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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120328 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:39:36 pm »

DOPO EXPO
Milano è tornata a correre ma innovare resta difficile
Assolombarda. Rocca ha elogiato la città cresciuta nonostante la crisi
Un’occasione da non sprecare Servono un’alleanza tra pubblico e privato e un piano strategico per tradurre la scienza in tecnologia

Di Dario Di Vico

C’è un nesso inscindibile tra la riforma delle relazioni industriali e le politiche per l’innovazione. E una riprova è venuta ieri dall’assemblea di Assolombarda. Il presidente Gianfelice Rocca ha scandito un’ampia relazione che aveva al centro il mutamento di Milano e i rapporti tra l’area forte lombarda e le politiche pubbliche, ma non ha potuto fare a meno di toccare più volte il delicato tema della contrattazione. Due righe molto secche della sua relazione faranno forse discutere più di altre («Alcuni sindacati irrealisti rischiano di diventare nemici dei loro stessi iscritti e dei lavoratori») e meritano di essere decrittate.

Rocca non scommette sull’avvento della società post-sindacale, anzi non fa mistero di considerarsi un ammiratore del modello tedesco anche in materia di relazioni industriali e di conseguenza l’idea che lo muove, ieri come oggi, è che «produttività e reddito si possano conquistare insieme».

Ma quando dalle valutazioni di carattere generale passa ad esaminare i numeri deve in qualche modo arrendersi all’evidenza: il costo del lavoro per unità di prodotto dal 2000 al 2014 è salito del 38 per cento mentre in Germania è rimasto al livello del 2000. Abbiamo perso, dunque, competitività rispetto ai tedeschi e solo sindacati irrealisti — per dirla con il presidente — possono pensare che ciò non conti, che il recupero di questo gap non debba far parte dell’agenda del rilancio italiano.

Tutta la discussione di questi giorni sui contratti in scadenza delle grandi categorie industriali di fatto verte su questo punto, gli «innovatori» sostengono che si debbano scrivere nuove relazioni industriali più vicine al lavoro e al mercato mentre i «conservatori» non vogliono toccare lo status quo. Preferiscono contratti nazionali anche onerosi pur di non correre il rischio di conflitti in un momento in cui c’è bisogno di produrre e di vendere.

Rocca è stato attento a non entrare in questa diatriba e a non distribuire pagelle ai colleghi ma ha detto chiaramente che la produttività è «da spremere» in azienda. Insieme al sindacato o da soli è il grande rebus che sta davanti a questa complessa stagione dell’imprenditoria italiana.

L’assemblea di Assolombarda ha rappresentato anche un autentico atto di amore verso Milano e un ulteriore riconoscimento dell’aria frizzantina che si respira in città, Rocca ha detto che è «il posto where to be». La città in cui in questo momento chi pensa in grande e chi si batte per l’innovazione vuole assolutamente stare. Siamo negli ultimi giorni dell’Expo ed è ovviamente tempo di bilanci, il mutamento di Milano e le sue rinnovate ambizioni diventano un grande tema per economisti, sociologi e progettisti. Rocca ci ha detto che in questi sette anni di recessione la città non è stata ferma: ha addirittura macinato più di qualche posizione nelle graduatorie internazionali delle università, ha saputo aggiudicarsi un buon numero di prestigiose borse di studio europee, ha visto nascere ben 12 mila start up considerate knowledge intensive.

Lungo tutti questi anni bui nessuno onestamente avrebbe scommesso di poter fare un giorno un bilancio così lusinghiero anche perché dobbiamo essere coscienti che tutto ciò è avvenuto «nonostante». Ovvero dentro un ciclo economico devastante, in presenza di una caduta degli investimenti di ben 23 miliardi, senza incisive politiche pubbliche di accompagnamento e dovendo lottare contro la produzione in quantità industriale di antropologia negativa.

Ma quel «nonostante» è un’eredità negativa che ci portiamo comunque dietro, come un freno a mano che resta tirato e ci impedisce di percorrere l’ultimo miglio. «Non riusciamo a trasformare scienza in tecnologia» ha detto Rocca. Non siamo capaci di sfruttare gli ottimi ricercatori e ingegneri che pure abbiamo a costi estremamente competitivi per generare nuove imprese e rafforzare le esistenti. Che fare, dunque, per evitare un giorno di dover annoverare anche la Milano degli anni 10 tra le tante occasioni perdute? L’Assolombarda ha proposto una grande alleanza tra pubblico e privato, un piano strategico che abbia al centro l’innovazione e ha lanciato un acronimo (Steam) per indicare la necessità di tenere assieme scienza, tecnologia, arte e manifattura. Per il governo c’era il ministro Pier Carlo Padoan, che però ligio al suo ruolo ha preferito non misurarsi con il tema delle ambizioni di Milano. Ma l’argomento merita di essere ripreso.

27 ottobre 2015 (modifica il 27 ottobre 2015 | 07:41)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_ottobre_27/scatto-milano-ma-l-innovazione-resta-difficile-fbd32d88-7c71-11e5-8cf1-fb04904353d9.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:43:22 pm »

Il localismo in crisi
Le nuove ragioni del Nord

Di Dario Di Vico

Per il localismo italiano è forse venuto il tempo della riflessione. Ora che anche la Lega modalità Salvini ha spento i riflettori sulla questione settentrionale, ciò che accade nei territori resta a circolazione mediatica limitata. Non supera l’ambito della provincia o della regione. Eppure sono almeno due le novità che dovrebbero indurre le forze migliori del localismo nordista a scegliere una strada di discontinuità. La prima riguarda il dissesto delle banche popolari venete di fatto commissariate direttamente dalla Bce perché sottocapitalizzate e piegate da un’overdose di crediti deteriorati. I banchieri che hanno guidato in questi anni la Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno sempre sostenuto, con il beneplacito delle élite politiche ed economiche locali, che la loro generosità era una forma di manovra anticiclica per sostenere l’economia reale, una reazione alla stretta creditizia delle grandi istituzioni.

La verità che emerge oggi è del tutto diversa: i banchieri di territorio hanno costruito un sistema perverso di scambio grazie al quale veniva erogato credito a chi sottoscriveva a prezzi gonfiati le azioni della banca. In più quegli stessi titoli sono stati venduti ai risparmiatori-cassettisti locali che ora, secondo le stime che circolano, hanno in mano carta che ha perso per strada l’80 per cento del valore nominale. In termini assoluti la distruzione di ricchezza che il Nordest rischia di subire in virtù di questo scambio perverso durato anni oscilla tra i 5 e i 7 miliardi di euro.

E non sappiamo ancora le conseguenze che avrà la riduzione di valore delle azioni sui bilanci delle imprese che avevano direttamente sottoscritto i titoli. È chiaro che in questo modus operandi risultavano assolutamente secondari sia la trasparenza sia il merito di credito, le aziende ottenevano risorse in ragione della loro vicinanza e solidarietà verso un determinato blocco di potere imperniato sul banchiere-dominus. Tutto ciò è franato sotto i colpi della Grande Crisi e dell’iniziativa delle autorità ed è singolare che politici e industriali insistano nel riproporre la stessa ricetta. Non esiste un merito di credito «del territorio», una sorta di scorciatoia per il denaro. Banca e impresa devono dialogare e scegliere sulla base della trasparenza e dei progetti di sviluppo.

La seconda novità che può scuotere, stavolta in direzione positiva, il localismo nordista, è la riscossa di Milano. È evidente a tutti che nel post crisi non avremo a disposizione un modello di sviluppo per ciascun territorio ed emerge anzi come i confini amministrativi siano del tutto artificiosi e persino dannosi per programmare uno sviluppo integrato. Fortunatamente Milano sembra aver trovato energie e motivazioni per ripartire basandosi innanzitutto sulla straordinaria «borghesia delle competenze» che gravita attorno alla città e che in tantissimi casi pendola dalle regioni limitrofe.

I territori devono recuperare consapevolezza di questa novità e fare l’unica scelta sensata: agganciarsi. È vero che la «troppa distanza» che esiste tra la grande città e le economie locali è stata sovente colpa di una finanza predatoria e di atteggiamenti disinvolti, ma la crisi ha fatto pulizia delle élite più arroganti.

Per ripartire non ci sono tavoli da convocare o patti da sottoscrivere all’ora del tg, l’unica alleanza che ha senso è quella delle idee per la crescita. I campanili servono per attrarre e stupire i turisti, non per giustificare imbrogli paesani e il rischio che corrono le economie locali nell’anno di grazia 2015 è di restare marginali. La ripresa è debole anche per questo motivo.

19 ottobre 2015 (modifica il 19 ottobre 2015 | 11:48)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_19/nuove-ragioni-nord-852e85a8-7620-11e5-9086-b57baad6b3f4.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:44:43 pm »

LA MANOVRA
Lavoro facile, lavoro da casa
Stesse regole e diritti per chi opera in ufficio o da fuori
Lo prevede un disegno di legge collegato alla Stabilità

Di Dario Di Vico

Il lavoro agile diventerà legge. Sono già svariate le aziende che lo stanno sperimentando in Italia ma ora lo smart working fa un passo in avanti: sarà regolato da 9 articoli contenuti nel disegno di legge collegato alla legge di Stabilità predisposto dal professor Maurizio Del Conte per conto del governo. Agile è definita la prestazione effettuata da lavoratori dipendenti - e non da partite Iva - fuori dei locali aziendali e oggi per 3/4 dei casi vuol dire da casa, anche se crescono le imprese che si collegano con hub o coworking esterni. I dati ci dicono una cosa importante: non sono solo le donne a usarlo ma siamo al 50% con gli uomini. A differenza del vecchio telelavoro, giudicato poco allettante e alla fine usato solo in alternativa al licenziamento o per decentrare prestazioni «povere», lo smart working punta a far crescere la produttività conciliandola con le motivazioni e la flessibilità del dipendente, impiegato o manager. La legge può favorire decisamente il decollo dello smart working perché interviene su tutta una serie di materie (diritti, privacy, infortuni e retribuzione) ma al tempo stesso i 9 articoli sono norme-cornice che lasciano spazio alla contrattazione collettiva e individuale. Per ora a usarlo sono prevalentemente aziende di servizi ma un domani le esperienze contamineranno il manifatturiero posto, ad esempio, che la diffusione delle stampanti 3D comporti una disarticolazione del ciclo produttivo stanziale.

La prestazione
Lo scopo del lavoro agile viene definito dall’articolo 1 del ddl («incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro») ed è interessante il binomio perché corregge la rigidità e le inefficienze delle grandi organizzazioni. I requisiti sono l’esecuzione della prestazione fuori dai luoghi aziendali anche solo in parte (un giorno a settimana), la possibilità di usare strumenti tecnologici per svolgere il lavoro in remoto e l’assenza di una postazione fissa anche fuori dai locali aziendali. Il principio affermato dal ddl è la volontarietà a sua volta regolata da un accordo scritto tra le parti, nel quale siano definiti modalità e utilizzo dei devices tecnologici. L’intesa deve indicare anche le fasce orarie di riposo. Il lavoro agile può essere per un tempo determinato o indeterminato ma si può recedere solo per giusta causa o con un preavviso non inferiore ai 30 giorni.

La retribuzione

Il trattamento economico e normativo non deve essere inferiore a quello degli altri addetti che operano in azienda. I controlli del datore di lavoro devono restare nell’ambito dell’accordo individuale o nel rispetto della legge sui controlli a distanza. Gli articoli 6 e 7 regolano la sicurezza e gli infortuni. Grazie a un accordo con l’Inal il ddl copre sia gli infortuni occorsi lavorando fuori azienda sia quelli avvenuti durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione al coworking (per esempio).

Gli incentivi fiscali
Saranno riconosciuti anche gli incentivi fiscali e contributivi che la Stabilità prevede per la contrattazione di secondo livello. I contratti collettivi posso integrare le norme di legge. Secondo Elisabetta Caldera, direttore risorse umane di Vodafone Italia, «il ddl è un passo avanti nell’era del digitale, riempie un vuoto normativo e apre la strada a una visione dell’organizzazione del lavoro centrata sul risultato e non sulla presenza». Vodafone Italia è al primo posto tra le aziende che già usano lo smart working: per un giorno a settimana sono stati coinvolti nel 2014 2.300 dipendenti. A giudizio di Arianna Visentini, presidente di Variazioni (consulenza per il welfare) il ddl migliora i testi circolati in passato, «non pone vincoli di numero, riduce al minimo procedure e burocrazia, tutela la volontarietà e parla di incentivi alla produttività». Bisognerà solo vedere se molte piccole aziende che stipulavano informalmente degli accordi saranno pronte a recepire gli obblighi di legge.

26 ottobre 2015 (modifica il 26 ottobre 2015 | 09:34)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_26/lavoro-facile-lavoro-casa-1802d388-7bb3-11e5-9069-1cf5f2fd4ce8.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:37:29 pm »

Anas, Rete ferroviaria italiana
Siamo un Paese marcio?
Gli anticorpi da costruire contro la corruzione
Sembriamo incapaci di reagire a un male endemico. Invece tanti segnali dalla società civile ci dicono che non è così: possiamo adeguarci ai virtuosi standard internazionali

Di Dario Di Vico

Accade spesso che la prima notizia importante del mattino sia un arresto, una retata o una nutrita serie di perquisizioni «in diverse città d’Italia». Ieri si è trattato di Rete ferroviaria italiana, qualche giorno prima dell’Anas, la settimana addietro di un grande Comune. I primi commenti che cominciano quasi subito a circolare in Rete recano «vergogna» come parola chiave e sono solo l’inizio di un fiume di improperi, recriminazioni, e insulti che ci accompagna fino ai talk show della prima serata.

Il motivo conduttore della corrente di indignazione è che siamo un Paese marcio, destinato a scomparire dalla mappa geo-politica del globo e che siamo riusciti a collezionare i peggiori amministratori pubblici del pianeta, i più corrotti funzionari dello Stato e gli imprenditori più infingardi che ci siano in circolazione nell’orbe terracqueo. Un’affermazione di questo tipo se fatta in pubblico garantisce quasi sempre applausi a manetta e i più bravi nello scandirla arrivano a conquistarsi una standing ovation. A dar loro ragione uscirà di sicuro nei giorni successivi una ricerca di un organismo internazionale che attesterà come il nostro Paese sia ormai al quattrocentesimo posto delle graduatorie mondiali della trasparenza appena sopra la Colombia dei narcos.

Ma è davvero così? Siamo un Paese che ha perso totalmente la virtù e nel quale il malaffare avanza incontrastato? Per rispondere a domande così impegnative conviene procedere per approssimazioni successive. La prima riguarda il legame tra ampiezza della presenza pubblica in economia e diffusione della corruzione. Se a Roma saccheggiare l’Atac è diventato l’obiettivo numero uno del partito della mazzetta, è anche perché si è ridotto il perimetro dell’economia pubblica a disposizione delle incursioni affaristiche. Le privatizzazioni non saranno state uno straordinario esempio di politica industriale ma hanno comunque delimitato la presenza dello Stato e statisticamente ridotto le occasioni di corruzione. È chiaro che si tratta di una considerazione di carattere quantitativo, non sosterrei mai che basta privatizzare per eliminare il malaffare, mi limito a dire che è una condizione utile e che quando si verifica obbliga i faccendieri a ridurre il raggio delle proprie ambizioni. Se deve rubare su mense per i migranti e forestali siciliani il partito della corruzione registra un arretramento e non certo un’avanzata.

Un ragionamento analogo si può fare in merito al valore aggiunto sprigionato dalla società civile italiana. Tradizionalmente grazie ai corpi intermedi il nostro tessuto sociale ha svolto un ruolo di coesione e di solidarietà che spesso ha surrogato l’assenza di politiche pubbliche efficaci. Abbiamo un terzo settore più ampio di altri Paesi anche perché l’azione dal basso ha fatto da surrogato alla carenza di indirizzi top down. Se fino al Novecento la società civile ha garantito questo tipo di legature con i processi di internazionalizzazione il suo ruolo è cambiato. Ha saputo in qualche maniera intercettare il cambio di paradigma e ha preso come riferimento la media-di-quello-che- fanno- gli-altri-europei. Questo processo ha generato una crescita diffusa di competenze sottoposte a concorrenza internazionale e quindi vere.

La ragione forte della differenza tra Milano e Roma, evocata da Raffaele Cantone, sta proprio nella diversa qualità delle rispettive società civili, nella loro differente esposizione al confronto (quantomeno) continentale. So bene che anche in questo caso tutto ciò non garantisce la morte della mazzetta ma ne riduce solo statisticamente — uso ancora questo avverbio — la frequenza.

C’è quindi tanto da monitorare e studiare sull’evoluzione delle nostre società anche per capire come cambia la corruzione e questo compito tira inevitabilmente in ballo giornalisti e magistrati. Troppo spesso anche loro vittime della pigrizia.

30 ottobre 2015 (modifica il 30 ottobre 2015 | 10:33)
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« Risposta #199 inserito:: Novembre 07, 2015, 09:46:16 pm »

L’EDITORIALE
Contratti e ripresa, viaggiamo con il freno tirato

Di Dario Di Vico

Vendite di auto, esportazioni negli Usa e incremento del risparmio. Sono questi i tre soli indicatori che riescono a motivare un ottimismo della volontà dell’anno di grazia 2015. Perché se è vero che gli indici di fiducia delle imprese e dei consumatori sono tornati a livelli migliori, per ora non ci sono sufficienti evidenze che questo cambio di clima si sia tradotto in conseguenti decisioni d’impresa. D’altro canto capita spesso, al termine di un dibattito o di un’assemblea, di essere avvicinati da uno o più piccoli imprenditori che hanno voglia di fare un’unica e fatidica domanda: «Ma lei la vede davvero questa ripresa?». È un test di come nella vita di tutti i giorni sia difficile trovare, in buona quantità, imprese che stiano investendo significativamente: comprandone altre, allargando l’attività orizzontalmente o verticalmente, ampliando i luoghi fisici della produzione. Non si vede un fiume che sta portando alla crescita, tutt’al più scorrono dei rivoli. I macchinari, ad esempio, vengono cambiati a un buon ritmo e con i super ammortamenti previsti dalla legge di Stabilità lo saranno di più.

Sul versante dei consumi svettano le vendite di auto, anch’esse sono effetto di una sostituzione ritardata e stanno comunque garantendo al Pil un contributo elevato. Si vendono di più le vetture del ceto medio, le Panda e le Punto, ed è una conferma che il reddito a disposizione delle famiglie è addirittura cresciuto, ma si rivolge ai consumi solo selettivamente preferendo in molti casi parcheggiarsi nei depositi bancari.

I nostri imprenditori che esportano negli Usa poi hanno il sorriso smagliante. Non c’è settore che non abbia saputo approfittare della svalutazione dell’euro per conquistare nuovi consumatori ed è un’ottima notizia anche in prospettiva, perché la nostra presenza negli States è ancora concentrata in pochi punti e ci sono dunque le classiche praterie da conquistare.

Si potrebbe continuare a lungo illustrando la fenomenologia dell’economia reale ma il giudizio non cambierebbe: è una ripresa che ha il freno a mano tirato. E onestamente non si vede una curva superata la quale la strada si possa presentare in discesa, mentre non mancano qua e là segnalazioni dell’apertura di nuove crisi aziendali, a dimostrazione se non altro che la capacità produttiva installata non è saturata. Con questi presupposti l’occupazione non poteva certo decollare innanzitutto per gli ingenti quantitativi di cassaintegrati ancora da riassorbire e subito dopo perché non ci sono grandi scelte di investimenti Labour intensive in atto. I provvedimenti governativi hanno sicuramente aiutato con generosità a stabilizzare quote di lavoro precario, ma di più non potevano produrre anche perché la letteratura economica suggerisce che l’occupazione è un’intendenza che segue, distanziata di qualche tempo.

È in questo contesto che oggi si apre la stagione contrattuale con il rinnovo dei metalmeccanici. Finora quella che doveva essere una fase rifondatrice delle relazioni industriali è partita in maniera pasticciata: i chimici si sono sfilati da qualsiasi impegno di sistema e hanno chiuso velocemente, gli alimentaristi prima si erano vestiti da colombe e poi hanno sfoderato gli artigli. I metalmeccanici sostengono di voler prevedere un doppio binario di comunicazione con i dipendenti, uno mediato dal sindacato e uno diretto e di conseguenza vogliono spostare il baricentro della contrattazione in fabbrica dove quel mix può funzionare meglio. Ci sarà tempo e modo per riferirne nel dettaglio; per ora l’unico errore da non commettere è trattarne come di un tema meramente sindacale. Ci riporta, invece, a quel freno a mano che dovremmo sbloccare.

5 novembre 2015 (modifica il 5 novembre 2015 | 07:17)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_05/contratti-ripresa-viaggiamo-il-freno-tirato-8bcc86f2-8382-11e5-8754-dc886b8dbd7a.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Novembre 07, 2015, 09:52:35 pm »

Le scelte di Confindustria
Quella sfida ai sindacati che riguarda anche il capitale
La fase che si è aperta contiene l’opportunità di riformulare la pratica della rappresentanza e di metterla in sintonia con i mutamenti, ma anche il rischio di restare a metà del guado con aziende scettiche e il sindacato più ostile

Di Dario Di Vico

In teoria l’ultimo scorcio di una presidenza dovrebbe rappresentare per la Confindustria una stagione di ordinaria navigazione e, invece, a qualche mese dal suo avvicendamento Giorgio Squinzi si trova a gestire una fase di straordinaria discontinuità. Che, come è scontato che sia, contiene opportunità e rischi. L’opportunità è quella di riformulare la pratica della rappresentanza delle imprese e di metterla in sintonia con i mutamenti dell’economia post-crisi, il rischio è di rimanere a metà del guado con imprese scettiche e sindacato ancor più ostile. A spingere il gruppo dirigente confindustriale sulla strada della discontinuità è stato, sul piano della cronaca spicciola, l’atteggiamento irriducibile della coppia Barbagallo-Camusso ma se guardiamo alla sostanza dei problemi troviamo alla radice della svolta una certa insoddisfazione verso il tran tran, cresciuta in questi anni nelle associazioni territoriali più vivaci, in parallelo alla volontà di interpretare il sentimento delle aziende-lepri. Quelle che corrono per il mondo e potrebbero maturare l’idea dell’inutilità della rappresentanza. Quindi voler leggere le ultime mosse di Squinzi con la vecchia metafora della colomba diventata falco - per di più in zona Cesarini - è riduttivo, in gioco c’è un potenziale salto di qualità della cultura associativa d’impresa. Che non può essere più quella di sette anni fa, la Grande Crisi se ha cambiato molti dei meccanismi di funzionamento dell’economia reale non poteva, infatti, lasciare inalterata la rappresentanza.

Un dirigente sindacale leggendo queste parole potrà obiettare che non ci dovrebbe essere bisogno di passare da un azzeramento seppur temporaneo del rapporto con Cgil-Cisl-Uil per costruire un associazionismo di qualità. E invece, nella situazione data, è proprio così ma non per colpa degli industriali. La verità è che quello che una volta era il monopolio sindacale della tutela del lavoro oggi è diventato uno spazio contendibile. Nelle aziende globali è l’imprenditore a farsi avanti e a sfidare Cgil-Cisl-Uil, tra i facchini della logistica sono i Cobas, nel terziario metropolitano delle partite Iva è la Rete. In questa grande trasformazione dell’economia e del lavoro sarebbe un guaio se gli industriali restassero con le mani in mano, caso mai sarebbe auspicabile che anche i sindacati dessero prova di altrettanto coraggio e volontà di innovazione. Quando conosceremo il decalogo delle regole che Squinzi ha annunciato potremo valutare con maggiore precisione quanto la Confindustria sia cosciente di ciò che le sta accadendo intorno e quali sono i percorsi che propone, è chiaro comunque che allontanare la contrattazione da Roma e portarla più vicino al mercato e alle persone è una conditio sine qua non per tentare di armonizzare rappresentanza ed economia post-crisi.

Francamente non credo, come pure è stato scritto, che Squinzi stia facendo tutto questo per portare acqua al mulino di Matteo Renzi. Penso che in Confindustria ci si sia resi conto da tempo che il premier ha messo nel mirino i corpi intermedi (anche) per ampliare la tradizionale constituency elettorale del centrosinistra e di conseguenza si sia maturata in Viale dell’Astronomia la convinzione che star fermi sarebbe, quella sì, una scelta complice. Con rappresentanze giurassiche la comunicazione guizzante del premier va, e andrebbe ancora per lungo tempo, a nozze.

Mettendo in discussione le vecchie relazioni industriali Squinzi però deve sapere che si genera un effetto-domino su altri capitoli del rapporto tra la rappresentanza e gli associati. Prendiamo, ad esempio, un tema altrettanto cruciale: la dimensione delle imprese. E’ possibile continuare a sottovalutare come questo sia uno dei passaggi ineludibili per rimettere in corsa il sistema-Italia nella competizione globale? Un’associazione meno concentrata sulla gestione dei contratti nazionali di lavoro dovrà giocoforza fornire nuovi servizi ai suoi iscritti e non potrà che individuare come prioritari di questa fase quelli destinati a favorire la crescita.
Si potrà non amare la Borsa ma l’apertura dell’azionariato, con gli strumenti più vari, è una scelta che non si può rinviare per troppo tempo. Luigi Zingales tempo fa ne parlò come «l’articolo 18 del capitale» e continua a sembrarmi una sintesi efficace.

9 ottobre 2015 (modifica il 9 ottobre 2015 | 09:56)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_09/quella-sfida-sindacati-che-riguarda-anche-capitale-79b4734a-6e5a-11e5-aad2-b4771ca274f3.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Novembre 11, 2015, 06:11:40 pm »

I progetti
Dopo Expo, Renzi coinvolga Milano

Di Dario Di Vico

Oggi a Milano Matteo Renzi ufficializzerà la proposta del governo per le aree e le attività del dopo Expo. Come è suo costume il premier ci metterà la faccia e di conseguenza il progetto Human Technopole, anticipato domenica dal nostro giornale, farà il suo debutto in società. Siamo a pochi giorni dalla chiusura dell’esposizione e l’accelerazione del confronto pubblico non può che essere salutata con favore da tutti. Così come con pari consenso va segnalata la volontà del governo di far propria questa sfida e di non rimanere alla finestra a guardare il tempo che fa. Il nocciolo duro di Human Technopole è rappresentato dagli uomini e dalle competenze dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova ed anche questa è una novità di cui non ci si può che rallegrare. È una testimonianza (rara) di capacità dello Stato di programmare l’innovazione in Italia e di utilizzare al meglio i nostri scienziati. Come Roberto Cingolani e Giorgio Metta.

Elencate tutte le novità positive di questi giorni, alcune prevedibili e altre meno, è utile però mettere in chiaro alcune cose prima che si generino equivoci o addirittura nascano degli inutili conflitti. Sarebbe infatti singolare che il dopo Expo fosse ristretto a Human Technopole e per di più vedesse uno scarso coinvolgimento di Milano e dei suoi punti di forza. Singolare perché si muoverebbe in controtendenza con tutte le analisi di economisti e sociologi che monitorano i flussi di uomini e idee lungo l’asse del Nord.

Gli esperti spiegano come Milano vanti nella sua area le competenze che la più agguerrita concorrenza internazionale ormai richiede in ogni campo, ma dia quotidiana dimostrazione di avere l’autorevolezza necessaria per attrarre e valorizzare il meglio degli altri territori. È più sensato quindi che il dopo Expo non adotti una soluzione a tinta unica ma che l’Università Statale di Milano e gli altri atenei della città siano pienamente coinvolti valorizzando i progetti che avevano elaborato per tempo e con costrutto. L’idea di portare a Rho le facoltà scientifiche della Statale e le residenze dei giovani ha il segno di costruire una Città Studi 2.0 con un grande campus studentesco, come quelli che abbiamo sempre invidiato agli atenei stranieri. La possibilità di ospitare migliaia di universitari nel sito dell’Expo è sicuramente funzionale anche in virtù dell’ottima dotazione infrastrutturale già realizzata e sottoposta nel frattempo a un vero stress test.

Come affermato a più riprese dal presidente degli industriali, Gianfelice Rocca, Milano in continuità con la sua tradizione vuole e può convogliare sui progetti del dopo Expo le migliori intenzioni di investimento dei privati. Capitale riconosciuta della moda e del design, la città punta a diventare un grande crocevia della tecnologia più moderna e la sfida di Rho arriva quantomeno con il timing giusto. Non ci fosse stata l’Expo avremmo dovuto inventarci una motivazione alla sua altezza per avanzare una proposta capace di mettere in sintonia le ambizioni di Milano con le grandi trasformazioni dell’economia. Del resto il cambiamento di pelle della città, gli avvicendamenti di culture e di personalità che stanno rinnovando il sistema delle élite, la capacità di capire meglio di altri le discontinuità richieste dal dopo-crisi sono tutti segnali che legittimano quelle aspirazioni e che hanno già ridotto la distanza che la separava dagli altri grandi hub della modernità europea. Il presidente del Consiglio che ha approvato e sostenuto le motivazioni di Roma per candidarsi ad ospitare l’Olimpiade del 2024 non può disconoscere il valore della scommessa che la comunità milanese vuole lanciare prima di tutto a se stessa.

@dariodivico
10 novembre 2015 (modifica il 10 novembre 2015 | 07:12)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_10/dopo-expo-renzi-milano-a39f9fe8-8770-11e5-91a7-6795c226a8af.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:24:16 pm »

IL CORSIVO DEL GIORNO
Lo sciopero, unica certezza nella ricerca dell’identità
Prima i medici in tutta Italia e il trasporto pubblico milanese, poi a incrociare le braccia saranno i dipendenti del gruppo Eni, i ferrovieri di Trenord e infine i lavoratori della grande distribuzione.
A fare massa critica non è l’omogeneità di situazioni e richieste quanto il ritorno in auge dello sciopero come forma prevalente di protagonismo

Di Dario Di Vico

C’è in giro tanta voglia di scioperare. Oggi tocca ai medici in tutta Italia e al trasporto pubblico milanese, nei prossimi giorni a incrociare le braccia saranno i dipendenti del gruppo Eni, proseguiranno i ferrovieri di Trenord e sabato 19 toccherà ai lavoratori della grande distribuzione. Le agitazioni di altre categorie non sono previste nell’arco di questa settimana ma paiono imminenti e rischiano di riempire il calendario del gennaio 2016. Le motivazioni che sono alla base di queste iniziative di lotta sono diverse tra loro e in alcuni casi condivisibili con la palese eccezione degli autoferrotranvieri dei Cub dell’ATM. Che hanno proclamato lo sciopero pochi giorni dopo la conclusione (positiva) del contratto nazionale di lavoro con un aumento medio di 100 euro. A fare massa critica non è dunque l’omogeneità delle situazioni e delle richieste quanto il ritorno in auge dello sciopero come forma prevalente di protagonismo.

In una stagione di identità/simboli deboli, siano essi la Sinistra, il Renzismo o la Ripresa, c’è il fondato rischio che si torni al conflitto innanzitutto con l’obiettivo di compattare le file. Lo sciopero — che pure comporta un sacrificio economico — ridiventa fattore di coesione, si presenta come un elemento di certezza dentro un orizzonte caratterizzato da troppe indecisioni e amnesie. È un segnale di come le politiche riformiste fatichino a intercettare un loro popolo, restino nel migliore dei casi delle scelte di vertice, se non addirittura di Palazzo.

È vero che nel frattempo dentro la società sono maturate buone pratiche di partecipazione come il welfare aziendale, la sharing economy, le staffette generazionali ma messe tutte assieme non riescono ancora a produrre un profilo identitario forte. Non pescano sufficientemente in basso e non costituiscono ancora una vera alternativa. Lo sciopero, invece, basta a se stesso.

16 dicembre 2015 (modifica il 16 dicembre 2015 | 09:32)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_16/sciopero-unica-certezza-ricerca-dell-identita-0f61c030-a3b9-11e5-900d-2dd5b80ea9fe.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Dicembre 17, 2015, 07:37:34 pm »

L’economia deve aprirsi
No al patriottismo retrò
Lo storico marchio del lusso passa al gruppo Mahindra.
Il titolo crolla in Borsa del 68%


Di Dario Di Vico

Niente fazzoletti e niente giaculatorie di rito. Approfittiamo dell’annuncio della vendita della Pininfarina agli indiani della Mahindra & Mahindra per elaborare il lutto una volta per tutte. Il nostro Pil cammina a rilento e l’unica speranza di riallineare il Paese alle economie più dinamiche sta nell’apertura della nostra economia, nello scambio ininterrotto di capitali e di chance di sviluppo. Dentro questa strategia — che purtroppo non ha alternative — accade e accadrà sovente che prestigiose aziende italiane passino di mano e che a comprare siano multinazionali europee, americane o come in questo caso asiatiche. Facciamoci il callo ed evitiamo ogni volta di riprodurre il solito elenco di marchi nazionali che hanno cambiato bandiera, le stesse dichiarazioni e le ricorrenti ipocrisie.

Il patriottismo economico all’alba dell’anno di grazia 2016 non ci porta da nessuna parte, dobbiamo ragionare come economia aperta e dentro questa opzione dobbiamo poi saper difendere gli interessi del nostro territorio, della cultura industriale e del lavoro. Purtroppo non siamo abituati a leggere il rapporto con le multinazionali in chiave freddamente negoziale e quindi non abbiamo sviluppato nel tempo un modello di contrattazione complessa che abbia come leitmotiv «dare valore e pretendere valore». Ma non è mai troppo tardi.

Così come facciamo ancora in tempo a sviluppare una relazione positiva con i country manager delle multinazionali che operano in Italia: quando operano in maniera corretta e si muovono per ampliare il business sono i primi alleati del nostro sistema perché ci aiutano a valorizzare le nostre filiere e il lavoro italiano e possono anche convogliare su singoli progetti-Paese risorse che non sono originate dal solo mercato tricolore.

Gli esempi ci sono e per fortuna vengono segnalati in costante aumento, bisogna crearne dei nuovi ed evitare di spargere lacrime a sproposito.

15 dicembre 2015 (modifica il 15 dicembre 2015 | 07:33)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_15/economia-deve-aprirsi-no-patriottismo-retro-573176ae-a2f0-11e5-8cb4-0a1f343ea988.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:09:33 pm »

Mille commi e un salto nel passato
La legge di Stabilità alla fine sfiora i 35 miliardi tocca tutti gli ambiti della vita economica e civile del Paese, persino la compravendita dei calciatori

Di Dario Di Vico

Schiavi delle abitudini abbiamo ricominciato a chiamarla «finanziaria» e il motivo è fin troppo semplice: la legge di Stabilità che avrebbe dovuto innovare il modo in cui i governi fanno politica economica sta ripercorrendo le orme del passato, al punto che l’opera di taglia-e-cuci concordata tra governo e Parlamento ha partorito la ragguardevole cifra di 1.000 commi. Si può dire tranquillamente che non c’è ambito della vita economica e civile del Paese che non sia stato toccato, lo dimostra il fatto che persino la compravendita dei calciatori ha subito un restyling normativo. Diamo pure per scontato che molte novità introdotte fossero ampiamente necessarie e che per velocizzare i tempi della decisione alla fine la soluzione vincente sia sempre quella di imbarcare tutti i commi su un container legislativo, è inevitabile però che alla fine l’impressione sia quella di un vestito d’Arlecchino. Tanti colori e tante pezze al posto di un disegno coerente. Per ovviare a questo limite Matteo Renzi avrebbe dovuto per una volta dar retta a Giuseppe De Rita che gli aveva consigliato in tempi non sospetti di affiancare all’omnibus della Stabilità - che, sia detto per inciso, alla fine tocca i 35 miliardi - una sorta di nota aggiuntiva, un documento di politica economica che riassumesse l’essenziale e fosse un strumento agile di comunicazione sia con la comunità degli addetti ai lavori sia con il «popolo». Se poi quella nota, oltre ad assolvere a un basilare compito pedagogico, avesse contenuto anche una visione di medio termine della politica economica dell’Italia, non sarebbe guastato e avrebbe messo al riparo il governo dal dover partecipare alla guerriglia delle cifre e alle polemiche costruite su singole misure. Aggiungo che una messa a punto della «visione» tutto sommato sarebbe stata giustificata anche dalle discontinuità di carattere internazionale che hanno interessato il Paese dal momento dell’approvazione della Stabilità in Consiglio dei ministri a oggi.

Ai blocchi di partenza la legge in approvazione al Parlamento conteneva un messaggio netto di taglio delle tasse a cominciare da quella sulla prima casa. Dietro questa scelta - contestata dagli europeisti ortodossi - il governo produsse in qualche maniera un’analisi dei nodi dello sviluppo italiano e della necessità di ristabilire un clima di normalità post emergenza cominciando a tagliare una tassazione così ampiamente impopolare come quella sull’abitazione. I più attenti obiettarono che se si voleva davvero rimettere in circolo la ricchezza immobiliare incagliata l’intervento avrebbe dovuto essere più ambizioso e a largo raggio. Per farla breve si era comunque aperta una finestra di riflessione tutt’altro che banale e orientata a produrre novità importanti nel rapporto tra contribuenti ed economia reale. Oggi siamo arrivati al traguardo e di quella discussione è rimasto poco o niente. Il taglio ci sarà ma avviene in un contesto molto meno orientato alla riscossa di quanto fosse allora, per di più con un’agenda mediatica dominata dal tema del fallimento delle banche di territorio e delle conseguenze sui risparmiatori. Francamente tutto ciò non rappresenta il viatico migliore per un anno come il 2016 che nelle stime del governo dovrebbe portare il Pil all’1,6%, ovvero dovrebbe farci uscire dal regime di ripresa debole e inaugurare una fase di energica riscossa dell’economia reale.

Un’ultima ragione militerebbe, poi, a favore della stesura di una Nota aggiuntiva. In un documento più ponderato il governo avrebbe potuto trovare il modo di tentare di conciliare e magari spiegare una contraddizione che la Stabilità si porta dietro come un marchio di fabbrica. Quella di finanziare il vestito di Arlecchino con una manovra sostanzialmente condotta in deficit - e per questo motivo sottoposta al giudizio finale di Bruxelles calendarizzato per la prossima primavera - ma di non riuscire assolutamente a muovere la complessa macchina della spending review. È una contraddizione che pesa e che non può essere esorcizzata con una battuta sui lampioni di Carlo Cottarelli.

20 dicembre 2015 (modifica il 20 dicembre 2015 | 08:35)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_20/mille-commi-salto-passato-6d7d7558-a6eb-11e5-9876-dad24a906df5.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:32:37 pm »

Pronto lo statuto delle partite Iva
Nuovo welfare e pagamenti certi
All’esame di governo e Parlamento una legge su tutele, competenze e pagamenti
Ma il mercato resta difficile per i professionisti


Di Dario Di Vico

Il 2016 sarà finalmente l’anno del pieno riconoscimento del lavoro autonomo? Verranno create per le partite Iva condizioni più eque sul versante del welfare e si comincerà a pensare anche alla loro professionalità? La novità c’è ed è importante: in uno dei prossimi Consigli dei ministri sarà approvato lo Statuto che riguarderà tutti i rapporti di lavoro autonomo a eccezione di commercianti e artigiani iscritti alle Camere di commercio. Il testo è un collegato della legge di Stabilità, dovrebbe avere 13-15 articoli e arrivare in Parlamento entro la fine di gennaio. L’intenzione che lo muove può essere sintetizzata così: da una parte si dà via a una stretta per combattere il fenomeno delle false partite Iva, dall’altra però si valorizza il contributo che i giovani professionisti, le vere partite Iva, possono apportare all’economia. E in questo passaggio si registra una forte discontinuità rispetto al passato quando soprattutto la sinistra voleva ricondurre tutto ad unum, il lavoro dipendente.

Finora sono circolate le bozze predisposte dal professor Maurizio Del Conte, consigliere economico di Palazzo Chigi e non si registrano posizioni politiche dichiaratamente contrarie. Le opposizioni, sia il centrodestra sia i Cinquestelle, non sembrano contrarie all’operazione e anche da parte della sinistra di matrice laburista non sono state sollevate obiezioni. Calendario parlamentare permettendo il disegno di legge potrebbe avere un iter veloce anche perché, come vedremo, c’è da guardare anche fuori dal Palazzo e le tendenze di mercato sono tutt’altro che incoraggianti.

Il primo nodo che si affronta è quello del ritardo dei pagamenti da parte delle imprese: la scelta è di equiparare le tutele dei professionisti a quelle dei subfornitori e subito dopo prevedere la deducibilità delle polizze stipulate ad hoc dalle partite Iva contro il rischio di non essere pagati. Più in generale i primi articoli tendono a mitigare l’asimmetria dei rapporti di forza tra committente e free lance e di conseguenza vietano al primo di recedere dal contratto senza preavviso e lo obbligano, su richiesta, a mettere nero su bianco le condizioni di ingaggio.

Gli articoli successivi affrontano le questioni più squisitamente professionali tutelando la proprietà intellettuale del lavoro di free lance che di conseguenza potranno vendere liberamente i loro format ad altri potenziali clienti. Vista la centralità della formazione nelle professioni della conoscenza l’articolo 5 introduce la possibilità di dedurre fiscalmente fino a 10 mila euro di spese per l’iscrizione a master, corsi e convegni necessari per aggiornarsi e restare competitivi sul mercato. Il testo governativo prevede anche che si aprano nei Centri per l’impiego appositi sportelli di assistenza per chi ha scelto l’auto impiego, rende possibile alle partite Iva di partecipare ai bandi pubblici (e a quelli Ue) e infine si occupa delle tutele sanitarie, cominciando a costruire un welfare del lavoro autonomo che tuteli la malattia e la maternità (vedi articolo di Rita Querzè). Il disegno di legge, pur avendo preso in esame l’eventualità, alla fine non introduce il principio dell’equo compenso, ovvero una sorta di salario minimo per professionisti.

Come hanno accolto il testo Del Conte le principali associazioni della partite Iva? Secondo Andrea Dili, portavoce di Alta partecipazione, «si chiude l’epoca degli interventi spot e trovano accoglienza molte delle nostre richieste come la copertura della malattia e della maternità e la possibilità di dedurre le spese per la formazione». All’alba dell’anno di grazia 2016 i problemi, secondo Dili, non vengono dalle nuove norme ma dagli andamenti del mercato. «Gli ultimi dati sui redditi segnalano ancora un calo e ci spingono a ragionare in maniera diversa. I free lance devono fare un salto di natura imprenditoriale altrimenti non riusciranno a rispondere alle esigenze del sistema produttivo italiano». Le partite Iva sono chiamate, quindi, da una parte ad accentuare la loro specializzazione e dall’altro ad aggregare le competenze. «È ancora troppo difficile sia dal punto di vista normativo che fiscale creare una società tra professionisti, e invece è proprio questa la strada. Siano società o reti non importa, ma non si può più camminare in ordine sparso. Non si arriva nemmeno a fine mese».

Per Anna Soru, presidente di Acta, l’approccio governativo è corretto, fa cadere la vecchia distinzione tra professioni ordiniste e non ordiniste e riporta al centro della discussione le vere partite Iva. Sulle tutele dai ritardi di pagamento però Soru parla di testo «non chiaro» e anche sulla novità della polizza «c’è da capire meglio», mentre giudica come degli importanti passi in avanti le novità sul welfare e sulla deducibilità delle spese di formazione. Come Dili anche Soru però è preoccupata dalle tendenze del mercato. «Se guardo anche alle scelte fatte con la Stabilità ho l’impressione che il governo stia creando una sorta di recinto protetto di partite Iva giovani con fatturato ridotto». Dei mini Jobs del lavoro autonomo, poco pagati, con condizioni fiscali favorevole «a patto che restino sotto i tetti previsti». Invece ci sarebbe bisogno di ragionare in termini di crescita, «per uscire dal ghetto». Quanto poi alla tariffe professionali «lo scivolamento verso il basso continua e la necessità di contenerlo è palese».

2 gennaio 2016 (modifica il 2 gennaio 2016 | 10:20)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_02/svolta-partite-iva-nuovo-statuto-welfare-a20a0ef0-b11b-11e5-b083-4e1e773a98ad.shtml
 
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« Risposta #206 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:37:19 pm »

La svolta che ancora non c’è

  Di Dario Di Vico

Il 2015 una promessa non l’ha mantenuta: non è stato l’anno della svolta. Ci siamo lasciati alle spalle il tunnel della Grande Crisi ma il funzionamento dell’economia italiana non ha conosciuto quell’accelerazione di cui avrebbe avuto bisogno. È chiaro che stiamo misurando il tutto con uno strumento, il Pil, che ormai si presenta largamente imperfetto non solo perché non misura il reale benessere delle nostre società ma perché sottostima anche il peso che hanno le tecnologie nelle economie moderne. È una discussione - quella sul futuro dell’indicatore Pil - che riflette direttamente i mutamenti dell’economia post recessione e nella quale un buon drappello di esperti si va cimentando, però nemmeno per un nanosecondo può essere strumentalizzata in chiave politica e per di più solo italiana. Noi non siamo ancora ripartiti con la velocità dovuta, punto e accapo.

 Caso mai può valere la pena ricordare il peso che la sostituzione delle vetture ha avuto nel rilancio del Pil nel 2015 a dimostrazione di quanto il settore automotive influenzi la crescita italiana, assai più dei successi delle nostre multinazionali tascabili. Fortunatamente nel 2016 Mirafiori tornerà a essere un comprensorio produttivo di 18 mila addetti tra diretti e indiretti e da Cassino usciranno i nuovi modelli della Giulia. Auto a parte, l’appuntamento con la crescita non può essere rinviato oltre l’anno che ci attende, perché perderemmo posizioni nella riorganizzazione internazionale delle economie.

 E l’appuntamento con la crescita non può essere rinviato perché ne pagheremmo i riflessi in termini di disagio sociale. Purtroppo non arriviamo a questo appuntamento nelle condizioni migliori perché strada facendo la legge di Stabilità ha perso gran parte della spinta propulsiva e anche perché il dissesto delle banche locali ha generato ansia in una platea più larga dei pur numerosi risparmiatori danneggiati.

 Le previsioni di fonte governativa danno come risultato per il 2016 una crescita dell’1,5%, alcune valutazioni più prudenti si fermano a 1,2%, nulla però è scontato. Anche perché il contributo allo sviluppo che viene dalle policy europee è ridotto o addirittura nullo. Nell’articolo che il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, ha pubblicato sul Sole 24 Ore di martedì 29 abbiamo apprezzato il vibrante e appassionato invito alla «perseveranza europeista» ma l’autore non ha nemmeno citato il piano che pure porta il suo nome e che nelle intenzioni avrebbe dovuto avere una doppia valenza. Concretizzare la risposta di Bruxelles all’austerità e assestare un colpo al populismo. Non avendo visto né l’una né l’altro dobbiamo far da soli nel ridare fiato agli investimenti. Finora al rendiconto del Pil italiano questa componente è mancata e per recuperare terreno la prima cosa da fare è monitorare quegli investimenti stranieri in Italia già annunciati e sciaguratamente rimasti al palo per ostacoli burocratici o per dissensi di merito. Una task force capeggiata dal vice ministro Carlo Calenda ha iniziato a lavorare a quei dossier e confidiamo in un cambio di passo. Una spinta agli investimenti verrà sicuramente dalla norma sui super ammortamenti al 140% che rende estremamente favorevole acquistare nuovi macchinari colmando così un gap di competitività tecnologica di molte nostre imprese nei confronti della concorrenza europea e asiatica. Ma più in generale sarebbe utile rendere più stringente il dialogo tra governo e imprese proprio sul tema del rilancio degli investimenti.

 L’esempio numero uno riguarda la filiera del mattone. Una buona parte di quella straordinaria ricchezza delle famiglie, tante volte vantata anche nei consessi europei, è di fatto congelata perché il mercato delle compravendite è caduto rovinosamente e il +8,4% segnalato ieri dall’Istat è ancora troppo poco per poter parlare di una vera inversione di tendenza. Il presidente del Consiglio sostenendo l’idea di tagliare Imu e Tasi ha correttamente individuato la centralità del business immobiliare nel funzionamento dell’economia italiana, ha sempre però pensato alla cancellazione della tassa sulla casa come una sorta di bis degli 80 euro, una misura di sostegno ai consumi e non la prima tessera di un vero intervento per rimettere in carreggiata il mercato immobiliare. Si può dire che Matteo Renzi ha sfiorato il bersaglio ma non l’ha centrato. Eppure da lì bisogna passare per ridare fiducia al ceto medio italiano, la cui ricchezza è per larga parte investita nell’immobiliare, e subito dopo per occuparsi seriamente dell’industria del mattone, notoriamente labour intensive. Da tempo si sente la necessità di disegnare un nuovo modello di business che punti sul riuso, che faccia da sponda al riposizionamento delle aziende di costruzioni e ne faciliti la riorganizzazione dimensionale. Nell’agenda del 2016 un simile impegno merita di essere iscritto tra le priorità.

31 dicembre 2015 (modifica il 31 dicembre 2015 | 07:26)

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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_dicembre_31/svolta-che-ancora-non-c-e-b49a1a2e-af81-11e5-98da-4d17ea8642a3.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:38:12 pm »

La vertenza alla Saeco infiamma Bologna
La crisi della fabbrica del caffè simbolo di un Paese a due velocità
La Philips vuole spostare il montaggio in Romania e tenere il commerciale in Emilia. I commercianti di Gaggio, come nella Torino anni 80, hanno abbassato le saracinesche

Di Dario Di Vico

Nonostante il rischio neve anche stanotte gli operai della Saeco di Gaggio Montano, grazie alla roulotte prestata dalla Protezione Civile, hanno tenuto fermo il presidio h24 della fabbrica contro i 250 licenziamenti decisi dai proprietari olandesi della Philips. La vertenza è iniziata a fine novembre e continua ad avere un impatto molto forte sul clima politico-sindacale di Bologna, distante solo 50 chilometri. Si sono inerpicati fino all’Appennino sia il sindaco Virginio Merola sia il neo-arcivescovo Matteo Maria Zuppi e il presidente della Regione Stefano Bonaccini ha trascorso nello stabilimento l’ultimo dell’anno. E nella conferenza stampa del 29 dicembre anche Matteo Renzi ha fatto un velocissimo accenno al caso.

L’impianto della Saeco di Gaggio fa macchine domestiche per il caffè, dà lavoro da sempre a 550 dipendenti e la Philips è subentrata dal 2009 a un fondo francese di private equity. Gli olandesi dopo anni di produzione a singhiozzo, con tanta cassa integrazione, sono giunti alla conclusione che è meglio lasciare in Emilia ideazione e commerciale e portare il montaggio in Romania. Nel settore degli elettrodomestici quella della Saeco non è la prima vertenza dura degli ultimi anni, basta ricordare i casi Electrolux e Whirlpool, a confronto di lavatrici e frigoriferi però l’assemblaggio delle macchine del caffè è una lavorazione a minor valore aggiunto e pertanto la differenza del costo del lavoro pesa ancora di più.

Ma i licenziamenti della Saeco nella stagione della ripresa e del Pil che dovrebbe cominciare a correre ci raccontano il lato amaro di questa stagione dell’industria italiana. La ripartenza, quando si sarà manifestata anche più robusta di come appare oggi, non sarà una sanatoria, non impedirà un’ulteriore scrematura dell’apparato industriale italiano con quello che ne consegue in esuberi, chiusure e vertenze. Non è entusiasmante sottolinearlo, ma tra tante imprese-lepri che sfondano nell’export ce ne sono altrettante - e forse di più - che non hanno saputo reagire ai mutamenti dei mercati. E un giorno o l’altro dovranno saldare il conto con le loro inefficienze e le loro pigrizie.

Come detto il caso Saeco a Bologna fa discutere animatamente. Capita così che i politici locali si improvvisino esperti di politica industriale e lancino fantasiose ipotesi alternative, succede anche che la Fiom locale per una volta vada d’accordissimo con il ministro (bolognese) Federica Guidi e le manifestazioni di sostegno da novembre ad oggi non hanno avuto cali di tensione. In città caso mai c’è qualcuno che maliziosamente mette a confronto la visibilità della vertenza Saeco con il pudore che avvolge il caso Coop Costruzioni, 300 lavoratori senza lavoro per il crac dell’azienda che hanno ottenuto in zona Cesarini un anno di cassa integrazione. Comunque mentre Bologna, dopo i successi di attrazione del Suv Lamborghini e dell’impianto Philip Morris, si candidava a insidiare Milano come hub delle multinazionali in Italia, gli olandesi della Philips stanno guastando la festa.

Nei rapporti con il ministero dello Sviluppo economico finora sono stati arroganti, non hanno prodotto motivazioni e numeri certi e così in Emilia sono diventati il diavolo. Il governatore Bonaccini si è spinto addirittura a minacciare ritorsioni contro gli stranieri che vengono in Italia a depredarci dei nostri marchi. In realtà l’avvento delle cialde pronte ha rivoluzionato il mercato e sono entrati in gioco direttamente i grandi brand del caffè e comunque il confronto con i concorrenti della De Longhi è impietoso. I veneti producono un milione di pezzi l’anno e vanno a gonfie vele, Saeco solo centomila e hanno problemi enormi di produttività ed efficienza. A Gaggio c’è un’altra azienda del gruppo che fa i grandi distributori automatici di caffè - quelli da ufficio - e va bene perché il prodotto è più complesso, l’investimento negli impianti fissi più consistente e non si può delocalizzare in quattro e quattr’otto.

Vedremo come andrà a finire una vertenza che ha il sapore delle «eroiche battaglie» del sindacalismo del ‘900 e sulla quale la politica bolognese ha messo la faccia. A Gaggio, sull’Appennino a 700 metri di altitudine, un abitante su due deve il suo reddito alla Saeco e i commercianti, come nella Torino anni ‘80, hanno abbassato le saracinesche in segno di solidarietà con gli operai e aspettano notizie da Roma. Dopo la Befana al ministero la Philips dovrà uscire allo scoperto, si capirà qualcosa di più e dovrebbe iniziare una vera trattativa. Nessuno al tavolo potrà dimenticare che un operaio rumeno costa quasi la metà di un italiano ma nei casi Electrolux e Whirlpool, pur differenti, alla fine una mediazione s’è trovata. C’è da sperare che sia onorevole.
3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 13:52)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_03/crisi-fabbrica-caffe-simbolo-un-paese-due-velocita-191b3308-b1fc-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:25:57 am »

IL CORSIVO DEL GIORNO

La riforma Madia non è un derby tra il governo e i sindacati
Tra i soggetti interessati alla riforma ce n’è anche un terzo: l’utenza

Di Dario Di Vico

Bisogna evitare che la riforma della pubblica amministrazione diventi per l’ennesima volta un logorante derby esclusivo tra governo e sindacati. Ovvero che l’unica parte in causa pienamente abilitata a discutere gli effetti dei cambiamenti illustrati domenica al Corriere dal ministro Marianna Madia sia quella rappresentata dalle organizzazioni dei lavoratori. Nessuno ovviamente mette in discussione i sacrosanti diritti sindacali dei pubblici dipendenti e il fisiologico confronto che si deve aprire con il datore di lavoro, ma se si vuole davvero portare a casa una radicale modernizzazione dello Stato occorre (anche) un salto di cultura sociopolitica.

È necessario riconoscere che i soggetti interessati alla riforma della struttura pubblica sono tre: c’è anche l’utenza. Stiamo parlando di un’utenza molto particolare e negozialmente debole perché non può scegliere di cambiare fornitore e di conseguenza per tutta una serie di servizi indispensabili non può che mettersi pazientemente in fila allo sportello pubblico. In passato qualcuno ha parlato a proposito di questa palese asimmetria di «sudditi», quel che appare certo è che questa platea di consumatori rappresenta il «mercato» della pubblica amministrazione ma non gode della minima forza contrattuale, non può «votare con i piedi» e andare da un altro fornitore. Nel momento in cui persino la politica si apre allargandosi in orizzontale, e in una stagione in cui i consumatori registrano un potere di scelta che non avevano mai conosciuto, sarebbe anacronistico non prendere in considerazione l’opinione dei cittadini davanti alla riforma della pubblica amministrazione.

Il renzismo non può saltare questo passaggio: una vera disintermediazione non passa per la sostituzione di Twitter alle defatiganti trattative sindacali del Novecento ma dovrebbe segnare il prevalere della cultura liberale sui patti corporativi.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 08:25)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_25/riforma-madia-non-derby-il-governo-sindacati-561046fa-c32b-11e5-b326-365a9a1e3b10.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Gennaio 27, 2016, 06:43:58 pm »

IL COMMENTO

Quel divario tra il comportamento dei consumatori e la loro percezione
Per ora gli italiani continuano a risparmiare per «paura», le famiglie hanno reddito disponibile ma hanno tarato i loro consumi al ribasso negli anni più duri della recessione e faticano a cambiare passo


Di Dario Di Vico

La risalita dell’indice di fiducia dei consumatori va salutato sicuramente con favore. Anche perché si recupera addirittura il livello di metà degli anni ‘90. In una congiuntura caratterizzata da potenti fattori di incertezza e da una ripresa debole la soggettività può avere il suo peso e può spostare in avanti i flussi dell’economia reale. Ad oggi bisogna sapere però che i comportamenti dei consumatori non corrispondono al loro sentiment. Proprio ieri il presidente di Federdistribuzione, l’associazione di categoria della distribuzione organizzata, lamentava addirittura un lieve stop dei consumi.

Bisognerà attendere la fine della campagna dei saldi per avere qualche elemento di conoscenza in più. La verità per ora è che gli italiani continuano a risparmiare per «paura», le famiglie hanno reddito disponibile ma hanno tarato i loro consumi al ribasso negli anni più duri della recessione e faticano a cambiare passo. Accantonare parte del reddito sembra essere ai loro occhi la scelta più consapevole anche se poi il risparmio investito per molti motivi non dà rendimenti brillanti (per usare un eufemismo). Vedremo nelle prossime settimane se una spinta ai consumi verrà dal mancato pagamento delle tasse sulla prima casa. Sapremo in sostanza se l’abolizione di Imu e Tasi riuscirà laddove il bonus degli 80 euro non aveva prodotto il botto sperato.

27 gennaio 2016 (modifica il 27 gennaio 2016 | 10:53)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_27/quel-divario-il-comportamento-b0520116-c4da-11e5-9850-7f16b4fde305.shtml
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