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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120567 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Aprile 26, 2012, 06:09:39 pm »

IL GARANTE DELLE PMI TRIPOLI: «SOLO UNENDOSI CI SI PUÒ PORRE OBIETTIVI IRRAGGIUNGIBILI»

La reazione dei Piccoli, 2mila aziende fanno rete

Dal biomedicale all'energia, cresce l'aggregazione dal basso. Si punta alla Cina e a nuove commesse


MILANO - Duemila piccole imprese fanno un movimento. Sono tante infatti le aziende italiane finora coinvolte nelle reti di impresa. Secondo il registro Unioncamere a far data il 10 aprile erano stati formalizzati dal notaio 313 contratti di rete che avevano interessato un totale di 1.648 imprese. Ma è stima comune degli addetti ai lavori che altri contratti siano in dirittura d'arrivo, possano essere stipulati già dalla prossime settimane e di conseguenza la stima di 2 mila è più che plausibile. E comunque stiamo parlando delle imprese che hanno steso un vero e proprio contratto legale, se volessimo contare le reti di collaborazione stabili ma informali il numero salirebbe e di molto.

Dati a parte, non era affatto scontato che le reti di impresa decollassero. Eppure è successo. Si può discutere sulla velocità del cambiamento e sull'effettivo impegno di tutta la rappresentanza ma la notizia è che i Piccoli hanno cominciato a mettersi assieme. Hanno rotto un tabù e hanno cominciato a capire che si può fare impresa anche in un altro modo, non solo da single. Le reti sono la proposta giusta perché non chiedono di rinunciare al protagonismo imprenditoriale, né di farsi da parte e lasciare il campo a manager esterni (come prevedevano progetti avanzati in passato dalla stessa Confindustria). Sono una via dolce all'aggregazione e alla crescita dimensionale e comunque hanno permesso di superare quella che il garante delle piccole e medie imprese Giuseppe Tripoli chiama «la storica visione isolazionista del piccolo imprenditore». Laddove la formula delle classiche fusioni continua a non convincere artigiani e commercianti perché di due imprenditori ne rimane in gioco solo uno, le reti ce l'hanno fatta.

Le tipologie di contratto sono le più diverse. C'è, ad esempio, la rete verticale come nel caso dell'Esaote (biomedicale) dove la società capofila ha stretto in un contratto i suoi fornitori con l'obiettivo di consolidare la filiera, responsabilizzarla e coinvolgerla in una forma di partenariato. Qualcosa del genere ha fatto la Gucci che ha favorito la nascita di una rete di imprese fornitrici di pelletteria senza farne parte direttamente ma con l'intento di renderle più strutturate e più attente al raggiungimento degli standard qualitativi necessari alle sue produzioni d'eccellenza. Del tutto differente è invece il caso della bolognese Racebo, una rete au pair tra aziende della componentistica per motociclette. Ognuna è specializzata in una nicchia ma soffriva di scarsa visibilità e basso potere di negoziazione. Si sono messe assieme, possono andare con qualche orgoglio al Motorshow e scambiarsi tra di loro le informazioni necessarie per fidelizzare la clientela. Altro caso di scuola è quello di 33 aziende oil & gas della Basilicata, piccole imprese fornitrici dei grandi gruppi petroliferi come Eni e Total che estraggono in zona. Unendosi in Rete Log i Piccoli lucani che assicurano una serie di servizi accessori hanno potuto integrarsi e presentare ai loro committenti un'offerta più strutturata.

Quelle ricordate però sono alcune delle tipologie possibili. La Confindustria nazionale, per seguire/promuovere il fenomeno e catalogare le novità, ha costituito un'apposita agenzia guidata dal vicepresidente Aldo Bonomi e affidata a Fulvio D'Alvia. Le cinque organizzazioni che hanno dato vita a Rete Imprese Italia (l'assonanza lessicale non è casuale) non si sono date (ancora) una vera e propria struttura nazionale e affidano la promozione ai territori. Di particolare rilievo è l'esperienza di Lecco con i «Men at work», un progetto nato in un ristorante e che ha coinvolto 23 imprese prevalentemente meccaniche, alcune concorrenti tra loro, che hanno saputo collaborare per aprirsi nuovi mercati. Commenta D'Alvia: «Quando si va dal notaio formalmente si stende un contratto di aggregazione organizzativa ma di fatto si intraprende un percorso per diventare più moderni e più competitivi». Non è un caso, infatti, che il contratto di rete preveda la stesura di un business plan e quindi obblighi i contraenti a programmare azioni e obiettivi della filiera.

Per limitarsi a segnalare i casi più singolari va ricordata la rete creata a Verona da 18 piccole aziende con meno di 10 dipendenti nel campo della trasformazione dei funghi in Veneto, Lombardia e Trentino e che coltivano l'ambizione di conservare la leadership italiana in questa particolare nicchia dell'agroalimentare. Un caso altrettanto interessante è «Baco» nato a Bologna per iniziativa di Unindustria. Quattro aziende della riabilitazione medica e dell'ortopedia hanno formalizzato una rete che mette assieme mille addetti e ha un obiettivo impensabile: conquistare, grazie a un accordo raggiunto con la Federazione cinese dei disabili, il mercato della disabilità che nel Paese di Mao conta numeri monstre (circa 83 milioni di persone interessate). Commenta Tripoli: «Tutti questi casi dimostrano la forza della cooperazione tra imprese. Solo unendosi gli imprenditori coinvolti possono porsi degli obiettivi che altrimenti sarebbero irraggiungibili. Quindi siamo di fronte a un fenomeno culturalmente nuovo ma che ha già solidi risvolti economici».

Dal punto di vista delle politiche industriali va ricordato come nella manovra del 2010, conosciuta più per i tagli che per le misure pro-crescita, l'allora ministro Giulio Tremonti avesse insistito per inserire una posta pluriennale di 48 milioni di euro destinata proprio a incentivare le reti defiscalizzando gli utili reinvestiti. Per poterne usufruire, le aziende devono sottoscrivere un contratto di rete, devono chiudere il bilancio in utile e sono esentate dal pagamento delle tasse solo sui profitti accantonati. Di quelle risorse del 2010 sono ancora rimasti da erogare fondi residui per 14 milioni nell'anno in corso e altrettanti per il 2013. Qualcosa del genere stanno ora facendo Regioni - come la Lombardia - che nei bandi di gara prevedono incentivi per le start up. «Ma al di là delle risorse stanziate - osserva D'Alvia della Confindustria - la norma del 2010 è servita ad accendere i riflettori e attirare l'attenzione delle imprese». Non è poco.

Dario Di Vico

26 aprile 2012 | 8:26
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da - http://www.corriere.it/economia/12_aprile_26/la-reazione-dei-piccoli-gia-duemila-aziende-fanno-rete-dario-di-vico_7e0c516a-8f65-11e1-b563-5183986f349a.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Maggio 02, 2012, 09:25:42 am »

La scossa del professore

Alla fine è arrivato il colpo di teatro. La nomina di Enrico Bondi a supercommissario per la spending review è una mossa che lascia il segno e che un governo politico non avrebbe mai attuato. La stima di Mario Monti per il manager aretino non è certo maturata nelle ultime ore, anzi a Roma si racconta che avesse già pensato a lui per la poltrona di Ragioniere generale dello Stato. Ma se alla fine ha rotto gli indugi e gli ha conferito ampi poteri per tagliare la spesa pubblica Monti deve aver concluso che c’era bisogno di una scossa. Non si poteva andare avanti ancora per giorni e giorni a discutere, avallare il continuo rimpallo di responsabilità tra le varie amministrazioni e c’era invece urgenza di un atto formale di discontinuità. La stessa volontà di cesura che si può ritrovare negli incarichi che il presidente del Consiglio ha voluto affidare a Giuliano Amato per aiutarlo a riformare i trasferimenti di denaro a partiti e sindacati e a Francesco Giavazzi per riordinare la selva degli incentivi pubblici alle imprese.

La missione di Bondi a questo punto è abbastanza chiara, deve agire più come un ombudsman dei contribuenti che come un ministro aggiunto e di conseguenza deve rimuovere le resistenze della burocrazia laddove con tutta evidenza esistono. Non è un mistero che la stessa Bce si interroghi sul perché la Ragioneria non fornisce tutto il supporto sperato in una fase estremamente complicata per la credibilità del Paese e per il giudizio dei mercati sull’effettiva bontà del risanamento avviato con la staffetta a Palazzo Chigi.

Potrà apparire singolare, e già ieri sera qualche politico lo ha maliziosamente sottolineato, che dei tecnici chiamino degli altri tecnici quasi per auto-commissariarsi. Ma il paradosso si spiega con la straordinaria metafora di Pietro Nenni che dopo l’ingresso del Psi al governo nel primo centrosinistra confessò candidamente di non aver trovato quei bottoni da premere per poter cambiare immediatamente il corso della politica. Con l’ingaggio di Bondi, Amato e Giavazzi è come se Monti confessasse lo stesso sentimento. Per tagliare davvero i nodi gordiani che legano strettamente amministrazione e spesa non bastano né la razionalità del discorso pubblico né la pedagogia europeista, ci vuole la spada. E che il premier sia giunto a questa conclusione, all’esigenza di cambiar passo, lo segnalano anche i toni polemici che ha usato nella conferenza stampa nei confronti delle critiche mossegli in questi giorni da esponenti della vecchia maggioranza di governo.

Per evitare di aumentare l’Iva di altri due punti nell’arco del 2012 deprimendo ancora più l’economia e le speranze di ripresa, il governo ha deciso di operare dal lato dei tagli e ha stimato la quantità necessaria in 4,2 miliardi. Lo sforzo è apprezzabile quanto il sentiero stretto. Toccherà a Bondi percorrerlo, rompere i vecchi riti della complicità tra amministrazione e rappresentanza dei lavoratori. Presentato da Monti come il miglior tagliatore di costi che l’Italia possieda, Bondi è il primo a sapere che un’impresa privata controlla tutte le leve di spesa mentre purtroppo lo stesso non si può dire per Palazzo Chigi e per i ministeri. Ma proprio per questo sperare che non fallisca è il meno che si possa fare.

Dario Di Vico

1 maggio 2012 | 8:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_01/di-vico-scossa-del-professore_3f6f8af6-9354-11e1-8fab-95894237e3d0.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Maggio 03, 2012, 07:22:40 pm »

Il sondaggio di Corriere.it: le proposte per creare subito occupazione

«Moratoria fiscale di due anni sul lavoro»

L'onere pubblico per 100 mila assunzioni sarebbe di 500 milioni di euro. Cinque addetti ai lavori a confronto


C'è una misura che adottata a breve può produrre un significativo flusso di nuovi posti di lavoro? È questa la domanda che il blog Nuvola del lavoro (nuvola.corriere.it) ha rivolto a un panel di cinque addetti ai lavori come Innocenzo Cipolletta (economista e presidente di Ubs Italia), Tiziano Treu (ex ministro del lavoro e ora senatore del Pd), Gregorio De Felice (capo economista di Intesa Sanpaolo), Selene Biffi (fondatrice di Youth Action for Change) e Giovanni Tamburi (investment banker). Le cinque proposte sono state sottoposte al vaglio dei lettori di «Corriere.it» che hanno apprezzato la concretezza dell'iniziativa (più di 2 mila votanti) e alla fine hanno scelto con circa il 35% dei consensi l'ipotesi avanzata da De Felice. Cosa propone l'economista? «L'azzeramento del cuneo fiscale contributivo a carico di aziende e lavoratori per i primi due anni di un nuovo contratto di assunzione». Il provvedimento dovrebbe prolungarsi a 5 anni «se si tratta di start up ad alto contenuto tecnologico».

Spiega De Felice che sarebbe una misura di carattere straordinario in un momento in cui la disoccupazione è in crescita e sono ormai 6 milioni gli italiani esclusi dal ciclo produttivo, considerando anche chi non cerca lavoro perché scoraggiato, gli inoccupati e i destinatari delle varie forme di ammortizzatori sociali. «In più dobbiamo pensare che la ripresa occupazionale ha una dinamica ritardata di circa un anno rispetto alla crescita e alla produzione aggregata, quindi è ragionevole supporre che dovremo attendere almeno il 2014 per rivedere un'inversione di tendenza». Nell'attesa è chiaro che non si può stare a guardare. Come finanziare, però, l'azzeramento del cuneo fiscale? Gli oneri contributivi a carico delle aziende sono circa il 30% del reddito lordo erogato al lavoratore che a sua volta deve versare un 9,49% di contributi sociali. Ipotizzando - dice De Felice - un reddito medio di 20 mila euro l'onere per lo Stato risulterebbe di circa 8 mila euro per ogni neo assunto (il 40% circa). A fare da contrappeso ci sarebbe una maggior gettito Irpef da parte di nuovi soggetti fiscali stimabile attorno al 15% del reddito medio lordo. Il saldo negativo per lo Stato sarebbe del 25% di quei 20 mila euro iniziali. Ipotizzando 100 mila nuove assunzioni grazie a questa misura dovremmo chiedere alle casse pubbliche circa 500 milioni di euro.

«Una cifra considerevole ma alla portata di un Paese moderno che fa della lotta all'evasione fiscale una priorità», commenta l'economista. Qualora poi le assunzioni, più ottimisticamente, dovessero essere pari a 250 mila nuovi posti di lavoro il saldo negativo per lo Stato sarebbe di circa 1,2 miliardi di euro. «Non proprio una cifra da capogiro se solo dalla spending review il governo intende risparmiare 4,2 miliardi di euro in pochi mesi» chiude De Felice.

Se questa è, articolata e argomentata, la proposta che è sembrata più convincente ai lettori di «Corriere.it» anche gli altri esperti avevano formulato ipotesi immediatamente praticabili. Secondo Innocenzo Cipolletta si dovrebbe/potrebbe varare un piano nazionale per obiettivi di interesse generale come il recupero del decoro urbano, il restauro degli immobili compreso l'adeguamento alle normative, l'assistenza alle famiglie per bambini e anziani, la salvaguardia dei beni culturali. Il piano dovrebbe essere finanziato dai beneficiari che potrebbero detrarre dalle tasse le spese relative a una condizione: aver fatto ricorso a imprese che hanno assunto per l'esecuzione di quei lavori una percentuale elevata di inoccupati. Per Giovanni Tamburi la proposta da percorrere prioritariamente è la stipula di una convenzione con l'Abi da parte di Stato, Regioni, province e amministrazioni pubbliche, convenzione in base alla quale tutte le banche devono scontare o fattorizzare le loro fatture scadute - da 30/60 giorni e accertate come valide - ma non pagate. In questo modo potrebbe rientrare nel circuito economico una cifra superiore ai 50 miliardi di euro e dare così impulso all'economia e all'occupazione.

Per Selene Biffi gli studenti dovrebbero avere la possibilità di lavorare su progetti per clienti esterni in classe durante le scuole superiori «per imparare e anche riposizionare la scuola come punto di riferimento del tessuto economico e sociale del territorio circostante». Lo Stato dovrebbe favorire l'accesso a voucher per la formazione continua e il mentoring individuale per migliorare le competenze professionali e impararne di nuove. Infine l'ex ministro Tiziano Treu ha proposto un pacchetto più ampio di misure. A cominciare dalla valorizzazione del potenziale di creazione di lavoro di settori chiave come l'economia verde, servizi di cura alle persone, beni culturali e professioni Ict. Occorrerebbe anche rafforzare il legame dei salari con la produttività e le condizioni del mercato del lavoro locale. Infine Treu chiede di correlare più strettamente flessibilità e sicurezze di tutti i lavori.

Dario Di Vico
Fabio Savelli

3 maggio 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_03/moratoria-fiscale-di-vico-savelli_56b522bc-94de-11e1-ad93-f55072257a20.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Maggio 06, 2012, 11:00:57 am »

Speranze negate

Tanti urlatori ma è saltata ogni solidarietà

La vicenda di Romano di Lombardia è la dimostrazione che la società vive uno stress senza precedenti

di  DARIO DI VICO


Episodi come quello accaduto ieri a Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, ci devono spingere a riflettere ancor di più sulle esplosive contraddizioni del nostro tempo. L'uomo asserragliato che prende in ostaggio un impiegato è un topos della cinematografia americana ma tutto sommato, e fortunatamente, per la società italiana è quasi un inedito.

Azioni di quel tipo, quando capitano, a condurle sono dei rapinatori non certo dei contribuenti, siano pure essi morosi. Se i ruoli cambiano fino a questo punto è la dimostrazione che la società vive in una condizione di stress che ha pochi precedenti nella storia recente del Paese, anche perché in questa congiuntura la percezione di solitudine si coniuga con un pericoloso vuoto di autorità.

Il governo tecnico si batte con tenacia per avanzare sulla strada del risanamento ma ha perso con il tempo quell'aura quasi sacrale che ne aveva aiutato non poco la partenza. La politica professionale non riesce ad essere pienamente credibile e comunque non pare aver recuperato i suoi canali diretti di comunicazione con il popolo. Le stesse associazioni di rappresentanza sono sicuramente in campo ma bucano sempre meno l'attenzione del cittadino comune. Prevale in loro e in tutti noi la logica delle continuità organizzative. È importante proseguire la recita anche se il pubblico guarda altrove. Quanto è stato rituale, ad esempio, lo scorso Primo Maggio? E quanto sono inutili le centinaia di convegni dal tema più o meno azzeccato e che si continuano a tenere ogni giorno per discutere tra addetti ai lavori? Al di fuori da quegli schemi, oltre quelle slide e quei saloni c'è una società indifesa che nutre sempre meno speranze di riscatto collettivo e/o comunitario e che è portata a privatizzare i suoi conflitti e i suoi rancori. La stessa frequenza dei suicidi - che organizzazioni responsabili farebbero bene a non enfatizzare e, sicuramente, a non usare come strumento di lotta politica - è il segno di una distanza crescente tra i diversi piani della società, di una rete di rapporti che si sta smagliando e che nessuno sembra avere la forza e la pazienza di rammendare.

Ed è questa in fondo l'impressione che si ha leggendo le cronache, guardando i talk show televisivi, seguendo la campagna elettorale.
Tutti preferiscono scucire, invocare lo sciopero, dichiararsi indignati, promettere vendette, alzare la voce, citare dati a vanvera, cercarsi un avversario. In pochi fanno i sarti, dedicano il loro tempo e parte del loro potere per ascoltare, avanzare proposte sensate e soprattutto ricucire i legami che si sono allentati, le solidarietà che sono saltate. Pochi lavorano per ricostruire quel rispetto reciproco che manca.
Ma se le classi dirigenti diffuse sul territorio o nelle organizzazioni si dimettono dalle loro responsabilità il messaggio che arriva ai tanti uomini soli di questo nostro tempo è solo un assordante rumore. Ci vedono affaccendati in altro, ci sentono urlare e loro finiscono per rimanere totalmente in ostaggio della propria disperazione. Dovremo evitarlo e per cominciare a farlo non è mai troppo tardi.


@dariodivico

4 maggio 2012 | 9:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_maggio_04/tanti-urlatori-niente-solidarieta-divico_ce71c726-95a9-11e1-b2cf-0f42ed87ec02.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:52:00 pm »

L'analisi

Quel comodo capro espiatorio

La politica fiscale non la decidono i Befera, ma è frutto del dibattito che coinvolge i partiti, i parlamentari e l'opinione pubblica


MILANO - Va detto a chiare lettere e senza infingimenti: la vicenda di Equitalia sta prendendo ancora una volta una brutta piega. È chiaro che siamo tutti preoccupati per come (non) sta evolvendo la crisi italiana. La crescita che tutti aspettiamo non si intravede, il peso della tassazione sia sulle imprese sia sulle famiglie si rivela giorno dopo giorno più pesante, la società fa fatica ad assorbire i colpi della recessione e la rete della solidarietà si smaglia. Ma indirizzare tutte queste sacrosante inquietudini verso un solo obiettivo, ovvero Equitalia, i suoi uomini, le sue sedi, non solo è incomprensibile ma anche un po' vigliacco. La società di riscossione è parte integrante dello Stato e assolve i suoi compiti in base alle direttive che riceve dal Parlamento per cui è singolare la polemica di quei sindaci e di quegli esponenti politici che pensano di aver trovato in Equitalia il più comodo dei capri espiatori. È troppo facile concludere una conferenza stampa o un intervento da talk show accennando alla società di riscossione come a una confraternita di vampiri adusi a succhiar sangue chissà per quali inconfessabili obiettivi.

La politica fiscale non la decidono i Befera (ci mancherebbe altro) ma è frutto del dibattito che coinvolge i partiti, i parlamentari e l'opinione pubblica. Se, come è giusto che sia, si vuol ridurre il peso della tassazione la mossa giusta è agire dal lato della spesa. Se vi vogliono ridiscutere le regole di ingaggio lo si faccia ma non si può delegittimare quotidianamente l'azione dei suoi uomini e giustificare così ogni nefandezza nei confronti di Equitalia. I sindaci quando dovranno gestire localmente la riscossione avranno tutto il tempo di dimostrare la loro capacità, saranno sicuramente in grado di coniugare efficacia e rispetto del cittadino ma fino ad allora è bene che si dimostrino classe dirigente. Perché solo nella giornata di ieri abbiamo avuto un assalto alla sede napoletana, l'invio di un pacco bomba alla direzione generale, due ispettori aggrediti a Milano e una telefonata minatoria agli uffici di Viterbo. In più il cronista non può non constatare come a cinque mesi dagli attentati di dicembre ancora non si sappia nulla di certo sugli autori dei quei gesti che segnarono l'inizio di una vera e propria campagna terroristica. È chiaro che in queste condizioni solo un kamikaze potrebbe chiedere di lavorare ad Equitalia. Con tanti saluti alla lotta contro l'evasione fiscale.

Dario Di Vico

@dariodivico12 maggio 2012 | 10:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_maggio_12/di-vico-capro-espiatorio-equitalia_f937a768-9c08-11e1-a2f4-f4353ea0ae1a.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Luglio 09, 2012, 11:20:15 pm »

LE CRITICHE AI TAGLI DEL GOVERNO

L'inatteso fuoco amico

Il mondo evidentemente cambia. Carlo Sangalli, uno degli esponenti di punta di Rete Imprese Italia, non è annoverato sicuramente tra i discepoli della signora Thatcher, anzi si considera democristiano a vita. Eppure ha difeso a spada tratta i tagli alla spesa pubblica decisi dal governo Monti. Giorgio Squinzi, presidente di una Confindustria che da sempre ha insistito sul drastico dimagrimento della pubblica amministrazione, ha invece clamorosamente accusato Palazzo Chigi di aver in mente «una macelleria sociale». Un testa-coda che in una pigra domenica di luglio ha messo in gran fermento gli industriali italiani creando un incidente che non ha precedenti. Mai un neopresidente era stato contestato, anche da chi lo aveva supportato ed eletto (leggi Assolombarda), ad appena 40 giorni dal suo insediamento.

Cosa accadrà è difficile prevederlo ma Squinzi è così. Dentro i rituali si sente stretto e alla dichiarazione ufficiale preparata dagli addetti stampa preferisce la battuta secca, quella che resta impressa e che si può definire «da bar». Del resto non è un caso che in tanti anni di onorata attività sia rimasto sempre amministratore unico delle sue aziende e non abbia mai pensato di creare anche solo un simulacro di consiglio o di board . Gli piace far di testa sua, al massimo ascolta il fido e onnisciente Francesco Fiori. Il guaio però è che a un mese e mezzo dal suo arrivo al vertice di Viale dell'Astronomia e per ben tre volte il neopresidente, con le sue dichiarazioni ad effetto, è entrato in rotta di collisione con il governo Monti. Aveva cominciato bollando come una «boiata» la riforma Fornero del lavoro, aveva continuato alla vigilia del super vertice di Bruxelles dipingendo l'Italia come un Paese «sull'orlo dell'abisso», ha insistito al Festival della Cgil di Serravalle Pistoiese con la sortita sulla macelleria sociale. Mario Monti sicuramente non è un nazionalista ma se c'è una cosa che lo irrita profondamente è il «fuoco amico» e dover constatare che ogni volta che c'è un appuntamento clou, con gli altri leader o con il giudizio dei mercati, la Confindustria lo colpisce da dietro le linee, ha per lui dell'incredibile.

Da quando è presidente, Squinzi si è sottoposto a un tour de force impressionante, non c'è stata assemblea delle associazioni territoriali e di categoria alla quale non abbia presenziato, magari arrivando all'ultimo momento in elicottero. Non si può dire dunque che abbia preso sottogamba la nuova carica, sapeva di dover affrontare un noviziato e l'ha fatto con grande scrupolo. Di sicuro non è un oratore provetto, non sa scaldare le platee e di conseguenza spesso legge i suoi discorsi pagando inevitabilmente qualche prezzo in termini di attenzione e feeling con gli astanti. Proprio per questo motivo era evidente che temesse il botta e risposta con Susanna Camusso (per di più in casa Cgil), tanto che in una dichiarazione riportata il giorno prima dal Sole 24 Ore aveva candidamente ammesso: «Lei dialetticamente è più brava di me, mi farà blu». Ma nessuno dei confindustriali di prima fila, nessuno dei tanti che lo avevano sostenuto per il dopo-Emma avrebbe mai pensato che per evitare di diventare blu si facesse rosso. Aderisse alle tesi della Cgil che da sempre difende la sua constituency del pubblico impiego interpretando i tagli alla spesa pubblica come l'albero dove si sarebbe dovuto impiccare Bertoldo e che ovviamente non si trova mai.

L'attacco alla spending review è stato ancor più sorprendente perché l'editoriale del quotidiano della Confindustria di sabato 7 luglio, affidato al commentatore di punta Guido Gentili, recitava: «Si poteva osare di più». Nessuno avrebbe pensato che Squinzi poche ore più tardi avrebbe chiesto al premier Monti un'inversione a U: osare di meno. Ma come, si chiedono in queste ore nelle Unioni Industriali di provincia, all'assemblea annuale non era stato lo stesso Squinzi a indicare quella della pubblica amministrazione come «la madre di tutte le riforme»? E come poteva pensare che lo Stato si potesse modernizzare senza toccare gli organici e senza ridurre gli sprechi?

Dubbi e malizie a parte, è evidente che i rapporti tra governo e Confindustria sono tesi come non mai. E Palazzo Chigi ha tutte le ragioni per temere un asse con la Cgil, un'alleanza che se storicamente si identificava come «patto dei produttori» oggi apparirebbe come un patto degli oppositori, con gli industriali schierati de facto a favore dello sciopero generale promesso dalla Camusso. Eppure se c'è un momento nel quale le parti sociali dovrebbero fare esercizio di responsabilità è proprio questo e in qualche maniera lo ha sostenuto anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, chiedendo ai corpi intermedi di far propria la riforma del lavoro targata Fornero. Il paradosso è che Rete Imprese Italia, l'alleanza dei Piccoli che pure non attraversa uno dei suoi momenti migliori, è sembrata più attenta, ricettiva e sistemica di quanto si sia dimostrata la Confindustria.
Alla fine, però, può capitare che dalle sortite di Squinzi come per un miracolo possa derivare, ex malo bonum , un processo di chiarimento. È evidente che l'associazione degli industriali in questo momento non ha delle priorità evidenti e scolpite nella pietra. E per sua natura non può essere governata con battute da bar. C'è bisogno, dunque, di una bussola, di un orientamento di medio periodo che ridia autorevolezza all'organizzazione e la metta in grado di affrontare i mesi che vanno da qui alle elezioni politiche del 2013. Siamo nell'epoca del budget statale zero e le organizzazioni di rappresentanza che non ne hanno voluto prendere atto sono destinate comunque ad aggiornarsi, a fare i conti con la discontinuità. Prima succede, meglio è.

Dario Di Vico

9 luglio 2012 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_09/inatteso-fuoco-amico-divico_f2143d94-c984-11e1-826a-3168e25ab050.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 30, 2012, 09:31:57 am »

ELEZIONI ANTICIPATE, MEGLIO DI NO

I compiti a casa non sono finiti

Inizia oggi un'altra settimana chiave della complessa vicenda europea e sono almeno due gli elementi di novità che paiono caratterizzarla. Innanzitutto il ruolo della Bce e del suo presidente Mario Draghi che ha saputo porsi nei giorni scorsi come fattore di stabilizzazione delle tensioni e di governance continentale. Dall'altro la dialettica esplicita che si è aperta all'interno della politica tedesca tra una posizione più dialogante come quella di Schäuble e l'intransigenza di Roesler. Capiremo meglio già da oggi il peso di queste novità e che esito avrà il confronto con i mercati, ma intanto è bene dare un'occhiata a cosa accade in casa nostra.

L'impressione, infatti, è di trovarci di fronte a un pericoloso calo di tensione. Si è creata l'illusione che sia terminato il tempo dei compiti e sia già suonata l'ora della ricreazione. I segnali sono molteplici. L'agenda dei partiti è confusa, i leader stentano a inquadrare le vere priorità e soprattutto cedono a uno sterile tatticismo. In parallelo fioriscono liste di vario tipo che, se segnalano il protagonismo della società civile e la richiesta di rinnovamento, per ora non brillano per la proposizione di nuove/coraggiose idee. Le parti sociali non riescono a qualificare la loro azione e per farsi notare alzano i decibel delle dichiarazioni. Diversi settori della nostra industria (auto, siderurgia, elettrodomestici) stanno affrontando passaggi estremamente delicati e invece di interrogarsi sulle soluzioni si litiga e si sciopera persino quando la Nestlé offre nuova occupazione. Insomma l'impressione è che in troppi recitino a soggetto, non abbiano capito cosa questo Paese deve veramente fare. Da qui l'idea che fa capolino nei partiti e persino nelle parti sociali di interrompere la legislatura in autunno.

Questa suggestione non è sostenuta dalla volontà di imprimere una svolta al risanamento italiano, bensì di prendersi una pausa o al massimo di restaurare le prerogative della classe politica. Il governo Monti in poco tempo ha messo molta carne a cuocere, non tutti i piatti alla fine si sono rivelati di qualità eccellente ma non ha affatto esaurito il suo mandato. Se pensiamo alla spesa pubblica siamo solo all'inizio di un percorso di verifica e riqualificazione, se prendiamo in esame l'abbattimento del debito il cantiere ci appare ancora largamente aperto e se, infine, guardiamo allo stato di salute dell'industria non possiamo che sottolineare come la materia meriti maggiore attenzione di quanta ne abbia ricevuta finora.

Monti dunque è bene che continui fino alla scadenza elettorale, sarebbe auspicabile però che attorno a lui i partiti, che pure in Parlamento hanno votato i suoi provvedimenti, continuino a farlo e a sentirsene orgogliosi, nel frattempo però dovrebbe svilupparsi dal basso un sentimento di riscossa nazionale. Non possiamo chiedere all'Europa di credere in noi e poi restare prigionieri del fatalismo. Non ci possiamo permettere un semestre bianco dell'azione di governo ma nemmeno un Aventino della coscienza collettiva. Non è solo questione di spread , di un aggiustamento tecnico dei nostri meccanismi di funzionamento, abbiamo capito che l'Italia per disegnare un futuro per i suoi figli deve autoriformarsi, smetterla di coltivare le illusioni del Novecento e darsi una prospettiva da Paese moderno, giovane, civile e di conseguenza competitivo. Se, come non ci stanchiamo di sperare, ciò avverrà, a quel punto avrà vinto la società più che l'economia.

Dario Di Vico

30 luglio 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_30/compiti-casa-non-sono-finiti-divico_e380cd8c-da01-11e1-aea0-c8fd44fac0da.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Agosto 11, 2012, 10:43:43 am »

La lettera

«Cara Angela»: i lavoratori della «Metro» chiedono aiuto alla cancelliera Merkel

L'azienda tedesca ha disdettato tutti gli accordi sindacali sottoscritti nei 49 magazzini in Italia

 di Dario Di Vico


Il sindacalismo nell'era dello spread sembra destinato a cambiare. E così i dipendenti italiani di un'azienda tedesca di successo, i grandi magazzini Metro, entrati in conflitto con i padroni non hanno proclamato subito lo sciopero ma hanno deciso di scrivere direttamente alla cancelliera Angela Merkel per avvisarla. Attenzione che così il sentimento antitedesco in Italia può nascere davvero.

La Metro opera nella grande distribuzione italiana da oltre 40 anni, vende di tutto all'ingrosso per commercianti e operatori muniti di partita Iva. In tutti questi anni è stata un laboratorio di politiche sindacali condivise, un pezzo di modello tedesco trapiantato in Italia. Tanto che un lavoratore, anche se iscritto alla Cgil, si è sentito sempre un po' privilegiato rispetto ai colleghi che lavoravano alle dipendenze di altre catene italiane e straniere non ben disposte verso il sindacato. Conferma Giuliana Mesina della segreteria nazionale della Filcams-Cgil: «In Metro si è sviluppato negli anni uno spirito di appartenenza aziendale e i lavoratori non ci stanno a tornare indietro. Si sentono traditi».

Ma cosa è successo di tanto grave da giustificare un appello direttamente rivolto al primo ministro di Berlino? Improvvisamente la dirigenza della Metro ha deciso di disdettare tutti, proprio tutti, gli accordi sindacali sottoscritti centralmente e in ciascuno dei 49 magazzini che la ditta possiede in Italia. Ancora non è chiaro il perché di questa brusca svolta che costringe i tedeschi a recitare per la prima volta la parte dei falchi. L'azienda dichiara di non essere in crisi ma i sindacalisti temono che voglia riscrivere totalmente le regole. Si paventano tagli ai salari (che vanno dai 700 ai 1.100 euro), doppio regime di diritti per vecchi assunti e nuovi, fine del dialogo con Cgil-Cisl-Uil e anche di peggio. «È incredibile che mentre dappertutto si elogia il modello tedesco come chiave di successo, alla Metro succeda esattamente il contrario», commenta Mesina.

La decisione di scrivere «A Sua Eccellenza dott.ssa Angela Dorothea Merkel, cancelliere della Repubblica federale tedesca» è stata presa unitariamente dalla base. La lettera sarà recapitata via posta elettronica utilizzando il sito del governo di Berlino ed è stata estesa per conoscenza anche al presidente del Bundestag Norbert Lammert. A dimostrazione di quanto i dipendenti Metro tengano ai rapporti Italia-Germania la missiva si apre addirittura con una velata critica al premier Mario Monti. «Nei giorni scorsi il nostro presidente del Consiglio ha rilasciato dichiarazioni poco meditate al settimanale Der Spiegel . Tra le cose sbagliate c'è la preoccupazione per i toni antitedeschi del nostro Parlamento e in generale per il clima nei confronti del suo Paese».

Secondo i sindacalisti questa ostilità per ora non c'è e citano il caso della loro azienda dove la piena collaborazione con il sindacato ha permesso «a un'impresa tedesca di affermarsi in un settore difficile come la grande distribuzione italiana», dove a dominare il campo sono soprattutto i gruppi francesi come Carrefour e Auchan. Ma se ora i padroni della Metro cambiano registro, attaccano i diritti sanciti dagli accordi, anche i sentimenti dei lavoratori italiani possono mutare. Cara Merkel, concludono i sindacalisti, è bene che lo sappia: non si deve preoccupare se «i parlamentari italiani a 16 mila euro al mese» diventano antitedeschi, il guaio è se l'ostilità si diffonde tra i dipendenti che, in nome di comuni valori, hanno contribuito al successo delle aziende germaniche in Italia. «Per questo pensiamo che la nostra battaglia debba interessare Voi e il Vostro Paese».


@dariodivico

11 agosto 2012 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_11/dipendenti-metro-scrivono-merkel_5546a8d4-e37a-11e1-880a-4d5f3517dc36.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Settembre 11, 2012, 10:07:19 pm »

GOVERNO TECNICO ECCEZIONE E NON REGOLA

Decideranno gli elettori

Si è aperto in questi giorni in contemporanea al meeting di Cernobbio un confuso dibattito sull'eventualità di ricorrere a un governo Monti bis dopo le elezioni. L'ipotesi ha fatto leva anche sull'apprezzamento dell'operato dell'esecutivo espresso dagli imprenditori presenti al convegno. Detto che la nostra Costituzione non assegna ancora alle riunioni delle grandi élite italiane il potere di indicare il capo di un governo per di più post elettorale, sostenere oggi il Monti bis è un errore. Nell'immediato non ci aiuta nel cammino di risanamento/riforma intrapreso e soprattutto introduce un elemento di ambiguità nel rapporto tra istituzioni e Paese reale. Non è un caso del resto, come ha ricordato ieri lo stesso Mario Monti, che l'Italia sia l'unico Paese tra i 27 della Ue amministrato da un esecutivo di tecnocrati mentre tutti gli altri sono guidati da governi espressione di una reale competizione elettorale.

Una parte di coloro che sostengono l'idea del Monti bis è animata dalla sincera volontà di segnare la continuità, di rassicurare Bruxelles, Berlino e i mercati che il cammino avviato dal governo tecnico non sarà interrotto. Ma la sacrosanta esigenza di rispettare le compatibilità europee e di imporci all'attenzione come un Paese coerente, giustamente sostenuta su questo giornale da Sergio Romano e Francesco Giavazzi, non vale il rischio di aprire una frattura nella tradizione democratica italiana. «Non posso credere che un Paese non sia in grado di esprimere un leader politico capace di governarlo» ha commentato Monti. E se fosse il contrario sarebbe grave, perché segnalerebbe non solo l'anomalia del sistema politico ma l'incapacità di una più larga comunità nazionale di selezionare la classe dirigente e prendersi cura dei propri problemi. Se da anni ci battiamo per abolire il Porcellum non possiamo poi pensare di adottare un modello di rappresentanza in cui il voto diventa un mero sondaggio di popolarità, tanto già si sa chi siederà nella stanza dei bottoni.

Decideranno gli elettori - che, non va dimenticato, hanno votato tutti i provvedimenti di Monti - di non fare scherzi e non cedere alla demagogia di promettere in campagna elettorale quello che una volta al governo non potranno mai mantenere. Esigiamo da loro che riformino la legge elettorale e approvino le norme anticorruzione. Spingiamoli pure ad organizzare al proprio interno competizioni primarie per la scelta dei candidati. Facciamo tutto questo con la giusta tensione civile ma giuriamoci anche di rispettare l'esito delle urne quale esso sia. Il governo tecnico è stata un'eccezione, speriamo felice, ma deve rimanere tale, non può diventare la regola.

I tecnici vengono chiamati alla guida nei momenti di massima emergenza, sono come dei medici dotati di grande competenza e serietà. Un Paese però non può consumare tutti i suoi giorni in ospedale, ha bisogno di ricominciare a pensare a lungo termine. Tutto ciò nel linguaggio delle democrazie moderne prevede che gli schieramenti si affrontino con programmi e ricette alternative tra loro, che i cittadini esprimano la loro preferenza e i vincitori siano chiamati a governare. Sarebbe singolare che, mentre esaltiamo le più moderne forme di partecipazione che la tecnologia ci ha regalato, alla fine congelassimo quella su cui è fondato il nostro patto di civiltà.

Dario Di Vico

@ dariodivico 10 settembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_10/decideranno-gli-elettori-dario-di-vico_cd8ec9ec-fb04-11e1-9366-7e3ba757dba7.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:17:23 pm »

Il commento - Arma spuntata

L'inutile rito dello sciopero dei trasporti

L'agitazione sembra un virus che obbliga le città a fermarsi per un giorno, slegata dalle relazioni con le controparti


Al via una settimana di disagi per i trasporti. Bus, tram e metro si fermeranno domani per l'intera giornata per lo sciopero nazionale proclamato unitariamente dai sindacati di categoria Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Uiltrasporti e Faisa-Cisal, per il mancato rinnovo del contratto scaduto nel 2007. Tra oggi e domani (a partire dalle 21 e per 24 ore) incroceranno le braccia anche tutti gli addetti ai servizi ferroviari di pulizie, accompagnamento notte e ristorazione a bordo treno. Lo sciopero nazionale di domani fa seguito alla protesta di 4 ore dello scorso 20 luglio. Si svolgerà secondo diverse modalità città per città e nel rispetto della garanzia dei servizi minimi. Queste le modalità delle principali città: Roma dalle 8.30 alle 17.30 e dalle 20 a fine servizio; Milano dalle 8.45 alle 15 e dalle 18 al termine del servizio; Napoli dalle 8.30 alle 17 e dalle 20 a fine servizio; Torino dalle 9 alle 12 e dalle 15 a fine servizio; Venezia-Mestre dalle 9 alle 16.30 e dalle 19.30 a fine turno; Genova dalle 9.30 alle 17 e dalle 21 a termine servizio; Bologna dalle 8.30 alle 16.30 e dalle 19.30 a fine servizio; Bari 8.30-12.30 e dalle 15.30 a fine servizio; Palermo dalle 8.30 alle 17.30; Cagliari dalle 9.30 alle 12.45, dalle 14.45 alle 18.30 e dalle 20 alla fine del servizio.

Domani gli autoferrotranvieri di tutt'Italia sciopereranno ancora una volta per il rinnovo del loro contratto che è stato firmato per l'ultima volta nel 2007. Come è avvenuto in svariate altre occasioni il fermo di tram, bus e metropolitane finirà per colpire gli strati più deboli del mercato del lavoro perché le cosiddette fasce orarie di salvaguardia non sono più da tempo uno strumento che va veramente in aiuto degli utenti. Il traffico delle grandi città e soprattutto quello che si muove dall'hinterland verso il centro non può essere più inscatolato in un unico format come ai tempi del fordismo e la grande massa dei lavoratori precari e a partita Iva, che si sposta durante il giorno in segmenti orari fortemente differenziati e che spesso non ha un unico indirizzo in cui lavora, subisce interamente il peso dello sciopero del trasporto locale.

In più gli osservatori di cose sindacali sono abbastanza convinti che l'agitazione di domani, a prescindere dalla sua riuscita, non smuoverà gli ostacoli. Gli enti locali che sono gli azionisti delle aziende di trasporto pubblico non sembrano focalizzati sulla risoluzione di questo conflitto, vivono una stagione di turbolenza tra spending review, taglio delle province ed episodi di malapolitica e di conseguenza non hanno risorse e lucidità per affrontare davvero i nodi aperti. Il guaio è che i sindacati degli autoferrotranvieri sono i primi ad essere coscienti di questo stallo, eppure insistono a convocare scioperi che finiscono per contrapporli all'utenza popolare piuttosto che incalzare le naturali controparti.

Così come l'epoca del budget zero ha reso inutile la tradizionale azione lobbystica della Confindustria, qualcosa di analogo sta succedendo per le forme di lotta sindacali. Lo sciopero è un'arma spuntata, spesso come nel recente caso del pubblico impiego le percentuali di adesioni sono basse, i leader lo chiamano «generale» più per minacciarlo nelle interviste che per organizzarlo veramente. Ci sarebbe tutta l'urgenza di una riconsiderazione degli strumenti di lotta sindacale, che però non arriva vuoi per l'oggettiva difficoltà a disegnare il nuovo vuoi per una ormai patologica pigrizia intellettuale.

In questo modo quello degli autoferrotranvieri si presta ad assomigliare a uno «sciopero endemico», una sorta di virus che periodicamente obbliga le città a fermarsi per un giorno, scisso da qualsiasi dinamica di relazione con le controparti. Non si sciopera per ottenere un obiettivo che è realmente alla portata di mano bensì solo per ribadire la propria esistenza organizzativa e per tener vivo il consenso della parte più militante degli iscritti. Poi se i lavoratori scioperano veramente oppure no cambia poco, anche perché in settori come quelli del trasporto pubblico per realizzare l'effetto ingorgo basta già il solo annuncio amplificato dai media.

Si può andare avanti? I sindacalisti più lungimiranti se lo stanno chiedendo, così come si interrogano sul dilagare delle forme di lotta spettacolari e autolesioniste. Ormai una vertenza aziendale non è tale senza il copione che vede salire su una torre, una gru o un grattacielo, almeno due o più lavoratori. Che ad uso delle tv e della stampa recitano il rosario della propria irriducibilità e intransigenza. Le confederazioni sindacali appaiono come spiazzate da questi episodi di radicalità o almeno fingono che sia così, senza però rendersi conto che ogni volta che il copione si ripete se ne va una fetta della propria titolarità di rappresentanza sociale. Il guaio del sensazionalismo conflittuale è che non solo oscura il prezioso lavoro quotidiano di tanti operatori sindacali che vivono a ridosso del disagio, ma alla lunga si annulla da solo. Arriveremo al punto che l'estremizzazione del gesto di protesta non farà più notizia, nella grande insalatiera mediatica si confonderà con qualcosa che è successo il giorno prima o che sta per accadere il giorno dopo.

Dario Di Vico

1 ottobre 2012 | 8:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_01/inutile-rito-sciopero-trasporti-dario-di-vico_a1f49678-0b8e-11e2-a626-17c468fbd3dd.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Ottobre 28, 2012, 11:06:12 pm »

L'intervista «Tutti capiscono che il Paese deve uscire dall'emergenza e che la vera garanzia di stabilità è un governo regolarmente eletto»

D'Alema: le cancellerie europee hanno fiducia in Monti

«Bersani lo vede al Colle? Sono del tutto d'accordo Da Renzi una violenza distruttiva mai vista prima»


«Risponderò a tutte le sue domande ma la prego iniziamo dall'Europa e non da Berlusconi». Quando può raccontare del dibattito politico che si svolge a Parigi e Berlino Massimo D'Alema si sente sollevato. Lì si discute del futuro dell'Europa mentre «in Italia il discorso pubblico è distruttivo e ripiegato su noi stessi, perdendo così di vista scenario e problemi reali». Dal suo recente tour, comunque, D'Alema è tornato ancor più convinto del valore di Mario Monti. «Viene visto come una personalità che ha portato l'Italia fuori dal pantano e il destino dell'Italia alle cancellerie europee interessa perché temono un effetto contagio».

Siamo al paradosso che all'estero c'è maggiore benevolenza verso gli italiani di quella che noi stessi ci concediamo?
«In Germania ci giudicano un Paese industriale più competitivo della Francia, conoscono la forza del risparmio delle famiglie e considerano il nostro Nord largamente integrato con il loro sistema produttivo. E tutto ciò vale oro perché la crisi ha rivelato che non c'è prospettiva senza una base industriale forte e competitiva. Il capitalismo renano si è rivelato assai più robusto del modello finanziario londinese».

Ma la vittoria del socialista Hollande è servita a spostare gli equilibri oppure no?
«Gli sforzi congiunti di Hollande e Monti sono stati importanti ma la resistenza di Angela Merkel rende tutto estremamente lento. Paradossalmente la scelta politica più coraggiosa l'ha fatta la Bce, mentre i progressi politici verso l'unione bancaria e verso una strategia per la crescita sono troppo lenti. L'attesa per le elezioni tedesche, poi, può avere anche un effetto paralizzante».

Visto che Monti è il numero di telefono dell'Italia, le cancellerie europee auspicano un Monti bis?
«Tutti capiscono che l'Italia deve uscire dall'emergenza e che la vera garanzia di stabilità è un governo regolarmente eletto e con una solida maggioranza parlamentare, come avviene in tutti i Paesi europei».

Come si fa a incassare il dividendo legato all'azione di Monti senza un Monti bis?
«Chiedendo agli elettori di scegliere un governo di legislatura che abbia come programma la riorganizzazione del Paese».
Implicitamente lei sta dicendo, come Bersani, che Monti è più facile che varchi il Quirinale piuttosto che torni all'università Bocconi?
«Sono del tutto d'accordo con Bersani».

Come giudica lo stop and go di Berlusconi che nei giorni scorsi aveva ventilato di ricorrere al Monti bis e ieri invece ha minacciato di ritirare la fiducia al governo?
«Siamo tornati al Berlusconi populista e antieuropeo, quello che abbiamo conosciuto fino a pochi mesi fa. È la conferma di un irriducibile fondo estremista che rende, con ogni evidenza, impossibile l'idea di continuare la collaborazione con questa destra nel corso della prossima legislatura. Osservo però che vi sono in Italia poteri e interessi talmente ostili alla sinistra da aver tentato, ancora pochi giorni fa, di rivalutare il Cavaliere presentandolo come un illustre statista».

Ma è stato lei a considerare per primo Berlusconi uno statista da coinvolgere nel ridisegno delle istituzioni.
«Sì, ho cercato un accordo sulle regole per costruire un sistema democratico non lacerato da pregiudiziali, un bipolarismo civile. Era nell'interesse del Paese. Ma sono passati 14 anni e abbiamo dovuto constatare che con Berlusconi non è possibile».

Ieri però l'ex premier ha rigettato sul centrosinistra l'accusa della mancata regolamentazione del conflitto di interesse.
«È un'operazione ridicola e vergognosa. Quando cercammo di scrivere una legge seria e rigorosa, e fui io come presidente del Consiglio a fare questo tentativo, ci trovammo di fronte a un violentissimo ostruzionismo parlamentare. Per cui se Berlusconi oggi è chiamato a rispondere in tribunale come la persona che ha detenuto l'effettivo controllo di Mediaset, deve sapere che è lui stesso ad averlo voluto. Non si lamenti delle conseguenze. Invece, fa impressione che in un Paese con la pressione fiscale così alta su tanti cittadini, chi ha governato per anni sia condannato per frode fiscale».

Il Cavaliere ha annunciato che guiderà in prima persona la campagna elettorale del suo schieramento. Cosa cambia per il Pd?
«Niente. Berlusconi resta il leader del centrodestra, l'annuncio di ieri non mi stupisce».

Le primarie del centrodestra con il Cavaliere che dà le carte restano credibili?
«Spero che si facciano e abbiano il carattere di una vera consultazione. Sarebbe un'occasione di confronto tra modi diversi di concepire la partecipazione democratica e allontanerebbero, per loro, la tentazione di invadere le nostre...».

Le doppie primarie stanno mettendo in difficoltà Pier Ferdinando Casini, una personalità politica a cui lei ha guardato sempre con interesse.
«Il centro democratico ha lavorato per porre fine alla stagione di Berlusconi e ciò va riconosciuto. Ma oggi l'Udc appare come un partito indeciso, che non ha chiaro quale sia la sua mission. Penso che la strada giusta sia l'alleanza tra progressisti e moderati, un patto di legislatura per le riforme e la ricostruzione del Paese».

Al centro si stanno affacciando nuove figure. È stato presentato un manifesto firmato da Riccardi e Montezemolo e si parla di una discesa in campo del ministro Passera.
«La politica non è un club chiuso e il Paese ha bisogno dell'impegno di personalità nuove, occorre però non disperdere le forze e dunque spero che ci si concentri attorno a un progetto politico condiviso».

Veniamo alle primarie del Pd. Lei si è caricato addosso il peso della battaglia contro Renzi. Alcuni giudicano che sia stato coraggioso, altri masochista.
«Veramente è Renzi che ha fatto di me il suo bersaglio. Difendo una storia e una tradizione che lui vorrebbe rottamare, ma soprattutto sono convinto che per il Paese l'unica prospettiva credibile sia data dalla vittoria di Bersani».

Beppe Vacca, un intellettuale a lei molto vicino, ha detto che se vincesse Renzi il partito lo espellerebbe in breve. Anche lei ha fatto presagire un rincrudimento della lotta politica dentro il Pd. Pensa che sarebbe possibile una scissione da sinistra?
«Dovrebbe essere Renzi il vero destinatario della sua domanda. È lui che vuole rottamare idee e persone. La sua è una violenza distruttiva che non si è vista mai, in nessun partito. Un partito è una comunità di persone che si rispettano e coltivano lo stesso sentimento verso la propria storia».

Vendola però sta rendendo più difficile la vita a Bersani. Un giorno presenta un referendum contro la riforma Fornero e l'altro promette di rottamare Monti.
«Non sono d'accordo con queste posizioni di Nichi e lo dico apertamente. Sono convinto però che Bersani saprà farsi garante dell'equilibrio della coalizione. Anche perché è stato scelto, e voi giornalisti lo avete sottovalutato, un metodo di risoluzione dei contrasti, una sorta di governance della coalizione. Le forze politiche che hanno aderito alle primarie hanno concordato che le decisioni nell'alleanza verranno prese a maggioranza dall'assemblea dei parlamentari eletti».

So che il termine rottamazione le procura fastidio intellettuale, ma fuori dalla politica suona come ricambio e oggi i giovani chiedono spazio e rinnovamento nella società e nelle professioni. Non può non tenerne conto.
«Ne tengo tanto conto che sono favorevole al ricambio, il Paese ne ha bisogno. È singolare però che la rottamazione dei politici sia pilotata da chi poi ostacola il ricambio nella società. L'establishment vuole che il rito distruttivo si celebri e si esaurisca nel perimetro politico, anzi nel perimetro del centrosinistra. In modo che le classi dirigenti, responsabili dello sfascio non meno dei politici, possano continuare a fare quello che hanno fatto fino a oggi. Ricorda Tomasi di Lampedusa? Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi...».

Dario Di Vico

28 ottobre 2012 | 9:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_28/cancellerie-europee-fiducia-in-monti-intervista-dalema-divico_9170b29a-20cf-11e2-89f5-89e01e31e2ac.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Novembre 03, 2012, 11:57:20 am »

LA SVOLTA DELLA LEGGE DI STABILITÀ

Amnesie, pigrizie e cambi di rotta

Siamo tutti diventati bravi nella fenomenologia della crisi. Ci raccontiamo come abbiamo trovato vuoto il tal ristorante, quale negozio ha chiuso in una frequentatissima via della città, il nome dell'artigiano che dopo strenua resistenza ha dovuto rassegnarsi. Siamo tutti convinti di essere entrati in una delle congiunture più grigie della Grande Crisi e non credendo più alle super ricette, alle dotte citazioni di Friedman/Keynes/Schumpeter/Krugman, ci fidiamo solo di ciò che vediamo con i nostri occhi. Quanto al governo capiamo che sta facendo quel «lavoro sporco» che nessuno degli esecutivi che lo avevano preceduto aveva avuto la lungimiranza di iniziare. Poi ciascuno di noi coltiva una, dieci, cento critiche da rivolgere ai ministri ma ci siamo convinti che non esiste una politica economica alternativa e praticabile subito. Avremmo però bisogno che qualcuno spiegasse meglio come intende guidare il Paese in questi mesi che portano alle elezioni ma necessitano comunque di scelte sull'occupazione, i consumi, gli investimenti. Non chiediamo di essere illusi raccontandoci che la ripresa è vicina, vorremmo più dettagli sulle tappe di avvicinamento.

Forse non è possibile riassumere «il polso del Paese» così sinteticamente ma riflessioni di questa natura sono utili per contestualizzare la legge di Stabilità varata dal governo e poi rivisitata. Si era cominciato dicendo che avrebbe avvantaggiato il 99% della popolazione e poi si è visto che mai affermazione era stata così vuota. Si era confezionato un autentico pasticcio sulla franchigia e sul tetto per le detrazioni fiscali per di più retroattivo e in questo modo si era messa in obiettiva difficoltà la famiglia Rossi che nella programmazione del suo budget avrebbe voluto poter decidere con maggiore serenità. In definitiva il vero errore compiuto dal governo in questa circostanza è stato quello di aumentare il tasso di incertezza invece di diminuirlo.

Ora Monti e i suoi collaboratori hanno deciso di cambiare rotta, puntano sulla riduzione del cuneo fiscale con il doppio obiettivo di dare un po' di ossigeno alle imprese e favorire i lavoratori a reddito basso con la speranza di sorreggere i consumi. La mossa è giusta, si tratta di riempirla con numeri e date e subito dopo di raccontarla alle imprese. Un primo effetto positivo sarà quello di rimotivare le parti sociali che hanno finora sottovalutato la portata di un'intesa per la produttività basata sul decentramento della contrattazione. Ma una volta scelta come obiettivo-guida la riduzione del cuneo fiscale bisognerà accompagnare questa opzione con iniziative coerenti, rimediando ad amnesie e pigrizie. Perché la nuova Ice (l'agenzia che ha preso il posto dell'Istituto per il commercio estero) procede così a rilento proprio quando l'export si conferma un'importante carta da giocare? Perché l'esame del piano Giavazzi che prevedeva un radicale riordino delle agevolazioni alle imprese non è stato ultimato?
Formulo queste domande non per compilare una lista di accuse ma solo per sostenere come l'inversione di marcia sarà doppiamente valida se accompagnata da scelte omogenee e comprensibili. Una maggiore linearità dell'azione di governo non ridurrà di per sé l'ansia sociale, può aiutare però gli operatori nelle decisioni di business e le famiglie nella difficile conduzione del giorno per giorno. Non chiediamo un «racconto» con la maiuscola ma l'illustrazione di un itinerario condiviso e credibile. Magari scopriremo che la chiarezza funziona meglio della pedagogia.

@dariodivico

Dario Di Vico

2 novembre 2012 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_02/di-vico-amnesie-pigrizie_48a42e66-24b7-11e2-974b-22431e7be0ba.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Novembre 17, 2012, 03:07:03 pm »

UNA IMPASSE DA EVITARE


Il logorio dei tecnici


L'impressione è che ci stiamo dirigendo verso una sospensione dell'azione di governo, eppure lo spazio (cinque mesi) che ci separa dalle urne equivale quasi a metà del tempo fin qui trascorso a Palazzo Chigi da Mario Monti. Il rischio è che la sacrosanta competizione tra i partiti e il battage sulla scelta dei candidati monopolizzi il discorso pubblico e si finisca per dare per scontato che il Parlamento non debba più lavorare. Senza voler sottovalutare le discontinuità introdotte dal governo dei tecnici è però evidente a tutti che il Paese non è guarito dalle sue malattie. Il debito pubblico è arrivato a quota 1.995, a soli cinque miliardi dalla soglia psicologica dei 2 mila miliardi. Lo spread , che testimonia il giudizio dei mercati, continua a veleggiare attorno a quota 360. La disoccupazione ha fatto segnare il record e purtroppo la tendenza è tutt'altro che invertita. Il sistema delle imprese è in grave sofferenza, perché se è vero che chi ha trovato la via dell'export sta ottenendo risultati positivi, il mercato interno è quasi totalmente fermo. Le nostre città stanno lentamente cambiando volto e i segni della depressione dell'economia cominciano ad essere visibili nelle zone industriali e nelle vie dei centri storici.
Ricordare tutto ciò non è un esercizio polemico, vuole essere solo un richiamo a non interrompere l'azione di governo e a non archiviare frettolosamente l'agenda Monti. Paradossalmente la Spagna, la cui condizione di salute è peggiore della nostra, ha dalla sua il vantaggio di godere di quattro anni di continuità del governo Rajoy mentre davanti a noi si stagliano mesi di vuoto inerziale ai quali nemmeno sappiamo se seguirà la formazione di una maggioranza stabile e coesa. Il premier Monti a più riprese ha sostenuto (giustamente) l'inopportunità per l'Italia di dotarsi di quell'ombrello protettivo rappresentato da un memorandum d'intesa sottoscritto con le autorità internazionali. Però doverlo firmare proprio a ridosso dei comizi elettorali non costituirebbe una scelta neutra dal punto di vista degli equilibri politici e potrebbe influenzare negativamente l'orientamento degli elettori. Ma - e c'è un grosso ma - di fronte a una paralisi dell'azione di governo crescerebbe il novero di quanti già da oggi chiedono l'apertura di quel parafulmine.
Se vogliamo combattere l'inerzia ed evitare di sottostare ad una scelta che si presenta dolorosa e divisiva non c'è bisogno di anticipare la data delle urne. Sarebbe importante, intanto, che le forze politiche dessero prova della propria responsabilità, impegnandosi a non promettere ciò che non potranno mantenere una volta al potere. Il governo, dal canto suo, dovrebbe continuare ad esercitare la sua azione con la medesima intensità e concentrazione senza sciogliere le righe. Lo deve fare innanzitutto per coerenza: la stragrande maggioranza delle decisioni prese sulla carta non è stata ancora implementata e i prossimi cinque mesi possono essere correttamente utilizzati per contrastare le lungaggini degli apparati burocratici e rendere esigibili le misure varate. Il periodo che ci porterà da qui all'aprile del 2013 non può, dunque, essere considerato come un accidente della storia e i motivi sono almeno due: il disagio delle forze produttive non rispetta le sospensioni elettorali e il giudizio della comunità internazionale sull'esperimento Monti (e di converso sull'Italia) sarà formulato alla fine del percorso, e non ai due terzi.

Dario Di Vico

15 novembre 2012 | 9:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_15/logorio-tecnici-divico_9bde07d0-2eeb-11e2-8b0e-23b645a7417c.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Dicembre 01, 2012, 11:37:11 pm »

IL DECRETO DEL GOVERNO E IL FUTURO DELL'Ilva

Frenare l'arroganza


C'era bisogno di intervenire e il governo non si è tirato indietro incassando a fine serata un plauso, che seppure non unanime è comunque ampio e significativo. Il decreto emesso ieri dal Consiglio dei ministri per la continuità produttiva dello stabilimento Ilva introduce delle novità e fissa alcuni punti importanti. Innanzitutto lega la risoluzione del rebus di Taranto, la necessità di riuscire a conciliare nel Mezzogiorno ambiente e lavoro, all'immagine stessa dell'Italia nel consesso internazionale. Che lo abbia affermato in conferenza stampa il premier Mario Monti, la cui attenzione al giudizio dell'opinione pubblica europea è costante, equivale alla promessa che la città non sarà lasciata sola. Anzi, che il processo di risanamento della fabbrica sarà il più trasparente possibile.

Il governo ieri ha anche detto che considera l'acciaieria pugliese un'attività strategica con un'affermazione che non potrà non piacere a quanti legano indissolubilmente la caratura internazionale del nostro Paese alla forza e alla credibilità della sua industria. Chi aveva criticato a più riprese l'impostazione di Monti tesa a privilegiare più l'allargamento della domanda (le liberalizzazioni dei taxi e del mercato del lavoro) che la salvaguardia dell'offerta (la nostra struttura manifatturiera) non potrà non cogliere la discontinuità culturale presente nel decreto. Si sta facendo della politica industriale, seppur sotto il condizionamento dell'emergenza e dopo aver manifestato qualche incertezza e pigrizia.

La produzione a Taranto non si fermerà innanzitutto perché questa è la garanzia, forse la sola, per avviare la bonifica ambientale e poi perché quello stabilimento è centrale nel sistema delle forniture della filiera meccanica italiana. Non sappiamo, infatti, quanto ancora sarà lungo il tunnel della crisi ma non possiamo pensare neanche per un attimo di uscirne deindustrializzando. Se vogliamo sperare di tamponare la crescita della disoccupazione - i dati di ieri sono allarmanti - non possiamo un giorno invocare il radicalismo della piazza e quello dopo avere atteggiamenti autolesionistici.

I problemi, dunque, si affrontano e non si negano. È questo il messaggio di Palazzo Chigi ed è importante che tutti gli altri soggetti coinvolti a vario titolo nel dramma di Taranto si muovano con lo stesso spirito, con l'obiettivo cioè di coniugare responsabilità e pragmatismo. Il sindacato lo ha fatto e l'esempio va esteso quanto più possibile. Perché ciò possa avvenire c'è una sorta di precondizione: più il governo e il garante che sarà nominato saranno intransigenti con la famiglia Riva, più sarà chiaro agli abitanti della città che il decreto reca con sé una svolta e recepisce il drastico giudizio dato dalla magistratura sull'operato degli azionisti e del management dell'Ilva. Non c'è ulteriore spazio per l'arroganza e la clausola inserita nel decreto, che prevede in caso di ostruzionismo da parte dei Riva persino la perdita della proprietà, rappresenta un passaggio chiave (non scontato) dell'iniziativa del governo.

Dario Di Vico

1 dicembre 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_01/frenare-l-arroganza-di-vico_ea02c540-3b7f-11e2-97b1-3dd2fef8db49.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Dicembre 08, 2012, 05:45:01 pm »

IL CETO MEDIO PERDE REDDITO E PESO

L'ascensore che non sale più


L'abilità di Giuseppe De Rita nel produrre lessico serve a raccontarci meglio l'evoluzione della società italiana e quest'anno ci consegna il termine «smottamento». Il ceto medio che a spanne rappresenta il 60% delle famiglie sta subendo un netto declassamento, retrocede.
I suoi redditi si contraggono, la ricchezza posseduta diminuisce, il posto di lavoro salta. Sotto i colpi della crisi la società, dunque, subisce un profondo mutamento. I commercianti abbassano le saracinesche, gli artigiani non ce la fanno a reggere l'urto della recessione e delle tasse, il management intermedio è il primo a pagare le politiche di ristrutturazione aziendale, i piccoli professionisti viaggiano spaesati.
Il fenomeno, almeno per una volta, non è unicamente italiano ma attraversa tutti i Paesi sviluppati e lo dimostrano le cronache politiche di questi mesi che ci hanno riportato come sia François Hollande sia Barack Obama abbiano scelto come motivo conduttore delle loro campagne proprio questo tema. Per onestà va aggiunto che da noi è più bassa che altrove la mobilità sociale e il turnover generazionale più difficile. L'ascensore italiano viaggia al contrario e cresce quantitativamente la parte inferiore del ceto medio, ingrossata dalle famiglie straniere e dal vertiginoso incremento del numero dei singoli. La percentuale di connazionali che vive in «tipologie di famiglie non tradizionali» in meno di venti anni è cresciuta dal 7,6 al 17,3%.

Viene facile da pensare che anche da noi, come in Francia e negli Stati Uniti, chi aspiri a vincere le elezioni debba in qualche maniera confrontarsi con l'Agenda del signor Rossi, con le priorità delle classi medie italiane. Speriamo solo che ciò non avvenga spargendo a piene mani la cattiva moneta delle promesse impossibili da mantenere. C'è da auspicare, invece, che sia la politica sia la rappresentanza sociale rivolgendosi al ceto medio «smottato» sappiano coniugare la visione con la responsabilità. Perché tutto sommato la straordinaria vitalità della società italiana può tornare a produrre valore.

Prendiamo le relazioni industriali. Se le parti accettano di chiudere il librone del Novecento e in azienda prevale un clima di collaborazione ne possono scaturire aumenti di produttività, riapertura delle carriere professionali, nuovi istituti della contrattazione. Lo stesso vale per le relazioni tra banca e impresa, dove oggi abbondano l'afasia e il sospetto si può costruire invece un confronto più ricco che renda veramente meritocratica la concessione del credito, governi il ricambio generazionale, accompagni le aggregazioni tra piccole imprese. Sono solo degli esempi, per carità, altri ne andrebbero individuati nel campo dell'istruzione, delle professioni e della pubblica amministrazione perché è essenziale che i soggetti della società sappiano ripensare il proprio ruolo dentro la crisi, si riposizionino. L'analisi, però, non sarebbe completa se non investisse le élite , «gli dei della città» per dirla con De Rita. La distanza con il popolo è cresciuta, la crisi ha favorito le culture oligarchiche, i circuiti chiusi, le solidarietà di casta. Perpetuando questi riti un Paese non è destinato ad andare molto lontano. Forse prima dei taxi dovremmo liberalizzare proprio le élite.

@dariodivico
Dario Di Vico

8 dicembre 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_08/ascensore-che-non-sale-piu-dario-di-vico_05944cc2-410a-11e2-b1cb-f72c456506f7.shtml
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