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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120574 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 07, 2012, 11:16:20 am »

Liberalizzazioni

Spesa notturna e avvocato low cost

Fantaviaggio in una società più aperta: benzina e farmaci al market, concorrenza tra taxi e distretti di negozi aperti fino a mezzanotte


Quando si parla di liberalizzazioni tutti abbiamo in mente le grandi città anglosassoni aperte 24 ore con il loro corredo di cornershop gestiti da pachistani, di taxisti provenienti da tutti i continenti e di farmacie straripanti di medicinali disponibili tutta la notte. Ma quanto di tutto ciò può avvenire in Italia se davvero la deregulation del commercio e degli altri servizi prenderà piede?


Anche noi abitanti del Belpaese, pur inguaribilmente politicisti, abbiamo cominciato a capire che a cambiare la vita alla fine non sono i grandi progetti declamati in campagna elettorale bensì le piccole e grandi iniezioni di modernità. La Tav che avvicina Milano/Roma a Bologna e Firenze, i supermercati aperti fino alle 22, i social network che incrociano le opinioni degli insonni. E oggi con la decisione del governo di prendere i dossier dai cassetti dell'Antitrust e farli diventar legge siamo di fronte a un (nuovo) passaggio di questo tipo. Sicuramente non arriveremo a tappe forzate verso una società h24 ma le novità che sono in cantiere potranno cambiare spezzoni della nostre abitudini quotidiane, almeno di coloro che abitano nelle grandissime città.


Prendiamo la decisione di rivedere la pianta organica delle farmacie. Significa che ne apriranno di più e che di notte o nei giorni festivi non ci dovrebbe essere più quella transumanza di automobilisti che consultano nervosamente tabelle e avvisi, chiamano con concitazione i familiari a casa, tutto per trovare l'agognata farmacia aperta dove però si dovranno mettere pazientemente in coda. Molte delle attuali parafarmacie dovrebbero fare il salto e specie nei piccoli centri l'offerta di punti vendita sanitari dovrebbe aumentare. Avremo anche noi nelle città catene come l'inglese Boots dove i medicinali sono esposti orgogliosamente come fossero formaggi o frutta esotica? È difficile, anche se l'Antitrust apre alla possibilità che si creino reti che colleghino fino ad otto farmacie e che quindi in teoria possono proporre al consumatore prezzi più convenienti e orari dilatati. Già oggi con le leggi vigenti è consentita ai farmacisti una certa flessibilità d'orario ma sono pochi (e malvisti) i titolari che ne hanno usufruito. Una novità importante che ci avvicinerà al modello anglosassone l'avremo però con i farmaci di fascia C che potranno essere venduti nei supermercati in appositi reparti con personale specializzato. I sostenitori della deregolazione giurano che non ci sarà solo maggiore libertà di scelta e più flessibilità negli orari ma che ci avvantaggeremo anche in termini di prezzi. Speriamo.


L'apertura dei supermercati alimentari di sera e di domenica ha già in qualche maniera inciso sulle nostre abitudini. È facile nel dì di festa trovare code alle casse perché gli italiani amano il pane fresco e pur di averlo si recano in pellegrinaggio alla Coop, all'Esselunga o da Carrefour e ovviamente comprano quasi sempre qualcosa d'altro. La flessibilità d'orario, almeno sulla piazza milanese, non è solo prerogativa dei grandi. Alcuni parrucchieri hanno cominciato a tener aperto fino alle 22 per permettere alle clienti di passare a tarda ora per tagliarsi i capelli, ritoccare il colore o anche solo farsi dare una pettinata prima di uscire a cena. Alcuni negozi di make up tengono aperto fino alle 21 per garantire il trucco dell'ultim'ora delle loro clienti affezionate. I bar hanno modulato la loro offerta diversamente, alla Zelig potremmo dire. Si adattano all'avvicendarsi dei diversi target. Al mattino servono caffè e brioche, all'ora di pranzo fanno da tavola fredda e nel pomeriggio organizzano l'happy hour. E dopo magari chiudono. Perché come sostiene Anna Zinola, docente di psicologia del marketing all'università di Pavia «è così che i piccoli negozi possono sopravvivere all'offensiva dei grandi». Non c'è bisogno di tenere aperto 24 ore ma di rapportare l'orario alle esigenze del cliente. Anche poche ore ma quelle giuste.


Tutte queste esperienze, che per ora vivono a livello sperimentale, in virtù delle annunciate nuove lenzuolate dovrebbero irrobustirsi e diffondersi anche nella città medie. È probabile che si verranno a creare piccoli distretti commerciali, zone come corso Buenos Aires a Milano o via Cola di Rienzo a Roma nelle quali i negozi resteranno aperti fino a mezzanotte. Oppure le organizzazioni dei commercianti di singoli quartieri potranno mettersi d'accordo per lanciare esperimenti del tipo Notte Bianca. Insomma, per farla breve, è difficile ipotizzare che avremo anche noi i corner shop gestiti da asiatici e diffusi come a Londra, è più probabile che nasca una via italiana all'orario lungo.


La ricetta che l'Antitrust ha scelto per liberalizzare i taxi è quella di raddoppiare le licenze però ciascun tassista ne avrà una in regalo come risarcimento. Potrà utilizzarla per mettere al lavoro la moglie o il figlio oppure potrà venderla. In questo modo a Roma si dovrebbe passare da 7.500 a 15 mila vetture. Nelle ore di picco in genere viaggia un terzo delle macchine e quindi capitolini e turisti avranno a disposizione in quei frangenti 5 mila taxi e non dovrebbero più fare le lunghe code di oggi a Fiumicino, alla Stazione Termini o in piazza di Spagna. È chiaro che questo ragionamento vale anche per Milano e forse per Firenze ma finisce qui. Nelle altre città italiane non c'è alcun bisogno di distribuire nuove licenze, l'offerta supera la domanda. I prezzi non dovrebbero cambiare a meno che l'accresciuta concorrenza non faccia sì che alcuni consorzi di tassisti mettano sul mercato soluzioni innovative. Come una card prepagata per fidelizzare i propri clienti oppure un'offerta-abbonamento a prezzi ridotti rivolta alle donne per il rientro a casa dopo le 24. È possibile anche che vedremo i primi tassisti extracomunitari anche perché la diffusione del navigatore satellitare ha reso non più indispensabile la conoscenza delle strade della città.
Sempre nel campo dei trasporti qualcosa potrebbe cambiare per i pendolari. L'affidamento dei servizi ferroviari locali a gara dovrebbe stimolare una concorrenza sulla qualità che oggi manca. In Emilia ne sta per partire una ma in questo caso e più in generale il modello prescelto non è quello anglo-thatcheriano (privatizzare tutto) bensì tedesco, dove un quarto dei trasporti locali su rotaia è gestito da soggetti diversi dalla compagnia leader, la Deutsche Bahn. Stiamo comunque parlando di novità che non si potranno realizzare almeno prima di tre anni in virtù dei contratti già in essere con le Ferrovie dello Stato.
A tempi più brevi ci sarà invece la possibilità per la grande distribuzione di vendere la benzina e i prodotti collegati. La difficoltà di ridurre il prezzo del carburante in Italia è legata, oltre allo straordinario peso fiscale, a una filiera eccessivamente lunga che vede la presenza ingombrante e costosa dei grossisti.

I grandi supermercati potranno spuntare, grazie alle più elementari economie di scala, prezzi più interessanti che dovrebbero poi trasferirsi al consumatore finale. In Francia dove è così da tempo nelle stazioni di servizio di Auchan o Carrefour la benzina costa il 10-15% in meno e qualcosa del genere si auspica che succeda anche in Italia dove gli stessi francesi sono presenti e dove un operatore come Coop ha grande voglia di entrare in campo. E del resto la grande distribuzione potrà usare la benzina come «prezzo civetta» per attirare clientela a cui sottoporre offerte commerciali di tutti i tipi. Nel campo dell'energia elettrica la liberalizzazione già c'è e una qualche forma di competizione tra operatori pure, gli effetti sulle tariffe non sono stati però così clamorosi da farne un caso di successo e novità a breve non sono previste, anche perché è rimasto irrisolto il nodo di Snam Rete Gas.


Arriviamo ai servizi professionali. L'Antitrust chiede al governo di abolire le tariffe minime. In alcune professioni, come ingegneri e architetti, sono già saltate mentre funzionano nei servizi legali. Il consumatore dovrebbe avvantaggiarsi della loro abolizione perché gli avvocati più giovani e che magari hanno studiato all'estero potrebbero presentarsi sul mercato, almeno in una prima fase, con politiche di prezzo aggressive almeno per le pratiche consulenziali più semplici. Del resto i grandi studi legali impongono tariffe rapportate al loro prestigio e quindi già operano in un regime di mercato libero. L'abolizione delle tariffe può avere qualche incidenza per chi deve rivolgersi a un dentista o a un commercialista, anche in questo caso per le operazioni più semplici. Se esaminiamo da vicino il business dei servizi odontoiatrici c'è da registrare che sono entrati massicciamente operatori stranieri come gli spagnoli di Vitaldent che possono, in virtù delle solite economie di scala e di un'organizzazione di tipo industriale, praticare prezzi molto concorrenziali e di conseguenza hanno già modificato il tradizionale rapporto tra il dentista e il suo cliente.


Una novità che potrà influenzare la scelta del professionista a cui rivolgersi riguarderà senz'altro la comunicazione commerciale. Già oggi vediamo timidi esperimenti di pubblicità e di marketing da parte di singoli professionisti o studi, molto spesso però gli Ordini intervengono per evitare che il fenomeno debordi e che la competizione a suon di slogan diventi troppo aggressiva. Ci dovremo abituare, invece, a trovare in metropolitana o in autobus i volti di dentisti, architetti e avvocati che ci invitano ad aver fiducia in loro e a servirsi della loro professionalità. A quel punto la deregulation avrà trionfato e le liberalizzazioni dell'Antitrust avranno prodotto i Giovanni Rana dell'arringa.

Dario Di Vico
twitter@dariodivico

7 gennaio 2012 | 8:19

da - http://www.corriere.it/economia/12_gennaio_07/viaggio_futuro_divico_7cee19ec-38ff-11e1-af60-0a4a95cfbebb.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 21, 2012, 12:12:15 pm »

L’albero scosso

Per chi ha a cuore l’apertura della società italiana ieri è stata una giornata importante. Mai l’albero era stato scosso così, mai in un colpo solo un governo aveva preso una serie di provvedimenti di liberalizzazione tanto larghi e destinati a toccare tutte le categorie. Il sistema Italia per ripartire ha bisogno di un’iniezione di concorrenza e ci si è messi nella condizione di assecondare questo processo. Modalità e tempi di attuazione delle singole misure sono differenti tra loro e di conseguenza l’attuazione richiederà particolare vigilanza per non venir meno al principio di equità.

Altrettanta applicazione l’esecutivo dovrà porla nel rapporto con gli operatori dei settori liberalizzati. Per il retaggio delle tradizioni il mercato è percepito come una penalizzazione e non come occasione di crescita della categoria e delle singole persone. La paura è nemica della libertà anche nella sfera economica e se si può, con un sovrappiù di pedagogia, contribuire a vincerla si investe sul capitale umano. Quindi se con i tassisti, che pure avevano meritato il cartellino rosso, il governo ha saputo fare opera di ascolto, è bene che una eguale considerazione sia riservata, ad esempio, ai professionisti. Bene ha fatto Mario Monti a prendere di petto uno dei nodi della scarsa competitività del sistema Italia, il costo dell’energia.

Le prime scelte compiute in materia di gas vanno nella giusta direzione e la loro corretta applicazione, legata allo scorporo della Snam dall’Eni, va incoraggiata. Rimane, caso mai, il rimpianto che pari determinazione non si sia avuta per i petrolieri, i servizi postali, il trasporto ferroviario e il rapporto tra banche e clienti. Con un pizzico di ottimismo pensiamo però che al governo non mancheranno occasioni future per completare l’opera. Due misure ci preme sottolineare per la doppia valenza, concreta e simbolica.

La possibilità di creare start up guidate da giovani, con un capitale di un euro e struttura giuridica semplificata, rende esplicita la finalità prima delle liberalizzazioni nella nostra società ingessata: includere le nuove generazioni e responsabilizzarle nella creazione di valore. Altrettanto significativa è l’istituzione del Tribunale delle imprese, destinato a velocizzare l’esame del contenzioso e renderci più attrattivi agli occhi di quegli investitori esteri che hanno sempre lamentato la farraginosità del nostro sistema giudiziario.

Dal ridisegno dei poteri e delle competenze nel settore strategico dei servizi un ruolo chiave viene ad assumerlo la costituenda Authority delle reti e dei trasporti. L’ampiezza delle materie che ricadranno sotto la sua giurisdizione rende, di conseguenza, ancora più delicata la scelta degli uomini e del modus operandi. Di un nuovo Moloch faremmo volentieri a meno.

Dario Di Vico

21 gennaio 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_21/l-albero-scosso-dario-di-vico_7b37e130-43f6-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 13, 2012, 11:21:53 pm »

CONFINDUSTRIA TRA BOMBASSEI E SQUINZI

Chi guiderà gli imprenditori

Finora il confronto tra Alberto Bombassei e Giorgio Squinzi per la presidenza della Confindustria è vissuto quasi esclusivamente attorno all'abolizione dell'articolo 18. Fortunatamente, però, da qui al 22 marzo c'è tutto il tempo per rimediare, magari a cominciare già da domani a Bologna quando i due concorrenti incontreranno gli industriali emiliani. Del resto, se questi dibattiti fossero aperti e fosse previsto un contraddittorio all'americana la qualità delle rispettive proposte verrebbe fuori con maggior nettezza e trasparenza.

Ma quali sono i temi sui quali è interessante approfondire il punto di vista di Bombassei e Squinzi? Vale la pena forse cominciare proprio dall'organizzazione che andranno a dirigere. In un'intervista concessa al Corriere nel gennaio 2011 Emma Marcegaglia indicò un dettagliato piano di riforma della Confindustria. Molte misure sono rimaste sulla carta, magari solo per il sopravvenire di scadenze più urgenti, ma il nuovo presidente dovrà impegnarsi a fondo per ridurre il peso della burocrazia interna. Convegnite, duplicazione di strutture, rimodulazione dei servizi offerti alle imprese sono alcuni degli snodi da affrontare e se i contendenti assumessero da subito impegni precisi se ne gioverebbe l'immagine stessa della confederazione.

Più in generale, infatti, si può dire che le stagioni migliori della Confindustria, da Angelo Costa in poi, sono risultate quelle in cui la sua azione è riuscita a legarsi a un'idea di Paese, alle esigenze di modernizzazione anche di chi non possiede un'impresa. Basti pensare al processo di apertura dei mercati o all'adesione al processo di integrazione europea. Nessuno chiede a Viale dell'Astronomia di rinunciare alla funzione primaria di sindacato delle imprese, ma visto il momento che viviamo non è esagerato chiedere a Bombassei e Squinzi di indicare quale società immaginano, quale possa e debba essere il futuro dell'Italia. In fondo, se la Confindustria gode di tanta considerazione è perché tutti la quotano come parte insostituibile della classe dirigente. E da questa responsabilità non ci si può dimettere.

Proporsi come classe dirigente dell'Italia 2020 vuol dire proseguire lungo il percorso di privatizzazione e liberalizzazione delle strutture di un Paese invecchiato. Per farlo con credibilità occorre però render conto di come si è operato nel recente passato. Non ci si deve sottrarre ai bilanci e alle autocritiche. Troppe volte, infatti, un monopolio pubblico si è trasformato in uno privato senza che l'associazione degli imprenditori facesse sentire la sua voce. Mentre un pezzo importante dell'industria italiana si ristrutturava e si metteva in gioco sui mercati internazionali - le aziende di Bombassei e Squinzi, la Brembo e la Mapei ne sono due esempi - c'era un'altra fetta che ambiva solo a diventare «imprenditore della concessione» e a dotarsi di una robusta protezione politica. Resta così la sensazione che, mentre l'economia italiana si muoveva in una prospettiva privatistica e Partecipazioni statali più Intersind venivano sciolte, un po' di quello spirito - certamente non il migliore - sia trasmigrato nel campo degli industriali privati. Il capitalismo di relazione non è solo intreccio «cucciano» di piccole partecipazioni finanziarie, è anche un'antropologia, un modo di viversi come imprenditori a bassa intensità.
Sarebbe di grande interesse anche se i candidati entrassero nel merito delle scelte di politica industriale.

L'esperienza Brembo e Mapei è quella di un made in Italy competitivo dal punto di vista tecnologico e capace di creare valore; è probabile quindi che entrambi estendano questo messaggio a tutte le imprese. Continuare sulla strada della specializzazione, non stancarsi mai di innovare. Ma cosa dirà la Confindustria a quegli associati, mettiamo i produttori di elettrodomestici, che sostengono apertamente che non c'è alternativa alla delocalizzazione? Li scoraggerà o tenterà di elaborare un mix funzionale tra innovazione di prodotto e luogo di produzione? Sempre in materia di politica industriale c'è da affrontare il destino delle piccole imprese che rappresentano - non lo si dimentichi - l'85% degli associati. Non è forse giunta l'ora di modernizzare le relazioni tra grandi e piccoli favorendo il massimo delle aggregazioni ma anche mutuando le pratiche migliori di accorciamento della filiera, di partnership con i fornitori, di creazione di reti di impresa?

Infine, una competizione leale sulla leadership del mondo industriale italiano non può eludere il nodo del credito. I piccoli si vedono chiudere dalle banche i rubinetti mentre il dialogo di vertice tra Confindustria e Abi non è stato mai così fitto e collaborativo. È politicamente scorretto chiedere a Bombassei e Squinzi di mettere in secondo piano la diplomazia interassociativa e programmare con i banchieri «un bagno di sincerità» per affrontare il rischio credit crunch ? Molti loro elettori si aspettano che lo facciano.

twitter@dariodivico

Dario Di Vico

13 febbraio 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_13/di-vico-chi-guidera-gli-imprenditori_79d9213e-560a-11e1-b61e-fac7734bea4a.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Febbraio 22, 2012, 11:56:13 am »

Riflessi condizionati

Due giorni fa il ministro Elsa Fornero al presidente dell'Associazione bancaria Giuseppe Mussari, che le chiedeva maggiori ragguagli sulle intenzioni del governo in materia di flessibilità in uscita, ha risposto come si fa con uno studente: «Lei vorrebbe sapere subito il voto che prenderà alla fine». In questo episodio, o se preferite in questa gag, sono racchiuse molte delle contraddizioni di una trattativa che non sta facendo passi avanti. Il presidente del Consiglio ribadisce in tutte le sedi italiane ed estere la sua ferma determinazione a procedere anche senza l'accordo dei sindacati, i ministri raccontano alle parti sociali i capitoli sui quali vogliono intervenire (ma non le vere soluzioni che hanno in testa), industriali e confederali si guardano attoniti e quando è il loro turno al microfono balbettano. È questo il quadro che ha fatto prendere al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, una decisione difficile. Il cartellino giallo che ieri ha sventolato davanti a Mario Monti serve a saldare un fronte neo-laburista tra la sinistra e le organizzazioni sindacali (e non più la sola Cgil), ma assegna di nuovo al Pd la patente di partito della conservazione e dell'immobilismo. Bersani non si sarebbe sicuramente mosso se non avesse percepito il profondo disagio e ascoltato le richieste di aiuto della rappresentanza sociale. Ma sa che, se sbaglia, il conto lo pagherà di persona.

La verità è che la politica è dovuta tornare in gioco perché si assiste a una sorta di rassegnazione che ha pericolosamente contagiato i vertici della rappresentanza, sia essa d'impresa o del lavoro. Al governo che indica, magari in maniera didascalica, la necessità di una profonda revisione delle distorsioni di un welfare imperfetto, la risposta che arriva dalle parti sociali assomiglia alla pigra difesa dello status quo. Come se piegate dai colpi della Grande Crisi le rappresentanze avessero ceduto la primogenitura del cambiamento.

Una volta era dai convegni confindustriali o da qualche elaborazione sindacale eterodossa che venivano le provocazioni più lungimiranti, le sfide più intriganti per affrontare le contraddizioni dello sviluppo. In qualche caso il passo si rivelava troppo più lungo della gamba, ma la tensione a innovare era sempre fortissima, costituiva l'identità stessa di quel lavoro. Oggi no, industriali e sindacati sono dei giocatori di shanghai che hanno paura di toccare i bastoncini e di far venir giù tutto. E così facendo si consegnano all'inerzia, riconoscono l'ingiustizia di molti dei meccanismi in vigore, ma hanno paura di disegnarne di più equi. Qualcuno di loro, più consapevole di ciò che sta avvenendo, ma anche più cinico, pensa in questo modo di riuscire a non sporcarsi le mani, di salvarsi l'anima e alle brutte di lasciar fare al premier Mario Monti. «Tanto con lo spread che scende - si sente dire - lui avrebbe sempre e comunque ragione. E noi sempre e comunque torto». Qualcun altro, vista la difficoltà, ha però preferito cercare un partito amico e bussare a casa Bersani.

Si consuma così tra pigrizie e ultimatum l'ennesimo paradosso. Mentre tutto cambia e gli italiani si chiedono con frequenza quotidiana che fine farà il loro Paese e persino la bistrattata politica si interroga da dove/come ripartire, la rappresentanza appare immobile nelle certezze esibite. In fondo è rimasta la stessa dei tempi della Prima Repubblica, i soggetti protagonisti sono ancora quelli delle epiche battaglie sulla scala mobile e si ripresentano all'appuntamento con il nuovo tabù, l'articolo 18, come se niente fosse successo nel frattempo, da Bettino Craxi a Monti.

Sia chiaro, nessuno dimentica i meriti dei corpi intermedi e tanto meno chiede loro di sparire dalla scena: le società complesse hanno bisogno di infrastrutture di coesione e persino i conservatori inglesi che una volta sostenevano con la Lady di ferro «la società non esiste», oggi la propugnano in taglia «big». Ma è pur vero che la rappresentanza italiana in un quarto di secolo abbondante non è stata nemmeno capace di concepire un'autoriforma degna di questo nome e rischia di consegnarsi al futuro con le mani legate. Per salvare il nostro welfare, però, e per evitare di passare alla storia come la generazione del default, ci tocca riprendere confidenza con il verbo «cambiare».

E allora, prima di rassegnarsi, industriali e sindacati dovrebbero fare in fondo il loro mestiere, partire dai problemi e individuare delle soluzioni coraggiose. Li staremo sicuramente ad ascoltare. Perché se, come dicono i leader sindacali in privato, «non si può lasciare al solo Monti il compito di disegnare l'Italia di domani», il modo per evitarlo è solo uno: mettersi in gioco. Non è stagione per leadership stanche.

Dario Di Vico

22 febbraio 2012 | 7:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_22/divico-riflessi-condizionati_4af152a6-5d1c-11e1-8d58-29f34aaed5a4.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Febbraio 25, 2012, 05:02:46 pm »

LIBERALIZZAZIONI E LOBBY

Supplemento di coraggio

I racconti che ieri venivano dai cronisti parlamentari ci hanno riportato, anche solo per qualche ora, ai tempi della Prima Repubblica.
Con la commissione Industria del Senato, di cui è vicepresidente un intramontabile Giuseppe Ciarrapico, che decide di sbarrare le porte ai lobbisti. E che per proteggere le votazioni in corso sulle liberalizzazioni alla fine adotta il metodo della campanella. Nessuno scandalo, per carità, solo l'annotazione di come nella stagione del governo tecnico i partiti subiscano quasi fisicamente l'assedio dei gruppi di pressione, che invece anche nelle mutate condizioni sembrano conservare intatta la loro force de frappe . Ma quale che sia alla fine l'orientamento delle commissioni parlamentari, il governo non può permettersi assolutamente di segnare il passo. Liberalizzazioni e lavoro costituiscono quasi simbolicamente un unico banco di prova per l'esecutivo presieduto da Mario Monti. Rappresentano l'irrinunciabile pars construens dell'azione di governo.

La verità infatti è che in questo scorcio di febbraio, nel quale fortunatamente lo spread ha preso a camminare a mo' di gambero, è avvenuto senza che ce ne accorgessimo uno slittamento lessicale. Abbiamo, tutti, sempre maggior pudore a pronunciare o a scrivere la parola «crescita». Ci siamo forse inconsapevolmente arresi all'idea che lo sviluppo non si fa per decreto, che a Palazzo Chigi - come direbbe un redivivo Nenni - non ci sono quei mitici bottoni da premere per generare immediatamente fatturato e posti di lavoro. Abbiamo capito che invertiremo la tendenza del Pil solo quando le condizioni di contesto internazionale saranno più favorevoli e i nostri imprenditori avranno ritrovato coraggio e spazio per le loro iniziative. Ma proprio perché abbiamo compreso che anche i migliori tra i tecnici non possiedono nella loro dotazione la bacchetta magica pro crescita, dobbiamo essere intransigenti sulle liberalizzazioni e il lavoro. Lo dobbiamo non perché il medico ci ha prescritto di essere obbligatoriamente liberali ma perché quella crescita che è oggi fuggita dai nostri discorsi domani potrà rientrarvi proprio in virtù delle condizioni di apertura dei mercati e di massimizzazione delle chance dei giovani che avremo creato.

Ieri il governo ha pubblicato sul suo sito un documento che riepiloga in maniera ordinata ed efficace i provvedimenti adottati nei primi 100 giorni. Chapeau . Ma non è un caso che quel documento cominci con le misure del rigore, con il salva Italia. È questa finora la cifra dell'azione del governo e lo diciamo non certo per sminuire il valore e il coraggio di alcune scelte come il completamento della riforma previdenziale. Se lo spread è sceso, se tutti gli osservatori internazionali concordano nel dire che Monti «ha fatto un lavoro eccezionale» - lo ha ricordato anche l'ambasciatore cinese Ding Wei - è perché i mercati hanno capito che gli italiani stavolta fanno sul serio. Ma siccome la cultura degli uomini che ci governano non è meramente rigorista, il passaggio su liberalizzazioni e lavoro serve a far emergere l'intera caratura del gabinetto Monti. Non si abbia timore, se dovesse essere necessario, di presentare un maxiemendamento che protegga la scelta di separare Snam da Eni, che non lasci ai Comuni l'intera potestà della liberalizzazione del servizio taxi, che sia coerente nell'aprire i servizi finanziari e assicurativi. Quel maxiemendamento si rivelerà una clausola di salvaguardia non solo per il corretto iter parlamentare del provvedimento ma anche del rapporto di fiducia con il Paese reale.

twitter@dariodivico

Dario Di Vico

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25 febbraio 2012 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_25/di-vico-supplemento-di-coraggio_ab9d98f4-5f78-11e1-bae2-adaf00d4a3f2.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Marzo 02, 2012, 11:37:54 pm »

La mobilitazione

Professioni, chi si sente trattato molto male

Non bisogna però assolutamente pensare di trovarsi agli albori di un inevitabile declino


Per chi crede che «la società esiste» il professional Day di oggi è comunque una buona notizia e un'occasione. Con tutta evidenza si tratta di una mobilitazione che nasce in risposta ai progetti governativi di liberalizzazione ma è anche abbastanza chiaro come abbia radici più profonde. Il malessere dei professionisti italiani affonda nella crisi ed è importante che la mobilitazione individui nella crisi il vero avversario.

Abbiamo dietro di noi più di due anni che hanno portato a una silenziosa ristrutturazione dell'offerta di servizi professionali, a un allargamento del fossato tra senior e junior, a uno schiacciamento verso il basso della stessa identità sociale. Secondo una ricerca della Camera di commercio un terzo dei professionisti milanesi ha visto peggiorare il tenore di vita suo e della famiglia e il 60% dei giovani architetti, avvocati, psicologi tende a identificarsi come «precario». Se dall'analisi delle condizioni mediane ci spostiamo a considerare le eccellenze dobbiamo anche qui registrare come la nostra capacità di esportare servizi professionali non stia attraversando certo il suo periodo migliore. Constatato che la crisi ha minato la forza e l'autostima del professionalismo italiano non bisogna però assolutamente pensare di trovarsi agli albori di un inevitabile declino.

I trend di lungo periodo ci dicono il contrario, ci parlano di un'economia che bene o male si terziarizza e che quindi ha maggior bisogno di un modello professionale giudicato come il più adatto a esprimere le potenzialità della società della conoscenza. La crescente complessità dei sistemi socioeconomici chiede più differenziazione e specializzazione. Non basta più l'avvocato generalista o civilista, ma ci vuole il matrimonialista, il giuslavorista, l'esperto di diritto societario, internazionale, amministrativo e via di questo passo. Ma non è tutto. I nuovi servizi legati a innovazione e tecnologia stanno facendo crescere professioni diverse dal passato. Si pensi a quelle di tipo creativo o a quelle legate all'economia del tempo libero.

Come ha mostrato un'altra ricerca comparata, condotta dal professor Paolo Feltrin, rispetto a queste novità non esiste per ora un solo modello nazionale di regolazione e sviluppo. Ognuno nei Paesi europei nostri partner ha affrontato il problema secondo le sue tradizioni e specificità. Non esiste una sola formula europea, dunque, anche se Bruxelles si è sempre spesa per la liberalizzazione e la concorrenza nei servizi professionali. La debolezza dell'approccio Ue è stata sempre quella di tener presente solo il consumatore e di tutelare solo il suo sacrosanto diritto di poter spender meno ma il Bruxelles-pensiero non ha saputo rispondere all'altrettanto legittima richiesta di riconoscimento identitario e di garanzia della qualità avanzata dagli organismi professionali nelle differenti realtà nazionali. È chiaro che l'iniziativa del governo italiano si muove in qualche modo nel solco dell'elaborazione europea, ne recepisce lo spirito pro concorrenza ma si ferma lì, non fa quel passo in avanti che una strategia di uscita dalla crisi delle professioni richiederebbe.

La speranza però è che il mondo delle professioni non si chiuda a riccio ma usi sia il confronto con il governo sia le occasioni di mobilitazione interna per affinare la propria elaborazione, per fare i conti con il mercato magari in maniera originale. Non si può pensare che le professioni possano vivere di una sorta di "bolla", fuori dalle regole dell'economia e fuori dai processi di internazionalizzazione. Se i professionisti si proclamano (giustamente) gelosi della propria autonomia intellettuale e vogliono evitare di essere assimilati tout court alle logiche che regolano l'impresa capitalistica non c'è niente di scandaloso, anzi. Si possono trovare delle forme societarie che garantiscano la peculiarità del professionalismo e allo stesso tempo facciano sì che il settore attragga quelle risorse necessarie per investire, essere competitivi, esportare le nostre competenze all'estero. La strada che abbiamo davanti è sicuramente lunga, forse non è tutta dritta ma sarebbe importante che almeno si cammini tutti nella stessa direzione.

Dario Di Vico

twitter@dariodivico

1 marzo 2012 | 10:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_01/divico-professionisti-day_9d1f68e8-6383-11e1-b5fe-fe1dee297a67.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Marzo 04, 2012, 05:05:08 pm »

«Ci aspettiamo che il provvedimento sulle commissioni cambi.»

«Non siamo un servizio pubblico Le banche devono guadagnare»

Mussari: ma adesso va ricucito il rapporto con il Paese reale


«Va ricostruito un rapporto di fiducia tra le banche e il Paese reale». Per farlo bisogna essere più bravi nel selezionare il credito, fornire maggiore trasparenza ai clienti, calmierare le retribuzioni dei top banker. Siamo a 48 ore dal clamoroso strappo che ha visto il comitato di presidenza dell'Abi dimettersi in polemica con l'approvazione dell'azzeramento delle commissioni su affidamenti e sconfinamenti e il presidente Giuseppe Mussari si è munito di ago e di abbondante scorta di filo. Non vuole guerre, pensa a ricucire ed è preoccupato dell'ostilità della società civile. «Ho letto su Corriere.it i commenti dei lettori agli avvenimenti di questi giorni. Ne ho trovati di positivi e di molto negativi, in qualche caso a ragione ma sovente a prescindere dal merito dei problemi. Per questo è necessario che con il principio dei nostri padri, ex malo bonum, da questo conflitto se ne esca con un dibattito pubblico che chiarisca cosa sono e cosa debbono fare le banche. Non voglio che restino ambiguità e veleni. Viviamo di economia reale e di fiducia, non possiamo passare come il capro espiatorio della crisi».

Però la senatrice Fioroni che ha proposto l'emendamento da voi contestato in Parlamento è considerata un'eroina. È possibile che tutti i senatori siano diventati populisti?
«È chiaro che se c'è ostilità nella società civile ce ne sarà anche nel mondo politico. Ma non le dirò nemmeno una parola contro questo Parlamento. In una situazione politica inedita le Camere stanno facendo un grande lavoro. Valutano i provvedimenti del governo, li cambiano e poi li votano. Se Monti ha il successo che merita è anche perché ha una maggioranza che tiene. Poi si possono prendere delle decisioni sbagliate, come nel nostro caso, ma in democrazia ci sta. Ciò detto è bene che il provvedimento venga rivisto e torni alla formulazione originaria. E sarebbe comunque utile che i parlamentari nel ragionare di banche rinunciassero a un'ostilità preconcetta».

Il Parlamento non vi ama ma il governo avrebbe dovuto difendervi. Non è l'esecutivo dei banchieri?
«Solo un matto poteva pensare che in una situazione di emergenza del Paese Monti potesse dar vita a un governo attento agli interessi di una sola categoria di imprese».

Ma una protesta così radicale come le dimissioni non l'avevate messa in atto nemmeno contro Tremonti, eppure un giorno sì e uno no vi criticava e vi aveva messo i prefetti alle calcagna. Vi sentite orfani del governo Berlusconi?
«Guardi i miei genitori sono in salute e quindi non rientro nella categoria. E le dico di più: diamo un giudizio positivo dell'azione complessiva del governo che sta interpretando la voglia di riscatto degli italiani».

Nel governo Monti c'è un ex banchiere Corrado Passera. Non avrebbe dovuto rappresentare o almeno interpretare il turbamento del vostro mondo?
«Le premetto che Corrado è un amico. Mi sembra però che la sua scelta di lasciare il precedente mestiere sia avvenuta all'insegna dell'interesse generale e basta vedere, con il criterio che oggi va di moda, la differenza tra quanto guadagnava prima e quanto guadagna ora per averne la riprova. Ha scelto di fare il ministro, non il sindacalista dell'Abi».

Se tutti, Parlamento/Monti/Passera stanno operando con onestà intellettuale, dove risiede la causa di un conflitto così lacerante?
«Non è chiaro che le banche sono imprese e hanno il diritto/dovere di fare profitti. Non possiamo essere servizio pubblico perché è in contrasto con la nostra natura giuridica e i milioni di azionisti che abbiamo, perché cozza con le scelte privatistiche che il Paese ha fatto per tempo e il modello adottato in tutto il mondo. In più le ricordo che mentre nel resto d'Europa gli Stati hanno usato i pacchetti anticrisi per salvare le banche, spendendo duemila-miliardi-di-euro, da noi i soldi sono stati impegnati per tamponare gli effetti sociali della crisi. Le pare un merito da poco?»

Ma è proprio un sindacalista, Raffaele Bonanni, a invocare una legge che fissi la funzione sociale delle banche.
«Bonanni non dice mai cose banali ma una legge no. Le banche sono imprese private capaci di far propri obiettivi di responsabilità sociale. La nostra rotta guarda all'economia reale ma se non siamo capaci di remunerare il capitale dove prendiamo le munizioni da dare alle imprese?»

Siete tutte, dunque, banche di sistema?
«Non nell'accezione che sistemiamo o aggiustiamo le cose. Non dimentichi che agiamo in regime di concorrenza e dobbiamo essere più profittevoli del concorrente. Anche per questo motivo un regime di prezzi amministrati non ha senso».

Ma il vostro rapporto con il regolatore, la Banca d'Italia, appare sofferto. E non da qualche mese.
«È un rapporto corretto e leale. E sottoscrivo tutte, dico tutte, le cose che il governatore Visco ha detto al Forex di Parma. A cominciare dalla richiesta che ci ha fatto di migliorare ulteriormente la nostra capacità di selezionare il credito».

Gli imprenditori sostengono che lo selezionate così tanto che non lo date a nessuno. Così i Piccoli inneggiano a Draghi e alla Bce che ha allargato i cordoni della borsa e ce l'hanno con voi che quei soldi ve li siete tenuti.
«Non l'annoio con ragionamenti tecnici ma le assicuro che ci sono tempi di implementazione delle decisioni della Bce che non possono essere saltati. Ho invitato le banche a dimostrare come sin dai dati di marzo si possa registrare un'inversione di tendenza. Il credito sta ritornando ad affluire alle imprese. Sappia però che le richieste per nuovi investimenti sono largamente minoritarie, ci chiedono fidi per l'attività corrente. E poi in queste settimane non siamo stati con le mani in mano: abbiamo firmato l'avviso comune per la seconda sospensione dei mutui, la cosiddetta moratoria. Le assicuro che anche quella costa».

Nel rapporto con l'opinione pubblica pesa come un macigno la scarsa trasparenza degli estratti conto e la numerosità dei balzelli e delle commissioni. Da quanto tempo promettete novità senza produrne?
«Stiamo lavorando da due anni con le associazioni dei consumatori per ridisegnare le nostre comunicazioni con la clientela retail con lo slogan della trasparenza semplice. Mi impegno ad accelerare non perché mi illuda che le banche diventino simpatiche. Vorrei però perlomeno evitare il contrario».

Non si tratta solo di trasparenza. Lei sa meglio di me che la clientela guarda il tasso di remunerazione dei depositi lo confronta con quello dei prestiti e vede uno spread ingiustificato.
«Le rispondo senza infingimenti: per i costi della struttura, la necessità di remunerare il capitale e per il rischio che ci assumiamo non si può evitare una proporzione di uno a tre tra tasso dei depositi e tasso degli impieghi».

Ancora ieri il governatore Visco ha richiamato il tema delle alte retribuzioni dei vostri manager. Nell'immaginario collettivo i banchieri sono visti come dei gatti che sono ingrassati anche in tempo di crisi.
«Da tempo sostengo che vada fissato un parametro tra retribuzioni dei top manager e paghe medie in azienda. Come presidente dell'Abi ho scritto una lettera alle banche proponendo che per i prossimi tre anni gli stipendi non salgano e il 4% della retribuzione dell'alta dirigenza vada ad alimentare un fondo per l'occupazione giovanile. Siccome la misura è stata approvata penso proprio che quel fondo nascerà».

Lei finora ha esposto i suoi intendimenti di medio periodo ma sul breve che farete? Se non sarà cambiato il provvedimento dello «scandalo» ricorrerete alla Consulta, ritirerete dai negozi i punti Pos?
«Le dimissioni segnano una discontinuità profonda, un prima e un dopo, non sono legate al cambiamento della norma che pure chiediamo. È stato convocato consiglio e comitato esecutivo Abi e collegialmente valuteremo il da farsi. Il mio auspicio è che si apra un dibattito sulla natura delle banche italiane, che venga fuori chiaramente quale è la nostra natura e quale deve essere il nostro ruolo. Vorremo essere trattati come tutte le altre imprese da cui si esige concorrenza e trasparenza ma alle quali non vengono imposti prezzi amministrati o servizi gratuiti. Le pare che stia chiedendo la luna?»

Dario Di Vico

4 marzo 2012 | 9:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_04/non-siamo-un-servizio-pubblico-le-banche-devono-guadagnare-dario-di-vico_66d690d2-65d0-11e1-be51-f4b5d3e60e3d.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Marzo 13, 2012, 03:02:23 pm »

IL GOVERNO E IL LAVORO

Riforme Senza Veti

La buona notizia è che il governo ha deciso di accelerare i tempi e di varare nell'arco di una decina di giorni gli attesi provvedimenti sul lavoro. La brutta è che dovendo prevedere misure a costo zero l'esecutivo guidato da Mario Monti non riesce ad offrire a sindacati e industriali i termini per costruire un nuovo scambio. Da qui la turbolenza della tarda serata di ieri (Raffaele Bonanni ha parlato di «ecatombe sociale») sulle questioni legate alla tutela dei lavoratori messi in mobilità dopo un processo di ristrutturazione. È presto per capire se queste incongruenze risulteranno decisive, certo è che la tela che porta all'accordo appare fragile.

Per come si vanno delineando i provvedimenti si dovrebbero basare su tre punti-chiave: riordino dei contratti con piena valorizzazione dell'apprendistato, semplificazione degli ammortizzatori sociali con la loro estensione, ridimensionamento dei poteri di veto dell'articolo 18. Senza voler sminuire affatto l'operato del governo che - va ricordato - ha dovuto mettere d'accordo posizioni distanti tra loro, è chiaro come si tratti di una «riformetta». Un vero cambio di paradigma, che avesse conservato intatta l'ambizione di riscrivere le regole del mercato del lavoro in senso universalistico, si sarebbe dovuto basare sull'unica ricetta organica avanzata in questi mesi, la flexsecurity.

Siamo però in recessione ed è difficile pensare di ricollocare in tempi brevi i lavoratori in esubero dalle riorganizzazioni aziendali, come purtroppo dimostra il caso Electrolux che pure responsabilizzava l'impresa e prevedeva servizi di outplacement. I sindacati e la Confindustria hanno avuto quindi buon gioco nel sottolineare il rischio di un salto nel buio nella fase che sarebbe passata tra abolizione delle vecchie tutele e partenza del nuovo sistema, almeno nelle modalità inizialmente proposte da Elsa Fornero. È dai tempi della commissione Onofri della metà degli anni 90 che l'obiettivo del riequilibrio delle chance tra garantiti e non garantiti e di una più equa distribuzione delle risorse del welfare è sul tappeto e sicuramente quelle di oggi non sono le condizioni economiche più agevoli per condurlo in porto.

Su un terreno più politico e soggettivo non va dimenticato come il vero blitz il governo Monti lo abbia fatto scattare con il completamento della riforma previdenziale e questa consapevolezza, unita al calo dello spread, sembrerebbe aver reso meno necessario un «momento Thatcher», una rottura verticale con le parti sociali. L'Europa non ci chiede «lo scalpo» dei sindacati, per usare la colorita espressione di Susanna Camusso, ma provvedimenti coerenti sì. Proprio per questo motivo i passaggi che ci attendono da qui ai prossimi dieci giorni saranno decisivi. Questa volta non tanto per i mercati finanziari ma per quelle aziende straniere dell'economia reale che hanno depennato l'Italia dalla lista delle loro priorità di investimento e che invece dobbiamo far tornare a credere nel nostro sistema. Loro, per prime, non capirebbero un governo che si arrende ai veti.

Dario Di Vico

twitter@dariodivico13 marzo 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_13/riforme-senza-veti-dario-di-vico_76d17720-6cd5-11e1-b7b3-688dd29f4946.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Marzo 16, 2012, 04:42:04 pm »

Riforma

La protesta dei Piccoli: «Figli di un Dio minore»

Il negoziato sul lavoro ha obbedito ancora una volta al vecchio format triangolare governo-Confindustria-sindacati.

Malessere anche da parte di Acta: «Non sanno nulla degli autonomi»

I Piccoli ancora esclusi dalla concertazione attaccano la prassi corrente

MILANO - Giovedì Marco Venturi ha fatto persino il giro delle «tre chiese». È stato da Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini per manifestare tutta l'insoddisfazione di Rete Imprese Italia, di cui è portavoce, verso le conclusioni a cui sta arrivando il negoziato sul lavoro. La battuta migliore gliel'ha fatta Bersani: «Mi sembra di stare su un autobus in cui tutti hanno qualcosa da dire sull'autista, ma si rivolgono al bigliettaio perché sia lui a rappresentare il loro malumore» .

Scherzi a parte il massimo rappresentante di commercianti e artigiani ha ricevuto ampie rassicurazioni da tutti ma a Rete Imprese Italia non si fanno illusioni. Il negoziato sul lavoro ha obbedito ancora una volta al vecchio format triangolare governo-Confindustria-sindacati, quello che ha dominato il nostro Novecento e che si pensava dovesse andare in soffitta. Come Venturi la pensano anche le associazioni delle partite Iva. Quel triangolo le ha escluse persino dal tavolo e Anna Soru, presidente di Acta (l'associazione dei consulenti del terziario avanzato) sostiene che tutti coloro che nel governo o nei partiti si occupano della riforma continuano «a pensare solo dentro gli schemi del lavoro dipendente e non sanno niente di quello autonomo».

È chiaro che dovendo affrontare lo spinosissimo tema dell'articolo 18 il governo Monti non potesse pensare di depotenziare il confronto con i sindacati confederali e la Confindustria ma artigiani, commercianti e partite Iva si aspettavano comunque qualche segnale di novità in chiave universalistica e non concertativa. Delusi, ora sfogano il loro mugugno. Raccontano come Cgil-Cisl-Uil e industriali comunque siano riusciti a negoziare con il governo e a ottenere partite di scambio mentre Rete Imprese è partita con un documento ed è arrivata alla fine sostanzialmente con il medesimo testo senza che nel mezzo ci fossero avvicinamenti, compromessi e mezzi risultati. In termini calcistici si direbbe che Venturi è uscito dal campo con la maglia intonsa perché non ha visto palla e non ha dovuto nemmeno correre. Già in sede di decreto Salva Italia e di completamento della riforma previdenziale artigiani e commercianti avevano dovuto mandar giù qualche boccone amaro. In primis l'aumento dei contributi pensionistici che entro il 2014 comporterà per i loro associati un maggior esborso di 2,7 miliardi. L'aumento dell'Imu e tutta un'altra serie di piccoli balzelli sono stati un altro dispiacere e secondo i conti di rete Imprese graveranno per circa 5 mila euro aggiuntivi su ciascuna impresa.

Venturi e gli altri speravano che i rospi finissero qui. E invece l'introduzione dell'Aspi, la nuova indennità di disoccupazione comporterà per le Pmi un aggravio di 1,2 miliardi di cui almeno la metà aggiuntivi ai contributi versati oggi. Non è tutto. Rete Imprese aveva chiesto che le risorse aggiuntive per allargare le tutele degli ammortizzatori sociali fossero compensate da una diminuzione dei soldi che le imprese versano per Inail e malattia. Due gestioni che sono fortemente e, sostengono gli artigiani, "inutilmente" in attivo. Non se n'è fatto nulla. Il quaderno delle doglianze dei Piccoli si chiude con le maggiorazioni di costo sui contratti a tempo determinato che comunque renderanno più rigida la flessibilità in entrata, un ossimoro. Lo stesso vale per Confindustria ma le grandi imprese porteranno comunque a casa la revisione dell'articolo 18 e certamente non è poca cosa dal punto di vista simbolico.

Tra le partite Iva i mugugni sono ancora più forti. L'impressione è di essere rimasti "figli di un Dio minore" anche in un contesto politico che si era prefissato l'obiettivo di allargare la platea dei rappresentati. E invece, ad esempio, l'intervento sulle finte partite Iva riguarderà solo le professioni non ordinistiche, ricalcando quindi una vecchia bipartizione che ha mandato da sempre in bestia consulenti e knowledge worker. In più i criteri per individuare la finzione sono la monocommittenza e la fruizione di una postazione di lavoro presso il committente. «Ma ciò richiede l'azione degli ispettori del lavoro. E allora se entrano in gioco gli ispettori sono molte le cose che vorremo far verificare» dicono ad Acta. La considerazione più amara riguarda però l'aumento dei contributi previdenziali: c'è il fondato sospetto che li si voglia far salire, per parasubordinati e partite Iva, dall'attuale 28% fino al 33% e quest'operazione per Soru è «inaccettabile».

Dario Di Vico

twitter@dariodivico

16 marzo 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_16/protesta-piccoli-noi-figli-di-dio-minore-divico_d34d301a-6f33-11e1-8ee0-fb515f823613.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Marzo 21, 2012, 04:57:10 pm »

I veti fuori dal tempo

Verbalizzare al posto di concertare. Con la richiesta del premier Mario Monti di mettere fine alle lungaggini del confronto con le parti sociali e di scrivere nero su bianco le obiezioni avanzate al testo governativo è finito un lungo ciclo della storia socio-politica dell'Italia. La concertazione, che pure non dimentichiamo era stata definita come «la nostra Costituzione materiale», ieri è andata in pensione.

Davanti all'incapacità del sindacato di presentarsi a Palazzo Chigi con una proposta credibile, una piattaforma capace di delineare un nuovo tipo di scambio all'altezza delle sfide che si devono affrontare in un'economia integrata, il governo Monti alla fine ha tirato dritto.

Si è richiamato in un crescendo prima alle ragioni dei non garantiti, poi ha messo in guardia da ulteriori esercizi del potere di veto, infine ha riaffermato il potere del Parlamento. Toccherà ai politologi spiegare il paradosso di un governo tecnico che, accusato di aver confiscato le prerogative della politica, le riconsegna invece lo scettro nell'ora delle decisioni difficili.

Per quanto a un primo superficiale esame quello raggiunto sull'articolo 18 possa sembrare un ennesimo accordo separato (senza la Cgil), la novità è più profonda e solo l'abilità tattica di Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni l'ha in parte mascherata. Se infatti la Cgil può pensare di rispondere alla crisi della concertazione con un (illusorio) ricorso al movimentismo, Cisl e Uil dovranno per forza avviare una riflessione di carattere strategico. Ben venga e speriamo che coinvolga tutti i corpi intermedi. La democrazia italiana, nella versione universalistica e anti-consociativa che ieri ci hanno proposto il premier Monti e il ministro Fornero, deve azzerare le rendite del veto ma ha bisogno comunque di una rappresentanza responsabile, capace di essere classe dirigente «dal basso».

La riforma Fornero per come si è delineata ed è stata esposta è solo una prima rata. L'obiettivo è ambizioso: superare il dualismo del mercato del lavoro e costruire un welfare dinamico e non meramente risarcitorio. Di fronte alla gravità della recessione un governo «normale» avrebbe aspettato tempi migliori, ma l'Italia dell'incubo-spread non può permetterselo. E di conseguenza ha iniziato ad affrontare alcune delle contraddizioni più evidenti quali lo straripante numero dei precari, l'abnorme crescita del numero delle partite Iva, l'assenza di un moderno sistema di ammortizzatori sociali e la presenza, invece, di una normativa ipergarantista sulla flessibilità in uscita.

Lo scambio vincente in assoluto sarebbe stato «più lavoro per nuove regole», ma come è purtroppo ormai assodato la crescita non si fa per decreto e quindi, volenti o nolenti, siamo costretti a lavorare oggi per crearne le condizioni domani. Il governo, però, giunto a questo punto ha un obbligo quasi morale: la stessa determinazione che ha messo in campo nella fase uno deve replicarla nell'auspicata fase due.

Dario Di Vico

21 marzo 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_21/i-veti-fuori-dal-tempo-dario-di-vico_8a97bb92-731b-11e1-85e3-e872b0baf870.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:08:48 pm »

Le imprese senza più alibi

Il nuovo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, è uno degli industriali che hanno contribuito a reinventare la chimica italiana. Dopo le grandi delusioni pubbliche e private della chimica di base, aziende come la sua Mapei hanno ridisegnato il business. Forti della tradizione di specializzazione della nostra industria migliore hanno saputo rinnovarla in un settore totalmente aperto alla competizione internazionale. Grazie a questo movimento abbiamo occupato numerose nicchie di mercato a buon valore aggiunto e sono nate delle multinazionali, come per l’appunto la Mapei, che ormai non si possono più definire solo tascabili. Gli imprenditori italiani hanno dunque scelto come leader un uomo all’avanguardia nel business e che nel frattempo ha avuto modo di ricoprire importanti ruoli associativi in Italia e in Europa. Al suo antagonista, Alberto Bombassei, galantuomo e imprenditore moderno quanto Squinzi, va l’onore delle armi. Le idee che ha messo in circolo verranno sicuramente buone.

Squinzi, dunque, avrà bisogno di tutto il suo bagaglio di esperienze perché la prova che lo aspetta è delle più ardue. Eredita l’organizzazione di rappresentanza d’impresa più titolata e accade in un momento in cui si vanno ridefinendo i ruoli tra mercati e democrazie, istituzioni comunitarie e sovranità nazionali, élite economiche e politica, protagonismo delle parti sociali e prerogative del Parlamento. La storia si è messa a correre e a nessuno è concesso di star fermo per un giro, tanto più a chi con le sue decisioni può cambiare il destino di migliaia di persone e delle loro famiglie.

Il caso poi ha voluto che l’avvicendamento alla testa della Confindustria avvenisse in parallelo con la riforma del lavoro predisposta dal governo Monti. Con tutti i difetti che si possono individuare nel testo Fornero e nell’attesa degli aggiustamenti che il Parlamento vorrà apportare, sarebbe però ipocrita da parte degli industriali non riconoscere che il governo ha messo mano coraggiosamente all’ultimo tabù, l’articolo 18. Accogliendo in questo modo una storica istanza avanzata a più riprese dagli inquilini che si sono succeduti ai piani alti di Viale dell’Astronomia. Adesso però che siamo diventati più simili ai nostri partner e concorrenti non ci sono più alibi e gli imprenditori italiani sono chiamati a una straordinaria prova di responsabilità sociale. La crescita dipende in larga misura dalle loro scelte, non sarà certo la spesa pubblica a farla ripartire.

Nessuno chiede alla Confindustria di rinunciare a priori al suo ruolo sindacale, ma dagli imprenditori il Paese si aspetta molto di più che una continuativa azione di lobby. Chiede che riprendano ad investire, che patrimonializzino le loro aziende, che partecipino ai destini nazionali, che ritrovino la giusta intensità anche sul terreno delle motivazioni. Per superare la crisi c’è bisogno di uomini e donne che alla testa delle loro imprese sappiano rischiare, conquistare i nuovi mercati, magari riportare qualche azienda in Italia. Sappiamo che non è facile, che si corre controvento e che due muri portanti della nostra industria, come l’auto e gli elettrodomestici, proprio di questi tempi minacciano più o meno dichiaratamente di andarsene dall’Italia. Ricette pronte per dissuaderli non ce ne sono, tocca però a Squinzi e alla squadra che sceglierà contribuire ad elaborarle.

Dario Di Vico

23 marzo 2012 | 7:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_23/di-vico-le-imprese-senza-oiu-alibi_dacb1e9e-74ae-11e1-9cbf-6c08e5424a86.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Marzo 28, 2012, 03:22:50 pm »

Un Paese diviso

Perché l'Ikea ora è il nostro specchio

Con una battuta potremmo dire che l'Ikea si avvia a diventare la nuova autobiografia di una nazione (l'Italia). A leggere le cronache che arrivano dalle città di provincia sembra quasi che la multinazionale svedese stia catalizzando su di sé tutti gli epifenomeni della nostra vita associata. Al Sud ci si mette in coda per es- ser assunti ma allo stesso tempo a Treviso il centrodestra si è a lungo spaccato nel tentativo di impedire l'apertura di un nuovo punto vendita.

Anche nel Torinese e nel Pisano è successo qualcosa di simile, protagoniste in entrambi i casi le amministrazioni di centrosinistra.

L'ultima nuova viene dall'Abruzzo, da San Giovanni Teatino e narra di un politico locale di centrodestra che ha premuto sull'Ikea per pilotare le assunzioni e si è trovato in mano una formale lettera di protesta dell'azienda. La verità è che l'Ikea in Italia ormai è quasi dappertutto, nonostante la recessione continua a macinare ricavi e profitti, è una delle poche multinazionali che assumono ed è riuscita a far soldi persino con il food. Grazie ai ristoranti che ha aperto dentro i suoi punti vendita e che servono mirtilli, polpettine svedesi con la marmellata e salmone in tutte le salse. La nostra politica locale si è accorta dell'onnipresenza Ikea e ha capito che le decisioni che riguardano gli svedesi sono elettoralmente sensibili, vengono analizzate al microscopio dalle varie constituency e possono decidere della sorte di un sindaco.

Prendiamo i commercianti. Sicuramente non amano l'Ikea e tendono a premere sugli enti locali per dire no. A Casale sul Sile, in provincia di Treviso, i negozianti - tendenzialmente elettori di centrodestra - si sono trovati a fianco di ambientalisti, vendoliani e grillini in un'alleanza inedita pur di premere sul sindaco contro un insediamento Ikea da 1.300 nuovi posti di lavoro. Il responsabile della Confcommercio, Guido Pomini, ha tuonato contro «gli incalcolabili danni all'ambiente e alla viabilità» e ha messo in guardia «dalla nuova cementificazione». L'offensiva dei commercianti ha creato molti mal di pancia in casa leghista e solo lunedì 24 marzo il consiglio provinciale di Treviso ha dato il via libera per la prima pietra di un nuovo centro commerciale dopo mesi di impasse.

I produttori di mobili del Nord est in una prima fase erano rimasti anche loro tremebondi davanti all'avanzata svedese, ora invece fanno a gara per essere fornitori della multinazionale. Così tra il centro commerciale di Villesse sulla A4 e il nuovo di Treviso si sta formando una specie di distretto Ikea, aziende italiane che fanno la stragrande maggioranza del fatturato vendendo agli scandinavi e ne vanno fiere. I margini di profitto sono bassissimi perché l'Ikea avrà pure un'immagine sobria ed elegante ma quando si tratta di contratti non regala un euro a nessuno e così capita che in qualche riunione di artigiani la cosa venga fuori.

Del resto quando si nominano gli svedesi davanti a una platea di industriali e artigiani del mobile brianzoli seguono sempre sorrisini imbarazzati. Perché lo straordinario successo della multinazionale gialloblù rappresenta per il made in Italy un clamoroso autogoal. Se c'era un sistema Paese che avrebbe dovuto dotarsi di una catena commerciale capace di attirare nei propri saloni consumatori di tutti i target questo è sicuramente il nostro. Siccome non abbiamo una sufficiente cultura della vendita retail abbiamo preso un ceffone dagli svedesi, poi un altro dai francesi (Decathlon/articoli sportivi) e un altro ancora dagli spagnoli (Zara/abbigliamento). E speriamo di fermarci qui.

I piani dell'Ikea per l'Italia sono ambiziosi: investimenti per 700 milioni e una dozzina di nuove aperture in una congiuntura in cui i posti di lavoro valgono oro. Già più di un anno fa a Catania davanti a un bando di 240 assunzioni si erano registrate 24 mila domande in sole 72 ore. Calcolarono che avendo Catania e dintorni una popolazione di 600 mila persone almeno il 13% degli etnei coltivava il sogno di diventare commesso, magazziniere, telefonista, contabile, cameriere dell'Ikea. A Bari e Salerno le cose negli anni precedenti non erano andate diversamente, nel primo caso i candidati erano stati 30 mila per 262 posti e nel secondo 21 mila per 210 assunzioni. Con questo potenziale «bellico» è evidente che i manager dell'Ikea hanno un potere di condizionamento fortissimo sugli enti locali. I concorrenti italiani raccontano di favoritismi ottenuti qua e là lungo la penisola addirittura per ridisegnare le strade di accesso ai magazzini gialloblù. La cosiddetta variante Ikea sarebbe la prima richiesta che un sindaco si trova davanti e alla quale - sostengono sempre i rivali - non riesce mai a dir di no. In Abruzzo nei giorni scorsi i posti in palio erano 200 e sul sito Ikea sono stati 30.446 abruzzesi a candidarsi. L'idea che è venuta agli amministratori di San Giovanni Teatino è stata quella di inaugurare un nuovo tipo di scambio italo-svedese. Ma evidentemente i politici abruzzesi devono aver sottovalutato i rapporti di forza e così sono stati messi alla berlina.

Se i designer di grido raccontano come gli scandinavi siano dei gran copioni, bravi solo a sguinzagliare in giro per il mondo i propri trendsetter per cercare nuove idee da replicare, la multinazionale dell'arredamento aggiorna continuamente la sua immagine di responsabilità sociale e modernità. Di recente ha addirittura sponsorizzato la prima indagine realizzata in Italia sull'inclusione di gay, lesbiche, bisex e transessuali (acronimo: Gblt) nel mondo del lavoro. A presentarla a Milano c'era Ivan Scalfarotto, è venuto fuori che tra i 500 lavoratori Ikea che avevano risposto al questionario il 14% si dichiarava Gblt e i manager Ikea hanno potuto concludere che «si può partire dal luogo di lavoro per costruire quell'idea di comunità e reciproca attenzione che negli ultimi anni in Italia è stata picconata». Per chiudere il cerchio manca solo che a qualcuno, nella crisi delle ideologie, venga in mente di lanciare il Partito Ikea. Giustizia e comodità.

Dario Di Vico

28 marzo 2012 | 9:03© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #87 inserito:: Marzo 30, 2012, 05:38:02 pm »

IL COSTO DELLE DISTRAZIONI

Il precipizio è ancora lì

Ci consideravamo in salvo e invece non lo siamo affatto. In estrema sintesi è quanto sta avvenendo in queste ore sui mercati finanziari. Lo spread tra Btp e Bund tedeschi in poco tempo è risalito di 50 punti tornando a quota 340 e quel che è peggio il pendolo si è mosso con la rapidità dei giorni dell'incubo. Il vantaggio, seppur relativo, che avevamo conquistato sulla Spagna si è ridotto a 23 punti. La Borsa di Milano ieri ha lasciato sul terreno il 3,3% ed è stato il maggior ribasso europeo della giornata. Eravamo convalescenti, ci siamo descritti come guariti anzitempo e invece siamo costretti ad arrenderci alla cruda verità: siamo ancora malati. E quel che è più grave siamo ricaduti nei vecchi errori, appena il burrone ci è sembrato più lontano tutto è tornato come prima.

Abbiamo rimontato il vecchio teatrino e ognuno ha ripreso in mano quasi in automatico lo stanco copione di sempre. Il giudizio delle forze politiche si è fatto irridente nei confronti dei mercati dimenticando che abbiamo metà del nostro debito collocato all'estero e dobbiamo comunque nei prossimi mesi rinnovarlo. Il dibattito sulla riforma del lavoro è diventato rissoso e la scelta di usare lo strumento del disegno di legge è stata letta come un segno di debolezza del governo e la soluzione più favorevole alle imboscate e alle lungaggini parlamentari. Si è ricreata nei partiti e nelle forze sociali una sindrome del «liberi tutti», l'interesse generale è sparito dai monitor e si è tornati a sostenere le posizioni più intransigenti o comunque inconciliabili tra loro. La responsabilità è stata messa da parte e la rimozione è stata giustificata con l'imminenza delle Amministrative in una manciata di città! Ma attenzione, il nostro tasso di affidabilità internazionale non è ancora tanto diverso da quello di Atene, Lisbona e Madrid. E se solo il vento dell'inflazione dovesse tornare a spirare, anche solo debolmente, la Bce si vedrebbe costretta a restringere la liquidità piuttosto che allargarla come ha fatto nelle settimane scorse.

Come non bastasse, nella stessa giornata di ieri il ministro Corrado Passera, prima in mattinata ha parlato di una recessione che ci avrebbe accompagnato per tutto il 2012 e poi in serata si è corretto. Lo stesso responsabile dello Sviluppo economico ha spiegato, nel corso dell'audizione parlamentare della mattina, che «si è creato un vero e proprio credit crunch». Peccato che lo stesso Passera, non troppi mesi fa (il 22 agosto 2011) al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, quando indossava la grisaglia da banchiere avesse dal palco scandito l'esatto contrario: «Non vedo attitudine o rischio di credit crunch ». A quale dei due Passera dobbiamo credere, al ministro o al banchiere?

Nell'attesa di sciogliere il rebus le rappresentanze degli imprenditori e degli artigiani continuano a denunciare come le iniezioni di liquidità a basso costo decise da Francoforte non siano arrivate alle aziende. Segnalano che nei giorni scorsi presentando i loro bilanci gli istituti di credito sono stati quantomeno evasivi sul tema. Secondo i dati elaborati dalla Cna, il 24% delle imprese che ha ricevuto cartelle esattoriali da Equitalia vanta crediti nei confronti della pubblica amministrazione ma non ha la possibilità di compensarli e quanto ai pagamenti in ritardo cronico non c'è ancora sul tavolo del governo uno straccio di soluzione. Sommando tutto viene da fare una considerazione amarissima: se esistesse lo spread della serietà correrebbe, purtroppo, più veloce di quello dei Btp.

Dario Di Vico

30 marzo 2012 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_30/20120330NAZ01_35_2d3c455e-7a27-11e1-aa2f-fa6a0a9a2b72.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Aprile 12, 2012, 03:34:34 pm »

Nuova occupazione part time mentre si discute sulle aperture festive dei punti vendita

Il "super" che assume gli studenti di domenica

L'idea di Pam in 130 negozi: già 5.000 richieste


MILANO - Mentre la discussione sulle aperture domenicali dei supermercati ha preso una curvatura ideologica dal gruppo Pam/Panorama arriva un'iniziativa concreta che forse vale più di tante chiacchiere. In molti dei 130 punti vendita che il gruppo veneto delle grande distribuzione alimentare possiede in Italia sono stati affissi già da qualche settimana manifesti che recitano: «Sei studente? Lavora con noi la domenica». L'iniziativa è partita in sordina ma ha via via bucato l'attenzione degli universitari e ad oggi, dopo circa un mese dall'inizio della campagna di assunzioni, dal quartiere generale di Spinea i responsabili delle risorse umane del gruppo stimano tra le tre e le cinque mila le domande di ingaggio pervenute tramite il sito lavoraconnoi.gruppopam.it .

Lo scenario nel quale si inserisce l'iniziativa Pam è quello della liberalizzazione del commercio varata dal governo e la scelta effettuata dal vertice aziendale è stata di consentire a ciascun responsabile di filiale di assumere personale part time a fronte della programmazione delle aperture domenicali. Così dove c'è necessità vengono reclutati studenti che lavorano il solo giorno di festa per un turno di otto ore e la loro prestazione è regolata dal contratto nazionale del commercio che prevede l'assunzione part time per giovani studenti. Il gruppo veneto non fornisce cifre precise sulla paga, si può però calcolare che, in un mese standard composto di quattro domeniche, alla fine un giovane studente si trovi in busta paga 300-400 euro.

Le mansioni per le quali i supermercati Pam cercano giovani studenti sono ovviamente quelle di base, addetto alla cassa o più in generale al punto vendita. Ma già in fase di ingaggio il datore di lavoro fa una promessa molto interessante: «Se terminati gli studi vorrai continuare a lavorare con noi ti offriremo la possibilità di partecipare a un processo di crescita all'interno dell'azienda». Moltissimi dei nostri manager hanno cominciato così, dice il gruppo, e anche tu potrai fare la stessa carriera assumendo un giorno la guida di un supermercato o di un reparto all'interno di un ipermercato. Ad oggi l'azienda non fornisce ancora numeri sulle assunzioni andate in porto ma assicura che l'esperienza va avanti con reciproca soddisfazione.
Il gruppo Pam è controllato da tre famiglie (i Bastianello, i Dina e i Giol) che lo hanno fondato nell'ormai lontano 1958.

L'acronimo Pam sta per «più a meno», il giro d'affari è valutato attorno a 2,5 miliardi di euro e oltre alle insegne di Panorama il gruppo opera con i marchi In's, Brek e direttamente Pam. Nonostante in passato il gruppo sia stato considerato una preda di altri operatori in vena di crescere i Bastianello vanno avanti per la loro strada e a stare alle ultime dichiarazioni rilasciate tempo fa erano pronti a svilupparsi tramite acquisizioni. È evidente che la crisi dei consumi ha portato un po' tutti a riconsiderare gli obiettivi ma «l'operazione studenti» dimostra come i veneti non vogliano perdere l'autobus delle liberalizzazioni e credano nelle aperture domenicali.
Sul piano sindacale la deregulation del commercio, iniziata con le lenzuolate di Bersani e proseguita con Monti, ha trovato la fiera opposizione della Cgil del settore commercio che si è opposta in nome della sacralità del riposo domenicale dei lavoratori e della coesione delle famiglie messa a repentaglio dall'assenza delle madri-commesse. L'iniziativa della Pam, avvalorata dalla risposta che gli studenti hanno finora dato almeno in termini di disponibilità, consente al dibattito sindacale di fare un passo in avanti perché mette in campo nuova occupazione part time. Che comunque di questi tempi vale oro.

Dario Di Vico

twitter@dariodivico

12 aprile 2012 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_aprile_12/di-vico-pam-studenti_a805011c-8464-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Aprile 13, 2012, 11:51:41 am »

IL GOVERNO TRA MERITI ED ERRORI

Il Paese è solo uno, meglio ricordarlo


In questa fase, complicata quanto drammatica, della vita politica nazionale il governo Monti non ha alternative.
Le classi dirigenti di questo Paese farebbero bene a tenere a mente questa piccola grande verità e magari ad appuntarsela a penna. Non ci sono infatti interessi di categoria o presunti vantaggi elettorali che possano bilanciare i rischi che correrebbe il Paese a causa di un vuoto di potere. La presidente della Confindustria Emma Marcegaglia e gli ex ministri del governo Berlusconi, Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti, che con differenti argomenti ed efficacia hanno messo nei giorni scorsi nel mirino l'operato del presidente del Consiglio, dovrebbero sapere che un salto nel buio non avvantaggerebbe nessuno, tantomeno loro. Un politico responsabile e lungimirante, invece, guarderebbe con interesse al successo della difficile missione affidata a Mario Monti se non altro per poter tornare nel 2013 a una piena dialettica elettorale in un clima meno condizionato dall'emergenza internazionale.

È vero che la riforma del lavoro predisposta da Elsa Fornero era preferibile nella sua prima versione, ma sia dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese sia dai relatori del provvedimento al Senato stanno maturando in queste ore emendamenti sulla flessibilità in entrata, l'apprendistato e la stagionalità, utili a correggere i difetti più evidenti presenti nell'ultimo testo licenziato da Palazzo Chigi. Si tratta di operare con competenza, pragmatismo e senso di responsabilità. Se poi il presidente del Consiglio dovesse constatare che in Parlamento la disponibilità a migliorare il provvedimento venisse scambiata per debolezza, non dovrebbe esitare a ricorrere alla fiducia.
In un contesto internazionale caratterizzato da una nuova turbolenza che sta investendo l'eurozona presentarsi indecisi, divisi o addirittura rissosi non fa altro che peggiorare la considerazione che hanno del nostro Paese i mercati finanziari e gli organi di informazione che se ne fanno megafono. Non può non colpire il repentino mutamento di giudizio che si è potuto registrare nei commenti del Financial Times e del Wall Street Journal . La risposta da dare, necessaria anche se purtroppo insufficiente, è quella di una rafforzata coesione delle forze politiche che, oltre ad accelerare il cammino parlamentare della riforma Fornero, dovrebbero varare una legge sul finanziamento dei partiti coraggiosa e rispettosa degli orientamenti largamente presenti nell'opinione pubblica. Il gioco di smarcamento al quale abbiamo assistito negli ultimi giorni può servire a conquistare qualche porzione aggiuntiva di visibilità, un'intervista in più, ma è assolutamente miope. I narcisi non sopravvivono al declino del Paese che li ospita.

Il governo ha sicuramente commesso degli errori, ma c'è qualcuno che in piena onestà intellettuale possa tentare un confronto con le performance dei precedenti esecutivi? Gli ex ministri che ora distribuiscono pagelle ad ogni ora del giorno hanno già dimenticato le continue risse tra l'allora presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia? E il discredito internazionale che ha avvolto per mesi il nome dell'Italia all'estero è già uscito dal file della loro memoria?
Come Corriere non abbiamo in questi mesi lesinato critiche all'azione dei ministri, lo abbiamo fatto sempre con spirito costruttivo e senza dimenticare come il governo Monti abbia completato una riforma previdenziale di sicuro standard europeo, abbia rafforzato la lotta all'evasione fiscale e cominciato a liberalizzare anche i mercati più chiusi. Il limite è stato però quello di aver adottato un mix di tassazione eccessivamente elevata e tagli di spesa troppo timidi.

Si può obiettare, con qualche ragione, che il governo dei tecnocrati impostando la sua agenda, scegliendo di volta in volta le priorità, implementando i singoli provvedimenti lo abbia fatto guardando più nella direzione dei mercati finanziari che in quella del Paese reale. Urge, dunque, una correzione di rotta di metodo e di merito. Agli italiani va data la sensazione piena che quello che sta chiedendo loro lacrime e sangue è il governo di Roma e non di Bruxelles. Se, come raccontano le ricerche dell'Eurisko, la gente è sopraffatta dalle preoccupazioni e ha come unica strategia di sopravvivenza il taglio dei consumi anche del valore di pochi euro, la prospettiva della ripresa si allontana ulteriormente. Monti deve dunque produrre fiducia, e pur nel rispetto delle compatibilità deve trovare la strada per dare un colpo alle tasse e saltare il previsto nuovo aumento dell'Iva. In questa difficile operazione il presidente del Consiglio deve sentire attorno a sé la piena solidarietà delle forze politiche che lo sostengono in Parlamento perché, dev'esser chiaro a tutti, il suo governo non è «il male minore», ma l'unico traghetto di cui disponiamo per raggiungere l'altra sponda. Se fallisce lui...


Dario Di Vico

twitter@dariodivico

13 aprile 2012 | 9:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_13/paese-uno-solo-divico_956439b8-8529-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml
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