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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120515 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:41:20 pm »

NUMERI E STRATEGIE
Mettersi in proprio, ci prova 1 giovane su 4 E i «figli d’arte» sono una minoranza
L’autorealizzazione la prima motivazione. Gelaterie e pilates tra i settori più gettonati. Sottostimata la cura degli anziani

 di DARIO DI VICO

La parola chiave è autoimpiego e dovremo imparare a farci i conti. L’alfabeto della ricerca di lavoro cambia anche se il dibattito politico sull’occupazione, seppur vivace, continua a restare concentrato sui temi del lavoro dipendente. Ma tra i ragazzi che escono dalle superiori o dall’università molte cose stanno cambiando e i dati di flusso lo dimostrano. Nei primi nove mesi del 2013 il 34% delle imprese aperte ha un titolare under 35 e la stima dell’Unioncamere ci dice che un giovane su 4, terminati gli studi, si rivolge verso l’autoimpiego. Sono ragazzi che hanno perso le aspettative di un tempo e hanno maturato una consapevolezza diversa. Vogliono evitare la via crucis dei contratti a tempo determinato e degli stage senza speranze e preferiscono misurarsi direttamente con il mercato. Anche se non lo chiamano così e sono totalmente aideologici, riconoscono che la meritocrazia si sposa meglio con una propria iniziativa piuttosto che con una scrivania in un ufficio pubblico.

Lo stock di imprese con un titolare sotto i 35 anni ammonta a 675 mila unità e rappresenta l’11% dell’universo delle aziende italiane, ma la tendenza al ringiovanimento è fortissima come dimostra il dato sui flussi. «Alcuni si rivolgono all’autoimpiego perché hanno respirato aria di impresa in casa — spiega Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere —, non dimentichiamo che in Italia una famiglia su 4 ha a che fare con l’attività imprenditoriale». Ma non sono solo i figli di commercianti e artigiani a scommettere su se stessi, la successione a un familiare riguarda appena il 4,2% dei titolari under 30 di nuove imprese. La pura necessità di trovare un primo/nuovo sbocco lavorativo o comunque un lavoro stabile è la causa dell’autoimpiego per il 36,4% dei giovani sotto i 30 anni. Ad aggravare la difficoltà di trovare un’occupazione pesa l’assorbimento pressoché nullo di diversi settori, dal pubblico impiego passando per editoria, scuola ed enti locali.

Le trasformazioni del mercato hanno poi determinato una drastica riduzione del peso contrattuale di molte lauree e la conseguente definitiva scissione tra percorso formativo e tipologia di occupazione. I laureati nell’ingegneria rivolta al settore manifatturiero, quelli dell’area medica e di economia continuano a puntare sul lavoro dipendente, invece per chi esce con una laurea umanistica l’autoimpiego appare come la prospettiva più concreta. Se il sociologo americano Richard Sennett ha scolpito il concetto di «corrosione del carattere» per indicare il contraccolpo psicologico della precarizzazione, l’autoimpiego almeno da un punto di vista psicologico è mobilitante, suscita energie. Tanto è vero che il 47,1% degli under 30 con attività avviata nel 2013 indica nell’autorealizzazione la motivazione principale della sua scelta.

Secondo i dati diffusi dall’osservatorio del ministero dell’Economia ogni mese vengono aperte 45 mila nuove partite Iva (la metà sono under 35) e un quarto abbondante di loro corrisponde a un’iniziativa commerciale. Dopo il successo di Grom c’è stato un boom di gelaterie, la ristorazione registra continue nuove aperture di locali così come i servizi di fisioterapia e pilates. Restano ancora sottostimate le chance di fare impresa nell’estetica, nei servizi di lavanderia e nella cura degli anziani. Il professor Emilio Reyneri nel suo libro «Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi» parla, però, a questo proposito di una «terziarizzazione distorta a favore di settori arretrati». Comunque il 12% circa delle nuove partite Iva si muove verso attività professionali anche se bisogna tener presente che almeno per architetti e avvocati si tratta di uno sbocco obbligato vista la quasi totale impossibilità di trovare un lavoro dipendente in linea con il titolo conseguito. «È chiaro che i giovani si rivolgono in prevalenza al commercio e alla ristorazione — commenta il sociologo Costanzo Ranci, autore del libro «Partite Iva» — perché sembra più bassa la barriera all’ingresso al Sud come al Nord. Ma attenzione anche tra i laureati settentrionali e ad alta qualificazione la tendenza all’autoimpiego è elevata e non solo per uno stato di necessità».

Sale anche per motivazioni legate all’autorealizzazione personale che si sposano con una forte propensione alla mobilità territoriale. «Secondo rilevazioni di fonte Isfol il 50% dei giovani è pronto a trasferirsi all’estero e solo il 20% non vuole muoversi da casa». La dinamica di autorealizzazione è testimoniata da molte storie pubblicate sul blog Nuvola del lavoro ma anche da una analoga iniziativa di Unioncamere che ha raccolto in un sito racconti di neoimprenditori che magari come l’Andrea dell’ultimo libro di Silvia Avallone («Marina Bellezza») scelgono di tornare in montagna per produrre formaggi come il nonno. «Colpisce in queste storie — sottolinea Gagliardi — l’incrocio di innovazione e tradizione che porta a cambiare mestieri come il sarto, il falegname e più in generale l’agricoltore». Ma di fronte a queste novità, al mix rappresentato dalla mobilitazione individuale, l’assunzione del rischio e la riduzione dell’ingorgo all’ingresso del lavoro dipendente, come risponde il sistema economico? Come ripaga questi giovani per la loro coraggiosa scelta di autonomia? Gagliardi sostiene che «dobbiamo loro qualcosa, quantomeno fornirli di un supporto ordinario di servizi e assistenza». Il rischio sta nella mortalità precoce delle nuove imprese come sembra trasparire dalla veloce rotazione degli esercizi commerciali nelle città.

In verità, forse per un effetto-ritardo, i dati non sono così tremendi. Secondo Unioncamere nei primi nove mesi del 2013 ha chiuso il 7% delle aziende degli under 35 contro una media generale del 5%. Comunque l’esigenza di accompagnare l’autoimpiego si sta facendo largo. Da segnalare l’iniziativa della Confcommercio di Milano che ha predisposto un punto accoglienza per i neoimprenditori che si chiama «I Marcopolo» e ha pubblicato «Le bussole», manuali rivolti a chi sta facendo la sua prima esperienza. Anna Soru, presidente di Acta, l’associazione delle partite Iva del terziario avanzato, ha scritto l’e-book «Post lauream», diretto ai giovani che finiscono gli studi e si chiedono se valga la pena orientarsi verso il lavoro autonomo. Il primo problema che emerge dalla sua ricognizione è trovare i soldi per aprire l’impresa e secondo i racconti si ricorre spesso al prestito familiare. Più del 50% parte con un capitale inferiore ai 5 mila euro e solo il 3% inizia con una dotazione di risorse maggiori di 50 mila euro. Si avverte la necessità di strumenti di microcredito perché pochi neoimprenditori utilizzano la banca. La legge di Stabilità ha rifinanziato l’agenzia per il sostegno alle start up dopo che nel 2013 il bando era stato chiuso perché ad aprile aveva già prosciugato i fondi, ma la dotazione resta bassa: 80 milioni di euro per tre anni. «Assieme all’inadeguatezza dei meccanismi di finanziamento mancano anche politiche di agevolazione fiscale del nuovo lavoro autonomo — dice Soru —. Prendiamo l’esempio del forfettone per le partite Iva fissato a 30 mila euro l’anno: chi si muove bene sul mercato e magari sta per sforare finisce per rinunciare a prendere una nuova commessa e vista la crisi che attraversiamo è veramente paradossale che ciò accada». Tra le forme di accompagnamento all’autoimpiego sta incontrando molto favore il franchising perché garantisce un know how sperimentato, un più facile accesso al credito, la possibilità di accedere alla formazione e più in generale si presenta come un mix vantaggioso di organizzazione centrale e spirito individuale d’impresa. Altrettanto interesse sembra attirare la formula cooperativa: secondo un’indagine Swg sono 700 mila i giovani disposti a dar vita a un’esperienza imprenditoriale di questo tipo

03 febbraio 2014
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Da - http://www.corriere.it/economia/speciali/2014/autoimpiego/notizie/titolo-ae55eb06-880b-11e3-bbc9-00f424b3d399.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Febbraio 15, 2014, 11:51:23 am »

RENZI VERSO PALAZZO CHIGI
Improbabili alleati

Per una singolare congiuntura astrale sono state le spallate di Giorgio Squinzi e Susanna Camusso ad accelerare nei giorni scorsi la caduta di Enrico Letta e l’avvio di una crisi di governo di tipo extraparlamentare. Il diavolo poi ci ha messo del suo e la manifestazione degli artigiani e dei commercianti di Rete Imprese Italia, convocata per martedì 18 a Roma, è stata decisa con un governo in carica che quel giorno non ci sarà più. Le parti sociali, quindi, pur duramente provate da cinque anni di crisi economica si sono ritrovate a spianare la strada di Palazzo Chigi al segretario del Pd e a tornare di conseguenza al centro della ridefinizione degli equilibri politici. La circostanza vista dal lato di Matteo Renzi suona paradossale, non solo per le ripetute scaramucce che l’hanno visto duellare con la Cgil in entrambe le primarie, ma soprattutto perché nella sua cultura politica i corpi intermedi sono tutt’altro che un fattore decisivo. Tra la grande politica e il comune cittadino nella visione di Renzi c’è il ruolo - forse sopravvalutato - dei sindaci, che appaiono l’unico anello di congiunzione tra società civile ed élite politiche, tra territori e Roma.

Certo, nella maturazione di queste posizioni ha contato l’esperienza personale di amministratore locale e comunque la discontinuità con la tradizione democristiana è evidentissima e distingue Renzi dallo stesso Letta, più legato alla cultura di matrice Arel attentissima al ruolo dei corpi intermedi. È vero, caso mai, che nella visione del rapporto tra la società di mezzo e i cittadini il segretario del Pd è molto più vicino alle idee di Mario Monti o Pietro Ichino, assai severi nei confronti delle confederazioni dell’impresa e del lavoro. Non è un caso che i colonnelli renziani abbiano proposto di esportare questa visione liberale e universalistica anche nella selezione dei gruppi dirigenti sindacali proponendo di scegliere i leader con il metodo delle primarie. A molti è sfuggito, ma nelle bozze del Jobs Act c’è un altro segnale di insofferenza nei confronti degli istituti della società di mezzo: la proposta di abrogare l’iscrizione obbligatoria delle imprese alla Camera di Commercio. Un’ipotesi di provvedimento che ha messo in allarme il mondo camerale.

Nella cultura economica di Renzi le imprese rivestono sicuramente un ruolo centrale: in un discorso è arrivato a dire che fa più sinistra «un imprenditore che assume» che tanti comizi dei sindacati. Ma il premier in pectore pare scindere nettamente la funzione d’impresa dalla rappresentanza collettiva degli interessi. Non ama particolarmente le associazioni di categoria - ha partecipato all’ultima assemblea degli industriali di Verona più che altro per prendersi la soddisfazione di battere in casa sua Flavio Tosi -, porta invece sugli scudi i singoli imprenditori o manager che reputa innovativi/coraggiosi. Da qui la ostentata predilezione per Oscar Farinetti, Andrea Guerra di Luxottica o Vittorio Colao di Vodafone, tutto sommato una simpatia di fondo verso Sergio Marchionne e la ricerca di una buona relazione con le multinazionali straniere. Come testimoniano i ripetuti riconoscimenti per General Electric e Gucci e il loro operato in Toscana.

Il messaggio che emerge può essere riassunto così: per conquistare il consenso non ho bisogno di canali preferenziali (come quelli offerti dalle parti sociali), me la gioco nella comunicazione diretta con il grande pubblico. È chiaro che in questo modo la rappresentanza viene depotenziata, specie quella sindacale, perché Renzi le nega a priori il monopolio della produzione di coesione sociale. Se fosse del tutto coerente, però, il segretario del Pd illuminerebbe con maggiore attenzione la realtà del lavoro autonomo (in espansione, per altro, per le dinamiche dell’auto-impiego giovanile) mentre, come gli è stato fatto notare, il suo Jobs act si concentra totalmente sui temi del lavoro dipendente.
Se questa, comunque, è a grandi linee la visione che il segretario del Pd ha maturato in materia di corpi intermedi ora non gli resta che agire di conseguenza. Eviti la tentazione di «rimborsare» le parti sociali solo perché i penultimatum di Squinzi e Camusso lo hanno agevolato nel dar corpo alla staffetta. Rispetti la difficile azione delle forze di rappresentanza in un contesto in cui il promesso Primo anno della ripresa assomiglia molto al Sesto anno della crisi, le ascolti - dunque -, ma non le ripaghi con la moneta dell’allungamento dei riti e delle procedure. Sostituisca la vecchia idea dello scambio (non decido senza concertare) con una visione più moderna dell’interazione tra politica e società. La vera moneta da rimettere in circolazione, di cui anche la rappresentanza ha urgente bisogno, è il problem solving , ovvero la produzione di soluzioni. Il resto lo abbiamo ampiamente già visto e non funziona.

15 febbraio 2014
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Dario Di Vico

DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_15/improbabili-alleati-341c95ac-9606-11e3-9817-5b9e59440d59.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Febbraio 22, 2014, 08:13:43 am »

IL PROFILO DEL NUOVO TITOLARE DI VIA XX SETTEMBRE

Ecco le idee sul lavoro di Padoan, il neo ministro che scelse Fassina
Classe 1950, è stato chiamato poche settimane fa dal governo Letta a presiedere l’Istat


A «scoprire» Pier Carlo Padoan (nato a Roma, classe 1950) verso la fine degli anni ’90 fu l’allora presidente della Fondazione Cespe, Alfredo Reichlin. Padoan assieme a Nicola Rossi e Marcello Messori pubblicò nel 1998 per la fondazione e per l’editore Laterza un volumetto Proposte per l’economia italiana che conobbe un discreto successo negli ambienti politici e accademici.

La prefazione era di Massimo D’Alema e le idee del terzetto dei professori avrebbe successivamente animato l’azione di Palazzo Chigi. La carriera universitaria di Padoan comincia a La Sapienza di Roma e successivamente lo ha portato ad insegnare in diverse università europee. A Palazzo Chigi Padoan è rimasto tre anni dal ’98 al 2011 sia con D’Alema sia con Giuliano Amato. È stato lo stesso D’Alema a inviarlo come rappresentante dell’Italia a Washington presso il Fondo Monetario di cui è stato direttore esecutivo con responsabilità su Grecia, Portogallo e Albania.

Una curiosità: negli anni americani Padoan ha avuto come suo stretto collaboratore il giovane Stefano Fassina, viceministro del governo Letta. Rientrato in Italia, Padoan è stato direttore della Fondazione Italianieuropei che lasciò nel 2007 per andare a lavorare a Parigi prima come vicesegretario dell’Ocse e poi come capo economista (incarico che in precedenza aveva ricoperto anche Ignazio Visco). Poche settimane fa il neo-ministro di via XX Settembre era stato chiamato dal governo Letta a presiedere l’Istat.

Per avere qualche ragguaglio sulle sue idee basta leggere le ultime raccomandazioni dell’Ocse per l’Italia. Spostare la protezione dal lavoro al salario, migliorare l’efficienza della scuola, semplificare il sistema impositivo fiscale e ridurre il cuneo fiscale, togliere le barriere alla concorrenza e , infine, migliorare le politiche attive del mercato del lavoro.

21 febbraio 2014
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Dario Di Vico

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_21/padoan-ministro-prodilo-idee-lavoro-divico-b16674da-9b13-11e3-8ea8-da6384aa5c66.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Marzo 13, 2014, 11:36:05 pm »

Annunci e Realtà
di Dario Di Vico

Dire che le conferenze stampa alla Renzi sono ispirate alla più completa irritualità è diventato in poco tempo un eufemismo. Il neopremier ieri ha illustrato le scelte e i provvedimenti votati poco prima in Consiglio dei ministri alla stregua di un banditore e francamente il metodo non aiuta. Specie quando sono in gioco misure complesse, quando si tratta di valutare i delicati equilibri di finanza pubblica o solo individuare il perimetro delle novità normative, una più pacata trasmissione delle informazioni giova. Sicuramente al lavoro dei media (compresi quelli stranieri) ma ancor di più a quella trasparenza del rapporto tra politica e cittadini che rientra tra gli intendimenti prioritari di Matteo Renzi.

Ieri quest’obiettivo non è stato centrato perché alla fine dello show sappiamo i titoli dei provvedimenti che il premier ha fatto approvare, conosciamo l’indirizzo di alcuni di essi ma ci è rimasta la sensazione di non aver del tutto chiara la relazione che intercorre tra le decisioni di spesa adottate (e scandite) e le coperture di bilancio. Al punto che dovremo giocoforza aspettare il Def (il Documento economico-finanziario) per poter usufruire di elementi più certi di valutazione. Come riuscirà, ad esempio, il bisturi della spending review nel 2014 a raddoppiare i risparmi dai 3 miliardi previsti finora da Carlo Cottarelli ai 7 promessi ieri da Renzi? E ha senso adottare come riferimento per il rimborso dei debiti della pubblica amministrazione una stima di Bankitalia (90 miliardi) contestata ancora pochi giorni fa dal ministro del Tesoro uscente, che ha parlato di un pregresso limitato a 50 miliardi?

I dubbi, dunque, ci sono e abbracciano sia metodo che merito ma non per questo annullano il valore di singole scelte operate ieri dal governo. Al di là delle stime quantitative è giusto sbloccare i pagamenti dello Stato e degli enti locali alle imprese, è più che sensato semplificare la via crucis dell’apprendistato, hanno una loro ratio provvedimenti-ossigeno come quelli destinati a mettere in sicurezza le scuole, è utile venire incontro alle imprese tagliando i costi dell’energia, dell’Irap e dell’Inail ma soprattutto va apprezzata l’idea di ridurre le tasse ai redditi fino a 25 mila euro con la speranza che la mossa generi un rilancio dei consumi. E ha fatto bene Renzi anche a individuare per il suo jobs act lo strumento della legge delega invece che riscrivere di botto e per l’ennesima volta le regole del mercato del lavoro.

Restano tutte in campo, invece, le perplessità per l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie. Nessuno nella condizione in cui versa il nostro Paese ha voglia di vestire i panni di Cassandra ma intravediamo il pericolo che in mezzo a tante coperture aleatorie alla fine la contropartita più corposa e certa passi ancora una volta attraverso l’incremento delle entrate fiscali. E temiamo che ciò possa rivelarsi alla fine un indigesto antipasto della patrimoniale.

13 marzo 2014 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_13/annunci-realta-fa81d4b6-aa77-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml

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« Risposta #139 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:23:00 pm »

Negozi aperti anche nei fine settimana: marcia indietro dannosa
Movimento 5 Stelle e Pd stanno producendo un testo di legge per chiedere il ripristino delle chiusure domenicali obbligatorie. Cosa ne pensa Renzi?

di Dario Di Vico

Che cosa pensa della liberalizzazione degli orari dei negozi il premier Matteo Renzi? A porre la domanda, tutt’altro che peregrina, è in queste ore Scelta Civica che si muove in piena coerenza con i provvedimenti di apertura adottati dal governo Monti e con lo scopo di evitare che vengano cancellati nella sostanza.

A Montecitorio, infatti, è nata in sede di commissione una strana alleanza tra Movimento 5 Stelle e Pd che sta producendo un testo di legge per chiedere il ripristino delle chiusure domenicali obbligatorie degli esercizi commerciali. I promotori puntano a portarlo in Aula addirittura entro aprile e proprio contro questo blitz si è mossa Scelta Civica. Oggi i negozi sono liberi di restare aperti nei weekend e nei giorni di festa e, pur in una fase di mercato estremamente difficile (i consumi ristagnano oramai da tempo), la novità ha permesso di produrre nuovi posti di lavoro e di distribuire più salario. Tornare drasticamente indietro vorrebbe dire fermare questo processo, rafforzare i poteri burocratici delle autorità locali e sovrapporsi alla libera scelta degli imprenditori di cercare gli orari più favorevoli e flessibili. In ragione dei differenti contesti urbani, dei target dei consumatori e dell’evoluzione degli stili di vita. Chi la presenta come una norma contro i commercianti non favorisce l’evoluzione di questo mondo che, seppur controvento, sta cercando di innovare la propria cultura. Si pensi alla sperimentazione dei distretti commerciali in Lombardia, al numero (cospicuo) di giovani che scelgono di aprire un punto vendita come forma di primo auto-impiego o, ancora, all’adattamento all’e-commerce.

La liberalizzazione non è certo la panacea del settore ma una pre-condizione per renderlo moderno, più competitivo e più veloce nella reazione agli input del mercato. In chiave politica sarà interessante vedere come e se Renzi risponderà al guanto di sfida lanciatogli dai deputati di Scelta Civica. Da sindaco di Firenze, sostengono, non avrebbe avuto dubbi. Da premier e da segretario del Pd vedremo.

4 aprile 2014 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_04/negozi-aperti-anche-fine-settimana-marcia-indietro-dannosa-b7dd2834-bbbd-11e3-a4c0-ded3705759de.shtml
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« Risposta #140 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:21:04 pm »

Apertura dei negozi durante le Feste serve più realismo e meno ideologia
di Dario Di Vico

Inserzioni sui giornali e scioperi, c’è aria di battaglia attorno all’apertura della grande distribuzione nei giorni delle festività che vanno da Pasqua al Primo Maggio. I sindacati del commercio hanno già proclamato fermate in diverse regioni mentre i supermercati Billa in Veneto e l’organizzazione datoriale (Federdistribuzione) hanno replicato duramente. I consumatori si sono schierati a favore dei «padroni» mentre dall’altra parte della barricata si è andato formando un fronte composito che vede mobilitati la Confesercenti, la Chiesa e una combattivo comitato di commessi/e che ha preso il nome di «Domeniche, no grazie».

I sindacati e i loro alleati sostengono che aprire i negozi nei giorni di festa a fronte di un ristagno dei consumi ha poco senso e serve solo a mettere in difficoltà i piccoli commercianti e i lavoratori dei supermercati che vorrebbero passare le feste in famiglia. Tirata da una parte e dall’altra la politica - nella fattispecie la competente commissione di Montecitorio - sta faticando a trovare un punto di equilibrio per evitare che vengano rimesse in discussione le liberalizzazioni decise dal governo Monti. È chiaro che anche in questo segmento dell’economia molto può cambiare con gli 80 euro in più in busta paga annunciati dal governo Renzi, che potrebbero rimettere in moto i consumi e spazzar via dunque la querelle sull’apertura festiva.

L’aumento del reddito disponibile non è affatto detto che si trasmetta immediatamente ai consumi e di conseguenza grande distribuzione e sindacati piuttosto che litigare sul nulla farebbero bene ad accompagnare questo processo e a instaurare una buona relazione con i consumatori. Più marketing e meno ideologia, anche perché le maggiorazioni sul lavoro festivo in qualche caso, come all’Ikea, arrivano addirittura al 70% del salario di quel giorno. I sindacati dovrebbero anche riflettere se non sia più produttivo, invece di proclamare scioperi anacronistici, battersi perché le aperture festive garantiscano ai lavoratori i riposi compensativi e magari generino quote aggiuntive di occupazione.

20 aprile 2014 | 09:02
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_aprile_20/apertura-negozi-le-feste-serve-piu-realismo-meno-ideologia-29a2f840-c857-11e3-bf3a-6dacbd42b809.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:36:22 pm »

Il coraggio e i dubbi

Di Dario Di Vico

A Matteo Renzi va riconosciuto di aver immesso nella politica italiana un mix di energia, coraggio e trasparenza che nel suo insieme ha sicuramente caratteri inediti. La spending review per lungo tempo era rimasta quasi una pratica esoterica riservata a pochi eletti, da ieri con la conferenza stampa da Palazzo Chigi il premier ha messo a disposizione dei cittadini una buona quantità di informazioni necessarie per valutare l’operato del governo. Renzi ha già ampiamente dimostrato di essere più che versato nell’arte del comunicare e ieri lanciando una serie di parole d’ordine come la «norma Olivetti» per ridurre gli stipendi dell’alta burocrazia, il drastico taglio delle auto blu e persino la riduzione degli spazi pro capite degli impiegati pubblici, sapeva di andare sul sicuro. Di parlare a una parte ampia del Paese che ha maturato un giudizio fortemente critico nei confronti dell’operato dello Stato e delle sue pletoriche strutture.

Ma proprio perché apprezziamo l’insieme di queste discontinuità, pensiamo che sia utile ragionare sui dubbi che la pur abile esposizione del presidente del Consiglio ha lasciato. Anche perché disponiamo di un gruzzolo di intelligenti hashtagma non di un vero testo che spieghi, ad esempio, come funzionerà il bonus fiscale. Da un punto di vista contabile le coperture dei provvedimenti di tagli delle tasse ci sono ma è netta l’impressione che siano il frutto di un bricolage. La posta più pesante è rappresentata dagli 1,8 miliardi che verranno dall’inasprimento fiscale sulla rivalutazione delle quote Bankitalia in portafoglio alle banche, provvedimento che lo stesso premier ha voluto fissare al 26% e che però si presta a rilievi sulla retroattività. Tutte le altre poste sono frantumate, ciascuna alla fine pesa singolarmente poco e alcune avranno un effetto quasi simbolico, come lo spostamento degli F35. Persino la voce sui tagli ad acquisti e servizi (stimata in 2,1 miliardi) in realtà rimanda a ulteriori articolazioni che nel caso delle Regioni forse fanno rientrare dalla finestra quei tagli alla sanità che il ministro Beatrice Lorenzin sostiene a gran voce di aver lasciato fuori della porta.

Se dunque per il 2014 si è dovuto ricorrere a una sommatoria di piccoli interventi, la cui reale efficacia non è scontata e dovrà essere attentamente monitorata quantomeno nel timing, come sarà possibile per l’anno successivo portare a casa risparmi per 14 miliardi, un’operazione che non è mai stata realizzata nella storia della Repubblica? L’unica spiegazione possibile - e che risponde almeno in parte al quesito - è che il premier stia operando una doppia puntata: da un lato sia convinto che l’effetto annuncio degli 80 euro in più nella busta paga possa cambiare le aspettative e quindi dare gambe più robuste alla fragile ripresa di oggi, dall’altro confidi che il risultato elettorale del 25 maggio sia tale da determinare un mutamento radicale delle politiche europee. È possibile, e auspicabile, che entrambe le intuizioni del premier risultino fondate ma per chi giudica oggi resta la sensazione di trovarsi di fronte più a una scommessa che a un coerente e meditato piano di rilancio dell’economia.

19 aprile 2014 | 08:12
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_19/coraggio-dubbi-fb5a2f36-c77e-11e3-98e6-75c21d6c5e5d.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Maggio 06, 2014, 12:01:26 am »

Il caso Electrolux e il taglio dei salari
I sindacati contro i piani industriali
Corteo del Primo Maggio a Pordenone. Vertenza simbolo: i lavoratori della multinazionale svedese preoccupati per il futuro dello stabilimento nel Friuli

Di Dario Di Vico

Davanti al corteo c’erano i lavoratori dell’Electrolux e della Ideal Standard, dietro tutti gli altri e in mezzo i leader sindacali Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Pordenone era stata scelta da Cgil-Cisl-Uil per la manifestazione nazionale del Primo Maggio in quanto «città simbolo» della lotta per l’occupazione. La vertenza Electrolux, infatti, è ancora aperta e un incontro - si spera risolutivo - è in calendario per il 5 maggio ma più in generale è tramontata l’immagine di un Friuli felix visto che le crisi industriali si contano a decine e soprattutto riguardano le grandi imprese della Regione. Le preoccupazioni maggiori in città riguardano il futuro dello stabilimento di Porcia per il quale il piano industriale proposto dalla multinazionale svedese degli elettrodomestici è giudicato largamente insufficiente dal sindacato e non solo. Se come propone Electrolux a Porcia resteranno solo alcune produzioni di nicchia gli esuberi di personale saranno piuttosto consistenti e guardando più in là lo stesso futuro dell’impianto non sarebbe così certo.

I tre leader
Dal palco i tre leader sindacali non hanno apportato nuovi elementi di riflessione e si sono limitati a ribadire l’appoggio convinto delle confederazioni. «Electrolux - ha detto Camusso - vuole tagliare i salari dimostrando che non conosce le condizioni di lavoro degli operai italiani, con retribuzioni tra le più basse d’Europa. Questa vertenza è un simbolo, non si esce dalla crisi se non c’è giustizia sociale, senza capire che chi ha di più deve dare a chi ha di meno». Angeletti ha aggiunto che «siamo un Paese competitivo fino ai cancelli della fabbrica» passati quelli la burocrazia e l’inefficienza la fanno da padrone. Comunque dai discorsi dei tre leader si è avuta l’impressione che la loro attenzione fosse più rivolta alla nuova sfida lanciata dal governo con le ipotesi di riforma della pubblica amministrazione illustrate ieri da Matteo Renzi e dal ministro Marianna Madia. Angeletti ha sostenuto che se il governo chiede la consultazione dei lavoratori poi però deve rispettarne gli esiti altrimenti è una presa in giro. Bonanni ha tenuto un discorso più aggressivo in cui se l’è presa con il populismo, i poteri forti e «i loro strumenti di persuasione sottile», lo shopping dei capitali stranieri in Italia, la rendita e persino con Twitter e Facebook. «La vera democrazia odora di sudore» ha scandito a rivendicare una sorta di primato della mediazione sindacale rispetto alla Rete e ai social network. Camusso, dal canto suo, ha indirizzato una frecciata al presidente della Confindustria Giorgio Squinzi («è intollerabile che anche lui dice che gli imprenditori se ne possono andare dall’Italia...») e un duro attacco al ministro Federica Guidi per le sue dichiarazioni pro-Fiat. Ha anche rispolverato il vecchio slogan del «resisteremo un minuto più di chi ci vuol togliere il lavoro» e a Renzi ha mandato a dire che invece di prendersela con i lavoratori deve colpire clientelismi e corruzioni annidati nella pubblica amministrazione.

Le contromisure
In definitiva l’appuntamento di Pordenone si è svolto secondo i riti: la partecipazione non è stata straordinaria, non sono state avanzate soluzioni nuove sul caso Electrolux e i leader sindacali hanno tenuto il loro tradizionale registro. Si capisce però che l’offensiva di Renzi li preoccupa ed è altrettanto evidente che non hanno ancora trovato le contromisure.

1 maggio 2014 | 12:54
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_01/caso-electrolux-taglio-salari-sindacati-contro-piani-industriali-c6c87420-d11b-11e3-9d2f-e927fd64fe1a.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Maggio 07, 2014, 08:51:46 am »

Camusso lancia 4 sfide al governo
Ha delineato un’agenda di priorità da sottoporre all’esecutivo e sulle quali «costruire alleanze, consenso, iniziativa e mobilitazione in tutti i luoghi di lavoro»

di Dario Di Vico

Con un rituale molto tradizionale e con una relazione di un’ora e mezzo di Susanna Camusso è iniziato a Rimini il congresso nazionale della Cgil che conclude un itinerario durato sei mesi. Il segretario generale ha lanciato quelle che ha chiamato “le quattro sfide al governo”. Quattro temi su cui aprire una vera e propria vertenza assieme a Cisl e Uil: pensioni, ammortizzatori sociali, lavoro povero e fisco. In chiave strettamente politica vuol dire che la Cgil ha delineato una propria agenda di priorità da sottoporre all’esecutivo e sulle quali «costruire alleanze, consenso, iniziativa e mobilitazione in tutti i luoghi di lavoro».

Il tema delle pensioni
Sarà interessante a questo punto conoscere la risposta di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti che parleranno nel tardo pomeriggio. La scelta più impegnativa della nuova agenda made in Cgil è sicuramente quella sulle pensioni perché significa rimettere in discussione la riforma Fornero che il sindacato si è pentito ai tempi del governo Monti di aver fatto passare con sole tre ore di sciopero. «La vertenza - ha detto Camusso - deve comprendere gli esodati e proporre una risposta strutturale rispetto alle fantasie del dibattito in corso, tra autoprestiti, prepensionamenti e scivoli vari». Il segretario non ha mai citato esplicitamente il ministro Giuliano Poletti ma non è stato certo tenera con lui bocciando il decreto lavoro in discussione in Parlamento e chiedendo una nuova legge sulla cooperazione per reprimere il fenomeno delle coop spurie soprattutto negli appalti.

La patrimoniale
Infine sul fisco Camusso ha ribadito la preferenza della Cgil per la patrimoniale e ha anche chiesto una lotta più severa contro l’evasione fiscale. «E’ molto più efficace della revisione della spesa pubblica».

6 maggio 2014 | 15:20
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_maggio_06/camusso-lancia-4-sfide-governo-8c9ed006-d520-11e3-b55e-35440997414c.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Maggio 08, 2014, 05:04:07 pm »

La ribellione della Camusso

Di Dario Di Vico

Con l’accusa rivolta al governo di distorcere la democrazia ieri a Rimini si è consumata la rottura tra la Cgil e il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Non si può certo dire che si tratti di un fulmine a ciel sereno perché sin dal suo insediamento il premier non aveva fatto mistero di voler mettere in discussione il potere dei sindacati ma da una sede formale, come il congresso nazionale della Cgil, la risposta non poteva essere più secca. È vero che Susanna Camusso nel suo lungo discorso (un’ora e mezzo) è stata attenta a non eccitare la platea contro Palazzo Chigi, però ha riproposto per numerose volte il totem della partecipazione contro la verticalizzazione impressa alla politica italiana dal Rottamatore. I delegati al congresso, dal canto loro, erano disposti a scoprirsi ancora di più e infatti i leader di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, intervenuti nel pomeriggio hanno ricevuto i maggiori consensi quando hanno preso di petto Renzi con battute del tipo «chi va piano va sano e non va a sbattere» e «noi c’eravamo quando sei arrivato e ci saremo quando te ne sarai andato». Una frase che il direttore del New York Times del tempo rivolse nientemeno che a Ronald Reagan!

La contesa di Camusso con Palazzo Chigi non è si è limitata ai temi della cultura politica della sinistra e del rapporto tra istituzioni e rappresentanza, ha investito anche le scelte di merito del governo. La Cgil ha confezionato per il suo congresso una sorta di agenda alternativa fatta di quattro priorità (pensioni, ammortizzatori sociali, lavoro povero e Fisco) che conta di trasformare in altrettante vertenze. E visto il seguito parlamentare di cui il maggiore sindacato italiano gode a Montecitorio equivale a un’altra mezza dichiarazione di guerra. Ma al di là della possibile guerriglia parlamentare l’impressione è che Renzi abbia scelto di contrapporsi frontalmente al sindacato («la musica è cambiata, meno permessi e pubblichino le spese online» ha replicato in serata) perché la giudica una scelta vincente anche dal punto di vista elettorale. La scommessa contenuta nel suo «i sindacati non mi fermano, andrò avanti», ribadito nell’intervista rilasciata al Corriere domenica scorsa, è che in qualche maniera la società dei non garantiti e dei Brambilla guardi con favore a lui come al castigamatti dello strapotere sindacale. Si tratta di un cambiamento epocale rispetto alla recente stagione di Pier Luigi Bersani e della piena consonanza tra Pd e Cgil, una discontinuità che Renzi spera possa essere apprezzata in alcune aree del Nord e del lavoro autonomo. Se ciò dovesse avvenire si accentuerebbe la differenza, che già oggi si può registrare, tra il perimetro del consenso di cui gode il premier e la tradizionale constituency del suo partito.

Gli elementi di scomposizione di quello che una volta era il compatto universo della sinistra italiana non riguardano solo la dialettica estrema tra sindacato e partito ma anche la forte polemica avviata dalla Cgil nei confronti delle Coop e ribadita a Rimini. Di mezzo c’è la figura di Giuliano Poletti che Camusso chiama in causa sempre più spesso sia come ministro per le scelte di «ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro» sia come ex presidente della Lega per non aver saputo arginare il fenomeno delle cooperative illegali.

7 maggio 2014 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_07/ribellione-camusso-editoriale-3260bcbe-d5a5-11e3-8f76-ff90528c627d.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Maggio 18, 2014, 05:14:37 pm »

L’intervista

Passera: «Riunire i moderati contro Renzi e Cinque Stelle»
L’ex ministro si candida leader dei moderati: «È come se quell’area non fosse in partita, ma non è possibile che dieci milioni di voti rischino di non contare più niente»


Di Dario Di Vico

MILANO - «Purtroppo in una campagna elettorale in cui di Europa si parla pochissimo sta accadendo esattamente quello che temevo. Il ballottaggio tra Renzi e Grillo è dannoso perché entrambi non rappresentano la risposta giusta ai problemi degli italiani. Una grande parte dell’elettorato non sa chi votare. Alcuni si rifugiano in Renzi e Grillo per mancanza di alternative, per moltissimi Berlusconi è il passato remoto, Alfano e Casini il passato prossimo e manca una nuova proposta politica seria e alternativa ai populismi. È a questo che stiamo lavorando». Dopo l’anticipazione di fine febbraio e un viaggio di ascolto per l’Italia durato due mesi Corrado Passera scioglie la riserva: si candida esplicitamente alla leadership dei moderati. E il 14 giugno con un grande incontro a Roma darà inizio al processo costituente di Italia Unica.

Lei sostiene che Renzi e Grillo non sono la soluzione ma i sondaggi li danno entrambi in sicura ascesa.
«Si sommano in questi risultati il grido di rabbia di tanti italiani che Grillo intercetta e l’effetto ultima spiaggia che porta a scommettere sull’ipercinetico Renzi. Da tre mesi il premier è in campagna elettorale, guarda esclusivamente a quell’obiettivo e non certo a rimettere in moto l’Italia. E infatti il suo Def è più timido di quelli presentati dai governi precedenti. Manca una visione di lungo termine e gli 80 euro sono una misura a uso e consumo soprattutto dell’elettorato del Pd. Persino il jobs act si è ridotto a poco meno di un topolino. Quanto a Grillo è uno sfasciacarrozze che ha preso come bersaglio l’euro per spostare l’attenzione dalla quasi totale mancanza di proposte costruttive».

E il centrodestra le sembra subire inerte questa doppia pressione?
«Il centrodestra è come se non fosse in partita, appare debole e quello spazio va riempito da una forza politica libera dai retaggi del passato e capace di un programma di trasformazione radicale. Non è possibile che 10 milioni di voti rischino di non contare più niente. Berlusconi ha avuto venti anni per realizzare la rivoluzione liberale e non c’è riuscito. Alfano e Casini sono destinati a rimanere minoritari. E lo sa perché? Mancano il grande progetto e una leadership competente, affidabile e riconosciuta».

Ha avuto già modo di parlare con Berlusconi del suo progetto?
«Ne parlerò a tutti il 14 giugno».

E intanto per chi voterà il 25 maggio?
«Andrò a votare ma per la prima volta non mi riconosco in nessuna delle proposte dei partiti. Nessuno ha affrontato il tema dell’Europa con convinzione e serietà».

Italia Unica punta ad aggregare i piccoli spezzoni del centrodestra?
«La mia non è un’Opa sull’esistente, è una proposta aperta fatta a coloro che non si riconoscono nei populismi imperanti, incluso Renzi. Non siamo interessati a improvvisate federazioni di partitini, ma a costruire un movimento politico in grado di presentarsi da protagonista alle prossime scadenze elettorali. Anche sul programma siamo pronti ad un confronto del tutto aperto attraverso una consultazione via web».

Le obietteranno che lei nel 2005 ha partecipato alle primarie del Pd...
«C’era il rischio che l’estrema sinistra fosse egemone e votai per una persona (Romano Prodi, ndr ) che puntava a modernizzare il Paese. Ho visto successivamente che dal ceppo del Pd non è riuscita a scaturire una grande proposta di trasformazione dell’Italia. Con Renzi poi quei difetti si stanno ingigantendo. Come può un leader essere insofferente verso le rappresentanze in una democrazia moderna che ha grande bisogno di cuciture e coesione?».

Lei critica l’Italicum ma quale tipo di legge elettorale propone?
«L’Italicum è antidemocratico e probabilmente anche anticostituzionale. Noi siamo per un doppio turno di coalizione, con collegi uninominali. Un elettore deve poter scegliere a ragion veduta i suoi rappresentanti. Le alleanze si fanno al secondo turno e si può prevedere un rafforzamento del premio di maggioranza per dare più stabilità».

È a favore dell’abolizione del Senato?
«Sì, sono per una sola Camera con potere legislativo. Così come sono per un solo livello amministrativo tra Comuni e Stato. Non mi piacciono i pasticci che sta facendo Renzi, trasformando Province e, in prospettiva, il Senato in enti inutili senza cancellarli davvero, e credo anche che un governo debba avere al massimo 12 ministeri con responsabilità ben definite. Oggi capita che un ministro si occupi di ammortizzatori sociali e un altro di crisi aziendali».
Che concezione dello Stato professerà la sua Italia Unica?

«Siamo per uno Stato che stia fuori dagli affari, più magro e più tonico, più leale e più digitale. Si occupi di regole, controllo e programmazione e non di gestione. Al Sud non si arriva senza le ferrovie... e allora facciamole, invece di sprecare i fondi strutturali in mille rivoli. Ma voglio uno Stato verificabile, che risponda ai cittadini e che riconosca la loro autonomia. Devono avere più libertà di scelta, ad esempio, se incassare anticipatamente il Tfr o no. E poi ci vuole rispetto delle capacità e del merito in tutto, dalla scuola alla sanità. Renzi invece anche nelle ultime nomine ha operato con il Cencelli e ha messo le donne solo in ruoli di rappresentanza privi di poteri esecutivi».

Il Berlusconi del ‘94 riuscì a unire sia le élite liberali sia quella che viene chiamata la pancia del Paese. Lei non teme che una parte dell’elettorato del centrodestra rigetti la leadership di un ex banchiere?
«Il carattere del mio progetto è popolare nell’accezione europea del termine con forte iniezione liberale. Siamo per l’economia di mercato combinata ad una grande sensibilità sociale. Non lasceremo alla sinistra la rappresentanza del ceto medio produttivo e del terzo settore e la sfideremo sulla lotta alla povertà. Proprio sul terzo settore Renzi ha presentato molte delle proposte che avevo annunciato in febbraio e mi fa piacere. Noi abbiamo anche le idee su come trovare i 5 miliardi che ci vorrebbero per rimettere in moto quel mondo».

Renzi sulla spending review però è andato più avanti del governo Monti in cui lei era presente.
«Il governo Monti non fece abbastanza, concordo. Ma non mi farei abbindolare dai tagli ad effetto del governo Renzi. Alle auto blu su eBay io rispondo con proposte molto più radicali: veri costi standard nella sanità, passaggio da 9 mila anagrafi ad una sola su cloud, eliminazione degli incentivi regionali a pioggia - parliamo di circa 15 miliardi - per liberare risorse vere per la crescita. Al ministero dello Sviluppo economico sono riuscito a farlo a livello centrale. Quello che mi indigna è il continuo rimando dei pagamenti dello scaduto della pubblica amministrazione. Subito 100 miliardi alle imprese seguendo l’esempio spagnolo. Si può! E le aziende lo possono pretendere. L’Italia ha bisogno di maggiore ambizione».

Ambizione in economia può essere una parola ambigua, può anche suonare come voglia di un ritorno alla spesa facile. Ma come reagirebbe l’Europa?
«Non chiedo nessuna deroga agli impegni europei. L’Italia ha bisogno di un forte piano di rilancio dell’economia e di riforme per creare lavoro. Penso che sia arrivata l’ora di muovere grandi risorse, almeno 400 miliardi tra investimenti privati e pubblici, credito e soldi in tasca alle famiglie e alle imprese. Di sicuro dobbiamo essere in grado di usare il semestre europeo a guida italiana per ridare un’anima all’Europa non solo di austerità, ma anche di sviluppo. Potremo rispettare il fiscal compact solo se avremo rimesso in moto la crescita. L’Unione Europea è stata una formidabile macchina di pace, ora deve diventare anche una potente macchina di sviluppo sostenibile».

Con Renzi a Palazzo Chigi in politica sono tornate centrali le politiche della comunicazione.
«Gli italiani hanno bisogno di una comunicazione trasparente e seria, sui problemi e le soluzioni. Basta con i soli slogan. Oggi c’è tanto spettacolo, ma debole visione complessiva e quasi nessuna implementazione dei provvedimenti. I leader ricercano un contatto diretto con i cittadini, un contatto populistico e spesso fanno solo dello show business. Spacciano annunci, disegni di legge, tweet vari per leggi bell’e fatte».

Si dice che Renzi non abbia attorno a sé una squadra sufficientemente forte. Lei ce l’ha?
«La squadra è decisiva, non credo all’uomo solo al comando. Un leader è tale solo se si circonda di altri leader. In parte la squadra di Italia Unica è pronta, e in parte la completeremo da giugno in avanti, con le forze che si uniranno a noi».

18 maggio 2014 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_18/passera-da-riempire-spazio-centrodestra-83cc710c-de55-11e3-a788-0214fd536450.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:34:56 pm »

La trasformazione ai tempi della crisi.
L’avanzata delle donne nell’economia, la riscossa dei distretti
Dalle esportazioni all’auto-impiego, così siamo riusciti a tenere
Nonostante le difficoltà generali, c’è una parte del tessuto imprenditoriale e sociale che sa farsi valere. Networking, welfare aziendale e riguardo per chi consuma

Di Dario Di Vico

In pochi nell’ormai lontano 2008, Anno primo della Grande Crisi, avrebbero scommesso sull’exploit (controvento) delle nostre esportazioni. Avremmo immaginato più facilmente che anche fuori dei confini patri avremmo pagato dazio e saremmo stati costretti al ripiegamento.

E invece non è stato così. E al di là del mero aspetto commerciale, il successo degli esportatori si presta ad essere catalogato come il paradigma della nostra capacità di resistenza e insieme di apertura, tanti moderni Marco Polo che hanno saputo aggredire mercati del tutto nuovi (Cina, India, ecc.) senza poter utilizzare i binari rappresentati dalla grande distribuzione francese o tedesca presente a quattro angoli del mondo. Gli esportatori sono stati capaci di vendere all’estero

Sono 70 mila le imprese che esportano saltuariamente, ed è proprio a loro che guardiamo per consolidare il trend.

Immagine/sostanza dell’Italia e le grandi imprese si sono portate dietro in Cina o altrove i loro fornitori del territorio, proprio perché non avrebbero mai trovato fuori d’Italia quella stessa qualità e quello stesso partenariato. Sono 20 mila le aziende italiane che esportano con grande continuità ma ce ne sono almeno 70 mila che lo fanno saltuariamente ed è proprio a loro che guardiamo per consolidare il trend. E rendere ancora più stabili le nostre esportazioni.

Distretti resistenti
Vicenza, azienda del settore della concia
Anche i distretti italiani, le zone ad industrializzazione diffusa che costituiscono uno dei tratti peculiari della nostra economia, erano stati dati per morti dai frettolosi oroscopi di tanti guru. Fortunatamente non è andata così. È vero che qualche distretto non ha saputo reagire all’avvento di produzioni low cost cinesi, ma la stragrande maggioranza sì. Arzignano in provincia di Vicenza (concia), Sassuolo nel Modenese (piastrelle), gli straordinari vini veronesi e via di questo passo, non solo hanno retto ma, con formule diverse da caso a caso, hanno saputo mettere in campo strategie innovative. Nella situazione «A» hanno migliorato la qualità delle loro produzioni, nella «B» hanno sviluppato nuovi rapporti con le multinazionali, nei casi «C» sono stati capaci di ristrutturare i tempi della produzione e della logistica.

Capacità di fare rete
La resistenza italiana alla crisi è stata possibile grazie agli imprenditori, ma anche al nuovo apporto che le donne hanno dato e stanno dando all’economia. L’attenzione odierna è molto centrata sulle donne ministro o sulle nuove presidenti delle aziende pubbliche, ma se l’analisi si sposta dalle posizioni apicali all’intera economia reale il contributo rosa è molto più evidente. Si comincia dall’afflusso ad alcune facoltà universitarie strategiche come ingegneria e si prosegue nelle professioni del terziario più innovativo, si passa poi all’imprenditoria artigiana e a tutte le nuove forme di economia digitale (dai coworking alla sharing economy). Il vantaggio competitivo di cui godono in questa fase storica le donne è dato dalla maggiore motivazione (l’«effetto elastico» di cui hanno parlato spesso i sociologi) e dalla maggiore capacità di fare rete.

Welfare aziendale
In epoca di rientro dal debito le politiche sociali hanno pagato un prezzo, in tutta Europa le tutele sociali sono state rimesse in discussione ma in contemporanea da noi è partito il movimento del Secondo welfare, ovvero di tutte quelle esperienze di welfare non statale che hanno preso forma e sostanza in questi anni anche grazie alla contrattazione nei luoghi di lavoro. Il welfare aziendale inizialmente è partito da alcune esperienze pilota e poi si è allargato a macchia d’olio in moltissime imprese, dalle grandi alle medie. Di recente a Prato si è sviluppata anche una
Il welfare aziendale inizialmente è partito da alcune esperienze pilota e poi si è allargato a macchia d’olio in moltissime imprese, dalle grandi alle medie.

Sperimentazione di welfare di territorio. Persino i contratti nazionali di lavoro impostati dalle centrali confederali — che inizialmente erano sospettose verso il welfare aziendale bollato come paternalistico — hanno recepito questa impostazione e così si è passati dal carrello della spesa alla copertura delle prestazioni mediche specialistiche e ora al pagamento delle spese di education per i figli dei lavoratori. Il movimento del Secondo welfare si è potuto allargare grazie alla grande abnegazione delle organizzazioni del terzo settore, che in molti casi hanno sviluppato competenze di prim’ordine ed elaborato ottime pratiche di efficienza.

Eataly e il consumatore
Tra i fenomeni che si sono sviluppati in questi anni, sempre controvento, vale la pena anche segnalare Eataly. Non stiamo parlando dell’esperienza aziendale di un singolo imprenditore già ampiamente celebrata ma di una discontinuità culturale. L’industria italiana ha storicamente puntato al prodotto, ma sottovalutando la distribuzione e quello che nel gergo del business si chiama il retail. Nell’economia del dopo-crisi vincerà chi sarà più capace di coltivare il rapporto con i consumatori. Se non si dialoga a valle poi a monte non arrivano gli input giusti e si cammina alla cieca. Oscar Farinetti con Eataly ci ha richiamati proprio a una maggiore considerazione del consumatore, cosa che avevamo dimenticato visto che saremmo dovuti essere noi a lanciare un progetto globale come Ikea e invece ci siamo fatti fregare dagli svedesi.

Inventarsi, verso il dopo-crisi
L’auto-impiego è un altro fenomeno che mostra la capacità di risposta della nostra società. Un giovane su quattro oggi il lavoro se lo inventa e del resto continuano ad aprirsi in Italia circa 50 mila partite Iva al mese. Il commercio è la prima scelta di chi si auto-impiega ma anche nei servizi la spinta a creare nuove attività è costante. Il dopo-crisi comincia anche da questi esempi o non solo dall’inversione del ciclo macro-economico.

Raccontaci la tua ricetta per far ripartire l’Italia: scrivi a ItaliaVoltapagina

14 maggio 2014 | 13:24
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Da - http://italiavoltapagina.corriere.it/14_maggio_13/dalle-esportazioni-all-auto-impiego-cosi-siamo-riusciti-tenere-f884c536-dac1-11e3-87dc-12e8f7025c68.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Maggio 24, 2014, 06:13:04 pm »

Apertura dei Negozi nei Giorni festivi (così rispunta la Concertazione)

Di Dario Di Vico

Tutti a parole si proclamano a favore della semplificazione delle procedure ma nei fatti distribuiscono poteri e competenze in maniera che il pallino resti in capo alle amministrazioni e alla burocrazia. È quanto sta avvenendo in materia di orari di apertura degli esercizi commerciali nei giorni festivi.

Il governo Renzi oscilla perché se da una parte dichiara di voler ridurre l’intermediazione dei corpi intermedi e delle Camere di Commercio in nome di relazioni sociali «piatte» e senza rendite di posizione, dall’altra rafforza il potere discrezionale dei sindaci laddove invece la legislazione vigente dà indicazioni di carattere nazionale ed evita negoziazioni/intese di carattere locale. Insomma mentre la concertazione non va bene per le relazioni industriali (tranne poi esaltare il modello Electrolux!) ridiventa uno schema valido per intermediare il rapporto tra sindaci e commercio.

Il casus belli è rappresentato dalle norme che sono in discussione alla commissione Attività Produttive di Montecitorio e che puntano a riscrivere la legge salva Italia accogliendo le proteste della Confesercenti, della Conferenza Episcopale e di comitati di base nati ad hoc. Il testo - a forte impronta Pd - impone 12 giorni di chiusura obbligatoria (dall’Epifania a Santo Stefano passando per il 25 aprile, il 2 giugno, Ferragosto, Ognissanti e l’Immacolata Concezione). Ciascun Comune però può sostituire fino a un massimo di 6 di queste giornate con altre chiusure ma per farlo deve predisporre appositi accordi territoriali con organizzazioni dei consumatori, imprese del commercio e sindacati confederali. Successivamente è prevista una consultazione telematica dei residenti che dura 30 giorni. Il sindaco a questo punto predispone un documento informativo. Nell’ambito però degli accordi territoriali viene prescritto un coordinamento dei comuni limitrofi, in mancanza del quale viene chiamata a intervenire la Regione. Quest’ultima, secondo le norme in discussione alla Camera, istituirà poi un osservatorio in cui sono rappresentati un po’ tutti i soggetti già nominati.

E la liberalizzazione? Parce sepulto.

24 maggio 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_24/apertura-negozi-giorni-festivi-cosi-rispunta-concertazione-de526dd8-e306-11e3-a0b2-0f0bd7a1f5dc.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Maggio 30, 2014, 07:38:04 pm »

Editoriale
Il primato della politica

di DARIO DI VICO

La politica ha recuperato il suo primato. L’assemblea confindustriale di ieri ne è stata una prova evidente. Il presidente Giorgio Squinzi non solo ha riconosciuto la forza del mandato popolare affidato a Matteo Renzi ma ha aggiunto che ciò «testimonia la voglia di cambiamento che c’è nel Paese». A dirlo è la stessa Confindustria che aveva contribuito, con qualche sbalzo d’umore, ad azzerare il capitale di reputazione del governo Monti e a mettere a nudo la fragilità dell’esecutivo Letta.

Ora la più potente delle forze organizzate riconosce alla politica di essersi mossa meglio e con maggior velocità e soprattutto di aver infranto il tabù secondo il quale la coesione sociale si ottiene coltivando all’infinito veti e liturgie. È chiaro che i rapporti di forza sono cambiati. Renzi non aspira a essere un pedagogo, è un uomo politico abile nella comunicazione e capace di rivolgersi direttamente al Paese saltando gli intermediari. Il premier ieri non ha partecipato all’assemblea confindustriale «romana» ma ha fatto sapere che andrà a quelle di Vicenza-Verona e Treviso. Il messaggio è inequivocabile: non solo azzero la concertazione, vado anche nei territori a confrontarmi con i vostri iscritti. Non è una dichiarazione di guerra - come per la Cgil - ; si tratta però di un’iniziativa che serve a ribadire il primato della politica (che sarà chiamata, però, a rendere conto delle promesse fatte).

Per dirla tutta, la novità non è solo figlia della spavalderia del premier, è anche il risultato di una lunga serie di ritardi che le forze sociali hanno accumulato. I riti hanno ingessato le soluzioni e la concertazione ha perso contatto con il mutamento sociale. Basterebbe compilare una mappa dei conflitti di oggi (anziani-giovani, uomini-donne, lavoro garantito-outsider) per rendersi conto di come le tensioni della società non vengano più canalizzate dai corpi intermedi ma abbiano trovato altri momenti di espressione come la Rete, le associazioni femminili e dei free lance. Con ciò stiamo dicendo che le forze sociali debbano farsi da parte e promettere di non disturbare il manovratore? Tutt’altro.

La dialettica politica-società è un bene prezioso, solo che per farla vivere i protagonisti sono chiamati a un sovrappiù di elaborazione e di coerenza. Il lobbismo spicciolo alternato agli ultimatum non è una ricetta all’altezza dei tempi. Non sarebbe male, invece, che si recuperasse un’analisi più ricca di ciò che è successo in sei anni di Grande Crisi: la polarizzazione tra imprese esportatrici e non, la ristrutturazione ininterrotta dell’industria, lo stato di salute delle filiere dove sono presenti esperienze di eccellenza (la fornitura) ed elementi di degrado (la logistica), la contaminazione tra manifattura e servizio. Si contribuisce alla rigenerazione di una classe dirigente con una maggiore conoscenza del mutamento e con una robusta iniezione di coscienza civile. È giusto, ad esempio, chiedere alla politica di tagliare la burocrazia, bisogna però essere conseguenti e porre mano alla semplificazione e alla trasparenza dei corpi intermedi. La Confindustria ha deciso - dopo lunga gestazione - di procedere alla riforma Pesenti. Non sarebbe male che lo stesso percorso venisse seguito dalle altre organizzazioni imprenditoriali e dai sindacati.

30 maggio 2014 | 08:23
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_30/primato-politica-e0baecc0-e7bc-11e3-bc61-842949f24f5a.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:10:34 pm »

Riforme e crescita
Il fardello che il Nord non può sopportare

Di Dario Di Vico

Alla fine quello che si presenta a Nord è un inedito duopolio politico, sono infatti Pd e Lega Nord a occupare tutte le poltrone politiche che contano. Il partito di Matteo Renzi ha quattro governatori (Chiamparino, Burlando, Errani e Serracchiani) e una sfilza di sindaci che vanno da Torino (Fassino) a Trieste (Cosolini) passando per Bergamo, Brescia, Novara, Vicenza, Trento e tutta l’Emilia Romagna con la sola eccezione di Parma. Il partito di Matteo Salvini vanta un numero più ridotto di posizioni chiave, ma ha comunque i governatori di Lombardia e Veneto (Maroni e Zaia) e quantomeno i sindaci di Verona e Padova.

E proprio la conquista da parte di Massimo Bitonci della città del Santo rappresenta l’unica battaglia di qualche rilievo persa dal Pd al Nord nei ballottaggi di domenica scorsa dopo un’avanzata generalizzata che l’aveva portato ad essere il primo partito in tutte le regioni settentrionali. A dar retta alle cronache di questi giorni l’effetto duopolio potrà determinare nell’immediato due conseguenze, la prima è un allineamento nella composizione dei gruppi dirigenti locali alla segreteria Renzi laddove finora c’era stata minore «disciplina». La seconda riguarda l’ambizione della Lega targata Salvini di fungere da driver di una rinascita dell’intero fronte di centrodestra che sconta invece il totale azzeramento di Forza Italia alla testa di regioni o Comuni settentrionali di prima fascia. La polarizzazione attorno ai due Mattei ha, dunque, buone probabilità di diventare il leit motiv della stagione politica che si apre.

Finora però questa competizione non ha avuto al centro i temi dello sviluppo del Nord e sarebbe negativo se si restasse in questo solco. La Lega è risalita nei consensi grazie alla parola d’ordine del «no euro» e a Padova ha vinto puntando soprattutto sui temi della sicurezza in città. Il Pd ha sfondato grazie all’immagine vincente del premier senza dover veramente affrontare i nodi della questione settentrionale e di conseguenza elaborare nuovi schemi di iniziativa politica. La maggior parte dei sindaci democrat che hanno superato la prova si sono affermati rimanendo strettamente nell’ambito delle tematiche municipali e l’unico «promosso» che si è in qualche modo misurato con i temi dello sviluppo è stato Sergio Chiamparino in virtù del fatto che puntava a uno scranno da governatore. Ma non c’è una sola parola d’ordine che sia rimasta impressa nella testa degli elettori e che possa contribuire dal basso a una formulazione nordista dell’agenda governativa delle riforme. Il peso, poi, che le vicende della corruzione negli appalti Expo e del Mose hanno avuto negli ultimi giorni ha in qualche modo conferito all’esito del voto un contenuto immobilista. Chi tocca i fili (delle grandi opere) muore e quindi niente più fili. È difficile, quindi, che nel breve qualcuno si azzardi a proporre di completare l’alta velocità tra Milano e Venezia oppure a chiedere di mettere in campo ipotesi di project financing. È probabile che sindaci e amministratori di Pd e Lega finiscano per tenere un atteggiamento conservativo. Quieta non movere.

Purtroppo però le dinamiche dell’economia non si uniformano ai tempi di una politica che sappia tornare ad essere coraggiosa e, nel contempo, onesta. Non aspettano. Basta pensare al futuro del sistema degli aeroporti del Nord con la grande novità rappresentata dall’accordo tra Alitalia e Etihad e la trasformazione di Malpensa in uno scalo dedito in primo luogo al cargo. Oppure all’integrazione tra gli aeroporti veneti. E potremmo parlare anche di fiere, università e accorpamento delle municipalizzate.
Se un vantaggio, e grande, la forte mobilità degli elettorati reca con sé dovrebbe essere proprio quello di scegliere liberamente di volta in volta in base alle differenti opzioni avanzate. Ma se a mancare fossero proprio loro i cittadini finirebbero per decidere — come è avvenuto in questa tornata in diversi casi — solo affidandosi all’empatia.

11 giugno 2014 | 16:48
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_11/fardello-che-nord-non-puo-sopportare-fdde1610-f135-11e3-affc-25db802dc057.shtml
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