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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120517 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Giugno 03, 2013, 04:47:46 pm »

I conflitti dietro le quinte

«Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni». Con questa frase, che suona come autocritica per un'intera classe dirigente, il Governatore Ignazio Visco ha suggellato le sue seconde Considerazioni finali. Che pur rifuggendo da toni esageratamente accusatori dipingono un quadro tutt'altro che rassicurante della situazione in cui versa il Paese. Non abbiamo saputo fare i conti né con la modernità né con la globalizzazione e per questo motivo siamo la landa d'Europa che cresce di meno e ha consentito che al suo interno si allargassero gli squilibri occupazionali e generazionali.

È vero che, rispetto a un anno fa, almeno due fattori sono cambiati in meglio: non appare immediato il rischio di un'implosione dell'euro; grazie alla Bce è stata superata la crisi di liquidità che rischiava di strangolare il sistema bancario. Ma il bilancio positivo si ferma qui. «A questi progressi non ha ancora corrisposto un miglioramento dell'economia reale» ha sottolineato amaramente il Governatore. Che pure senza intervenire direttamente nel dibattito sulle conseguenze dell'austerità ha voluto sottolineare come l'impatto negativo del rigore sulla crescita sia stimabile in un solo punto di Pil. Le riduzioni di imposte, per Visco, non possono che essere selettive e devono privilegiare senza alcun dubbio il cuneo fiscale.

La politica ha indubbiamente le sue responsabilità per il tempo perduto ma il Governatore non ha avuto remore a indicare quelle che giudica le colpe degli industriali. Troppo poche sono state le imprese che hanno accettato fino in fondo la sfida dell'innovazione, investendo risorse proprie, adeguando la struttura e i modelli organizzativi, puntando sulla discontinuità. La crisi naturalmente ha accentuato il divario tra globali e conservatori e reso stridente l'inadeguatezza di una parte del sistema produttivo. Secondo Visco ci sarebbe stato bisogno anche di un parallelo e profondo cambiamento dei rapporti di lavoro e del sistema dell'istruzione e invece, mentre molte occupazioni stanno scomparendo, avanza la ricetta di rimpiazzare i più anziani nel loro (obsoleto) posto di lavoro.

Non c'è dubbio che in questa analisi il Governatore abbia mostrato coraggio - e attirandosi i rilievi di Renato Brunetta - perché ha palesato il conflitto sotterraneo che divide banca e impresa e che sta alla radice dei rimbalzi di accuse sulla stretta creditizia e sulle sofferenze. Proprio mentre si sente la necessità di maggiore fiducia e stabilità nel rapporto tra imprenditori e banchieri cresce invece l'incomprensione. I dati sulla carenza di credito e le sofferenze, da elemento statistico vanno a comporre un muro psicologico.

L'assemblea della Banca d'Italia ha avuto il pregio di far uscire da dietro le quinte anche un secondo conflitto: quello che divide l'autorità di regolazione dai regolati. Le banche chiedono la possibilità di dedurre in un solo anno le nuove svalutazioni sui crediti e vorrebbero quantomeno la rivalutazione delle partecipazioni che detengono nel capitale di Via Nazionale. Il Governatore non può rispondere positivamente a entrambe le richieste e almeno ieri ha preferito spostare il confronto sulle condizioni di accesso al credito.

Visco ha assolto gli istituti di credito italiani dall'accusa di aver impiegato la liquidità fornita dalla Bce solo per investire in titoli di Stato ma ha fatto sua, persino al rialzo, la stima del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, che aveva quantificato in 50 miliardi la flessione di credito avvenuta a partire dal dicembre 2011. Il governatore ha aggiunto che il calo di credito, dopo un ritmo più contenuto, nei primi quattro mesi del 2013 si è di nuovo accentuato e i tassi bancari attivi per i prestiti alle imprese sono di un punto superiori a quelli medi dell'area dell'euro.

È un'analisi che le banche non sembrano condividere e ieri se ne è avuta la prova con l'intervento, tutt'altro che rituale, del presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, che parlava nella sua veste di principale azionista e ha esposto un vero cahier de doléances . «La performance del sistema bancario appare sempre più condizionata dalla difficoltà di fare buon credito» ha detto indicando nel 60% in meno di reddito operativo l'impatto delle sofferenze sul conto economico. E individuando due cause principali: la lentezza delle procedure di recupero e il tempo eccessivo di permanenza nei bilanci dei crediti incagliati. Lo sforzo fatto dalle banche per adeguarsi alle regole di Basilea «non può essere ritenuto responsabile della contrazione nell'offerta di credito» ha aggiunto Gros-Pietro e a dimostrazione della sua tesi ha fornito il dato dei prestiti che continuano a superare la raccolta dai clienti di oltre 150 miliardi di euro. Urgono, dunque, canali alternativi di finanziamento delle imprese e una ripresa degli strumenti di credito a lungo termine. Prima che parlasse Gros-Pietro anche chi è a conoscenza delle divergenze tra Via Nazionale e mondo bancario non si sarebbe aspettato una loro esplicitazione così netta. Ma è bene che sia andata così. Meglio un dibattito franco e costruttivo che la cattiva abitudine di lodare per conformismo le Considerazioni finali e dimenticare tutto con i primi caldi di giugno.

Dario Di Vico

@dariodivico

1 giugno 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_01/di-vico-conflitti-dietro-le-quinte_9d6cc7b2-ca77-11e2-ac00-d808e70c9e2d.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:27:51 pm »

La caduta

Se il Carroccio non ascolta più il territorio

La forza dell'origine è venuta meno tra le battaglie per la moneta lombarda e l'oggetto misterioso «macroregione»


Il risultato di questo turno delle amministrative è che la Lega, almeno sul piano dei numeri e delle cariche istituzionali, non dovrebbe avere più il monopolio del discorso pubblico sul Nord. È vero che sono del Carroccio i governatori di tre grandi regioni (Piemonte, Lombardia e Veneto) ma la quantità dei sindaci appartenenti al Pd o al centrosinistra è straripante. Torino, Genova, Brescia, Milano, Venezia, Treviso, Vicenza, Padova, Piacenza e via di questo passo. La differenza è caso mai che la Lega, pur in grave difficoltà, continua a imbastire una riflessione sulla questione settentrionale mentre i sindaci del Pd, finora, si sono mossi in ordine sparso.

C'era stato un timido tentativo tra Piero Fassino, Giuliano Pisapia e Virginio Merola di costruire una piattaforma comune ma poi non se n'è fatto niente. A parziale alibi si può sostenere che i sindaci sono così drammaticamente alle prese con i propri bilanci che non riescono a guardare oltre il proprio naso. Intanto comunque il centrosinistra incassa vittorie su vittorie perché riesce tutto sommato a mettere in campo personaggi credibili e stimati dalle comunità locali, laddove la Lega ha fatto autogoal intestardendosi su Giancarlo Gentilini o il sindaco di Brescia Adriano Paroli che non si è meritato la riconferma. Senza voler riprendere i vecchi discorsi di Massimo Cacciari sulla sinistra del Nord è evidente che per far fruttare politicamente le vittorie nei municipi il Pd sarà giocoforza indotto a inserire tra i temi congressuali la questione settentrionale.

L'occasione del resto è unica per due ordini di motivi. Intanto l'imbarazzante debolezza del Pdl sul territorio al punto da non riuscire a costruire organizzazione e produrre leader locali. È tornato a essere un partito prevalentemente televisivo, come in qualche maniera ha ammesso di recente la spin doctor del Cavaliere, Alessandra Ghisleri. Anche gli ex ministri contano poco in chiave locale. Il secondo motivo che in teoria dovrebbe favorire il Pd sta nei contrasti che si apriranno nel Carroccio dopo lo storico flop di Treviso.

La realtà che la Lega 2.0 di Roberto Maroni non riesce né a rassicurare del tutto la pancia del suo elettorato né a indirizzare il Carroccio verso settori più moderati dell'elettorato. Del resto quella che era stata la sua forza, ovvero l'ascolto del territorio, è venuta meno in maniera preoccupante. I leghisti sanno poco o niente della contrattazione sindacale nelle fabbriche del Nord, sono afasici rispetto ai problemi legati alla razionalizzazione di aeroporti, porti, università e fiere del Nord. Fanno battaglie contro le aperture della grande distribuzione ma, come a Treviso, perdono anche il consenso dei piccoli commercianti. Un giorno inventano la moneta lombarda, l'altro un referendum consultivo sulla permanenza nell'euro, non sanno che pesci pigliare quando le Confindustrie del Veneto chiedono la Tav fino a Venezia e poi sono sempre alle prese con l'oggetto misterioso della «macroregione», slogan elettorale destinato a restare un ballon d'essai . Sul piano culturale poi è tornata in circolo la narrazione celtica con il circolo Terra insubre che ha portato a Varese come ospite d'onore Eva Klotz e le ha concesso - davanti all'ex ministro dell'Interno Maroni - di difendere le «gesta» del padre George e gli attentati in Alto Adige.

Anche sulla crisi dell'industria del Nord la Lega gira a intermittenza. Dopo il grossolano errore commesso definendo sprezzantemente il caso Ilva «una questione che riguardava il Sud» (senza sapere che Taranto rifornisce tutta la meccanica del Nord), ora si scalda soprattutto per le aziende che chiudono in provincia di Varese come la scandinava Husqvarna. Maroni, attento al proprio collegio elettorale, ha addirittura incontrato l'ambasciatore svedese ma risultati non se ne sono comunque visti. Non parliamo delle banche del Nord, l'unica idea che il gruppo dirigente della Lega ripete è di fare come con la Royal Bank of Scotland e nazionalizzarle, nessuno però viene dietro a una parola d'ordine così sconclusionata. Gli artigiani delle pedemontane non amano certo il credito ma sono convinti che se si venisse nazionalizzato le cose andrebbero sicuramente peggio.

twitter@dariodivico

Dario Di Vico

11 giugno 2013 | 9:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_11/carroccio-no-ascolto-territorio_0c23e796-d255-11e2-8fb9-9a7def6018a2.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 15, 2013, 11:17:12 am »

I «tavoli» al ministero dello Sviluppo non bastano più

Da Indesit a Menarini, le grandi in crisi

Ora arrivano i salvataggi di settore

Le alleanze nella siderurgia e le ipotesi di un polo degli elettrodomestici


Le notizie sull'apertura di crisi industriali si susseguono e nella pioggia è persino difficile scorgere le differenze. Sono negli ultimi giorni si è discusso di significative riduzioni di posti di lavoro alla Menarini (700 posti), al corriere espresso internazionale Tnt (850), alla Indesit (1.425 esuberi) e qualche segnale di annuvolamento arriva da Natuzzi. La sensazione è che stia aumentando la taglia media delle aziende che chiedono ricovero al ministero dello Sviluppo economico e di conseguenza aumentano le difficoltà per cercare di risolvere i singoli casi.

Fin quando si è trattato di aziende come la Omsa, gli stabilimenti tessili di Airola o la Miroglio di Ginosa la task force del ministero è riuscita a comportarsi da piccola banca d'affari. Cercava imprenditori disposti a rilevare le attività in chiusura rilevando gli impianti, salvando l'occupazione e magari cambiandone la missione produttiva. L'operazione in più di qualche caso è riuscita (attraendo imprese come la Adler e la QBell) ma quando si parla delle grandi aziende della siderurgia, dell'intero settore degli elettrodomestici o del farmaceutico o comunque di gruppi importanti come Marangoni o Acc di Mel è chiaro che la terapia non può più essere la stessa. Ci vorrebbero due cose: o un drastico intervento sul costo del lavoro o politiche industriali estremamente mirate.

Prendiamo il settore degli elettrodomestici. Hanno difficoltà un po' tutte le aziende che operano in Italia, dalla Whirlpool alla Electrolux fino alla Indesit che nei giorni scorsi ha annunciato un piano-shock in base al quale il 33% dei dipendenti del gruppo sono considerati in esubero. Negli anni '90 veniva prodotto in Italia il 45% del bianco venduto in Europa, oggi siamo rimasti schiacciati tra i marchi tedeschi di gamma alta (Miele, Bosch) e i nuovi paesi produttori come Polonia e Turchia. Durante il governo Monti l'associazione di categoria, il Ceced

Confindustria, aveva più volte minacciato di delocalizzare se il governo non fosse intervenuto. Ora però siamo già oltre il tempo regolamentare e nei giorni scorsi Maurizio Castro, ex parlamentare Pdl e soprattutto ex manager Electrolux, ha proposto di creare un polo nazionale del bianco a guida Indesit che «assorba i siti italiani di Whirlpool, Electrolux e dei produttori minori con relativa componentistica». Castro pensa che l'operazione dovrebbe essere coadiuvata dal Fondo Strategico Italiano e magari aprirsi a una partnership con i giapponesi della Nidec. «Abbiamo perso il treno dell'innovazione. Le prestazioni e la struttura dei frigoriferi degli anni 60 è identica a quella di oggi, l'unica novità tecnologica è stato il tritaghiaccio».

Nella siderurgia accanto al caso Ilva le situazioni di sofferenza sono numerose e riguardano Piombino, Trieste e Terni. Ma il rischio (successivo) deriva dalla crisi dell'edilizia che assorbe il 50% delle vendite italiane di acciaio e sta mettendo a nudo la sovracapacità produttiva dell'industria del tondino presente nel Nord Italia. Da tempo le famiglie della siderurgia hanno superato le vecchie questioni di patriottismo aziendale e discutono di ipotesi di razionalizzazione. Il guaio è che a chiudere e a generare nuovi esuberi di personale sarebbero impianti non relativamente obsoleti - come quelli di Piombino e Trieste - ma tra i più efficienti d'Europa. Si è perso del tempo e non sono state ancora individuate le forme del consolidamento, acquisizioni o fusioni o scambi azionari, ma il puzzle delle alleanze riguarda famiglie come Pittini, Pasini, Brunori, Lonati e Stabiumi, Stefana e Leali nel tondino. E ancora Stefana e Duferco nelle travi per l'edilizia.

Nel farmaceutico il caso che è esploso nei giorni scorsi è quello del gruppo Menarini che prima aveva parlato di mille esuberi e ora li ha quantificati in 700. Molti di loro non sono addetti alla produzione ma informatori tecnico-scientifici. Tutto il settore della farmaceutica italiana è comunque in subbuglio per gli effetti della spending review, per l'introduzione dei farmaci generici e per il blocco all'entrata di nuovi prodotti.

La tesi degli industriali è che i generici non hanno avvantaggiato il consumatore (il rimborso è comunque dato sul prezzo più basso) ma solo messo in difficoltà l'industria di marca. Per di più arrivano per la maggior parte da gruppi indiani o israeliani e hanno tolto all'industria italiana il 24% del mercato. Un segnale della difficoltà di produrre in Italia è venuto negli stessi giorni dalla Merck che ha comunicato la decisione di chiudere entro il 2014 lo stabilimento di Pavia dove si produce un antidiabetico. Infine il settore legno-arredo. A poche settimane dal risultato ottenuto, con l'estensione degli incentivi per le ristrutturazione edilizie anche all'acquisto di mobili, gli imprenditori si riuniranno oggi a Milano per ricalibrare le loro politiche commerciali e di prodotto. Secondo le ultime rilevazioni i ricavi del 2013 dovrebbero far segnare un poco rassicurante -10,5% gli incentivi però potrebbero addolcire il trend negativo. La domanda però diventa: si può sopravvivere di bonus in bonus?

Dario Di Vico

13 giugno 2013 | 12:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_giugno_13/industria-indesit-menarini-crisi-lavoro_ea6ae58e-d3e2-11e2-9edc-429eec6f64c6.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Giugno 19, 2013, 11:53:15 am »

Mercato e norme

Solo un euro per cominciare Ecco le aziende «leggere»

In piena crisi gli under 35 scommettono su se stessi.

I nodi: il credito e il fisco


È passato un numero sufficiente di mesi perché si possa avviare un primo bilancio dell'operazione «Srl a un euro». E i dati, bisogna dirlo, sono incoraggianti: dal settembre 2012, quando sotto il governo Monti sono stati emanati i regolamenti attuativi, fino al maggio 2013 sono state aperte 4.353 Srl (società a responsabilità limitata) a capitale ridotto e 8.620 semplificate. In totale circa 13 mila.

Di queste 13 mila nuove società una buona fetta, più del 15%, ha davvero il capitale di un solo euro. Vale la pena ricordare come le Srl a capitale ridotto possono partire con un versamento iniziale da 1 euro fino a 10 mila, non prevedano limiti di età e conservino i costi notarili tradizionali.
Le Srl semplificate sono invece indirizzate agli under 35 e esenti da costi notarili.

La provincia nella quale si registra la maggiore disponibilità ad aprire nuove società è Roma con 1.464 nuove aperture che corrispondono da sole al contributo dell'intera Lombardia. Il fenomeno si spiega secondo Paolo Gentiloni, deputato del Pd «con l'ampia popolazione universitaria e post-universitaria di Roma». La capitale è stata sempre «un piccolo regno di una micro-impresa a basso tasso di tecnologia sviluppatasi anche per mancanza di altri sbocchi lavorativi». Dopo Roma sono diverse le città meridionali che si segnalano per vivacità: Napoli, Bari, Palermo, Catania. Comunque buona è la performance delle città più economicamente robuste del Nord come Milano e Torino. Se dalla mappa geografica passiamo ad analizzare i settori vediamo che in testa alle opzioni dei neo-imprenditori c'è il commercio al dettaglio e all'ingrosso, seguito dall'edilizia e dalla ristorazione. Sommando le varie voci di questi tre settori si arriva a quasi al 60% delle nuove aperture. Ma c'è anche da segnalare circa un 11% di nuove Srl che si distribuisce tra produzione di software, consulenza informatica, attività di direzione aziendale e altri specializzazioni professionali.

Secondo Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere - che ha elaborato i dati - il bilancio è complessivamente positivo. Più dell'80% dei giovani under 35 che hanno varato negli ultimi dieci mesi società di capitali hanno scelto di utilizzare le nuove norme. «Aver ridotto le barriere all'ingresso sia in termini di capitale ridotto sia di complicazioni burocratiche ha favorito l'auto-impiego e la valorizzazione delle capacità personali e spiega anche i dati del Meridione». Ovviamente bisognerà vedere nel tempo se il basso capitale iniziale potrà creare problema di ridotta tutela dei creditori. «Ma i primi dati ci segnalano che su circa 13 mila nuove Srl quelle che hanno dovuto già chiudere sono solo 20».

Corrado Passera è stato il ministro che ha seguito passo dopo passo l'emanazione delle nuove norme e oggi pensa che il successo dell'operazione permetta di progettare avanzamenti successivi. «Dopo costi e procedure semplificate bisogna intervenire sul fisco, i contratti, le procedure amministrative. E allargare le norme straordinarie varate per le start up a una platea di imprese più ampia». Persino i notai che in linea di principio dovrebbero sentirsi colpiti dal taglio delle procedure brindano ai primi successi dell'operazione Srl a un euro. «È chiaro che sarà il mercato a decretare il vero successo di queste iniziative - sostiene il vicepresidente del consiglio nazionale del Notariato, Gabriele Noto - ma dai dati emerge che i giovani credono in questo strumento e cercano di valorizzare le loro idee. Per questo non solo abbiamo collaborato ma abbiamo costruito un portale ad hoc per i giovani neo-imprenditori, l'arancia.org, che ha suscitato molta attenzione».

Più scettica è Anna Soru, presidente di Acta, l'associazione del terziario avanzato che si batte per il riconoscimento dei diritti delle partite Iva. «Aspetterei a dar fiato alle trombe, non so se il provvedimento si sia dimostrato effettivamente efficace. Sono diminuite le ditte individuali e le società di persone ed è possibile quindi che si sia verificato solamente uno spostamento verso le Srl a un euro». Poi va verificato se «le imprese più strutturate abbiano in qualche modo favorito la nascita di Srl a un euro, da parte dei loro fornitori, per evitare di incorrere nella legge Fornero».

Ma una volta costituita la Srl "leggera" quali sono i passi successivi di un neo-imprenditore? Ad esempio, che tipo di rapporto si instaura con le banche con un capitale di partenza così ridotto? «È troppo presto per dirlo, non ci sono riscontri. Sapremo qualcosa di più quando vedremo il loro primo bilancio aziendale» risponde Gagliardi. Mentre Passera da ex banchiere sostiene che «sarebbe sbagliato pensare che il credito commerciale sia l'interlocutore ideale di società che non possono produrre garanzie o presentare una loro storia». Ci può essere l'eccezione rappresentata da un banchiere particolarmente coraggioso, ma non sarà la regola. «La mia idea è che la nuova imprenditorialità possa essere coadiuvata facendo ricorso alle varie forme di venture capital o magari prevedendo particolari strumenti che facciano capo al Fondo Strategico Italiano».

Dario Di Vico
dariodivico

15 giugno 2013 | 13:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_giugno_15/srl-uneuro-imprese-giovani_1a65ba46-d575-11e2-becd-8fd8278f5bec.shtml?fr=box_primopiano
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« Risposta #124 inserito:: Giugno 28, 2013, 06:31:06 pm »

I «tavoli» al ministero dello Sviluppo non bastano più

Da Indesit a Menarini, le grandi in crisi

Ora arrivano i salvataggi di settore

Le alleanze nella siderurgia e le ipotesi di un polo degli elettrodomestici


Le notizie sull'apertura di crisi industriali si susseguono e nella pioggia è persino difficile scorgere le differenze. Sono negli ultimi giorni si è discusso di significative riduzioni di posti di lavoro alla Menarini (700 posti), al corriere espresso internazionale Tnt (850), alla Indesit (1.425 esuberi) e qualche segnale di annuvolamento arriva da Natuzzi. La sensazione è che stia aumentando la taglia media delle aziende che chiedono ricovero al ministero dello Sviluppo economico e di conseguenza aumentano le difficoltà per cercare di risolvere i singoli casi.

Fin quando si è trattato di aziende come la Omsa, gli stabilimenti tessili di Airola o la Miroglio di Ginosa la task force del ministero è riuscita a comportarsi da piccola banca d'affari. Cercava imprenditori disposti a rilevare le attività in chiusura rilevando gli impianti, salvando l'occupazione e magari cambiandone la missione produttiva. L'operazione in più di qualche caso è riuscita (attraendo imprese come la Adler e la QBell) ma quando si parla delle grandi aziende della siderurgia, dell'intero settore degli elettrodomestici o del farmaceutico o comunque di gruppi importanti come Marangoni o Acc di Mel è chiaro che la terapia non può più essere la stessa. Ci vorrebbero due cose: o un drastico intervento sul costo del lavoro o politiche industriali estremamente mirate.

Prendiamo il settore degli elettrodomestici. Hanno difficoltà un po' tutte le aziende che operano in Italia, dalla Whirlpool alla Electrolux fino alla Indesit che nei giorni scorsi ha annunciato un piano-shock in base al quale il 33% dei dipendenti del gruppo sono considerati in esubero. Negli anni '90 veniva prodotto in Italia il 45% del bianco venduto in Europa, oggi siamo rimasti schiacciati tra i marchi tedeschi di gamma alta (Miele, Bosch) e i nuovi paesi produttori come Polonia e Turchia. Durante il governo Monti l'associazione di categoria, il Ceced

Confindustria, aveva più volte minacciato di delocalizzare se il governo non fosse intervenuto. Ora però siamo già oltre il tempo regolamentare e nei giorni scorsi Maurizio Castro, ex parlamentare Pdl e soprattutto ex manager Electrolux, ha proposto di creare un polo nazionale del bianco a guida Indesit che «assorba i siti italiani di Whirlpool, Electrolux e dei produttori minori con relativa componentistica». Castro pensa che l'operazione dovrebbe essere coadiuvata dal Fondo Strategico Italiano e magari aprirsi a una partnership con i giapponesi della Nidec. «Abbiamo perso il treno dell'innovazione. Le prestazioni e la struttura dei frigoriferi degli anni 60 è identica a quella di oggi, l'unica novità tecnologica è stato il tritaghiaccio».

Nella siderurgia accanto al caso Ilva le situazioni di sofferenza sono numerose e riguardano Piombino, Trieste e Terni. Ma il rischio (successivo) deriva dalla crisi dell'edilizia che assorbe il 50% delle vendite italiane di acciaio e sta mettendo a nudo la sovracapacità produttiva dell'industria del tondino presente nel Nord Italia. Da tempo le famiglie della siderurgia hanno superato le vecchie questioni di patriottismo aziendale e discutono di ipotesi di razionalizzazione. Il guaio è che a chiudere e a generare nuovi esuberi di personale sarebbero impianti non relativamente obsoleti - come quelli di Piombino e Trieste - ma tra i più efficienti d'Europa. Si è perso del tempo e non sono state ancora individuate le forme del consolidamento, acquisizioni o fusioni o scambi azionari, ma il puzzle delle alleanze riguarda famiglie come Pittini, Pasini, Brunori, Lonati e Stabiumi, Stefana e Leali nel tondino. E ancora Stefana e Duferco nelle travi per l'edilizia.

Nel farmaceutico il caso che è esploso nei giorni scorsi è quello del gruppo Menarini che prima aveva parlato di mille esuberi e ora li ha quantificati in 700. Molti di loro non sono addetti alla produzione ma informatori tecnico-scientifici. Tutto il settore della farmaceutica italiana è comunque in subbuglio per gli effetti della spending review, per l'introduzione dei farmaci generici e per il blocco all'entrata di nuovi prodotti.

La tesi degli industriali è che i generici non hanno avvantaggiato il consumatore (il rimborso è comunque dato sul prezzo più basso) ma solo messo in difficoltà l'industria di marca. Per di più arrivano per la maggior parte da gruppi indiani o israeliani e hanno tolto all'industria italiana il 24% del mercato. Un segnale della difficoltà di produrre in Italia è venuto negli stessi giorni dalla Merck che ha comunicato la decisione di chiudere entro il 2014 lo stabilimento di Pavia dove si produce un antidiabetico. Infine il settore legno-arredo. A poche settimane dal risultato ottenuto, con l'estensione degli incentivi per le ristrutturazione edilizie anche all'acquisto di mobili, gli imprenditori si riuniranno oggi a Milano per ricalibrare le loro politiche commerciali e di prodotto. Secondo le ultime rilevazioni i ricavi del 2013 dovrebbero far segnare un poco rassicurante -10,5% gli incentivi però potrebbero addolcire il trend negativo. La domanda però diventa: si può sopravvivere di bonus in bonus?

Dario Di Vico

13 giugno 2013 | 12:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_giugno_13/industria-indesit-menarini-crisi-lavoro_ea6ae58e-d3e2-11e2-9edc-429eec6f64c6.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Luglio 10, 2013, 11:47:17 am »

DOPO L'ACQUISIZIONE DI LORO PIANA

Ma se Arnault fosse nato qui


Archiviato il blitz Loro Piana con tutto il suo carico di sorpresa e di rimpianto, la domanda più interessante che faremmo bene a porci suona così: come si sarebbe comportato il sistema bancario italiano con un imprenditore edile, tipo Bernard Arnault, che avesse mostrato di aspirare a costruire un gruppo internazionale del lusso? La risposta non può che essere sconsolata. Non sarebbe andata come in Francia e il motivo purtroppo è semplice.
Per condizionamenti, che per amor di patria definiamo ambientali, le banche italiane sono portate più a disegnare operazioni di sistema che a selezionare un numero sufficiente di imprenditori capaci e visionari. Quali siano state nel recente passato queste operazioni di sistema è fin troppo facile rammentarlo. Le banche italiane hanno sostenuto finanzieri-immobiliaristi incauti come Romain Zaleski oppure si sono dedicate al montaggio di cordate per l'Alitalia.

In tutte queste vicende a formare il «merito di credito» ha contribuito il nome del cliente o il dividendo politico dell'operazione stessa, piuttosto che l'individuazione di un imprenditore di talento, la verifica delle intuizioni di business, l'accompagnamento delle sue mosse in una logica di cooperazione e consulenza. Al sistema delle medie aziende italiane finora è mancata proprio la possibilità di giocare il jolly, di far pesare nella competizione un'interlocuzione costante con il mondo del credito finalizzata ad aggregare i marchi italiani e a proiettarli nell'economia globale.

Eppure se oggi l'economia italiana non è azzerata e l'industria cancellata lo si deve proprio alle medie aziende esportatrici, le multinazionali tascabili, che trascinandosi dietro l'indotto hanno saputo reagire alla discontinuità dei mercati generata dalla crisi, sono riuscite a sostituire come clienti le classi medie dei Paesi emergenti al consumatore Usa armato di credit card. Sono state capaci di farlo in tempi stretti e spesso muovendosi senza un aiuto tangibile delle ambasciate, degli enti di promozione e del sistema bancario. Questa crescita è il frutto di una silenziosa e continua opera di insediamento sui mercati, dell'individuazione delle strategie di distribuzione più consone, di una continua verifica/innovazione dei prodotti per conservare il posizionamento nobile del made in Italy . Si tratta però di una crescita condannata a concretizzarsi solo per linee interne e non a colpi di acquisizioni. Il motivo è evidente: ai nostri mancano le munizioni e non si fidano di andarle a rastrellare in Borsa.

Stando così le cose è logico che finiamo per subire il paradosso del cachemire, siamo capaci di invadere i mercati più lontani con la qualità dei nostri prodotti e la compattezza delle nostre filiere, nel frattempo però rischiamo costantemente di prendere gol in campo amico. Di vedere passare di mano le aziende più prestigiose. Solo per rammentare le più eclatanti, è successo con Bulgari, poi con Parmalat e 48 ore fa con Loro Piana. I gruppi italiani non avrebbero potuto comunque intervenire e quando lo si è tentato, disegnando in fretta e furia ipotetiche cordate alternative o addirittura approvando modifiche legislative ad hoc, ci siamo coperti di ridicolo. Quando saremo capaci di riunificare industria e finanza sarà sempre troppo tardi, ma non sarà un brutto giorno.

Dario Di Vico

10 luglio 2013 | 8:31
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_10/ma-se-arnault-fosse-nato-qui-dario-di-vico_44051834-e91a-11e2-a2a0-aaafeae20fe9.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:31:35 pm »

RUOLO E CONTRADDIZIONI DI CL

Domande aperte di un meeting


Si apre oggi a Rimini il Meeting di Comunione e liberazione e, come sempre, sarà ampia e qualificata la partecipazione politica, a cominciare da Enrico Letta e dal videomessaggio di Giorgio Napolitano. Anche per questa via Cl si conferma come attore importante della scena politico-culturale del Paese in virtù dei suoi legami di massa e del contributo che ha saputo fornire alla riflessione sul rapporto tra Stato e società. Le disavventure politico-giudiziarie dell'ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni non hanno mutato la percezione che l'opinione pubblica ha del movimento né il peso che ricopre nei delicati equilibri del Paese. Anzi, in virtù dell'amicizia che lega il movimento al premier Letta, l'apertura del Meeting esalta il grande fiuto dei ciellini per la politica.

In passato il movimento ha giocato sui tavoli del potere in maniera disinvolta. All'iniziale venerazione della figura di Giulio Andreotti ha fatto seguito una lunga condivisione della stagione politica berlusconiana. Con il Cavaliere del '94 c'erano forti consonanze, la promessa liberale e il protagonismo della società civile, ma negli anni successivi, quando quelle istanze sono state archiviate, non si può dire che i ciellini abbiano fatto sentire tempestivamente le loro critiche. Come avrebbero potuto e dovuto. E come, alcuni di loro, fanno solo oggi. Terminata infatti l'infatuazione per l'uomo di Arcore, c'è stata la stagione dell'appoggio al governo Monti e ora la conclamata simpatia per l'esecutivo diretto da Enrico Letta. Il tutto in perfetta e pluriennale continuità, come se a sbagliare in questi quattro lustri fossero stati sempre e solo gli altri. È questa la contraddizione di un movimento che professa una visione orizzontale della società e della vita ma che poi non sa resistere al fascino verticale del potere politico.

Comunione e Liberazione è un fenomeno che meriterebbe di essere studiato molto di più di quanto lo sia stato, soprattutto per la straordinaria capacità che ha mostrato nell'intrecciare fede, politica e welfare. «Se la globalizzazione ti lascia solo, Cl no», si usa dire e il motto contiene un elogio della presenza sociale del movimento e un attestato della sua (contestata) modernità. Ma quel motto esplicita anche il ruolo di testimonianza che il successore di don Giussani, Julián Carrón, ha avuto modo di indicare (e ribadire) ai seguaci del movimento nel maggio 2012 nel pieno della bufera formigoniana. La testimonianza, nel testo del prelato spagnolo, era contrapposta alla ricerca dell'egemonia, all'attrazione per il potere, ma non sappiamo quale istanza stia prevalendo oggi. L'una o l'altra? Per cercare risposte e capire l'evoluzione della dialettica interna sarà, dunque, doppiamente interessante seguire il Meeting. Da fuori varrà la pena ricordare che la fragile società italiana ha bisogno di soggetti che la aiutino a recuperare i propri valori e a ripartire. Di lobby, invece, ce ne sono già troppe.

18 agosto 2013 | 8:47
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Dario Di Vico

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_18/domande-aperte-di-un-meeting-divico_5240b60c-07cd-11e3-94cf-bf30b20ea299.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:45:01 pm »

OPPORTUNITÀ CONTRO LA DISOCCUPAZIONE

Non sprechiamo il lavoro che c'è


Molti, dentro e fuori il governo, temono che la ripresa prossima ventura si riveli, come dicono gli anglosassoni, jobless ovvero senza lavoro.
Non produca un significativo calo della disoccupazione e tutt'al più serva a riassorbire un po' della cassa integrazione che aziende piccole e grandi sono state costrette ad usare in quantità inedite per non licenziare. Se davvero il rilancio dell'economia non dovesse essere visibile anche agli occhi di chi oggi è fuori dai cancelli del lavoro è evidente che correremmo il rischio di un'ulteriore accentuazione dell'apartheid, i figli contrapposti ai padri.

Per tentare di evitare, almeno in parte, questo pericolo la prima cosa da fare è non sprecare nessuna occasione di lavoro.
Il comportamento esemplare è stato quello degli operai della Electrolux di Susegana, che hanno lavorato nei giorni di Ferragosto per produrre lavatrici e frigoriferi di una commessa straordinaria. Non sarà la presenza in fabbrica con il solleone a risolvere i nodi strutturali dell'industria degli elettrodomestici ma sarebbe stato suicida opporsi e i tre sindacati hanno fatto la cosa giusta.

Susegana, purtroppo, pare essere un'eccezione. In tante altre situazioni il pragmatismo perde e vincono idiosincrasie e ideologismo. Prendiamo il caso dell'avvio della vendemmia. Un accordo raggiunto in Franciacorta tra la Cisl, i Comuni e i datori di lavoro punta a favorire l'assunzione di almeno una quota di cassintegrati della zona in nome della solidarietà territoriale. Cgil e Uil sono insorti contro quella che considerano una violazione della contrattazione nazionale e si dovrà convocare un tavolo ministeriale per dirimere la querelle . Non bastava una riunione a Brescia?

Qualcosa del genere è accaduto nei giorni scorsi a Bari e questa volta è stata la Cisl a recitare il ruolo dell'intransigente. La società Eataly avendo aperto uno store con una licenza a tempo ha assunto per lo più lavoratori interinali impegnandosi a stabilizzarli solo in seguito. Immediatamente il titolare Oscar Farinetti è stato colpito dall'accusa di aver violato la legge Biagi e di essersi comportato da piemontese arrogante. A Marghera a cavallo tra la fine di luglio e l'inizio di agosto è andata in scena una tipica dimostrazione dell'ideologismo in versione Fiom. Per poter consegnare in tempo una nuova nave da crociera gli operai veneziani avrebbero dovuto modificare il loro regime di orari e passare dal 5x8 al 6x6, ovvero lavorare anche il sabato ma scongiurando in questo modo il ricorso alla cassa integrazione. L'accordo è stato firmato in zona Cesarini dopo lunghe contestazioni e il rischio di mandare tutto a monte e veder trasferire le lavorazioni altrove. Anche per quanto riguarda le assunzioni per l'Expo 2015, prima che la ragione avesse la meglio, avevamo rasentato la guerra di religione con dirigenti sindacali che presentavano la possibile intesa come «una palestra della deregulation».

Il catalogo delle italiche contraddizioni potrebbe continuare e sommerebbe ai casi raccontati un vero e proprio paradosso al quale non sappiamo porre rimedio, quello che vede domanda e offerta di lavoro non riuscire ad allinearsi. Con il risultato che il 12% dei posti di lavoro disponibili non possono essere assegnati perché mancano (soprattutto) ingegneri, addetti alla distribuzione e al marketing. Ma proprio perché polemiche gratuite e distorsioni del mercato del lavoro convergono verso il peggio è necessario nelle prossime settimane mettere in campo un sovrappiù di buon senso. Non un posto di lavoro vada sprecato perché alla fin fine non c'è niente di più de-regolato che la disoccupazione.

23 agosto 2013 | 13:11
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Dario Di Vico

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_23/non-sprechiamo-il-lavoro-che-c-e-dario-di-vico_52736abe-0bad-11e3-b588-54889b555b59.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:39:50 am »

L'eDITORIALE

Il peso dell'incertezza

Dialogo e priorità del governo Letta


Non è un esecutivo di legislatura e di conseguenza il governo Letta nel fissare le priorità risente del posizionamento elettorale che vanno assumendo le principali forze che lo sostengono e che tengono d'occhio l'evoluzione dei sondaggi. Si spiega così la prevalenza nell'agenda del superamento dell'Imu su altri capitoli d'intervento - cuneo fiscale - che possono essere considerati altrettanto urgenti e forse di più. Ma questa è la realtà del quadro politico italiano uscito dalle urne e nessuno purtroppo può prescinderne. Il danno ulteriore lo si causa quando al mix di instabilità sopra delineato, e alla difficile ricerca di soluzioni condivise, si aggiunge il mal di pancia di quanti all'interno del Pd non hanno digerito le larghe intese.

Allora, come è accaduto ieri con le dichiarazioni del vice-ministro Stefano Fassina, tutto diventa più difficile. È arduo rintracciare un filo coerente nelle scelte del governo e il dialogo con gli italiani si prospetta avventuroso. Se, come ha fatto Fassina, si sostiene che ora - per colpa del superamento dell'Imu - sarà inevitabile alzare l'Iva si crea solo confusione. Magari si tiene in caldo il rapporto personale con la Cgil ma non si aiuta il Paese. Trovarsi come è accaduto con le dichiarazioni del premier Enrico Letta e di altri ministri (Maurizio Lupi) che contraddicono Fassina e con le rettifiche del segretario e del responsabile economico del Pd che vanno nella stessa direzione di Lupi e contro il collega di partito, serve solo a compromettere ancora di più il rapporto con l'Italia profonda. Quella che dopo una modica quantità di ferie ha ripreso a lavorare e a produrre.

Eppure Letta non avrebbe bisogno che i suoi collaboratori gli creassero nuovi problemi, ce ne sono già abbastanza sul tappeto. Le incertezze tributarie, infatti, non si sono del tutto diradate. Non dimentichiamo che l'Imu sin dalla nascita si è rivelata una tassa di cui non era facile comprendere importi e scadenze e oggi, anche quando ne è stato annunciato il pensionamento in favore della service tax, rimangono aperti diversi quesiti. Non sappiamo ancora bene quali saranno le coperture, che regime fiscale verrà applicato alle seconde case e se la nuova imposta prevederà un tetto o meno. Tutte incertezze che vanno chiarite affinché le famiglie possano rivedere i loro bilanci e decidere cosa destinare, per esempio, ai consumi. Se prevale la nebbia fiscale si rafforza la tendenza a risparmiare e a non sostenere la domanda interna. E addio ripresina!

L'arrivo del mese di settembre chiede, dunque, al governo un esercizio di chiarezza. Sul versante delle imposte (non aumentando l'Iva), su quello dei provvedimenti per la crescita ma anche sul controverso tema dei tagli alla spesa. Dal ministro Fabrizio Saccomanni ci aspettiamo un passo in avanti nella politica degli annunci. Non è più sufficiente rassicurare genericamente l'opinione pubblica e i mercati, è arrivato il tempo in cui gli interlocutori si aspettano che il governo indichi quali sono nel dettaglio i risparmi previsti. L'incertezza si batte anche così.

30 agosto 2013 | 8:02
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Dario Di Vico

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_30/il-peso-dell-incertezza-dario-di-vico_8b179f72-112d-11e3-b5a9-29d194fc9c7a.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:42:07 pm »

mappe/

I 36 casi in cui i dipendenti hanno salvato la loro azienda

Si chiamano, obbedendo a una classificazione internazionale, workers buy out e hanno dato vita in Italia già a 36 casi di piccole aziende salvate e rimesse in carreggiata dai dipendenti. Sono imprese per lo più localizzate in Toscana ed Emilia ma anche in Veneto e Lazio, presenti un po’ in tutti i settori del manifatturiero e dei servizi e che per ripartire hanno adottato nella stragrande maggioranza dei casi lo strumento della cooperativa. Alcuni casi hanno avuto ripetutamente l’onore delle cronache come le Fonderie Zen di Padova e la milanese Ri-Maflow ma a censirli tutti per la prima volta è stato ilbureau.com, un sito di giornalisti, grafici e ricercatori coordinati da Valentina Parasecolo. Quando l’azienda - Srl o Spa che sia - fallisce, i dipendenti si riuniscono in cooperativa e la rilevano dalla liquidazione, utilizzando il Tfr e l’indennità di mobilità. In moltissimi casi ad aiutarli arriva Coopfond, il fondo mutualistico della Legacoop che versa a titolo di prestito un ammontare pari a quello versato dai lavoratori (al massimo stiamo parlando di un impegno pari a 800 mila euro). Successivamente si può attivare attorno alla nuova impresa una cintura di banche come Bper, Banca Etica o Banca Unipol che vegliano almeno sulla prima navigazione. I dipendenti fatta la scelta più difficile devono dare prova di maturità selezionando al loro interno le figure dirigenziali che avranno il compito di condurre l’azienda. Quasi sempre cambiano anche il nome: la Ottima di Scandiano (ceramiche) è diventata Greslab e la Maflow di Trezzano sul Naviglio è stata per l’appunto ribattezzata Ri-Maflow. Nel caso della Phenix Pharma in appoggio ai dipendenti è tornato un ex manager che aveva lavorato ai tempi in cui l’impresa era parte di una multinazionale americana.
Se l’obiettivo iniziale è quello di salvare con l’azienda ovviamente anche i posti di lavoro molte volte l’operazione è facilitata perché non tutti i dipendenti credono alla nuova impresa e alcuni si distaccano volontariamente. A differenza di esperienze più ideologiche che pure erano state fatte negli anni ‘70 e ‘80 nei nuovi workers buy out vigono i criteri guida della competenza e del pragmatismo. Non si fa a botte con il mercato bensì si cercano idee e soluzioni nuove anche per dimostrare che le vecchie proprietà erano inette. Una scelta valoriale c’è sempre ma le bandiere rosse no. Nel caso della Greslab la nuova gestione ha puntato molto sulla formazione e ha cambiato il prodotto da vendere investendo sul grès porcellanato. I dipendenti della Phenix Pharma hanno rilevato l’azienda dalla Warner Chilcott che voleva uscire dal mercato europeo ma hanno scommesso su prodotti nuovi nel segmento dell’osteoporosi comprando addirittura una licenza. In altri casi è bastato riprendere il vecchio business come per la Infissi design di Reggio Emilia che era andata in crisi per errori di gestione o per la Clab di Arezzo che fino ai primi anni del 2000 era tra le prima aziende in Europa nella produzione di box doccia.
Classificate le nuove realtà la domanda successiva diventa quanto siano attrezzate queste aziende per reggere l’urto di una crisi che non fa sconti e non guarda ai valori. La risposta che per ora si può dire riguarda la data di nascita di diverse aziende dei dipendenti: la rodigina Cup è nata nel 2008 così come la pistoiese Micronix, la reggiana Art Linig. Solo un anno di meno hanno la fiorentina Ipt e la pisana Italcom. Insomma nessuno può garantire il futuro ma, assicurano alla Coopfond, la selezione viene fatta all’inizio. Se non ci sono le condizioni non si parte nemmeno.
Dario Di Vico

Da - http://dariodivico.tumblr.com/post/65225219027/mappe-i-36-casi-in-cui-i-dipendenti-hanno-salvato-la
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« Risposta #130 inserito:: Novembre 29, 2013, 06:47:39 pm »

Perché Letta deve cambiare

Separando saggiamente il piano governativo da quello parlamentare l’esecutivo guidato da Enrico Letta è riuscito a sopravvivere alla caduta del Cavaliere. L’esito della manovra era tutt’altro che scontato e segna una vittoria del presidente del Consiglio, a cui vanno riconosciute le doti della pazienza e della caparbietà. A questo punto, però, con l’avvenuto ridimensionamento di Silvio Berlusconi cade il principale alibi di un’azione di governo che finora è parsa frammentaria e temporeggiatrice. Non si potrà più usare la scusa che i provvedimenti economici dovevano essere «bollinati» preventivamente dal Pdl e di conseguenza ci dovrebbero essere tutte le condizioni per capire meglio cosa ha in testa il presidente del Consiglio per rassicurare Bruxelles, intercettare la ripresa, motivare la società civile. Anche l’ultimo atto in ordine di tempo, la legge di Stabilità, risente ampiamente dei limiti evidenziati da questo governo, come provvedimento assomiglia di più a un vestito di Arlecchino che a un vero documento di indirizzo e la sua approvazione non pare sia accompagnata da grandi manifestazioni di giubilo da parte delle rappresentanze sociali. Ci aspettiamo, dunque, che superata la boa si cambi registro, che i problemi aperti vengano presi di petto e non continuamente rinviati.

Ha ragione il Quirinale: la scelta ottimale è quella di un nuovo discorso programmatico del presidente del Consiglio davanti alle Camere, una verifica politico-parlamentare per una coalizione meno larga della precedente, ma che dovrebbe contare su un maggior tasso di coesione e determinazione. Letta non ha bisogno di imbarcare transfughi parlamentari dell’ultima ora, non ha necessità di raccattare qualche voto in più al Senato quanto di convincere il Paese reale sulla bontà del cammino che vuole percorrere da qui al termine del semestre italiano di presidenza Ue. Nessuno gli chiede l’impossibile. Una buona legge elettorale ci vuole, e subito, mentre sulle riforme istituzionali meglio indicare con senso pratico poche novità e poi portarle a casa piuttosto che andare incontro all’ennesimo fallimento. Sul piano etico-comportamentale bene ha fatto il governo a difendere il ministro Annamaria Cancellieri, ma la permanenza nella compagine del viceministro (indagato e con doppio incarico) Vincenzo De Luca forse potrebbe fermarsi qui. Francamente per l’impegno che ha messo non ne sentiremmo la mancanza.

Visto il peso parlamentare del Pd nella nuova coalizione, ed essendo alle porte la designazione di un nuovo segretario, è chiaro che Letta non potrà non fare i conti con questa discontinuità. Ma anche in questo caso la scelta che sembra convenire a lui (e al Paese) è quella di alzare decisamente il tasso di riformismo del governo. A cominciare dal capitolo giustizia. Finora è rimasto un tema tabù perché affrontarlo avrebbe, almeno agli occhi dell’elettorato di centrosinistra, rappresentato un cedimento verso le tesi filoberlusconiane: a decadenza consumata, però, anche quest’alibi non tiene più. Si può scrivere una pagina nuova. Subito dopo viene l’economia. Qui i passaggi sono (purtroppo) facili da individuare: un colpo d’ala nel taglio del debito, più coraggio nella riduzione della spesa pubblica e maggiore chiarezza negli obiettivi che si vogliono conseguire in quel negoziato con Bruxelles previsto per metà dicembre e che, visto da lontano, può assomigliare all’anticamera del commissariamento.

29 novembre 2013
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Dario Di Vico

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_29/perche-letta-deve-cambiare-40dd542a-58bc-11e3-ade8-6dbcc0d06561.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Dicembre 13, 2013, 06:13:35 pm »

Il Disagio c’è, chi lo sfrutta pure


Si apre il terzo giorno della protesta dei Forconi e il prefetto di Torino ha ottenuto rinforzi per contrastare manifestazioni - parole sue - «uniche nel loro genere perché basate su azioni sporadiche e presidii improvvisi in diversi punti». Una città storicamente abituata a convivere con forme radicali di conflitto ieri è parsa alla mercé di manifestanti che potevano interrompere a loro piacimento qualsiasi servizio pubblico e intimidire i commercianti. Il tutto in un vuoto pneumatico, nel quale assenti la politica e le forze sociali, troppo lento nell’agire il ministro dell’Interno, il peso del confronto - persino psicologico - è stato caricato sui poliziotti. Nessuno sottovaluta ampiezza e profondità del malessere che attraversa la società e che mette in difficoltà le frange più deboli del lavoro autonomo, come i camionisti con un solo Tir o gli ambulanti, ma si ha l’impressione che le loro rivendicazioni servano come foglia di fico ai veri capi della rivolta. Sul campo è nato con il logo dei Forconi un attore sociale e politico trasversale, il cui retroterra non è chiaro e che ha aggregato di tutto, persino gli ultrà del calcio.

Un mondo politico costantemente alla ricerca di un copione da recitare non aspettava altro che strumentalizzare la protesta. Beppe Grillo ha intravisto nella mobilitazione dei Forconi la possibilità di intestarsi «il disagio sociale» per saldarlo alla collaudata retorica anti-politica. Ne è scaturito un incredibile invito alla polizia a farsi da parte, a non difendere più uomini/luoghi delle istituzioni. È la democrazia a 5 Stelle che prevede che l’avversario, se giornalista, debba essere messo alla gogna e se, politico, lasciato in balia della collera dei Forconi. Anche Silvio Berlusconi non ha resistito alla tentazione di far sentire la sua voce intimando al governo di convocare subito gli autotrasportatori ribelli, che lui comunque vedrà già oggi in parallelo al discorso che il premier Enrico Letta terrà in Parlamento. La vecchia tattica del Pci di contrapporre simbolicamente Paese legale e Paese reale deve aver conquistato il Cavaliere nella nuova modalità di politico extraparlamentare.

Blocchi stradali à la carte e proclami populisti lascerebbero il tempo che trovano se non fosse il contesto a renderli pericolosi. La sensazione di vuoto avvertita a Torino rappresenta una metafora della nostra attuale condizione. Siamo «tra color che son sospesi», chiediamo immediate e incisive riforme della politica e la Corte costituzionale ha messo in scacco chi dovrebbe votarle. Vediamo che altri Paesi stanno uscendo dalla recessione e noi dobbiamo accontentarci che il Pil non viaggi più in negativo. Forse è troppo facile indirizzare tutto ciò verso Palazzo Chigi, ma è la coincidenza temporale a imporlo. Letta è atteso a Montecitorio per un passaggio politico che si presenta delicato. Non prometta la luna, come fece nel discorso di insediamento, affronti i nodi che gli si sono parati davanti e dia le risposte che l’opinione pubblica attende. Riempia il vuoto e avrà dato un contributo anche all’isolamento dei Forconi.

11 dicembre 2013
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Dario Di Vico@dariodivico

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_11/disagio-c-chi-sfrutta-pure-8a30dca0-622b-11e3-a809-0fced5f7d9ac.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:26:05 pm »

LEGGE DI STABILITà e parti sociali
Un’occasione gettata via

Per come sta uscendo dal Parlamento, la legge di Stabilità si presenta agli italiani alla stregua di un vestito di tanti colori e per di più cucito male. Si fatica a trovare il filo conduttore per un semplice motivo: quelle che dovevano rappresentarne le ispirazioni di fondo si sono perse per strada. Vale per il legame tra incisività della spending review /riduzione delle tasse e vale anche per la riduzione del cuneo fiscale. Un provvedimento che - ricordiamolo - nelle interviste ministeriali solo di qualche settimana fa era descritto come lo strumento più idoneo per dare competitività alle imprese e agganciare a pieno la ripresa internazionale. È vero che il testo approvato prevede l’istituzione di un fondo che dovrà finanziare l’abbassamento del cuneo, ma la platea dei beneficiari è stata così allargata che gli eventuali effetti di spesa si disperderanno come coriandoli. Per quanto l’ampiezza e la lunghezza della crisi spingessero a operare scelte univoche e a concentrare l’impatto delle poche risorse disponibili, alla fine il governo ha fatto l’esatto contrario. Per tenersi buono un piccolo esercito di microlobby ha finito per dare a tutti un po’.

Il risultato finale della legge di Stabilità rappresenta per il premier e per l’esecutivo che dirige una sconfitta cocente anche se sarà difficile per lui ammetterlo. Gli auguriamo caldamente di poter mangiare tutti i panettoni che vuole, ma non può essere la continuità alimentare il principio ispiratore di un’amministrazione, per di più straordinaria, come è quella rappresentata dall’attuale governo. Il Paese reale e gli operatori economici che hanno dimostrato di saper respingere al mittente gli appelli dei Forconi hanno bisogno di credere nell’azione di politica economica e di trovare una piena complementarietà tra i propri sforzi e i provvedimenti governativi. Purtroppo non è così.

L’approvazione della manovra segna un momento di rottura non episodica tra il governo e le forze sociali, sgomente anche per aver toccato con mano in queste settimane la loro irrilevanza. La gran parte delle obiezioni avanzate dalla Confindustria è condivisibile, ma si ha l’impressione che la più grande associazione di rappresentanza non sia riuscita a entrare in sintonia con i profondi mutamenti di questi terribili anni. Non parliamo poi dei sindacati confederali e dei loro leader affezionatissimi ai vecchi riti e incapaci di aprirsi al nuovo. L’opinione pubblica comincia a pensare che la rappresentanza sia un appesantimento della vita democratica, che le sue strutture siano pletoriche e servano solo a presidiare interessi consolidati. Per spiazzare queste critiche e per inchiodare il governo alle sue responsabilità le forze sociali sono chiamate a un atto di discontinuità. Basta con l’elencare le colpe degli altri senza dire cosa si è disposti a mettere sul tavolo. Invece di ammiccare ai Forconi è meglio assumere su di sé nuove responsabilità. Ciò che le imprese, dal basso, hanno fatto in materia di welfare aziendale è solo un piccolo esempio. Ma può far scuola. Sulla dialettica tra politica e forze sociali si segnala anche l’attivismo di Matteo Renzi. Un consiglio (non richiesto): eviti di azionare un giorno l’acceleratore e, quello dopo, il freno. Scelga.

20 dicembre 2013
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Dario Di Vico

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_20/occasione-gettata-via-4168c3ba-693e-11e3-95c3-b5f040bb6318.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Gennaio 03, 2014, 04:17:07 pm »

IDEE E OPINIONI

L’aumento delle tariffe autostradali rischia di ridare fiato ai forconi

Il fronte dell’autotrasporto appare, all’inizio del nuovo anno, tutt’altro che pacificato. Il flop della manifestazione romana di metà dicembre dei Forconi aveva in qualche maniera derubricato il tema ma gli aumenti delle tariffe autostradali decisi dal governo in questi giorni rischiano di dare nuovi argomenti ai capi della protesta. Specie in Veneto dove i rincari sono più alti e dove il movimento ha continuato la mobilitazione anche sotto le feste dando vita, tra le altre cose, a inediti e odiosi blitz sotto le abitazioni dei politici locali (Giancarlo Galan e Laura Puppato).

Se i Forconi in dicembre non erano riusciti a formulare una vera piattaforma rivendicativa unificante, l’incremento dei costi del trasporto rappresenta un buon motivo per riprendere i contatti, farsi sentire (a modo loro) e sindacalizzarsi. Le decisioni del governo mettono in difficoltà le organizzazioni tradizionali dell’autotrasporto, come la Cna-Fita, che in dicembre avevano fatto barriera e avevano evitato un vero fermo dei Tir.

I camion avevano circolato quasi al 100% e i Forconi avevano dovuto scegliere altre forme di lotta urbana. Ora però la leader della Cna, Cinzia Franchini, è stata la prima a suonare l’allarme su quanto ci può aspettare in gennaio. Dopo aver ricevuto varie minacce dagli oltranzisti, Franchini non ci sta a rimanere schiacciata tra il governo e i Forconi e ha scritto al premier Enrico Letta annunciando che la sua organizzazione sarà la prima a protestare contro gli aumenti delle tariffe. Adottando non più la tattica del fermo nazionale, ma forme di lotta selettive che potranno colpire o un territorio (guarda caso il Veneto) o singole aziende committenti.

Il rischio che il mondo dell’autotrasporto ritorni in agitazione e comprometta anche i deboli segnali di ripresa dell’economia è dunque elevato. Con la vicenda Forconi tutti hanno capito il potenziale mediatico del popolo dei Tir e nessuno vuole rimanere fuori dal gioco. Così mentre i duri di Danilo Calvani rilanciano la mobilitazione dal 9 gennaio, in Sardegna spunta la singolare inaugurazione di un club berlusconiano che si terrà alla presenza di Daniela Santanchè e che a scanso di equivoci si chiamerà «Club Silvio Trasporti Sardegna».

03 gennaio 2014
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Dario Di Vico

Da - http://www.corriere.it/economia/14_gennaio_03/aumento-tariffe-autostradali-rischia-ridare-fiato-forconi-793d5476-7452-11e3-90f3-f58f41d83fbf.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Gennaio 03, 2014, 04:35:38 pm »

leggi convoglio e microinteressi

Potere caotico di non decidere

Perché nessuno in Senato si è alzato a ricordare che esiste una sentenza della Corte costituzionale, per la precisione la 22 del 2012, che giudica inammissibile l’introduzione di emendamenti eterogenei nel testo dei decreti legge?
La domanda è più che legittima anche perché alla Camera è dal ‘97 che vige questo regolamento senza che sia stato mai esteso all’altro ramo del Parlamento. La verità è che l’incredibile vicenda del decreto salva Roma, approvato dal Parlamento con richiesta di fiducia da parte del governo e poi bocciato dal Quirinale, ha lacerato molti veli davanti all’opinione pubblica. La debolezza del governo Letta è apparsa in tutta la sua gravità.

E l’inesperienza degli attuali presidenti delle Camere risulta addirittura certificata dal messaggio che ieri il presidente Giorgio Napolitano ha rivolto loro e al quale ha replicato in tarda serata Pietro Grasso. Ma forse l’evidenza sulla quale dovremmo concentrare l’attenzione riguarda il complesso delle istituzioni politiche, governo e Parlamento, che fin quando esistevano partiti forti riuscivano ad assolvere dignitosamente i loro compiti ma che oggi, in un quadro politico per molti aspetti liquido, appaiono fragili ed esposte a tutti i venti.

Può accadere così che in Parlamento le piccole lobby funzionino meglio delle grandi, quasi che nell’epoca dell’austerità sia quella la taglia ottimale per promuovere emendamenti di spesa. Succede che i nuovi membri della segreteria del Pd concentrino le loro energie per evitare che nel testo vengano infilati provvedimenti a favore di Firenze e perdano di vista altri temi caldi come gli affitti d’oro. Accade che i presentatori di pacchetti di emendamenti a Palazzo Madama, visti i numeri risicati della maggioranza, si sentano così spavaldi da poter condizionare il governo che non può fare a meno della loro presenza in Aula per strappare la fiducia.

Da questa piccola rassegna di anatomia delle istituzioni emerge chiaramente come il sistema politico-legislativo italiano sia imballato e i grandi processi decisionali passino quasi ormai esclusivamente dal Quirinale, dal Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti e dalla magistratura ordinaria.

Nelle Camere è difficilissimo far approvare provvedimenti di riforma omogenei e l’escamotage è quello di agganciare vagoni alla sola locomotiva che comunque non può fermarsi, l’ex Finanziaria ribattezzata legge di Stabilità. Ma anche quando una misura approda in Gazzetta Ufficiale non ha ancora ultimato il suo incredibile viaggio. Prima di venir finanziata, prima che siano promulgati i regolamenti attuativi o semplicemente sia instradata deve passare le forche caudine rappresentate dal ministero dell’Economia e dalla Ragioneria generale. Secondo i dati elaborati dal Sole 24Ore, la percentuale di reale attuazione delle leggi fatte approvare dai governi Monti e Letta era ferma agli inizi di dicembre al 38%. Si combatte per farle passare e poi le si lasciano morire per strada.

La stessa noncuranza affligge la valutazione ex post dell’impatto dei nuovi provvedimenti. Spesso se ne approva uno nuovo prima ancora di sapere come abbia funzionato il precedente e quali conseguenze abbia determinato nella vita dei cittadini o delle imprese. Il caso degli esodati è da manuale ma, purtroppo, non è l’unico. Con queste premesse verrebbe da concludere che le riforme oltre a essere difficili sono quasi inutili e serve solo quel cacciavite, tipico strumento di manutenzione, che lo stesso Letta ha evocato nelle prime settimane del suo governo salvo non riuscire a utilizzarlo con la continuità necessaria. Ma arrendersi sarebbe un errore. Riforme e cacciavite servono entrambi e non a piccole dosi. Dobbiamo sbrigarci a intervenire sul nostro sistema politico-istituzionale perché rischiamo grosso: se le cose restassero così saremmo condannati a sommare gli svantaggi dell’instabilità politica a quelli della recessione o della bassa crescita. È con questi pensieri che ci accingeremo nei prossimi giorni a capire meglio e a raccontare quali misure saranno entrate nel nuovo Milleproroghe, l’animale legislativo che sembra avere la maggiore capacità di adattamento al caos parlamentare. Lo faremo senza indulgere al sensazionalismo, ma anche con il pessimismo di chi non riesce a vedere la spesa pubblica né messa sotto controllo né, tantomeno, tagliata.
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28 dicembre 2013
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Dario Di Vico

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