fisica dell’horror vacui, che vale altresì nella fisica delle istituzioni: se un potere lascia libero il proprio spazio vitale, un altro potere finirà per occuparlo. Da qui la funzione di supplenza della magistratura, da qui il suo ruolo politico. Ma sta di fatto che adesso Berlusconi è ridotto all’impotenza, che il governo esprime viceversa una leadership potente, e tuttavia fra politica e giustizia volano ceffoni. Come prima, più di prima. Dev’esserci perciò un’altra spiegazione, un’altra causa di questa malattia degenerativa. Non è troppo difficile scoprirla: basta fissare gli occhi su ciò che rimane immobile nel nostro calendario, sugli elementi del passato che si riflettono pari pari nel presente. Quali? La crisi economica, la diseguaglianza che morde al collo le categorie più deboli, il deficit di Stato. Sta tutta qui la radice dello scontro. Perché i giudici sono sentinelle dei diritti, è questa la loro specifica missione.

Ma i diritti costano. Non soltanto i diritti sociali: sanità, istruzione, previdenza. Anche le libertà tradizionali espongono un cartellino con il prezzo, anche la sicurezza, dato che per garantirla bisogna garantire lo stipendio dei poliziotti o dei pompieri. Decidendo sulla tutela dei diritti, il potere giudiziario finisce quindi per decidere sulla distribuzione delle risorse pubbliche, che spetterebbe viceversa alla politica. Poco male, quando le vacche sono grasse. Molto male, se ne restano carcasse ossute, pelle senza polpa.

Democrazia e crisi economica: ecco la questione. Quanti diritti possiamo ancora permetterci? E chi stabilisce la loro gerarchia? Infatti i diritti sono sempre in competizione fra di loro: se proteggo la libertà d’informazione, sacrifico la privacy; se difendo le cavie animali, disarmo la ricerca medica. Ma la nostra società degli egoismi ha generato un’inflazione di diritti - dell’automobilista, del militare, dello spettatore, del turista. E ogni volta politica e giustizia bisticciano su chi ne sia il tutore. Per uscirne fuori, ciascuno dovrebbe calarsi un po’ nei panni altrui. Serve maggiore sensibilità politica nel potere giudiziario, serve maggiore sensibilità giuridica nel potere politico. E servono canali di comunicazione, strutture di collegamento. In questo tempo di crisi, anche la vecchia separazione dei poteri è diventata un lusso.

21 maggio 2015 | 08:51
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_21/politica-giustizia-nuova-contesa-poteri-92d4adcc-ff79-11e4-8e1b-bb088a57f88b.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:10:53 pm »

Leggi e interpretazioni
I fantasisti della scappatoia

Di Michele Ainis

In Italia va così: norme dure come il ferro, interpretazioni al burro. Succede quando la politica aumenta le pene dei delitti, salvo poi scoprire che aumentano, in realtà, i prescritti. Succede con le regole del gioco democratico. Talvolta arcigne, spesso cervellotiche. E allora non resta che trovare una scappatoia legislativa al cappio della legge. Almeno in questo, noi italiani siamo professori. Come mostrano, adesso, tre vicende. Diverse una dall’altra, ma cucite con lo stesso filo.

Primo: il caso De Luca. Nei suoi confronti la legge Severino è severissima: viene «sospeso di diritto». Dunque nessuno spazio per valutazioni di merito, per apprezzamenti discrezionali. Tanto che il presidente del Consiglio «accerta» la sospensione, mica la decide. Però l’accertamento è figlio d’una procedura bizantina: la cancelleria del tribunale comunica al prefetto, che comunica al premier, che comunica a se stesso (avendo l’ interim degli Affari regionali), dopo di che tutte queste comunicazioni vengono ricomunicate al prefetto, che le ricomunica al Consiglio regionale. Ergo, basterà un francobollo sbagliato per ritardare l’effetto sospensivo, permettendo a De Luca di nominare un viceré. E poi, da quando dovrebbe mai decorrere codesta sospensione? Dalla proclamazione dell’eletto, dissero lorsignori nel 2013 (caso Iorio). Dal suo insediamento, dicono adesso. Acrobazie interpretative, ma in Campania l’alternativa è la paralisi. È più folle la legge o la sua interpretazione?

Secondo: la riforma del Senato. L’articolo 2 del disegno di legge Boschi è già stato approvato in copia conforme dalle assemblee legislative, stabilendo che i senatori vengano eletti fra sindaci e consiglieri regionali. La minoranza pensa sia un obbrobrio, la maggioranza a quanto pare ci ripensa. Però il ripensamento getterebbe tutto il lavoro in un cestino. La procedura, infatti, vieta d’intervenire in terza lettura sulle parti non modificate; se vuoi farlo, devi cominciare daccapo. Da qui il colpo d’ingegno: si proceda per argomenti, anziché per parti modificate. Dunque il voto cui s’accinge il Senato non è vincolato dal voto della Camera. Interpretazione capziosa? E allora verrà in soccorso una preposizione: Palazzo Madama aveva scritto «nei», Montecitorio ha scritto «dai». La copia non è proprio conforme, sicché il Senato può stracciarla. Domanda: meglio un obbrobrio sostanziale o un obbrobrio procedurale?

Terzo: la sentenza numero 70 della Consulta. Quella sulle pensioni, con un costo stimato in 18 miliardi. Il governo, viceversa, ha stanziato 2 miliardi, risarcendo le pensioni più basse, ma lasciando all’asciutto 650 mila pensionati. Poteva farlo? Dicono di sì, con argomenti che s’appoggiano sulla motivazione della sentenza costituzionale. Che però disegna un arzigogolo, dove c’è dentro tutto e il suo contrario. Sennonché il dispositivo è netto, e non distingue fra categorie di pensionati. Dal dispositivo, peraltro, derivano gli effetti vincolanti. A meno che quest’ultimo non rinvii espressamente alla motivazione, come succede di frequente. Non in questo caso, tuttavia. E allora, che diavolo avrebbe potuto inventarsi il nostro esecutivo? Quattrini non ne abbiamo, siamo ricchi soltanto di fantasia interpretativa.

Morale della favola, anzi delle tre favole su cui sta favoleggiando la politica. Quando la legge, o il disegno di legge, o la sentenza fanno a cazzotti con la logica, diventa logica un’interpretazione illogica.

michele.ainis@uniroma3.it
10 giugno 2015 | 07:46
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_10/fantasisti-scappatoia-leggi-interpretazioni-ainis-6f2abc90-0f32-11e5-aa3a-b3683df52e95.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:58:04 pm »

AMMINISTRATIVE 2015
Troppi silenzi sull’astensione
Già alle politiche del 2013 chi non ha votato faceva parte del primo partito. Ma di questo fenomeno non sembra preoccuparsi nessuno. Spesso commettendo un errore

Di Michele Ainis

Uno vince, l’altro perde. Ma c’è un partito che a ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto. I numeri dell’astensionismo elettorale ormai surclassano la Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri. Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Alle Regionali del 2015 un altro salto all’indietro: 54%, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.

Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. È un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione.

La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perché la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza. E allora la democrazia entra in contraddizione con se stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benché essi siano la maggioranza del corpo elettorale. Di più: tradisce la propria vocazione. Perché la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente. Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata.

C’è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l’obbligo del voto. Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali. Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono. Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d’uscita c’è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone. Va alle urne il 50% degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari. E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale. In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione.

Un’idea bislacca? Fino a un certo punto. Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970. Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c’è tutt’oggi un quorum per la validità dei referendum. L’alternativa, d’altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perché il non voto ne sta essiccando le radici. Per salvarla da se stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale.

18 giugno 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_18/troppi-silenzi-sull-astensione-f6aa5150-157a-11e5-8c76-9bc6489a309c.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Luglio 20, 2015, 11:54:27 pm »

Ora diamo un’anima al nuovo Senato
Il tempo in più che la politica si è concesso deve essere usato per migliorare il testo originario Per esempio rafforzando il ruolo di raccordo con le formazioni sociali e soprattutto la funzione di garanzia di Palazzo Madama
Di Michele Ainis

La madre di tutte le riforme (quella costituzionale) è incinta da trent’anni. Nel frattempo il nascituro si è ritrovato orfano dei suoi molti papà, da Craxi a De Mita, da Berlusconi a Letta. Gli rimane l’ultimo, il più determinato. Matteo Renzi, quando promette, fa: divorzio breve, Italicum, Province, banche popolari, Jobs act, scuola. Anche a costo d’usare le maniere spicce (maxiemendamento e voto di fiducia). Ma in questo caso no, non è possibile. Se vuoi cambiare la Costituzione, per vincere devi convincere. Da qui il rinvio a settembre del voto finale, benché il premier l’avesse annunziato entro il 10 giugno.

Poco male, tanto ormai siamo pazienti come Giobbe. Purché in sala parto non sbuchi fuori un rospo, anziché un bel principino.

Quanto al nuovo Senato, più che un rischio è una certezza. Nessuno ha ancora capito che diavolo dovrebbe fare, e come, e perché. Sappiamo soltanto che sarà composto da 5 senatori a vita, 22 sindaci, 73 consiglieri regionali. Tutti a costo zero, e con funzioni zero. Sarebbe il caso di rifletterci, spendendo al meglio questo tempo supplementare che si è concessa la politica. Invece lorsignori s’avvitano in estenuanti discussioni sull’elettività dei senatori. Errore: partiamo dalle competenze, non dalle appartenenze. Cerchiamo di recuperare qualche contrappeso, avendo rinunziato al superpeso del bicameralismo paritario. E trasformiamo Palazzo Madama — istituzione in croce — nel crocevia delle nostre istituzioni.

Qualcosa nel testo di riforma c’è, però i silenzi contano più delle parole. C’è una funzione di raccordo del Senato con i territori: da un lato le Regioni, dall’altro l’Europa. Basterà a restituire un’anima alla nuova creatura? Diciamo che basta per la geografia, non per la storia. E la nostra storia è innervata dal ruolo degli enti locali, più di recente dal rapporto con l’Unione Europea. Ma è innervata — anche e soprattutto — dai contributi dell’associazionismo, delle categorie produttive, delle rappresentanze d’interessi. Non a caso l’articolo 2 della Costituzione individua nelle «formazioni sociali» la sede in cui ciascuno può arricchire la propria personalità. E non a caso i costituenti disegnarono il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, aprendolo al mondo della produzione e delle imprese. Con la riforma il Cnel tira le cuoia, pace all’anima sua. Alla prova dei fatti, non lo rimpiangeremo. Ma non possiamo lasciare i gruppi organizzati orfani di qualsivoglia rapporto con lo Stato. Serve un canale istituzionale: quale, se non proprio il Senato?

E c’è poi il capitolo delle garanzie. Domani come ieri, il Senato contribuirà ad eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Consiglio superiore della magistratura. Però adesso i senatori sono la metà dei deputati; in futuro diventeranno un sesto (100 contro 630). Ergo, i garanti indosseranno un abito politico, in quanto espressi dalla Camera politica, a sua volta espressa con un premio in seggi per il maggior partito. E no, non va bene. C’è bisogno di rafforzare gli organi di garanzia, non d’indebolirli. Tanto più mentre perdiamo la garanzia fin qui rappresentata dal Senato: quante leggi ad personam avrebbe incassato Berlusconi, senza il pollice verso di Palazzo Madama?

Da ciò l’esigenza di correggere il testo di riforma, d’aggiungervi qualche riga d’inchiostro. Per esempio introducendo uno scrutinio rigoroso della seconda Camera nella scelta delle authority, i nuovi garanti. O sviluppando i poteri d’inchiesta del Senato, che viceversa la riforma circoscrive al funzionamento delle autonomie territoriali. Non si tratta di tenere impegnati i senatori, che altrimenti avrebbero ben poco da fare. Si tratta di salvaguardare gli equilibri della democrazia. Dopo di che, certo: ogni funzione richiede un funzionario. E l’elezione di secondo grado non funziona, non assicura la qualità dei senatori.

Ma non è detto che l’alternativa sia soltanto la loro elezione popolare. Potrebbe essere efficace un mix, pescandone un drappello da alcune categorie qualificate, come gli ex presidenti della Consulta. Quando il Senato tratta questioni regionali, potrebbe essere utile integrarlo con i governatori, come propone il documento sottoscritto dalla minoranza del Pd. Insomma pensiamoci, d’altronde alle nostre latitudini la fantasia non manca. È il tempo che ci manca, ne abbiamo sprecato troppo.

michele.ainis@uniroma3.it
16 luglio 2015 (modifica il 16 luglio 2015 | 13:37)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_16/ora-diamo-un-anima-nuovo-senato-45607364-2b89-11e5-a01d-bba7d75a97f7.shtml
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