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« Risposta #15 inserito:: Luglio 18, 2009, 09:55:10 am » |
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Il commento
L'autunno difficile e le riforme
Sacconi e la svolta scandinava da non sprecare
C’è attesa per il faccia a faccia che vedrà oggi protagonisti a Chianciano il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il leader della Cgil Guglielmo Epifani. Dall'esito si capirà qualcosa di più sui contorni dell'ennesimo difficile autunno italiano. Ieri il ministro, commentando l'approvazione del Dpef, è stato— non a caso— attento a sottolineare il valore della pace sociale. E anche le prime dichiarazioni di Epifani sono parse improntate a cautela. Pur tacciando il Dpef di «conservatorismo », Epifani è stato politicamente attento a non bruciarsi i ponti dietro le spalle.
In attesa di capir meglio lo scenario che si apre, la novità è che il governo una mossa di merito sul tema della riforma previdenziale l’ha fatta. Un politico che qualche tempo fa conobbe una discreta popolarità ben oltre i confini del suo Paese era solito dire che ogni lunga marcia inizia con un piccolo passo. Ebbene quel passo, complice Bruxelles, comunque c’è stato. È chiaro a tutti che senza il vincolo esterno, l'urgenza di armonizzare la nostra normativa a quella europea, l'esecutivo avrebbe preferito aspettare tempi migliori. Perché, come più volte hanno sostenuto Tremonti e il ministro Maurizio Sacconi, di fronte alla profondità della crisi e agli obiettivi rischi di secco incremento della disoccupazione, aggiungere ulteriori elementi di tensione sindacale (o meglio di stress sociale) è ai limiti del masochismo.
Ma non c’era scelta e bisognava prendere in qualche modo l’iniziativa. Nel muoversi —e sta qui l’elemento di discontinuità più rilevante — il governo non ha fatto ricorso a misure tampone, anzi ha prefigurato un itinerario nuovo che prende a riferimento l’esperienza dei Paesi scandinavi. Il meccanismo messo a punto dai due ministri ha come presupposto due opzioni di fondo. La prima è quella di utilizzare i risparmi da previdenza dentro il perimetro del welfare (con il fondo per i non autosufficienti) in maniera da agevolare le relazioni con le confederazioni ed evitare che l’allungamento dell’età pensionistica delle donne suonasse come punitivo per l’intera platea delle fasce deboli. La seconda opzione parte dal riconoscere che il nostro sistema previdenziale ha un problema di sostenibilità nel medio periodo a causa del progressivo allungamento delle aspettative di vita.
E mette in campo per la prima volta un meccanismo di stabilizzazione automatica che farà salire l’età di ritiro dal lavoro in ragione dell’evoluzione demografica, sottraendo alla querelle politica e ai governi che si avvicenderanno la decisione di intervenire di volta in volta. Si potrebbe persino dire che si tratta di una soluzione bipartisan. Nei prossimi giorni ci sarà tempo e spazio per il dibattito tecnico sull’efficacia delle soluzioni introdotte ma di sicuro il dibattito sulle riforme non può ignorare la novità. Da diversi mesi si discute sull’ipotesi di utilizzare la crisi come occasione per rilanciare le riforme, per metter mano alle più rilevanti storture del sistema Italia.
Con l’assemblea di fine maggio anche la Confindustria ha fatto sua questa linea di intervento con Emma Marcegaglia e poi l’ha ribadita anche dal pronunciamento delle principali associazioni industriali del Nord. Ora il governo riconosce che pur con cautela si può battere la strada dell’innovazione. L’auspicio è che anche i sindacati colgano quest’opportunità e non si mettano di traverso. Il generoso appello alla Cgil rivolto ieri, proprio a Chianciano, dal segretario Cisl Raffaele Bonanni non va disperso.
Dario Di Vico 16 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 28, 2009, 05:54:03 pm » |
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Le proposte che mancano
Come tutti gli intellettuali anche gli economisti hanno i loro vezzi. L’ultimo esempio riguarda la riflessione apertasi sulle caratteristiche della probabile ripresa dell’economia mondiale dopo lo shock dei mesi scorsi, dopo quella che chiamano la Grande Crisi. Si discetta tra gli economisti se si tratterà di un’uscita a V, veloce e vigorosa, oppure di un rilancio a W, destinato ad alternare per un periodo indefinito strappi di crescita e ricadute recessive. Oppure ancora di una ripresa a U, lenta e debole. È proprio quest’ultimo lo scenario giudicato più probabile per molti Paesi — pare di capire compreso il nostro — sia dal guru americano Nouriel Roubini sia dall’Economist. Nessuna illusione, dunque, su straordinari rimbalzi, ogni decimo di Pil in più dovremo guadagnarcelo con lacrime e sangue.
Un’uscita a U applicata al sistema Italia può determinare un nuovo handicap, distanziarci ulteriormente — se non altro sul piano temporale — rispetto ai nostri vicini europei. Come già segnalato dai dati di metà agosto riferiti allo sviluppo nell’eurozona, Francia e Germania si sono sorprendentemente rimesse a tirare. Un contributo è venuto dai sussidi governativi all’acquisto di auto che le amministrazioni di Parigi e Berlino hanno potuto distribuire con maggiore larghezza di mezzi. Ma, ed è questa la novità su cui riflettere, l’industria franco-tedesca sembra aver già avuto la capacità di approfittare della ripartenza delle economie asiatiche emergenti. La cruda verità per il sistema Italia è che dopo aver speso fiumi di parole sulla necessità di penetrare commercialmente sui principali mercati asiatici, vendiamo ancora poco, troppo poco, dalle parti di Pechino e di Shanghai. È vero che ogni tanto parte una spedizione di imprenditori ma negli anni scorsi si doveva fare di più per posizionare il prodotto italiano in funzione dei bisogni del ceto medio cinese.
Lo scenario a U trova conferma anche dalla profonda riorganizzazione della produzione mondiale in corso già oggi «dentro » la crisi e che pare catalogare l’Italia tra i paesi che potremmo eufemisticamente definire statici. Non solo non c’è traccia di investitori stranieri disposti nei prossimi mesi a scommettere sul Belpaese ma se si analizzano con attenzione le strategie della grande e media imprenditoria italiana emerge che in tanti stanno privilegiando il rafforzamento degli impianti delocalizzati e non certo gli investimenti sul suolo patrio.
In un contesto così aleatorio è sicuramente positivo che si sia aperta, grazie a un’intervista del ministro Maurizio Sacconi, un’ampia discussione sulla contrattazione decentrata e la detassazione degli aumenti. È positivo che anche in casa Cgil si scorgano segnali di ragionevolezza ma attenzione a non apparire strabici. In questo preciso momento, alla vigilia della riapertura delle fabbriche, ciò di cui soffre l’industria italiana è il taglio della domanda. Ciò che potrebbe spingere molti imprenditori a non riaprire è il silenzio dei fax e degli ordini, non il costo del lavoro. E allora anche il sindacato piuttosto che limitarsi a compilare elenchi delle aziende in crisi o ventilare un autunno all’insegna di «una, cento, mille Innse» farebbe bene a mettere in campo proposte coraggiose e innovative. In Germania ha funzionato, perché da noi non dovrebbe?
Dario Di Vico 27 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:34:15 pm » |
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L’analisi -
Le aziende e gli effetti della moratoria con l’Abi. Ordini ridotti a uno-due mesi
A Nordest le «piccole» riaprono Ma i distretti restano al buio
A Vicenza (oro) e Manzano (sedie) la selezione resta dura
Alla fine fabbriche e capannoni del Nordest hanno riaperto. Si era temuto che già dalla prima settimana di settembre la deindustrializzazione italiana subisse un’accelerazione e ciò non è avvenuto. Il pericolo è stato scampato, o forse solo rinviato perché il portafoglio ordini per molte aziende non va al di là diun mese o due
È vero che qualche impresa, anche in Veneto, ha fatto ferie lunghissime e riaprirà i battenti addirittura lunedì 14 ed è anche vero che ci sono stati casi — l’ultimo quello della conceria Vaianello di Montebello — di chiusure improvvise con lettera di licenziamento retrodatata al 31 luglio. Ma fortunatamente sono eccezioni, non la regola. I piccoli imprenditori tengono botta, non vogliono chiudere e mandare a casa i dipendenti ai quali li lega un forte spirito comunitario. Un effetto positivo sul morale lo ha avuto sicuramente l’avviso comune sulla moratoria dei debiti siglato dalle associazioni di categoria con l’Abi ai primi di agosto. In verità le potenzialità di quell’accordo si sono dispiegate ancora in minima parte e c’è stato persino qualcuno che dal fronte degli artigiani ha gridato all’imbroglio, al bluff. La Confindustria con Emma Marcegaglia ha manifestato le stesse perplessità e le banche hanno replicato duramente, ma è ancora presto per dare un giudizio fondato. Siamo ancora nella fase dell’implementazione.
Pericolo scampato o solo rinviato? I segnali negativi vengono da alcuni distretti industriali, pur ricchi di tradizione. Oggi a Vicenza apre i battenti Choice, la fiera dell’oro in un panorama di grande preoccupazione. Sono state mobilitate come testimonial anche Elisabetta Canalis e Cristina Chiabotto ma la selezione darwiniana di orafi e gioiellieri è drastica. Sette anni fa nel solo Vicentino erano attive circa 1.300 aziende dell’oro, oggi ne sono rimaste in pista 860 e le previsioni degli addetti ai lavori sentenziano che «supereranno la crisi solo 400 o 500». Il distretto dunque cambierà faccia, non sarà più quello di prima.
Qualcosa di molto simile sta accadendo nell’Udinese, nel distretto della sedia di Manzano: secondo i dati della Confartigianato locale più di cento aziende sono a rischio di imminente chiusura. La domanda mondiale di sedie di legno è in forte contrazione e le piccole imprese dovrebbero cambiar prodotto (ad esempio, i mobili da giardino tirano) ma ci vogliono risorse e professionalità che non tutti hanno. In più come denunciato dalla Confartigianato c’è difficoltà nel ricambio generazionale. I figli che avevano dubbi se intraprendere o meno la strada dei padri per l’effetto-crisi cominciano a pensare a soluzioni professionali alternative.
Segnali tutt’altro che incoraggianti vengono anche dalle medio-grandi imprese fortemente internazionalizzate. È il caso del gruppo Tecnica (1.200 dipendenti, primo produttore mondiale di scarponi, famoso per i marchi Moon Boot e Nordica) che è segnalato in grave difficoltà per il crollo della domanda estera che prima della crisi rappresentava l’80% dei ricavi. E quando gli ordini delle aziende medio-grandi cominciano a scarseggiare la prima conseguenza è il rientro delle lavorazioni terziste, mossa che si ripercuote sull’indotto con effetti devastanti.
Mentre le dinamiche di mercato segnalano morti e feriti è cominciata tra gli industriali e i banchieri di territorio una riflessione di carattere strategico. Visto che la crisi mette a nudo l’eccesso di capacità produttiva e dato per scontato che non si riuscirà a salvare tutto l’apparato industriale, non è il caso di evitare che la selezione avvenga in maniera casuale, magari solo perché gli operai della ditta X o Y salgono su una gru e minacciano di buttarsi giù? La prima risposta riguarda il rafforzamento patrimoniale delle piccole e medie imprese. Diversi accordi raggiunti tra le associazioni e le singole banche contengono già clausole di questo tipo. Se l’imprenditore mette mano al portafoglio, magari vende la barca o la terza casa e investe sulla sua azienda, gli istituti di credito raddoppiano la posta e accompagnano lo sforzo del singolo industriale. Quanto invece alla possibilità che il governo lanci una sorta di Fondo Italia per la ricapitalizzazione delle Pmi, il presidente degli industriali veneti, Andrea Tomat, l’ha già bocciato bollandola come «una nuova Gepi».
La seconda risposta si chiama aggregazione tra imprese. Se gli orafi di Vicenza si mettessero insieme probabilmente riuscirebbero a salvare competenze e occupazione ma in questo caso c’è da fare i conti con l’altra faccia del miracolo nordestino, l’individualismo esasperato. Che il presidente degli industriali Roberto Zuccato riassume con una vecchia barzelletta. Un imprenditore trova la lampada di Aladino. Il Genio gli concede la possibilità di esprimere un desiderio ma lo avverte «qualunque cosa chiederai io ne darò il doppio al tuo vicino e concorrente». L’imprenditore ci pensa su e poi avanza la sua tremenda richiesta: «Cavami un occhio!».
Dario Di Vico 12 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:15:32 pm » |
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LA RAPPRESENTANZA DI PROFESSIONISTI E «PICCOLI»
Gli italiani invisibili
Ottobre sarà un mese caldo per chi vuole ricucire con piccoli imprenditori e professionisti
Sembra incredibile ma nel Paese della concertazione oggi soffriamo di (poca) rappresentanza: è diventata un bene scarso. Complice la grande crisi scopriamo che interi pezzi della società sono diventati Invisibili. Non hanno santi in paradiso o lobby che li tutelino e le loro rivendicazioni non riescono nemmeno ad arrivare ai piani alti. È questa la condizione dei piccoli imprenditori costretti a far la fila in banca per chieder credito e non chiuder bottega, dei giovani licenziati dai grandi studi di avvocati e architetti che aprono la partita Iva per mancanza di alternative, dei consulenti del terziario avanzato che pagano all’Inps lauti contributi per pensioni che forse non matureranno.
Non c’è da stupirsi quindi se tra gli informatici e i designer dell’associazione Acta il primo partito sia diventato quello dell’astensione, se siano nati in diverse realtà territoriali comitati con il suggestivo nome di «Imprese che resistono » e se un gran conoscitore del mondo delle professioni come il sociologo Gian Paolo Prandstraller sentenzi: «Questo governo non vuole capire che senza le competenze dei professionisti non saremo mai un Paese avanzato ».
Che aria tiri qualcuno nel Palazzo ha cominciato a capirlo e sta giocando la carta della captatio benevolentiae. I convegni sulle Pmi non mancano, le banche stanno attente a fare una comunicazione «amica » verso i Brambilla, i politici locali preoccupati chiamano i ministri sul territorio a render conto della loro azione e persino i parlamentari milanesi del Pd cominciano ad alfabetizzarsi sui problemi delle partite Iva. Tutto dire. Ma non basta. La strategia del sorriso dura lo spazio di un convegno e invece servono soluzioni. Prendiamo, ad esempio, i conflitti di interesse che scuotono il mondo dell’industria. I piccoli sono stanchi di frequentare le associazioni per stringer mani e prender pacche sulla spalla, vogliono diventare partner industriali e non fornitori da tagliare alla prima occasione (magari per mandare il lavoro all’estero).
Il caso dell’obbligo di etichettatura made in Italy è esemplare: i «contadini del tessile» chiedono — con la sponda della Lega — totale trasparenza, non hanno remore ad attaccare gli stilisti e rendono faticosa la mediazione della Confindustria. Anche nell’industria aero-spaziale le piccole imprese non vogliono più che siano le grandi aziende di Stato, in primis la Finmeccanica, a fare il bello e cattivo tempo. Hanno premuto sulla politica e ottenuto dal ministero della Difesa l’apertura di un tavolo di confronto. Un primo passo che nel settore equivale a una piccola rivoluzione. Ma il conflitto più esplosivo riguarda gli incentivi per sostenere la domanda di beni di consumo. La Fiat li ha chiesti di nuovo e dovrebbe ottenerli ma il rischio di una sollevazione da parte degli altri settori è all’ordine del giorno. Dalla Federlegno alle associazioni industriali del Nord-est l’elenco è lungo.
Ottobre, comunque, sarà ❜❜ un mese «caldo» per la rappresentanza. La Lega si presenta come partito-società (anche in questo riecheggia il Pci) e scavalcando le associazioni degli artigiani ricerca il confronto diretto con i Piccoli. Le cinque organizzazioni del patto del Capranica (Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato e Casartigiani) affrettano i tempi per lanciare la loro nuova iniziativa comune. Giuseppe De Rita, Aldo Bonomi e Paolo Feltrin stanno lavorando per scrivere addirittura una Carta dei Valori del nuovo soggetto di rappresentanza. La Confindustria replicherà a fine ottobre con un importante meeting a Mantova nel quale presenterà un progetto ambizioso: un piano per incentivare le aggregazioni delle piccole e medie imprese. Tanto attivismo organizzativo servirà a tamponare il credit crunch, la chiusura delle fabbriche e a reimpostare su basi nuove il rapporto con gli Invisibili? Molto dipenderà dalle scelte che le organizzazioni che si candidano a ricucire la società faranno. Si limiteranno a competere sul territorio per rubacchiarsi gli iscritti o dovendo scegliere tra gli Invisibili e la politica lenta staranno con i primi?
Sul versante dei professionisti la situazione è ancora più complessa. E la rappresentanza più fragile. Gli Ordini professionali attaccati negli scorsi anni per le loro chiusure e la non volontà di liberalizzare avevano mostrato una buona capacità difensiva. «Per quello che conosco al Nord, sono strumenti efficienti— sostiene Prandstraller— ma con la crisi tutto è destinato a cambiare. Perché stavolta penalizza più gli autonomi che i lavoratori dipendenti». A mettere in difficoltà gli Ordini è la frattura che si sta aprendo tra anziani e giovani perché chi paga il conto più salato sono i giovani avvocati, commercialisti o architetti che rischiano nei prossimi mesi di essere espulsi dalla professione. Senza avere strumenti di tutela che servano ad aiutarli a reggere il colpo e a fornir loro una seconda chance. Sono nate in questi anni numerose associazioni professionali spesso in polemica con gli Ordini ma per un motivo o per l'altro non sono riuscite ad avere la taglia necessaria per farsi ascoltare. La stessa considerazione vale per il Quinto Stato dei professional e consulenti milanesi. Il welfare per loro è una tassa aggiuntiva del 26%, non quella formidabile istituzione democratica che assicura a operai e impiegati, ai Visibili, cassa integrazione e buone pensioni.
Dario Di Vico
07 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:32:01 am » |
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L’incontro
Bossi alle aziende pubbliche: sostenete le piccole imprese
Vertice a Milano: le grandi affianchino le pmi
Tra il Carroccio e le aziende di Stato i rapporti non sono stati mai facili.
Del resto si trattava di due mondi lontanissimi tra loro e, anche antropologicamente, il boiardo e il lumbard hanno rappresentato polarità estreme.
Un caso che ha appassionato per lungo tempo gli addetti ai lavori è stato quello di Dario Fruscio, consigliere di amministrazione dell’Eni su indicazione leghista e in costante conflitto con i vertici del gruppo. Ora nell’anno di grazia 2009 siamo alla svolta.
I manager di Stato non solo sono invitati ai convegni ma viene chiesto loro di darsi da fare per salvare il sancta sanctorum leghista, la piccola e media impresa. Venerdì scorso ad aprire l’assemblea di Vergiate con Umberto Bossi e Giulio Tremonti sul palco e gli artigiani ribelli in platea era stato l’ingegner Giuseppe Orsi, amministratore delegato dell’Agusta Westland (gruppo Finmeccanica) che aveva fatto gli onori di casa ma aveva anche ricapitolato puntigliosamente gli investimenti della sua azienda e i rapporti con l’indotto locale. Ieri mattina a Milano, in una sorta di replica di Vergiate, i manager pubblici sul palco erano addirittura due: Nicolò Piazza, presidente di Invitalia e Giuseppe Bono, amministratore delegato della Fincantieri. Una svolta in totale sintonia con Tremonti, che proprio ieri — non a caso — ha tirato una micidiale bordata contro le privatizzazioni.
E’ stato il duetto tra Bossi e Bono ad animare il convegno che questa volta vedeva in platea più nomenklatura di partito che artigiani. «Bono è un calabrese, un terrone, ma è bravo. È la dimostrazione che ogni tanto un’eccezione c’è». Il Senatur era di ottimo umore e aveva voglia di scherzare ma la sensazione che ha avuto il pubblico è che tra i due ci sia ormai una certa familiarità.
Bossi ha ringraziato pubblicamente il manager per avergli inviato le foto della cerimonia di consegna della Carnival Dream e poi rivolto ai presenti ha scandito in due diverse occasioni: «A Monfalcone fanno le navi più belle del mondo». I bene informati raccontano che ad aprire e successivamente a curare il dialogo tra due sia stata l’onnipresente senatrice Rosi Mauro, a sua volta natia di San Pietro in Vernotico, provincia di Brindisi.
Guai però a pensare che ieri al convegno milanese sulla piccola e media impresa sia andato in onda solo un inatteso siparietto, c’è parecchio di più. Bossi e suoi sono molto preoccupati per la tenuta delle piccole aziende del Nord e per i riflessi politico-elettorali che una loro débacle può determinare alle prossime Regionali. Nelle province dove guidano l’amministrazione — si vedano i casi della provincia di Brescia o di Varese — gli uomini del Carroccio aprono i cordoni della borsa e vanno in soccorso dei piccoli. Poi hanno in mente di organizzare in più territori possibili un piccolo road show per far conoscere agli artigiani tutte le facilitazioni di quella che chiamava «la finanza agevolata». E del resto commercialisti e tributaristi in casa leghista non mancano, a cominciare da Francesco Belsito, titolare di un avviato studio, capo segreteria del ministero della Semplificazione e consigliere di amministrazione della Fincantieri.
Ma, e qui entrano in gioco le aziende pubbliche, Bossi sembra avere in testa una sorta di moral suasion nei loro confronti per evitare che taglino le forniture all’indotto e magari delocalizzino all’estero le produzioni. Da qui il test rappresentato dal dialogo ravvicinato con Bono, al quale il Senatur durante il dibattito ha caldamente raccomandato di sostenere le attività delle piccole aziende friulane che lavorano per Monfalcone. E Bono gli ha subito fatto eco dichiarando che, a suo parere, «le piccole e medie sono forti quando c’è una grande impresa competitiva e in grado di creare occasioni di sviluppo anche per loro».
Dario Di Vico
13 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 21, 2009, 09:28:01 am » |
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Agenda fuori tempo
Ascanso di equivoci va detto subito: ne avremmo volentieri fatto a meno. L’animata discussione che nelle ultime 48 ore si è aperta sugli innegabili vantaggi del posto fisso (contrapposto all’aleatorietà del mercato) e che ha coinvolto, con toni anche appassionati, il capo e i ministri del governo di centrodestra, i principali esponenti dell’opposizione e i leader delle organizzazioni di rappresentanza, appare del tutto fuori tempo rispetto alla lenta evoluzione della crisi. L’impressione che un comune cittadino ne ricava è quella di avere a che fare con agende improvvisate che servono di più ad «emozionare » gli elettorati che a delineare convinte strategie di governo. Quasi che la logica del talk show dettasse le regole.
È bene che la politica si occupi del popolo, organizzi il monitoraggio della società, si chieda se gli elettori paghino o no le tasse, trovino oppure no lavoro, siano contenti delle nostre università o preferiscano mandare i loro figli a studiare all’estero e via di questo passo. Ma ogni idea o programma (si può dire riforma?) che viene sottoposta al vaglio dell’opinione pubblica deve poi essere tradotto in leggi, normative e istituti che migliorino l’esistente. È sacrosanto, quindi, che il governo discuta dell’occupazione e dei guasti provocati da una flessibilità corsara, ma fino a ieri la strada tracciata dal ministro Maurizio Sacconi — per altro in una logica bipartisan — prevedeva il completamento delle riforme Treu e Biagi con lo scopo di garantire la tutela del lavoro flessibile anche nei periodi di non impiego. Tutto ciò va rottamato?
L’occupazione in Italia finora ha retto grazie alla cassa integrazione, considerato a torto un ferro vecchio e che invece ci ha permesso di oltrepassare la fase più acuta della crisi. Ma attenzione: il grande freddo non è finito. Con uno di quei paradossi di cui è ricca la storia è ripartita prima l’economia di carta, simboleggiata dalle «famigerate» borse valori, e invece quella reale è ancora lì, a leccarsi le ferite. Non basta un convegno per spegnere le inquietudini dei piccoli imprenditori e artigiani, anche di quelli del Varesotto che pure hanno votato in massa i partiti di governo e si spellano le mani per Umberto Bossi. Ma quante di quelle imprese sopravvivranno al grande freddo? E si tratta di posti (fissi) che vengono cancellati da un giorno all’altro e di territori che rischiano di veder azzerata la vocazione produttiva. C’è qualche ministro disposto a dir loro la verità e invitarli a rinunciare all’atavico individualismo e aggregarsi piuttosto che morire? La crisi, poi, non mette solo a repentaglio le micro-imprese, sta anche falciando il già debole terziario italiano. Quanti sono gli Invisibili professionisti che non riescono più a mettere assieme uno stipendio decente e sono costretti però a pagare i costi di un welfare di cui non usufruiranno mai? Troppi per partecipare a un talk show.
Dario Di Vico
21 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 07, 2009, 09:55:17 pm » |
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L’analisi
Ma dietro i numeri il ritardo dell'export
Il dato che viene dal superindicatore Ocse va incassato con tanta soddisfazione e un po’ di sollievo. L’analista più rigoroso sarà portato a sottolineare come il recupero previsto è sicuramente significativo (+17) e superiore a quelli degli altri Paesi ma nelle scorse rilevazioni l’Italia aveva fatto segnare un tracollo (-32), laddove gli altri erano incorsi in una caduta di proporzioni decisamente più modeste. A parità di numeri comunque l’Ocse ci dice che la nostra economia dovrebbe riprendersi con una velocità maggiore rispetto alla Germania e si tratta di una (piacevole) sorpresa. Passando dal terreno delle previsioni macroeconomiche alle scelte nazionali di politica economica c’è da osservare come il dibattito italiano sia quasi esclusivamente centrato sull’asse stimoli fiscali-debito. Discutiamo (e ci dividiamo) sull’opportunità o meno di tagliare l’Irap per favorire il rilancio del sistema delle imprese e rapportiamo quest’opzione ai rischi insiti al peggioramento dei nostri conti pubblici e del nostro rating.
Quella che manca, forse, è una seconda gamba del dibattito. Ammesso che a fine crisi il livello della domanda mondiale torni ai livelli precedenti, quella che cambierà radicalmente è la sua composizione. Non saranno più centrali i mercati americani ed europei — presidiati con sufficiente personalità dal made in Italy — ma quelli di Cina, India e Brasile nei quali, nonostante le tante parole spese al vento, l’industria italiana è in ritardo rispetto ai concorrenti. Da qui la necessità, da parte del sistema Italia, di varare un’operazione di riconversione dei prodotti e dei mercati in tempi che non possono essere lunghi. Qualche indizio positivo è venuto nei giorni scorsi dal monitor dei Distretti curato da Intesa Sanpaolo secondo il quale nel settore metalmeccanico, nei macchinari per l’imballaggio e nella meccanica strumentale l’export verso Pechino sta segnando un incremento. Ma è evidente che non può bastare e l’alternativa appare drastica: o ci muoviamo in fretta con politiche industriali e commerciali ad hoc oppure l’eccesso di capacità produttiva del made in Italy sarà pesante e ci costringerà volenti o nolenti a sacrificare una bella porzione di piccola e media impresa.
Dario Di Vico
07 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 11, 2009, 04:30:42 pm » |
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L'ASSEMBLEA DI BESNATE Partiti e banchieri, le condizioni degli artigiani ribelli Le voci e le storie degli indipendenti di Dario Di Vico Gli artigiani ribelli del Varesotto non smobilitano né i loro comitati né i loro blog. L'Ocse ci invita tutti all'ottimismo ma per leggere l'evoluzione della crisi i piccoli imprenditori terzisti non hanno bisogno di modelli econometrici e super-indicatori. E così, come ormai fanno periodicamente da cinque mesi, anche lunedì sera in 250 hanno riempito il teatro parrocchiale di Besnate per discutere (animatamente) con politici e banchieri. Stavolta però rispetto a cinque mesi fa è come se avessero preso coscienza del proprio ruolo, per la prima volta hanno l'impressione di poter dire la loro e nessuno può zittirli. Luisa Cazzaro ha una piccola azienda metalmeccanica di dieci dipendenti, è tra le animatrici di Imprese che resistono Lombardia. Si alza dal suo posto e senza tanti fronzoli spara la bordata: «Le intenzioni dei politici e delle banche sono anche buone ma quando arrivano a noi, sul territorio, tutto si perde. Vince la burocrazia. Ma vi pare possibile che uno dei miei dipendenti in cassa integrazione sia stato destinato dalla Regione a frequentare un corso di formazione per la gestione dello stress? Siamo matti?». Massimo Mazzucchelli è anche lui un piccolo della meccanica, ha organizzato la serata di Besnate e dal palco spiega con grande lucidità la maturazione dei ribelli del Varesotto: «In questi mesi non solo abbiamo portato avanti le nostre richieste, ma abbiamo capito che bisogna dedicare una parte del nostro tempo alla vita pubblica, compresi i blog. Se rimaniamo soli e zitti non andiamo da nessuna parte». Cosa sia successo al sistema produttivo in questi mesi, potrà sembrare bizzarro, ma nessuno lo sa con certezza. Davide Galli della Confartigianato giura che «in provincia di Varese già mille aziende hanno chiuso e cento solo nell’autotrasporto». Per evitare che altre mille chiudano i ribelli si aspettano il taglio dell’Irap, che i gruppi più grandi paghino i fornitori e che la moratoria dei debiti con le banche sia allargata. Di politici a Besnate (5.400 anime compresi vecchi e bambini, 150 imprese e un mare di partite Iva che da sole fanno il 15% del bilancio del Comune) sul palco ce ne sono tre, il senatore leghista Massimo Garavaglia, l’assessore regionale del Pdl Raffaele Cattaneo e, sorpresa, per la prima volta un esponente il Pd, il deputato Daniele Marantelli. Si vede lontano un miglio che davanti alla sua gente Garavaglia è costretto a giocare in totale difesa del governo. Anche la moglie ha un’aziendina da queste parti e gli verrebbe da dire che l’Irap va tagliata non una ma due volte e che i Comuni andrebbero lasciati liberi di spendere. La ragion politica lo porta invece a parlare di conti pubblici, di breve e lungo termine, di una finanziaria ancora aperta a miglioramenti ma tra tante cautele dà anche una notizia: i temutissimi studi di settore, tarati sulla crescita e non sulla recessione, vanno considerati sospesi de facto. Poi Garavaglia elogia il ministro Luca Zaia per concedersi una battuta: «Noi che vogliamo la Padania, alla fine siamo quelli che si battono per salvare il made in Italy». Cattaneo vende (legittimamente) un po’ della sua merce di amministratore locale: la Regione ha lanciato i Formigoni bond e finanzierà il made in Lombardy , farà partire le opere infrastrutturali e quanto ai corsi anti- stress promette un’inchiesta rigorosa. Ai ribelli, poi, lancia un appello: «Non fate i Cobas della piccola impresa, state dentro le associazioni ». Marantelli incassa il risultato di aver riportato il Pd in pista e attacca il piano di stabilità che mette in crisi «i Comuni virtuosi». Assicura di aver firmato anche lui la proposta di legge sul made in Italy voluta dagli artigiani e spiega che a Vergiate, all’assemblea della Lega con i piccoli, lui avrebbe voluto fare delle domande scomode a Tremonti ma non gli è stato concesso. Il clou della serata arriva con il botta e risposta artigiani-banche. Cinque mesi fa probabilmente un banchiere non sarebbe nemmeno potuto entrare in un’assemblea dei ribelli, si sarebbe rischiato il parapiglia. Sul palco di Besnate c’è invece Bruno Bossina, responsabile di IntesaSanPaolo per la Lombardia. Qualcuno gli aveva comunque sconsigliato di venire ma lui sembra aver la calma necessaria per sciogliere i rebus. Spiega alla platea come la moratoria dei debiti sia un’occasione da non perdere e come ci voglia una «fase due» dei rapporti tra piccole imprese e banche. Prende i suoi applausi ma non può evitare il fuoco di fila degli interventi dalla platea. Ciascuno parla della propria azienda, racconta le peripezie nelle filiali di paese e arrivano a sostenere come Giuseppe Marzotto, un piccolo dell’abbigliamento dal cognome decisamente impegnativo, che avrebbe le commesse per far lavorare i suoi dipendenti ma la banca non gli finanzia l’attività ordinaria. «Con la Tassara di Zaleski invece vi comportate diversamente ». Il banchiere regge il colpo, replica alle accuse e poi chiude con un colpo d’ala: «Scambiamoci i biglietti da visita ed esaminerò i vostri casi uno per uno». Nel giro di trenta secondi ne mette insieme una discreta collezione. ddivico@rcs.it11 novembre 2009 http://www.corriere.it/economia/09_novembre_11/artigiani_divico_2_ed428eb2-ce8a-11de-9c90-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 14, 2009, 10:56:08 am » |
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L’analisi
Piccoli imprenditori e dipendenti: la crisi li unisce ma il sindacato lo sa?
Le iniziative della Cgil e della Cisl e la scelta di tenere separati i fronti
Mercoledì 11 novembre a Martina Franca, provincia di Taranto, gli operai delle aziende tessili che-rischiano-di-chiudere hanno manifestato in piazza. E hanno chiesto a gran voce controlli contro i container pieni di capi di abbigliamento che, secondo le loro denunce, in alcune aziende entrano cinesi ed escono italiani. La Cgil e la Cisl che hanno organizzato la manifestazione hanno scelto simbolicamente il giorno di San Martino, festa dedicata ai cappottari, gli imprenditori locali specializzati nel confezionare cappotti. La novità è che quest’anno, in virtù anche del comune richiamo a valori consolidati nella comunità, al comizio in piazza hanno partecipato anche numerosi imprenditori terzisti della zona, altrettanto preoccupati per il dilagare della contraffazione.
Nell’industria tessile la mobilitazione comune tra datori di lavoro e sindacati ha dei precedenti anche nel Centro Nord: a Carpi, Prato e Biella all’incirca un anno fa ci sono state iniziative in comune per chiedere al governo una politica di settore. Ieri la richiesta di una saldatura tra dipendenti e imprenditori è venuta da Paolo Galassi, presidente della Confapi, che ha osato dichiarare che «è finita la contrapposizione tra piccoli imprenditori e lavoratori, siamo tutti sulla stessa barca e a maggiore ragione con questa crisi».
Forse Galassi avrà gettato il cuore oltre l’ostacolo ma il suo richiamo contiene un messaggio che sarebbe sbagliato lasciare nella bottiglia. La distinzione tra i Piccoli e i lavoratori dipendenti si stempera vieppiù ogni giorno che passa. Oggi a Roma la Cgil manifesterà per le strade di Roma portando in piazza i lavoratori delle aziende in crisi.
A fine mese la Cisl darà vita a una mobilitazione in diverse città del Paese. Tutte iniziative più che legittime ma che recano però il segno della divisione, di un dispendio di motivazione.
E se invece avesse ragione Galassi?
Dario Di Vico
14 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Novembre 20, 2009, 03:30:53 pm » |
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20/11/2009
Ma i "piccoli" di Como parlano di Cina, non di Irap
La sorpresa dell'ospite la si può sintetizzare così: la parola di gran lunga più pronunciata in due ore di assemblea dai cento professionisti e industriali presenti in sala è «Cina» e non «Irap». A Como discutendo di crisi e professioni con il Gruppo dei Giovani - un organismo che riunisce undici organizzazioni della generazione pro.pro., dagli industriali ai commercialisti, dagli artigiani agli ingegneri, dagli architetti agli albergatori - si tocca con mano come la città lariana tema fortemente di diventare una seconda Prato.
«C'era una volta il tessile comasco» è il refrain di tanti interventi che segnalano una sorta di giro di boa, con la vecchia e gloriosa specializzazione dell'industria locale che non riesce più a tenere il passo dell'economia globale. «La Cina ci sta mangiando» dicono in tanti ed è uno slogan a doppia chiave. I pro.pro. leggono i giornali e sanno che la governance del mondo si sta indirizzando verso la formula G2 (Usa & Cina), ma vivono anche a Como e vedono i laboratori tessili cinesi crescere come funghi. La somma delle due tendenze produce una fastidiosa sensazione di accerchiamento.
Ci si domanda se tutto quello che sta avvenendo non poteva esser previsto ed è tutto sommato facile compilare un piccolo catalogo degli errori. Roberto Briccola, vice-presidente nazionale dei pellettieri, sostiene - ad esempio - che «la concertazione ha impoverito la nostra industria». Il sindacato ha impedito che «discutessimo seriamente di produttività e il risultato è che siamo più deboli davanti ai cinesi. Avremmo dovuto fabbricare prodotti vincenti a prezzi ragionevoli, ma non siamo stati capaci».
Arianna Minoretti, una giovane ingegnere, si alza per dire che «ci dovevamo pensare prima, dovevamo tutelare il prodotto italiano, ora è tardi e il made in Italy rischia di abdicare». Ed è lo stesso Briccola a dare alla platea una piccola notizia: anche lui andrà a produrre in Cina. «Spiegherò agli artigiani della Cna che lavorano per me perché lo faccio. Loro non sono più in grado di garantirmi condizioni competitive».
La platea ascolta e assorbe il colpo, magari non convivide ma capisce. Anche perché oltre ai cinesi c'è da fare i conti pure con i ticinesi. Sembra un calembour, eppure è la verità: un altro ingegnere e costruttore edile, Luca Guffanti, racconta come le autorità del Canton Ticino hanno lanciato il programma Copernico, incentivi e facilitazioni per chi investe sul loro territorio. E sarebbero tante le griffe italiane che hanno già abbracciato Copernico, «portano il marketing e la creatività di là» e tagliano il terziario in Italia.
Come può reagire una città come Como al rischio di rimanere senza la sua base industriale e non solo? «Svegliandosi» è la risposta che viene dalla platea. Spiega Andrea Tagliabue, presidente del Gruppo dei Giovani e organizzatore della serata: «Como è una bella addormentata che punta solo sulle bellezze del paesaggio. Varese e Lecco invece si muovono, rinnovano, le aziende cercano di salire di gamma e noi invece non sappiamo cosa fare da grandi».
L'argomento è di quelli destinati ad accendere qualsiasi platea. Si alza, infatti, subito dopo Federico Costa della Confartigianato: «Noi che facciamo rappresentanza delle imprese forse a questo punto dobbiamo fare un salto culturale. Metterci lo zaino in spalla e prenderci la responsabilità di costruire il nostro futuro». E' chiaro a tutti che, seppur in controluce, si sta parlando di politica ma c'è un sottile pudore che porta tutti a non nominare leader, partiti e coalizioni. A suo modo è una piccola e silenziosa secessione.
Dario Di Vico da generazionepropro.corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 22, 2009, 05:27:17 pm » |
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Il laboratorio |
Al Cuoa imprenditori a scuola di sabato per capire come reinventare le proprie aziende
La svolta dei piccoli a Nord Est
Adesso studiano management
«Per il dopo-crisi copiamo la lezione giapponese»
Ci sono le aziende che chiudono, quelle che resistono e quelle che pensano. E che addirittura scoprono che il management può rivelarsi una risorsa decisiva anche per i Piccoli. Per di più senza bisogna di assumere e pagare dei manager. Chi l'ha detto che le tecniche più sofisticate sono adatte solo alle grandi imprese? Perché anche le aziende manifatturiere con meno di 50 dipendenti non possono farsi in casa la loro rivoluzione culturale? A sostenere queste tesi sono gli industriali del Nord Est tra i 40 e i 50 anni che frequentano con varia intensità la scuola di formazione del Cuoa di Altavilla Vicentina.
Il bassanese Diego Caron è uno di loro. Pensa che comunque vada a finire è assai improbabile che si torni ai volumi produttivi pre-crisi e ringrazia chi un anno fa lo ha sconsigliato dal costruire un nuovo capannone di 3 mila metri quadri. Avrebbe perpetuato il vecchio modo di agire, quando la capacità di offerta veniva generosamente dilatata senza curarsi della domanda. Quando la voglia di fare considerava superfluo «il pensare».
La sua azienda metalmeccanica (tubi flessibili) si appresta a chiudere il 2009 a quota -40% di ricavi (i concorrenti sono addirittura a -70%!) e una dozzina dei 50 dipendenti sono in cassa integrazione ma Caron è tutt'altro che pessimista. L'obiettivo è prepararsi per la ripresa e perciò è diventato, parole sue, «un fanatico della lean production», il modello dell'impresa anti-burocratica alla Toyota che cancella tutte le attività senza valore aggiunto. In omaggio alle teorie giapponesi, Caron ha ridisegnato l'organizzazione aziendale azzerando costi e scorte e programmando un forte aumento di produttività. «L'unica spesa che non ho tagliato è la formazione perché dobbiamo aumentare l'attenzione al cliente. Dovremo diventare un po' aziende manifatturiere e un po' aziende di servizi». Il solo modo, aggiunge, per mettersi (almeno per qualche anno) al riparo dai terribili cinesi.
Il management snello sta incontrando un certo successo in tutto il Nord Est tra le piccole e medie imprese dei settori più vari. Nel «lean club» si segnalano le esperienze di un'azienda padovana che fabbrica mobili di design, la Lago e di un'impresa, la Anodica Trevigiana, che fornisce trattamenti termici. Poi c'è chi ha voluto fare due cose in una, accoppiare la lezione della Toyota con la creatività italiana: è il caso di Filippo Girardi, un imprenditore quarantenne di prima generazione, che opera a Soave (provincia di Verona) e che ha avuto un'idea semplice semplice.
Le batterie per auto come è noto sono tutte nere, ma perché - si è chiesto Girardi della Midac - non proviamo a giocare sull'estetica e, visto che nei nuovi modelli di vettura le batterie non sono più nascoste, non le facciamo a colori? Commenta Paolo Gubitta, docente del Cuoa: «Non deve stupire che i Piccoli abbraccino la filosofia giapponese. Anche loro capiscono che o programmano da soli la propria ristrutturazione post-crisi oppure gliela imporranno le aziende più grandi. E saranno dolori». Gubitta sottolinea anche il nuovo approccio verso un management senza manager. «L'imprenditore investe su stesso. Va a scuola il sabato per capire come trasformare la sua piccola azienda. Che nel pragmatico Nord Est nascesse un fenomeno di questo tipo era tutt'altro che scontato».
Imparate le più moderne teorie d'impresa per tentare si salvarsi «le Piccole che pensano» si trovano di fronte a un altro bivio del dopo-crisi: individualismo o aggregazione. I piccoli della Confindustria vicentina hanno deciso di spendersi per la seconda ipotesi fino a farne un cavallo di battaglia dell'associazione.
Si sono dati un anno «per arare il campo » e intanto stanno studiando le varie ipotesi di holding che circolano in queste settimane. L'opinione di Caron è che «si tratta di discorsi ormai maturi ma che sarà più facile rendere compiutamente operativi in presenza di un passaggio generazionale». Con la speranza che i figli si rivelino meno individualisti dei padri.
Dario Di Vico
22 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Novembre 24, 2009, 06:22:17 pm » |
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FISCO, PAGAMENTI E BUROCRAZIA
Piccole imprese, quello che serve
L’opinione pubblica italiana sta scoprendo, finalmente, il valore delle «sue» piccole imprese. Ora però deve battersi per salvarle. I mesi che si aprono davanti a noi non sono meno insidiosi degli ultimi, quando si è temuto il tracollo. Fortunatamente la determinazione dei Piccoli è rimasta pressoché intatta, la moratoria sui debiti qualche effetto positivo lo ha trasmesso, più in generale è cresciuta l'attenzione per la sorte dei distretti e delle micro- aziende. Ma i mercati no, quelli non hanno concesso semaforo verde al salvataggio. Il commercio internazionale dà segni evidenti di ripresa in quei Paesi, i Bric, in cui siamo ancora relativamente presenti mentre i nostri mercati d'elezione non paiono in procinto di ripartire e redistribuirci, come in passato, il dividendo della loro virtù. Per le aziende — molte delle piccolissime — che lavorano in prevalenza per il mercato domestico non arrivano notizie confortanti dal fronte consumi. Le città si sono addobbate per il Natale con qualche anticipo ma in pochi credono che vedremo negozi pieni e ressa alle vetrine.
Di fronte a queste incertezze i prossimi 100 giorni ci daranno molte risposte. E' difficile dire con esattezza quante siano le aziende a rischio chiusura, si è detto un milione, si è corretto a 250 mila. Al di là del numero, quella che non si intravede è una credibile strategia di contrasto, un programma coerente e snello di cose da fare. Come attesta la ricerca della Fondazione Nord Est, che oggi anticipiamo, gli imprenditori la loro parte la stanno facendo: il 60% degli interpellati dichiara di aver subito vistosi cali del fatturato ma solo il 20% ha ridotto l'occupazione. Un dato straordinario che attesta il contributo delle Pmi alla coesione sociale. Non solo: in un Paese immobile in cui si procede per linee orizzontali, per scambi tra caste e gruppi di pressione, la ricerca dimostra come le Piccole siano il luogo in cui la mobilità sociale, il famoso ascensore, funziona. Il 53,3% dei micro-imprenditori e degli artigiani prima di metter su bottega era un lavoratore dipendente. Non sappiamo però per quanto tempo ancora questi fattori di vitalità resteranno tali. Le comunità locali appaiono impaurite, conteggiano le perdite di occupazione, si chiedono se valga la pena o no coltivare ancora i propri simboli, siano una fiera o una scuola di specializzazione. I casi positivi non mancano, la capacità di reazione delle varie Jerago d'Italia è reale ma nei distretti si registra anche tanto silenzio. E nella solitudine c'è il rischio che crescano l'ossessione e il rancore per i cinesi pigliatutto. Da Prato a Como passando per Martina Franca qualche indizio c'è.
Dicevamo programma per i 100 giorni per evitare una distruzione — per nulla creativa — di competenze e valori. Rispetto a tanti liberisti immaginari, i Piccoli avranno magari disertato qualche convegno però il mercato lo hanno sempre saggiato sulla loro pelle. Ma proprio perché le Pmi in Italia sono cresciute a cespuglio e mai hanno trovato interlocutori che le aiutassero a concepire una politica di sistema, la ricerca della Fondazione Nord Est ci mostra un tessuto di relazioni economiche fragile: il 77% vende prevalentemente nella Regione d'insediamento, il 67% è portato a vedere l'internazionalizzazione come un rischio, la propensione individualistica non favorisce un boom di aggregazioni, i rapporti con le banche, pur avendo superato la fase più polemica, restano abbondantemente sotto la soglia delle necessità.
«Trop d’usines». Così titolava nei giorni scorsi il quotidiano Les Echos . «Troppe fabbriche» rischia dunque di essere il leit motiv dei prossimi mesi in Europa. La crisi ha palesato un eccesso di capacità produttiva che riguarda purtroppo tutti i settori, dalla siderurgia all’automotive, dal tessile persino fino alle energie rinnovabili. Ma se i programmi di ristrutturazione delle grandi imprese sono attentamente monitorati dalla politica e dal sistema bancario, per le Piccole lo scenario che si apre è quello della selezione darwiniana.
Che si può fare per impedirla?
Tagliare l’Irap in maniera che favorisca la piccola dimensione, estendere su tutto il territorio nazionale l’esempio delle regioni più avanzate (Lombardia) nella semplificazione burocratica, rateizzare i pagamenti della pubblica amministrazione ma soprattutto concepire una politica industriale per le pmi che, territorio per territorio, specializzazione per specializzazione, individui i passi avanti da fare. Se un distretto collassa le banche imbarcano sofferenze, allora non è meglio muoversi prima, riunire le comunità, incentivare le aggregazioni, studiare operazioni di riconversione, guidare i Piccoli a riposizionarsi sui mercati vincenti? Il mito dell’imprenditore con la valigetta che trova la strada di Marco Polo fa parte della narrazione più vitale dell’imprenditoria italiana, ma siamo sicuri che in tempi brevi e di fronte al cambio dei mercati possa rivelarsi ancora l’arma vincente? Una rappresentanza, un sistema creditizio e, sì, anche una politica, attenti al futuro non dovrebbero assolutamente distrarsi nei prossimi 100 giorni.
Dario Di Vico
24 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:11:28 am » |
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Gli artigiani non chiamano più i ministri, ma gli specialisti di gestione aziendale
La svolta dei ribelli di Vergiate «Adesso facciamo da soli»
Alla scorsa assemblea Bossi e Tremonti, ora i professori della Bocconi
La politica? Stavolta no. Dall’assemblea di Vergiate, con i ministri Umberto Bossi e Giulio Tremonti sul palco a rispondere alle domande degli artigiani di Varese, è passato un mese e mezzo, eppure sembra un secolo. L’idea che le soluzioni potessero venire dall’alto o da Roma, semmai c’era stata, oggi non trova campo. E votino Lega oppure no, i Piccoli di Varese che si sono riuniti mercoledì sera nella sede della Cna vogliono discutere soprattutto di business, innovazione e made in Italy . Non a caso l’organizzatore della serata, Piero Cassani — lo stesso di Bossi a Vergiate —, ha chiamato un esperto di economia aziendale, il bocconiano Paolo Preti. E così quello che va in scena è quasi un seminario di politica industriale: ciascun artigiano si alza, racconta come chiuderà l’anno e analizza il suo caso. Gli altri ascoltano, fanno qualche domanda e poi discutono liberamente. Fossimo a Milano, lo chiamerebbero workshop.
Lontani dalla politica gli artigiani restano però vicinissimi ai propri dipendenti. Non ce n’è uno che coltivi l’idea di uscire dalla crisi licenziando, come invece è pratica corrente tra i più rinomati manager delle grandi imprese. «Ho trenta addetti, quest’anno ho perso il 50% del fatturato, ho messo in azienda 130 mila euro di tasca mia ma pur di non tagliare l’occupazione abbiamo fatto i contratti di solidarietà» racconta Vito Tioli, cromatore. E aggiunge Raffaella Prestinoni, una giovane imprenditrice dell’abbigliamento: «Le persone a casa non le lascio, una coscienza ce l’ho anch’io. A marzo del 2010 finiscono i soldi degli ammortizzatori sociali, che capita se noi molliamo?».
In sala ci sono tessili e meccanici in proporzioni uguali e il confronto tra i destini dei due settori ricorre spesso. Commenta Davide Parolo della Cna: «Noi del tessile abbiamo avuto una morte lenta, mentre voi della meccanica non avete fatto a tempo nemmeno ad accorgervene». Tra i produttori di abbigliamento c’è però chi fa autocritica e sostiene che quel declino poteva essere evitato. «Sapevamo che con la fine dei dazi sarebbe cambiato tutto. Dovevamo muoverci prima e non aspettare l’ultimo momento ». Non la pensa così la Prestinoni: «Io faccio maglioni made in Italy al 100% ma al consumatore della qualità gliene frega sempre di meno, guarda solo il prezzo. E delle volte mi domando chi me lo faccia fare di produrre a Varese quando tutto rema contro di me». Anche qui come a Como la doppia concorrenza con i cinesi, quelli in Asia e quelli sotto casa, tiene banco. Due giorni fa a Casorate Sempione la Polizia locale ha fatto irruzione in una villa che ospitava una fabbrica-dormitorio che dava lavoro a 30 cinesi e dalla quale uscivano abiti con la scritta made in Italy. Commenta la platea dei Piccoli: «La verità è che i controlli, almeno i controlli, dovrebbero farli con regolarità».
Chi possiede un marchio e può andare sul mercato con la sua identità è sicuramente in posizione migliore rispetto ai terzisti. E proprio per questo sta marciando un progetto per mettere assieme gli artigiani stampisti, farli dipendere meno dalle grandi imprese fino a proporsi direttamente sui mercati internazionali. Questa è una modalità di aggregazione che ai Piccoli piace, un modo per emanciparsi. Niente da fare invece per le fusioni tra concorrenti. È ancora troppo presto, dicono, questa generazione di artigiani non ce la fa a compiere il grande passo.
Si discute molto di innovazione e mercati esteri. Qualcuno si alza e denuncia: «Proprio per innovare mi sono indebitato, è arrivata la crisi e sono rimasto a metà. Chi glielo spiega ora alle banche che sono un innovatore e che dovrebbero aiutarmi?». Molti per resistere alla crisi si sono stretti a difesa della loro nicchia, si sono iper-specializzati nel produrre un particolare tipo di rulli o di tubi e così hanno allontanato il pericolo cinese. Ma anche loro sanno che il commercio mondiale sta cambiando e per i Piccoli affacciarsi sul mondo sarà doppiamente difficile perché stavolta non basterà vendere ai tedeschi bisognerà conquistare clienti in India e in Cina. Come vendere vasi a Samo. Basterà prenotare un aereo e munirsi della mitica valigetta?
Dario Di Vico
27 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Novembre 29, 2009, 03:10:39 pm » |
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IL CASO DI SAFILO E DI MOLTI ALTRI Se la finanza spegne il lavoro Un oscuro braccio di ferro tra gli olandesi della Hal e i possessori di obbligazioni sta bloccando il passaggio di mano e il salvataggio della Safilo, uno dei maggiori produttori mondiali di occhiali. Così l'azienda veneta rischia il fallimento mentre la vera discussione da fare in questi giorni dovrebbe vertere sulle strategie industriali, sulle licenze, i brand, la rivisitazione delle politiche commerciali e distributive fin qui (malamente) seguite. E invece no, a decidere il futuro dell'azienda e degli 8 mila dipendenti (all'incirca un terzo degli addetti Fiat Auto in Italia) sarà il tornaconto di un fondo straniero e/o quello di un gruppetto di investitori internazionali. Il caso Safilo precipita in un momento della Grande Crisi nel quale un po' tutti sono portati a sottolineare quanto sia veloce nei recuperi la finanza e quanto sia lenta l'economia reale nel ripartire. Per carità, sarebbe da sciocchi rendersene conto solo oggi, la novità però è che nel frattempo la sensibilità dell'opinione pubblica è mutata. Basta chiederlo a coloro che rilevano umori e orientamenti degli elettori. I finanzieri stile Gordon Gekko del film «Wall Street» oggi appaiono figure totalmente estranee allo spirito del tempo. Del resto più passano le settimane più diventa chiaro che l'uscita dalla crisi comporterà un dimagrimento forzoso della capacità produttiva dell'industria italiana. Forse negli anni della crescita si è investito troppo e male, gettando il cuore oltre l'ostacolo e non si sono tenuti nel debito conto i profondi cambiamenti della domanda dovuti all'economia globale. Ma, pur ammettendo gli errori, non si può permettere che la selezione avvenga casualmente, senza che nel frattempo siamo stati capaci di elaborare criteri che ci permettano di discernere se una azienda vada messa in condizione di continuare la sua attività oppure convenga lasciarla andare al suo destino. Prendendosi carico del solo futuro dei suoi addetti. La finanza, per quanto egemonizzata da una cultura orientata al breve termine, in passato ha saputo scommettere sui vincitori anche aspettando il giusto. Amazon non ha prodotto profitti nei primi cinque anni, e senza gli gnomi che hanno creduto in Google o in Skype non ci saremmo giovati di alcune straordinarie innovazioni. Ma sono esempi di buona finanza bilanciati da una ricca casistica di segno contrario. Anche la debole ripresa italiana avrebbe bisogno di una finanza d'accompagnamento. Prendiamo ancora una volta il destino dei distretti industriali, quelli che solo qualche anno fa ci venivano invidiati da mezzo mondo. Quanto c'è da fare nelle Sassuolo e nelle Lumezzane d'Italia per innovare, per introdurre nuovi strumenti di finanziamento, per cercare soluzioni avanzate come le reti di impresa? Tanto, sicuramente tanto. In quanti ci stanno lavorando? In pochi, dannatamente in pochi. Ed è in questa contraddizione che la riflessione sul caso Safilo aggiunge una nota d'amaro. Ci dividiamo quasi quotidianamente tra ottimisti e pessimisti, basta un bollettino dell'Ocse più o meno sbilanciato nell'una o nell'altra direzione per accendere il falò delle dichiarazioni, ma non stiamo assolutamente costruendo il nostro futuro. Purtroppo sembra che non ci interessi. Dario Di Vico ddivico@rcs.it28 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 22, 2009, 04:23:13 pm » |
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Il rilancio della domanda
I mercati e la strada fiscale per aiutare i redditi
Stiamo come sistema-Paese facendo abbastanza per non trovarci spiazzati dal cambiamento di gerarchia dei mercati? Stiamo aspettando anche noi il nostro Godot. Vuoi perché gran parte del sistema produttivo vive sulle esportazioni vuoi per i vincoli di finanza pubblica che ci hanno impedito significative manovre di stimulus, l'uscita dalla recessione per l'Italia è legata — più che per altre economie—alla ripartenza del commercio internazionale. Guai però a cullarsi nell'illusione di una sorta di automatismo: i nostri tradizionali partner commerciali riprendono a correre e per noi tornano a fiorire come per incanto ordini e commesse.
Purtroppo per l'industria italiana la mappa dell'interscambio globale sta cambiando ancor più velocemente di quanto pensassimo nel pre-crisi. L'editoriale dell'Economist di questa settimana lo sostiene con forza. La domanda nei Paesi ricchi resta debole mentre i Paesi emergenti, come Cina, India e Indonesia non hanno di fatto nemmeno conosciuto "la grande recessione" e ciò apre tutta un'altra serie di contraddizioni. Ma il cambio di scenario visto dall'Italia vede una domanda imporsi sulle altre: stiamo come sistema-Paese facendo abbastanza per non trovarci irrimediabilmente spiazzati dal cambiamento di gerarchia dei mercati? Senza aver nessuna voglia di far polemiche a basso costo la risposta è (purtroppo) no.
Bisogna andare in quei Paesi e occorre farlo sia come sistema sia come imprese, stavolta in forma più o meno associata tra loro. Il mito dell'imprenditore con la valigetta non è al passo con i tempi. Guardiamo, dunque, all'evoluzione della domanda internazionale ma non possiamo dimenticare chi vive — nell'industria e nei servizi—sui consumi interni. Come sostengono le organizzazioni di rappresentanza del commercio e dei servizi, per loro la crisi può rivelarsi molto più lunga e devastante. Scartata anche quest'anno l'idea di detassare le tredicesime resta però sul tappeto la necessità di aumentare, in un tempo che non sia indefinito, il reddito a disposizione delle famiglie.
Il ministro Giulio Tremonti nell' incontro che ha avuto la scorsa settimana con le parti sociali si è espresso in maniera ferocemente critica nei confronti dell'attuale sistema fiscale, a suo giudizio tarato sulla società italiana del Novecento e dunque arrivato al naturale capolinea. Il ministro ha riproposto il libro bianco elaborato nell'ormai lontano '94 e ha anche disposto che venisse ripubblicato sul sito del ministero dell'Economia. Pressoché negli stessi giorni il segretario del principale partito d'opposizione, Pier Luigi Bersani, incontrando le associazioni degli artigiani ha sostenuto l'abolizione degli studi di settore.
Senza voler fare sintesi o somme improprie tra i due pronunciamenti, è abbastanza evidente che — pur con percorsi differenti — governo e opposizione sono giunti a una conclusione simile. Va messa mano al sistema fiscale per renderlo più moderno, più snello e più equo. L'invito di chi queste vicende le osserva dall'esterno ma con una forte senso di preoccupazione circa il futuro del sistema produttivo italiano, la sua competitività e la capacità di imporsi di nuovo sui mercati internazionali, non può che essere uno: mettetevi al lavoro, ciascuno rispettando il proprio ruolo. Perché nel mondo post-crisi un Paese come l'Italia non potrà più permettersi di assomigliare agli scandinavi solo per i vizi (la tassazione alta) e non per le virtù (la qualità dei servizi pubblici).
Dario Di Vico
22 dicembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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