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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120316 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2008, 09:11:15 am »

DOPO IL LIBRO DI TREMONTI

E ora si parli di economia

di Dario Di Vico


Dopo una sbornia di due settimane ricche solo di candidature a porte girevoli, con gente uscita e gente entrata per un soffio, è bene che i partiti cambino passo. Che prendano a parlare di economia partendo magari dallo spunto più interessante di questo scorcio di stagione politica: il libro di Giulio Tremonti. Prima della provocazione dell’ex ministro sembrava che le ricette dei due principali partiti avessero un po’ lo stesso sapore. E tutto sommato non si trattava di una brutta novità. Che addirittura uno dei contendenti accusasse l’avversario di aver copiato i compiti, anche questa era un'assoluta primizia. Ma soprattutto l’indizio che le tendenze centripete all'interno dei due schieramenti stavano finalmente prendendo il sopravvento, scacciando la maledizione centrifuga che aveva visto in due legislature il primato delle forze estreme (la Lega prima e la sinistra radicale dopo) su quelle moderate e di stampo europeista.

Gli ottimisti ne avevano tratto la conseguenza che il nostro bipolarismo si stesse normalizzando, stesse seguendo la rotta degli altri sistemi basati sull'alternativa al potere tra due schieramenti guidati dalle mezzeali centriste. Poi è arrivato il pamphlet di Tremonti. Il più brillante degli intellettuali del centrodestra, l'uomo già designato per occupare la poltrona chiave di Via XX Settembre ha costruito con maestria un prodotto editoriale per proporsi come l'unico capace di dare un’anima a un partito come il Popolo della Libertà, che sembra trovare il suo collante più sull'imminenza del ritorno al potere che su una piattaforma politico- culturale innovativa. Con il libro che già qualcuno ha etichettato come «l’elogio della paura globale », Tremonti stoppa la conversione centripeta del nostro bipolarismo e sceglie per sé, per il governo nel quale lavorerà un posizionamento centrifugo. Indica al centrodestra italiano una strada diversa da quella percorsa dai grandi leader europei come Nicolas Sarkozy e Angela Merkel.

Ma indicata anche da un no partisan come Jacques Attali. Si veda l’intervista rilasciata a Federico Fubini e pubblicata a pag. 6 nella quale sostiene che abbiamo già una rete di protezione più efficace dei dazi: l’euro. Il Popolo della Libertà resterebbe così l'unica consistente destra populista d'Europa e ridarebbe fiato al vecchio contenzioso italiano con la filosofia e le scelte della Ue. Tra i liberali che militano nell'area di centrodestra si è aperta un'ampia e sincera discussione sulla svolta tremontiana ma forse non è ragionando solo di scuole liberiste che si può trovare la chiave di questa novità. Non bisogna dimenticare che per il nostro Paese resta quasi intatto un deficit di affidabilità internazionale, testimoniato dallo spread tra i nostri Btp e i bund tedeschi tornato ai livelli degli anni 90 quando Hans Tietmeyer non ci voleva dentro l'euro. E non bisogna sottovalutare come nella business community anglosassone—e nei giornali tipo l'Economist che ne interpretano gli umori — rimanga forte il pregiudizio nei confronti di Silvio Berlusconi.

Questi elementi, se sommati, gettano un'ipoteca sulla campagna elettorale, come se il programma del Pdl fosse un mero esercizio di stile e i pamphlet dessero invece la vera misura di come si muoverà il nuovo governo del Cavaliere. Anche sul fronte opposto, quello del Pd, gli elementi di indeterminatezza sono ampi. Il programma presentato è sicuramente orientato in chiave modernista, rompe con la cultura del «tassa e spendi» che ha dominato negli ultimi due anni e fa propri i suggerimenti di intellettuali come lo storico Gianni Toniolo che chiedono al Pd di assumere un orientamento pro global e a favore della società aperta. Restano, è vero, ambiguità come quella che ha portato alla creazione nelle liste di strane coppie (il cigiellino Paolo Nerozzi usato come stopper su Pietro Ichino) ma l'incognita è un'altra. Veltroni non ha ancora indicato il suo Mr. Economia e non si tratta certo di un'amnesia. E' un limite intrinseco di un programma che serve più a riposizionare il partito che a governare, un manifesto che segnala l'abbandono della cultura «irista» ma non riesce a indicare una piattaforma incisiva per l'azione di un ipotetico governo di un nuovo centrosinistra.

Non c'è una vera indicazione contro i rischi di recessione, ci si limita ad assemblare istanze anche giuste ma poi si glissa sulle coperture finanziarie, ovvero sulla praticabilità hic et nunc di quelle stesse scelte. E' anch'esso un esercizio di stile. L'indicazione di un Mr. Economia probabilmente coprirebbe questo vuoto, non servirebbe solo a riempire una casella dell'organigramma ma indicherebbe a Bruxelles e ai mercati un volto e una politica. E' vero che chiedere in campagna elettorale a un leader di rinunciare alle proprie ambiguità può sembrare di proporgli un autogol ma l'affidabilità internazionale dell'Italia passa anche per questa cruna.

11 marzo 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 06, 2018, 02:14:59 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 17, 2008, 11:27:48 am »

CITTADINI E GLOBALIZZAZIONE

L'Europa della fiducia


di Dario Di Vico


Il protagonista del Forum Economia e Società Aperta è stato Jean-Claude Trichet. Il presidente della Bce ha pronunciato parole chiare sui rischi che corrono le economie europee ma soprattutto ha rivendicato il valore dell'Operazione Euro. Una lungimirante scelta di governo della globalizzazione, che «non ha cambiato solo noi, ma anche il mondo». Trichet rappresenta meglio di altri il profilo volitivo dell'Europa, la capacità delle sue istituzioni di reggere l'urto della crisi e le pressioni dei governi nazionali. Il presidente della Bce è arrivato a Milano sulla scia del successo ottenuto nel duello a distanza con Nicolas Sarkozy che voleva ridimensionarne l'autonomia e invece ha dovuto fare marcia indietro. L'autorevolezza dimostrata nella gestione dei tassi e la risposta immediata che Francoforte ha saputo dare alla crisi dei subprime sono ulteriori elementi che convalidano la percezione di un'Europa che coltiva nuove ambizioni.

Se la vicenda dell'euro dimostra che governare la globalizzazione non è una contraddizione in termini, l'intera costruzione comunitaria è un «caso di scuola » quanto a gestione della complessità e può rappresentare una bussola in una fase in cui c'è un palese vuoto di indirizzi. La crisi finanziaria, l'esplosione dei prezzi delle materie prime, la transizione degli Usa che stanno archiviando l'era Bush e attendono il successore, sono tutti avvenimenti che accentuano la sensazione di vivere in un mondo non governato, che corre senza freni verso un futuro oscuro. Questo vuoto, almeno parzialmente, l'Europa può riempirlo se gioca le sue carte con rinnovata motivazione, se si presenta come un'offerta dinamica e se ritrova la sinergia politica con quei governi che sovente l'hanno contraddetta. Vuoi difendendo i campioni nazionali, vuoi cedendo alla logica degli aiuti di Stato e mostrandosi incapaci di fronteggiare il divide et impera energetico di Putin.

Ma per riempire il vuoto di governance l'Europa è chiamata a riconquistare i suoi cittadini. Si avvicina il referendum irlandese sul Trattato di Lisbona e dalle urne potrebbe venir fuori un responso negativo. Non sarebbe una sciagura paragonabile al doppio no francese e olandese del 2005, ma comunque si tratterebbe di un nuovo stop. Una dimostrazione che le paure degli europei continuano a tener banco e le forze riformiste hanno forse sottovalutato il segnale della Bolkestein, la liberalizzazione dei servizi affondata dai parlamentari di Strasburgo. In quell'occasione il fantasma dell'idraulico polacco che insidiava i posti di lavoro degli artigiani francesi fu usato contro la modernizzazione, contro i consumatori e per legittimare lo status quo. E allora la domanda diventa: come possiamo evitare nuove Bolkestein? Ricostruendo un feeling con i propri elettori, viene da rispondere. Altrimenti le regole che nel frattempo, pur faticosamente, ci saremo dati, i trattati che avremo scritto, si infrangeranno sullo scoglio dell'incomprensione popolare. Per chi sostiene una globalizzazione dolce e governata c'è solo da aprire quei dossier che attendono risposte. Come evitare forme di concorrenza al ribasso tra lavoratori autoctoni e immigrati, come costruire un modello europeo che guidi la riforma dei welfare nazionali, come indirizzare un mercato del lavoro che non carichi tutta la flessibilità dal lato dei figli e non preservi la rendita di posizione dei padri. Di cose da fare ce n’è.

15 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 24, 2008, 01:11:49 am »

INDUSTRIALI E GOVERNO

La fine dei tabù


di Dario Di Vico


Emma Marcegaglia ha avuto coraggio. La prima donna chiamata a guidare gli industriali ha fatto una scelta chiara: l'Italia non può restare ancora a lungo fuori dal nucleare. L'opzione della neopresidente è in perfetta continuità con la linea di modernizzazione della Confindustria degli ultimi anni, ma segnala un'accelerazione dovuta alle competenze specifiche della Marcegaglia in materia di energia. Mai, dunque, prima d'ora gli industriali si erano spesi così nettamente pro nucleare e un ruolo decisivo l'hanno giocato gli elettori che hanno insediato a Palazzo Chigi un governo decisamente incline ad abbattere uno degli ultimi tabù della politica italiana. Se c'era bisogno di una conferma l'annuncio del ministro Claudio Scajola, che ha fatto seguito alla relazione della Marcegaglia, l'ha abbondantemente fornita. Così come, al contrario, i primi commenti di Ermete Realacci hanno dato la prova che per il Pd non basta autoproclamarsi a vocazione maggioritaria per darsi una linea univoca e convincente.

Sarebbe interessante se in Italia, dopo il pronunciamento della Confindustria, si aprisse una riflessione sul nucleare che lasciasse da parte le vecchie e un po' consumate querelle tra industrialisti ed ecologisti, tra sostenitori della competitività di sistema e convinti assertori del rischio ambientale. Oggi il film è cambiato. Militano a favore di un rilancio del nucleare — e sarebbe provinciale non tenerne conto — considerazioni che attengono al proseguimento dei processi di globalizzazione e alla necessità di sottrarre i Paesi poveri al ricatto del continuo aumento dei prezzi del cibo. Proprio l'economista indiano Jagdish Bhagwati, citato ieri dalla Marcegaglia, sostiene che la limitazione del ricorso al biocarburanti, gli investimenti sul nucleare e l'accettazione dei cibi geneticamente modificati sono facce della stessa medaglia, di un intervento internazionale di carattere strutturale teso ad evitare un nuovo irreversibile gap tra i Paesi del G8 e le periferie del mondo. Ma il nucleare è una risposta anche alla impellente necessità di stabilizzare i prezzi delle materie prime energetiche e di dare maggiore forza negoziale all'Europa, oggi pesantemente sottoposta al vincolo politico e commerciale rappresentato dal gas russo. E se si cerca una via efficace per ridurre le emissioni di CO2 non si può scartare, anche in questo caso, l'opzione nucleare. Insomma sono in campo motivazioni geostrategiche, e persino ecologiche, che possono servire ad aggiornare il dibattito e a rimuovere vecchie idiosincrasie. È sicura la sinistra di essere insensibile a queste novità?

Le scelte da fare in materia di energia sono per la Marcegaglia una metafora della nuova fase che attraversa l'Italia. Alla politica, la Confindustria concreta e pragmatica disegnata dalla neopresidente chiede di non cadere più preda dei veti e delle minoranze «che tengono in scacco il Paese». Chiede di decidere. E non è certo casuale che uno degli applausi più caldi della platea abbia accompagnato l'invito a passare dalle parole ai fatti in materia di licenziamento dei fannulloni. A guardare la prontezza con la quale il governo si è mosso sul taglio fiscale per gli straordinari e l'abolizione dell'Ici, è assai probabile che avvenga.

P.S. In tema di tabù da violare non è il caso di mettere in agenda anche gli Ogm?


23 maggio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Maggio 12, 2010, 04:30:30 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 04, 2008, 06:50:01 pm »

L’AUTUNNO DEL SINDACATO

Il coraggio e la fortuna


di Dario Di Vico


La saggezza popolare sostiene che la fortuna aiuta gli audaci. Ma l'Italia è anomala anche in questo. Almeno in un caso, quello del sindacato, la Dea bendata sembra andare in soccorso dei pavidi. Nonostante Cgil-Cisl-Uil vengano da anni di scelte rinviate e di coraggio archiviato hanno ora, in settembre o al massimo nelle settimane successive, la possibilità di ricominciare. Di chiudere la lunga stagione dei no e tornare al centro della scena politica. Il primo nodo riguarda il risanamento e la privatizzazione dell'Alitalia. Si discuta e si negozi la quantità e la gestione degli esuberi ma il salto che i sindacati devono fare è un altro: rinunciare al consociativismo aereo. Quello statuto materiale che ha fatto della compagnia di bandiera un' azienda extra-mercato dove non valgono le regole standard dell'industria privata e le rappresentanze non sono mai elette direttamente dai lavoratori. Per evitare di rompere questo schema il sindacato ha detto no in primavera all'offerta avanzata da Air France, ma ora il tempo è scaduto. Con la consueta lucidità Nicola Rossi ha fotografato così la situazione: «La richiesta Cgil di discutere il piano è irragionevole, spero che evitino nuovi errori».

La seconda scelta-chiave di questi giorni investe la riforma della contrattazione. Il paradosso di cui soffrono i lavoratori italiani è quello di avere il sindacato più forte d'Europa e le paghe più basse. Non può durare all'infinito. E' dunque più che legittimo aspettarsi che i vertici di Cgil-Cisl-Uil si chiudano in una stanza con i rappresentanti della Confindustria e ne escano con un'intesa che scambi incrementi di produttività con vantaggi salariali. Non è difficile. C'è un tavolo di negoziazione aperto, si tratta di tagliarsi i ponti alle spalle e capire, da parte del sindacato, che questa è l'ultima chance per tornare a contare qualcosa in materia di distribuzione del reddito.

Il terzo crocevia è rappresentato dalla «questione fannulloni». L'iniziativa tambureggiante del ministro Renato Brunetta ha aperto varchi tra gli assenteisti professionali. Il sindacato, invece, è stato reticente o è rimasto sulla difensiva (abbracciando il noto slogan: «Il problema è ben altro»). Eppure è facile individuare cosa si deve fare: definire d'intesa con il governo un codice di comportamento sperimentale che elimini le punte più sfacciate di assenteismo e crei i presupposti per costruire un nuovo sistema di sanzioni e incentivi.

Se Cgil-Cisl-Uil facessero queste cose, quasi d'incanto potrebbero recuperare il rapporto con l'opinione pubblica e si ritroverebbero protagonisti della transizione italiana verso il moderno. Se scegliessero questa strada farebbero un favore a se stessi prima che a Silvio Berlusconi. Non sarebbero conteggiati tra i «traditori» perché i governi cambiano e le rappresentanze sociali lavorano su tempi più lunghi. E comunque, restando pregiudizialmente pavido, il sindacato non aiuterebbe il Pd a uscire dal suo travaglio, perché la crisi d'identità dei democrat ha radici e articolazioni che poco hanno a che vedere con la privatizzazione dell'Alitalia, le regole della contrattazione e la lotta all'assenteismo. Ps.

C'è qualcuno nel sindacato che nutre il pur minimo dubbio su cosa avrebbe scelto in una situazione del genere Luciano Lama?

04 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 26, 2008, 12:55:49 pm »

EDitoriale

La buona politica


di Dario Di Vico



Non facciamoci fuorviare dalle polemiche di giornata.

Dai fuochi d’artificio ad uso e consumo dei talk show. Dalla irrefrenabile corsa ad auto-intestarsi la vittoria. La verità è che se si è usciti da Ali-caos il merito è anche della buona politica. E’ la dimostrazione che quando si abbandona l’infausto metodo del dialogo sotto traccia, delle trattative opache e si percorre la strada maestra del confronto diretto tra governo e opposizione, le cose alla fine accadono.

Misurandosi a cielo aperto le soluzioni si avvicinano e non si allontanano. E la politica in qualche misura si rimette in sintonia, anche se per un solo momento e per di più in zona Cesarini, con il Paese reale. E’ ciò che è avvenuto negli ultimi giorni per il caso Alitalia ed è una lezione che non va dimenticata, anche se da domani dovessero riavere il sopravvento le risse e i regolamenti di conti. In un Paese a democrazia matura la lotta politica più intransigente può degnamente convivere con la ricerca, in singoli e specifici casi, di soluzioni comuni.

Ma proprio perché, almeno stavolta, la politica ha assolto ai suoi compiti «alti», bisogna tenere a mente che l’arrivo di Colaninno & C. sulla plancia di comando della compagnia non è un salvataggio qualsiasi, è una privatizzazione. La differenza non è da poco: dovrà cambiare il Dna dell’azienda, dovranno essere ridisegnati ruoli e prerogative. Le associazioni dei piloti difendono la dignità professionale dei propri aderenti ed è giusto. Ma non possono pretendere di continuare a condizionare la scelta (o la rimozione) degli amministratori delegati com’è avvenuto per circa 20 anni. Non possono nemmeno sperare che l’Anpac continui ad avere un doppio ruolo, da un lato sindacato e di conseguenza controparte del management e dall’altro consulente della stessa azienda per l’addestramento dei piloti.

Tutto ciò fa a pugni con le regole di un’impresa privata chiamata a competere sul mercato globale e che non potrà più contare sullo sfondamento dei bilanci. In un mercato altamente concorrenziale come il trasporto aereo non sarà più concepibile che un volo non parta o faccia ritardo perché non è arrivata in tempo una delle hostess. Una volta terminata la fase degli accordi sindacali la nuova Alitalia dovrà scegliere il partner internazionale. Anche in questo caso sarà bene ricordare che a farlo sarà un’azienda privata. Avrebbe poco senso che l’una o l’altra delle municipalità (o dei sindacati) cercasse di imporre dall’esterno il proprio candidato.

Di una rissa tra filo- francesi e filo-tedeschi possiamo farne tranquillamente a meno. Del resto il business dei voli oggi non consente errori. I margini di guadagno delle compagnie aeree si vanno drasticamente riducendo e il futuro non promette di meglio. Pur essendo un servizio, il trasporto aereo non dà ritorni come le telecomunicazioni o l’energia. Basta guardare i risultati delle altre compagnie per constatare che si guadagna — se va bene — come nel settore manifatturiero. E chi si distrae va fuori pista.

26 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 18, 2008, 09:11:22 am »

LA TRAPPOLA DELLE ANALOGIE

Né sessantotto né ventinove


di Dario Di Vico


Le analogie sono delle gran trappole. Attraggono perché sono facili da maneggiare e comunicano velocemente un pensiero di sintesi ma spesso portano fuori strada. Prendiamo il caso dell'Onda, delle manifestazioni studentesche contro i decreti Gelmini. La coreografia ricorda giocoforza l'evento-padre di tutte le contestazioni, il Sessantotto, e l'analogia in questo caso è facile, quasi una sinecura. Spinge al raffronto anche l'angoscia che attanaglia la sinistra: teme di restar vittima di un lungo ciclo di vittorie del centrodestra ed è quindi naturalmente portata a puntare sullo spariglio, a confidare che sulla ruota della politica esca un altro '68. Ma chi ha investito sul paragone tra ieri e oggi sembra destinato a restar deluso.

Non pare che l'Onda, a vedere anche il debole impatto dell'assemblea nazionale dei collettivi universitari conclusasi ieri alla Sapienza di Roma, abbia la stessa energia creativa del movimento di 40 anni fa. Né ci sono somiglianze tra la rottura anti-consociativa che la contestazione operò nei confronti dei poteri scolastici di allora e la pratica odierna che vede studenti-outsider e professori-insider marciare a braccetto contro il governo. Perché se è giusto sottolineare come il mondo della scuola sia una comunità di valori, è anche vero che dentro di essa prevale spesso una solidarietà di tipo corporativo, da «lobby della scuola». In quanto a differenze non va trascurata, poi, una considerazione di carattere squisitamente sociologico. Il '68 fu la manifestazione politica di un ampio processo di mobilità sociale che produsse in molte famiglie il primo laureato della casa, l'Onda invece si muove dentro una società ingessata, dove i meccanismi di casta sono vivi e vegeti e le liberalizzazioni ferme.

Anche l'altra analogia, in gran voga in questi mesi, quella tra la crisi finanziaria di oggi e il crollo del '29, è suggestiva quanto ingannevole. Sostengono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi nel loro pamphlet La crisi. Può la politica salvare il mondo? che le due situazioni non sono paragonabili. Il crac degli anni Trenta si trasformò in una tremenda e lunga depressione a causa di una clamorosa sequenza di errori di politica economica che andarono dal togliere liquidità alle banche (invece di rifornirle) all'introduzione di dazi per proteggere le industrie nazionali, da un controllo dirigistico delle contrattazioni salariali al ricorso incontrollato alla spesa pubblica.

È vero che l'opinione prevalente tra gli analisti stima il 2009 e forse anche il 2010 come anni caratterizzati da forte recessione, ma vale la pena ricordare un dato: dopo il '29 il Pil americano subì un calo record del 30% e un americano su quattro finì per perdere il posto di lavoro. Oggi invece anche le previsioni più autorevoli, come quelle diffuse dal Fmi per i prossimi dodici mesi, arrivano almeno per ora a pronosticare per l'economia Usa una performance negativa dello 0,7%, e per la zona euro dello 0,5%, risultati in parte bilanciati dallo sviluppo dei Paesi emergenti che continuerà a segnare +5,1%. È chiaro che l'ordine di grandezza è totalmente diverso da quello del 1929, concludono i due economisti. Ed è difficile dar loro torto.


17 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 04, 2009, 11:43:22 pm »

Parole e numeri


di Dario Di Vico


Nei giorni scorsi con accenti e modalità differenti tra loro diversi esponenti delle opposizioni si sono pronunciati per una nuova riforma previdenziale. Lo ha sostenuto il segretario dell'Udc Pier Ferdinando Casini, lo hanno affermato due esponenti di spicco del Pd come Enrico Letta e Marco Follini ed è diventato un punto fermo delle proposte del Partito Radicale. La motivazione economica che i politici citati avanzano è quantomeno lineare: risparmiare risorse sul fronte della spesa pensionistica per poterle investire nella difesa dei redditi di lavoratori e precari a rischio- lavoro. Anche l'obiettivo politico dei Casini e dei Letta è trasparente. Rubare il tempo a un governo descritto come incerto e tentennante e cercare di fare un'operazione di agenda setting, imporre — almeno a livello di opinione pubblica — alcune priorità di una rinnovata politica economica anti-crisi.

Tutto bene, dunque? No, un rischio c'è ed è quello di restare al di qua del Rubicone, di mettere in campo una pur legittima operazione di propaganda, magari anticipando i tempi della competizione elettorale europea. Non sarebbe neanche una novità. Il tema della riforma delle pensioni è un topos di certa cattiva politica italiana che quando si è trovata all'opposizione ha invocato drastici interventi per la sostenibilità dei conti previdenziali e quando, magari subito dopo, si è trovata a gestire la cosa pubblica si è clamorosamente tirata indietro accampando le scuse le più singolari. Per uscire dalle nebbie della propaganda i riformisti dovrebbero fare un passo altrettanto lineare, indicare come e dove il bisturi della politica dei risparmi deve intervenire per rendere il sistema più equo nei confronti delle nuove generazioni. Se questo passo, da Casini fino ai radicali, venisse fatto assieme, l'operazione ne guadagnerebbe in termini di efficacia e credibilità e rappresenterebbe uno stimolo all'azione del governo.

Non si tratta di partire dall'anno zero. Il dibattito sui miglioramenti da introdurre nella legge Dini è sufficientemente ricco per alimentare simulazioni e proposte che potrebbero essere condivise anche da qualificati esponenti del centrodestra. In parecchi, ad esempio, concordano sull'utilità di accelerare il passaggio di tutti i lavoratori dal vecchio sistema a ripartizione al nuovo centrato sul metodo contributivo. Così come c'è un consenso ampio sulla necessità di equiparare l'età di pensionamento delle donne ai 65 anni previsti per gli uomini per rendere omogeneo il sistema italiano con le norme europee. Sono disposti Letta e gli altri a uscire allo scoperto su entrambi questi punti che potrebbero liberare risorse stimate attorno a 1,5 miliardi l'anno?

Il governo in materia di pensioni è stato cauto e a più riprese ha sottolineato, con qualche ragione, il rischio di aumentare «lo stress sociale», di aggiungere al panico da recessione l'angoscia da pensioni. Andrebbero però valutate le opportunità. Presentarsi ai mercati avendo saputo tener ferma la barra della spesa ma anche avendo accresciuto la sostenibilità del welfare può rappresentare, in tempo di aste dei titoli pubblici, un vantaggio competitivo.


04 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 20, 2009, 05:00:06 pm »

Sindacati, percorsi invertiti

Pomigliano non somiglia a Detroit


Il mondo dell’industria e dei sindacati sembra destinato a camminare alla rovescia. Per effetto della Grande Crisi si gioca a continenti invertiti. Nella roccaforte del liberismo, nella patria degli animal spirits capitalistici, il sindacato dell’auto, la Uaw, si dichiara pronto a diventare azionista di riferimento di una delle Big Three, la Chrysler, in cambio di dolorosi tagli alle pensioni, alla sanità e agli stipendi.

L’America che lapida i Madoff e i Wa­goner, super finanzieri senza scrupoli e top manager senza idee, si affida invece ai Gettelfinger, pragmatici leader sinda­cali che hanno fatto accordi anche negli anni di George W. Bush e che oggi si rive­lano decisivi per salvare il patto di cittadi­nanza che lega la società americana e per onorare le promesse elettorali di Ba­rack Obama. Nella vecchia Europa, invece, il sinda­calismo si agita tanto senza concludere niente. Tiene la piazza con manifestazio­ni imponenti, che si rivelano frutto però più di una straordinaria forza organizza­tiva che di una reale sintonia con le an­sie e le aspettative più profonde del mon­do del lavoro. Il caso limite è quello fran­cese dove la deriva populista sembra aver preso la mano alle forze sindacali. I sequestri di manager rischiano di diven­tare un’abituale forma di lotta contro la crisi e nei servizi sono rispuntate agita­zioni in stile gatto selvaggio, come l’im­provvisa interruzione della fornitura di luce e gas alle famiglie decisa sabato scorso dai dipendenti dell’Edf e della Gaz de France per sostenere una richie­sta di aumento degli stipendi.

Dentro le confederazioni sindacali ita­liane la confusione è grande quanto il cielo. Come si può desumere da un infor­mato articolo di Bruno Ugolini pubblica­to sull’Unità, in casa Cgil è tempo di ma­novre pre-congressuali e il posiziona­mento dei suoi dirigenti sembra obbedi­re più a logiche di potere e di ricerca di alleanze interne che alla necessità di da­re chiare indicazioni alla base. La conse­guenza è che i segnali che arrivano in fabbrica e negli altri luoghi di lavoro so­no assai diversi tra loro. Non si firma con la Confindustria l’accordo-quadro che dopo anni di incredibili rinvii tenta di rinnovare e decentrare le relazioni in­dustriali e legarle agli incrementi di pro­duttività. Si minaccia esplicitamente di trasformare Pomigliano in una polverie­ra (da rendere necessario addirittura «l’intervento dell’esercito») se la Fiat do­vesse ristrutturare lo stabilimento. Poi, però, per evitare di restare spiazzati si finge di guardare con attenzione a ciò che succede a Detroit e al modello Chry­sler e si studiano caute aperture sull’azio­nariato dei dipendenti. Il risultato pro­dotto da tutte queste prese di posizione, contraddittorie tra loro, è la sovrapposi­zione delle parole d’ordine. Un sindacali­smo à la carte dove ognuno trova il suo piatto preferito ma i lavoratori restano a digiuno. Se si guarda con attenzione alle dina­miche politico-elettorali anche in questo caso la sensazione di disagio delle aree di forte tradizione sindacale e politica è lampante. Tutti i sondaggisti pronostica­no alle imminenti elezioni europee ed amministrative un’ulteriore emorragia di consensi «manifatturieri» dal Pd in di­rezione della Lega o del neonato operai­smo dipietrista. Nelle aree del Lombar­do- Veneto già saldamente controllate dal centro-destra ma, ed è questa la novi­tà, anche in Emilia e Toscana, nelle zone in cui la piccola industria è in grave soffe­renza per gli effetti della recessione.

Persino Giovanni Consorte, l’ex capo di Unipol, si può permettere di irridere Dario Franceschini annunciando che un «grande convegno nazionale sulla me­dia impresa» lo organizzerà lui. Chi pen­sava a un effetto Obama, a un automati­co trascinamento di voti per il centro-si­nistra italiano come riflesso della straor­dinaria performance dei democratici yankee, si deve giocoforza ricredere. Il consenso non è moneta elettronica che si possa trasferire con un clic da una sponda dell’Atlantico all’altra, lo si con­quista sul campo a casa propria. Per far­lo bisogna mettersi dalla parte delle solu­zioni, non solo da quella dei problemi.

Dario Di Vico

20 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 03, 2009, 05:32:50 pm »

Il ministro del Welfare: la concorrenza Pdl-Lega avverrà sui voti dei delusi dal Pd

Sacconi e i «salotti borghesi»: nemici della piccola impresa

«Berlusconi ha risvegliato il popolo, la sinistra copi il Pci e torni a farlo»


ROMA — Parte canticchiando De Gregori («Viva l’Italia, l’Italia che lavora / l’Italia che si dispera e l’Italia che si innamora /l’Italia metà giardino e metà galera») ma i discorsi che Maurizio Sacconi fa in un soleggiato pomeriggio romano, appena conclusa la celebrazione del Primo Maggio al Quirinale, sono ambiziosi. Puntano a rileggere la storia politica italiana—almeno dagli anni Novanta ad oggi — e sferrano un pugno nello stomaco a quelle che chiama con una certa acredine «le borghesie elitarie e autoreferenziali che se vogliono comandare facciano un partito e si presentino alle elezioni».

La riflessione del ministro inizia da «quell’Italia interclassista che chiamo popolo», fatta di piccole e medie imprese, lavoratori autonomi e operai che non hanno perso la testa davanti alla Grande Crisi, hanno consentito che il Paese non subisse «né deindustrializzazione né rattrappimenti» e che ora stanno gradatamente «prendendo coscienza di sé», della propria forza. Non solo economica. «Berlusconi e il centrodestra hanno risvegliato il popolo e se ne sono giovati in termini elettorali, ma auspico—dice Sacconi— che anche la sinistra torni a praticare una visione nazional-popolare della politica, come il vecchio Pci. (Se non è un endorsement a Bersani, poco ci manca; ndr)». Perché se la lotta politica diventa dialettica tra forze autenticamente popolari «il futuro del Paese sarà più solido e non più condizionato dagli opportunismi della borghesia elitaria».

Sacconi sostiene di aver detto queste cose sia ai convegni degli imprenditori veneti e lombardi sia a quelli della Lega Coop e di aver constatato in entrambi i casi reazioni più che positive. Che volto ha questa borghesia e quali sono le figure che esprime? Sacconi dice di non amare le dietrologie e quindi «di non riferirsi a una loggia o a una cupola», bensì «a quei salotti che nella Prima Repubblica avevano come espressione politica il Pri e che successivamente sono riusciti ad affascinare una sinistra inibita dalla crisi del comunismo» rubandole l’anima. Questa borghesia ha acquistato peso negli Anni 90 con i governi tecnici anche se il ministro considera Carlo Azeglio Ciampi «la figura meno tipica di quegli ambienti». Pensa anche a coloro che tennero a battesimo l’esperienza di Alleanza Democratica e al ricco parterre dell’indipendentismo di sinistra. Racconta Sacconi: «Dall’87 al ’92 grazie alle deleghe concessemi da Amato e Carli mi sono occupato di regolazione dei mercati finanziari. Difesi la banca universale e sconfiggemmo quegli intellettuali borghesi che volevano separare l’investment banking dal credito commerciale. Erano i Cavazzuti, i Visco e gli Spaventa che ci volevano far fare l’errore che ha inguaiato i Paesi anglosassoni e che noi fortunatamente abbiamo evitato». Se dalle questioni della finanza si passa ad analizzare l’industria, la riflessione di Sacconi si appunta «sulle due facce del capitalismo italiano».

La prima corrisponde alle imprese dei distretti che hanno saputo via via crescere e diventare delle multinazionali tascabili non dando retta a quei borghesi che ripetevano che «la moda o il tessile erano settori maturi, da abbandonare ». L’altra faccia è quella, invece, «del capitalismo di relazione, parassitario, che campa di buona stampa e buoni rapporti e spesso è portato al compromesso con il sindacato più conservatore». Una borghesia boriosa che — errore tragico — ha sempre considerato «la piccola impresa un incidente di percorso e ha invitato a disboscarla, attraverso la clava fiscale, in nome della lotta al nanismo». In virtù di diverse polemiche che hanno visto Sacconi contrapposto alla Fiat è logico chiedergli se stia indicando Torino. «Non parlo della Fiat Auto — risponde —, che è una grande azienda di produzione, ce l’ho con i soloni che si sono autoproclamati avanguardia e che hanno ricoperto dentro il capitalismo un ruolo improprio».

Sacconi non riconosce alle élite dell’economia nemmeno la preveggente scelta pro-euro. «La moneta unica la dobbiamo ad Andreotti e De Michelis, rappresentanti politici di forze autenticamente popolari. E ne parlo con cognizione di causa, c’ero in quanto sottosegretario di Guido Carli. Piuttosto i guai sono arrivati quando si è entrati nell’Unione monetaria solo comprimendo i costi e i salari e non sostenendo invece la produttività del lavoro e la competitività». Il ministro non crede che nell’Italia di oggi si corrano rischi di deriva populista, anzi obietta che «l’accusa di populismo, di devianza » risuona proprio per impedire una riorganizzazione della politica a misura del nuovo blocco interclassista che ha come valori fondanti Dio, Patria e famiglia. A suo giudizio non è nemmeno vero che alcune fondamentali scelte di risanamento e di modernizzazione del Paese siano state rese possibili dal vincolo esterno rappresentato da Bruxelles e dal ruolo delle élite europeiste. «Il vincolo esterno è un dato oggettivo, non una cultura politica — replica Sacconi —. E non va confuso l’europeismo con l’esterofilia dei soliti noti. Non riconosco alla nostra borghesia nemmeno il valore del suo presunto cosmopolitismo».

Per il ministro, infatti, la vera internazionalizzazione la si trova nel coraggio del popolo degli imprenditori e dei loro operai e tecnici che prendono la valigetta e partono. «Conoscono più loro il mondo che i nostri intellettuali. In Cina ci vanno senza bisogno di leggere i sermoni dei grilli parlanti il cui cosmopolitismo inizia e finisce a Londra, nella City». Una ricognizione ad ampio raggio sulle classi dirigenti italiane di ieri e di oggi, su popolo ed élite non può però bypassare la funzione di supplenza che Bankitalia ha ricoperto nella transizione politica del nostro Paese e le eminenti figure che ha espresso. Sacconi non si sottrae: «Sono un estimatore della Banca d’Italia. Quando difesi la Banca Commerciale me la trovai a fianco. È stata la nostra Ena, il luogo della buona formazione delle élite e ho grande stima di Carli, Ciampi, Dini e Draghi». Ma — e c’è un «ma» — il ministro pensa che «si debba evitare che assuma qualsiasi ruolo improprio. La separazione tra Banca d’Italia e politica vale nei due sensi». Dopo questa requisitoria anti-establishment un dubbio però resta: non è che nasce tutto dalla preoccupazione del Pdl di contrastare efficacemente l’egemonia e l’avanzata leghista a Nord? «No — risponde Sacconi —. La competizione tra Lega e Pdl si muove già in un solco popolare condiviso. Anzi, la vera concorrenza si svolgerà sulla maggiore capacità di raccogliere il consenso dei settori popolari delusi dal Pd».

Dario Di Vico
03 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 09, 2009, 04:39:43 pm »

PARTITE IVA, POLITICA E GRANDE IMPRESA

La diaspora dei piccoli


Quattro milioni di piccole aziende, otto milioni di partite Iva rappresentano per un Paese un patrimonio di imprenditorialità. Ma se questi signori, da quando aprono bottega fino a sera, hanno la percezione di lavorare «contro», c’è qualcosa che non va. Una soluzione è diventata un problema. La Crisi, finisca domani o tra un anno, ha avuto l’effetto perverso di moltiplicare gli outsider, di rendere più corta la coperta e di lasciare al freddo non solo precari e disoccupati ma anche artigiani, piccoli commercianti e professionisti. I Brambilla del terzo millennio.

Fortunatamente questa percezione non si tradurrà in blocchi stradali o ferroviari, in cortei violenti e nemmeno nel lancio di uova marce. La loro tradizione individualistica non prevede la mobilitazione collettiva, il conflitto crudo e le urla da talk show. Ma il silenzio deve preoccupare più di una protesta clamorosa. Nel silenzio i valori finiscono nel tritacarne, quelli tradizionali non reggono l’urto della secolarizzazione e quelli moderni sono considerati velleitari, buoni per le élite. E’ questo il significato della parola secessione. Ci si scinde dai progetti, dalla politica, da ogni maiuscola. L’unica ancora resta il territorio.

Ci sono motivazioni concrete dietro la diaspora. Gli studi di settore non convincono, le grandi aziende monopolizzano attenzioni e incentivi di Stato, il Ponte di Messina appare un gigantesco spreco, i leader sindacali con una dichiarazione sono ancora capaci di imporre il dietrofront a un ministro. E’ evidente che una situazione come questa pone domande ai grandi attori politici. L’80% dei micro- imprenditori e del popolo dell’Iva vota per Silvio Berlusconi e Umberto Bossi e considera l’attuale esecutivo come un governo amico. Eppure le piccole imprese chiudono. Così tra il centrodestra e i Brambilla resta un «non detto», una zona grigia che assume rilievo politico perché è il terreno privilegiato della competizione tra Pdl e Lega, il grande derby del Nord. Una conferma la si trova nell’intervista del senatore leghista Massimo Garavaglia sulla Padania di giovedì a proposito di partite Iva. Tratta il Pdl come il Pd e lo accusa di proteggere pubblico impiego e carrozzoni di Stato.

Per il centrosinistra la secessione è un invito perentorio a rialfabetizzarsi. Una volta gli intellettuali progressisti si vantavano di saper leggere prima e meglio i mutamenti della società. Oggi i maître à penser della sinistra sono fermi alla riproposizione dei conflitti del secolo scorso, sanno vivisezionare le parole di Veronica Berlusconi ma si fermano lì. Per loro lo choc è già pronto, saranno costretti a scrivere «Emilia verde e ceti medi». Se non si rialfabetizza, il Pd non solo perderà le elezioni ma subirà l’abbandono definitivo dei corpi intermedi. Le varie Legacoop o Cna se ne andranno nel «cartello dei piccoli» piuttosto che perder tempo. Il quadro non sarebbe completo se non parlassimo delle élite economiche. Perché stentano a riconoscere che c’è più assunzione di rischio e cultura del mercato in un piccolo imprenditore che in un grand commis? La concorrenza, la mitica concorrenza, non è forse il (duro) pane quotidiano dei Brambilla? E allora non si può compulsare il Financial Times e snobbare i piccoli, girandosi dall’altra parte se un pezzo di Nord rischia di deindustrializzarsi. La società aperta non è un club per soli ricchi, grandi e colti.

di Dario Di Vico

09 maggio 2009
da corriere.it
« Ultima modifica: Luglio 18, 2009, 09:54:44 am da Admin » Registrato
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:52:55 pm »

Il neolaburismo presidia il territorio. Anche contando sui 35 mila militanti

Sezioni in fabbrica, feste di partito, gazebo

La Lega adotta il modello che era del Pci

Strategia vincente del Carroccio.

L'ex leader cisl Pezzotta: l'operaio fa zapping tra Cgil, bocciofila e voto lumbard


Narrano le cronache leghiste della campagna elettorale che il Senatur Umberto Bossi, davanti ai picchetti degli operai della Saint Gobain Sekurit di Savigliano (Cuneo), schierati notte e giorno in difesa del posto di lavoro, si sia commosso. Non si è spinto a promettere - come fece Enrico Berlinguer nel 1980 davanti alla Fiat - di occupare la fabbrica assieme alle tute blu, ma ha pronunciato un altrettanto fatidico: «Non chiuderà». Soprattutto Bossi ha rassicurato i 250 dipendenti della multinazionale francese che ne avrebbe parlato direttamente con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. L'episodio di Savigliano non è l'unico: anche davanti alla Mvb-Manifattura, una fabbrica tessile di Zogno nella Val Brembana, i leghisti sono andati a portare la loro solidarietà agli operai in lotta. La capacità del Carroccio di essere presente sul territorio nei momenti topici evoca immediatamente il parallelo con il Pci degli anni d'oro e la capacità dei vecchi leader rossi di farsi vedere sempre e comunque vicino ai lavoratori.

A stare a sentire il senatore leghista Armando Valli quello che è nato nell'ultimo anno è «un laburismo leghista che spariglia le antiche divisioni di classe» e ha reso possibile l'impetuosa crescita elettorale del Carroccio estesasi dalle zone pedemontane fino in Emilia e in Toscana. Di recente la Lega ha aperto due sezioni di fabbrica, in due cattedrali dell'operaismo italiano, la Fiat Mirafiori di Torino e la Om di Brescia e i responsabili dell'una e dell'altra sostengono che a votare per Bossi, ormai con una certa regolarità, sono anche molti iscritti alla Fiom-Cgil. «Questa è la vera novità - sostiene l'ex segretario della Cisl Savino Pezzotta -. Il mondo in cui esisteva il Pci era rigidamente diviso in bianchi o rossi, dalla culla alla tomba i tuoi comportamenti erano segnati. Oggi è diverso, l'operaio può permettersi di essere opportunista, di fare zapping associativo. Può iscriversi alla Cgil, frequentare una bocciofila di parrocchia e votare per il centrodestra. Il tutto senza drammi». A dimostrazione della sua tesi Pezzotta porta il fatto che la Lega non spinga più di tanto l'organizzazione del Sin.pa., il suo sindacato.

In fondi i voti degli iscritti a Cgil-Cisl-Uil li prende lo stesso. «Le feste invece sì, quelle somigliano come una goccia d'acqua alle feste dell'Unità. Lo schema è collaudato e funziona sempre». Gianfranco Salmoiraghi è il responsabile organizzativo della Lega e non respinge il paragone con il Pci. Tutt'altro e non solo per quanto riguarda le feste di partito. «Tutto sommato le modalità organizzative sono le stesse. Il principio base è quello della presenza capillare. Loro erano una forza presente su tutto il territorio nazionale, noi non ancora». Le differenze le trova però nel tesseramento. Il Pci iscriveva intere famiglie e in più riprese ha superato il milione e mezzo di tagliandi. La Lega tessera solo i militanti, in tutto 35 mila a cui vanno aggiunti 110 mila sostenitori. «Limitando il tesseramento a chi partecipa direttamente all'attività di partito - dichiara Salmoiraghi - evitiamo che si creino i signori delle tessere e le correnti». Le sezioni del Carroccio sono 1.200 e fanno da punto di riferimento per qualsiasi problema si crei sul territorio. In qualche caso, come raccontano a Radio Padania, persino per questioni spicciole di condominio. Ma il vero tratto distintivo della presenza leghista sul territorio è rappresentato dai mitici gazebo bianchi. «Ogni sezione di paese li organizza almeno in una decina di occasioni l'anno. Sono funzionali, si vedono bene da lontano e nonostante che sia aperti creano un ambiente separato. Chi l'ha inventati? Ma Bossi, chi altro! Il guaio è che ce li hanno copiati tutti i partiti» si lamenta Salmoiraghi.

Il neolaburismo marca Carroccio ha il grosso vantaggio rispetto agli schemi della «vecchia sinistra» di poter essere dichiaratamente interclassista («tuteliamo operai e piccole imprese, è un nuovo sincretismo sociale» proclama Valli). Così i padani attirano una fetta di voto operaio ma soprattutto riescono a intercettare la simpatia di tutti quelli che in qualche misura si sentono gli outsider della società moderna e globalizzata. Siano piccoli imprenditori che rischiano di chiudere per la crisi, artigiani che fanno la coda per farsi ricevere dal direttore della banca, commercianti messi a dura prova dalla concorrenza delle grandi catene, partite Iva a caccia di lavori e lavoretti, persino pendolari che vedono ogni mattina i loro treni fermarsi per far passare i convogli ad alta velocità. La consonanza leghista - l'idem sentire - con il mondo dei piccoli è fortissima. «Il nostro movimento è schierato da sempre in difesa apertamente lobbistica delle piccole medie imprese» si vanta il senatore Massimo Garavaglia. Così si racconta che abbia simpatie per il Carroccio il presidente della Confapi Paolo Galassi, che l'Api di Brescia si sia spesa esplicitamente per il candidato lumbard alla Provincia e che il neopresidente della provincia di Cuneo, Gianna Gancia, sia un ex dirigente dell'Api.

Ma tra i sindaci, pardon borgomastri, del partito di Bossi partite Iva e microimprenditori sono presentissimi, dal commercialista al pasticcere. Per averne una riprova basta leggere le prime dichiarazioni rilasciate dagli eletti, tutte tese a rassicurare la costituency sociale che li ha fatti vincere. Il neopresidente della Provincia di Lodi, Pietro Foroni, che ha interrotto una tradizione di amministrazioni di sinistra che durava da 14 anni, ha subito dichiarato che «darà impulso» all'artigianato, all'agricoltura e alla piccola impresa. La priorità di Roberto Simonetti sono le infrastrutture per avvicinare le imprese biellesi alla Lombardia. Antonello Contiero va al ballottaggio a Rovigo con la parola d'ordine «mantenere il Consorzio agrario provinciale» e Massimo Sertori, eletto a Sondrio, punta a ridiscutere subito le concessioni idroelettriche della Valtellina perché si creino ricadute a favore del territorio.

Agli artigiani il partito di Bossi fornisce una lobby ma qualcosa di più, una bussola. La Lega, infatti, non è solo, «un partito di prossimità» come dice Pezzotta, ma è anche capace di fornire ai Piccoli un racconto del proprio tempo. Spiega loro che non è vero che la storia dei popoli la fanno solo i top manager e le top model, i frequent flyer e gli internet provider, ma la si costruisce anche nei bar e nelle trattorie di paese perché la cosa più moderna che c'è è ancora il consenso. Lo si fa battendosi, come si vantano i ministri leghisti, «contro l'invasione del riso cinese». Ma anche frequentando il reclamizzatissimo Campionato Italiano del Salame che si terrà tra pochi giorni a Brescia e che, salvo disguidi dell'ultim'ora, come annuncia La Padania, dovrebbe vedere «gli insaccati padani primi anche nel gusto». Con tanta voglia di esorcizzare le rivendite di kebab che spuntano come funghi ovunque.



Dario Di Vico
10 giugno 2009

da corriere.it
« Ultima modifica: Giugno 24, 2009, 04:32:58 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 23, 2009, 02:37:34 pm »

Il Carroccio si prepara ora alla corsa per il sindaco Zaccariotto, la bocconiana di San Donà che vuole espugnare la Serenissima

Le sfide della neo presidente della provincia di Venezia: futuro del petrolchimico e vertice locale di Confindustria

 
Aggiungete subito un posto al tavolo.
Con l’arrivo di Francesca Zaccariotto sulla poltrona di presidente della Provincia di Venezia, la Lega Nord avrà voce in capitolo (anche) sull’incertissimo futuro di Porto Marghera. La due volte sindaco di San Donà di Piave nel programma che ha stilato per le elezioni si è ben guardata dal dire una parola definitiva sul futuro del Petrolchimico, e Massimo Cacciari ha potuto platealmente accusarla addirittura di «non avere programmi». La Zaccariotto rappresenta il Veneto autentico, il contado che se non riesce ancora ad espugnare la città — Venezia centro ha votato ancora ieri in maggioranza per il rivale Davide Zoggia—ci va molto vicino e si prepara alla battaglia del prossimo anno, quando si dovrà eleggere il nuovo sindaco della Serenissima. «La squadra va costruita come si fa nelle aziende» ha detto la Zaccariotto facendo valere la sua formazione bocconiana e, del resto, San Donà è terra di piccole e medie imprese, di Veneto manifatturiero, sociologicamente e culturalmente assai diverso dalla patrizia e mondana Venezia. Anche in chilometri San Donà è più vicina a Treviso (appena 30) che alla città lagunare (40).

La vittoria della Zaccariotto e della Lega segna anche plasticamente la sconfitta delle classi dirigenti veneziane e l'avanzata di un pragmatismo leghista e popolare che si contrappone ai bizantinismi di una grande città famosa nel mondo ma perennemente alla ricerca del proprio futuro. Perché l'imprenditore trevigiano Fiorenzo Sartor, un self made man con in tasca il solo diploma di quinta elementare, prima è stato presentato urbi et orbi come il nuovo signore della chimica italiana e poi il suo tentativo di far ripartire Porto Marghera è stato miseramente affossato? E perché da settimane ormai l'Unione Industriali di Venezia non riesce ad eleggere il suo nuovo presidente e la querelle tra candidati va pericolosamente per le lunghe tra accuse reciproche e persino denunce ai probiviri? I maliziosi, che in Veneto abbondano, sostengono che tra queste due vicende c'è un nesso e rimandano tutto al destino del mitico Petrolchimico, la Mirafiori del Nord Est ancora di proprietà dell’Eni e che oggi presenta il suo salatissimo conto da pagare. Si arriva a stimare, infatti, tra diretti e indiretti che ballano all’incirca 5 mila posti di lavoro e nessuno ha idea di come fare a salvarli.

L'esistenza dell'impianto di Porto Marghera è legata a quello che gli addetti ai lavori chiamano il ciclo del cloro, una lavorazione che gli ambientalisti combattono con ogni loro forza e che i sindacati invece vorrebbero rilanciare. Una scelta difficile per le ricadute occupazionali e territoriali che preoccupano tutti a Venezia e che hanno visto però le autorità lagunari giocare a rimpiattino. La Lega Nord non ha mai preso una posizione netta ma a ben guardare come gli uomini del Carroccio si muovono sul territorio, in Veneto e non solo, se ne vedranno delle belle. Pur di sfondare in terra di tute blu e di post-comunisti, i leghisti e la Zaccariotto possono decidere di giocare allo spariglio. L’accusa che oggi la sinistra operaista della Rete 28 Aprile fa all’Eni e ai politici è quella che di voler smantellare ciò che resta della chimica per realizzare sull’area di Marghera, una delle più grandi aree d’Europa in via di smantellamento, una gigantesca speculazione «ad uso e consumo di logistica, servizi e nuovi spazi fieristico- espositivi».

Ed è proprio qui, almeno nel gossip lagunare, che la vicenda delle aree del Petrolchimico si congiunge alle baruffe sulla Confindustria locale. Il candidato che sembrava in dirittura d’arrivo risponde al nome di Enrico Marchi ed è il presidente degli aeroporti Save, l’uomo che rilanciato lo scalo di Venezia e che gode dell’amicizia del governatore Giancarlo Galan. A sostenerlo nella sua corsa al vertice sono i due colossi dell’energia, Eni ed Enel, entrambi più che interessati ai nuovi progetti di terziarizzazione di quella che diventerebbe l’ex area industriale di Marghera. E Marchi, una volta conquistata l’Unione Industriali, potrebbe tirar fuori i piani di sviluppo dell’aeroporto Marco Polo che custodisce gelosamente nei cassetti unendo l’utile (il business della Save) al dilettevole (la poltrona). Altrimenti, sostengono i dietrologi, che senso avrebbe per il gruppo Marchi, l’Eni e l’Enel impegnarsi tutti e tre appassionatamente per una presidenza come quella di Venezia, non considerata di primissimo rango in casa confindustriale? La cosa certa è che gli imprenditori veneti, con Andrea Tomat in testa, si sono messi di traverso, e all’insegna della resistenza contro i poteri forti hanno bloccato Marchi e messo in pista un nuovo candidato, Luca Marzotto.

Ma in questo epico duello, in cui il capitalismomanifatturiero nordestino si contrappone ai signori del terziario, che ruolo giocherà la Lega? Tutti se lo chiedono sin dalle prime ore successive all’exploit della Zaccariotto e nessuno, però, ha la risposta in tasca. A meno di non trovarla negli accenti con cui il ministro leghista (e trevigiano) Luca Zaia, teorico nel neolaburismo verde, ha salutato la vittoria di Venezia: «La Lega è sempre di più partito della gente e dei lavoratori, è il partito che raccoglie il consenso di ceti che chiedono amministratori concreti e di parola».

Dario Di Vico
23 giugno 2009

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« Risposta #12 inserito:: Giugno 24, 2009, 04:34:28 pm »

Coopeartigiani

Deserto rosso dal Ticino a Trieste

Lombardia e Nordest che producono il 34% del Pil diventano zona «no left»


Già dal nome si capisce che Ivan Malavasi fa parte dell'album di famiglia della sinistra. Iscritto per la prima volta al Pci nel 1967, quando aveva 19 anni, oggi è il presidente degli artigiani della Cna. Quegli artigiani che erano «rossi» e oggi «votano indifferentemente Pdl, Le­ga e Pd decidendo volta per volta». Dai sondaggi interni, che Malavasi e i suoi fanno di tanto in tanto, viene fuori, infat­ti, che il voto d’appartenenza non esiste più e gli artigiani della Cna non si sento­no in dovere di votare Pd. Anzi. A Varese tra i sette vice-presidenti della Cna me­no della metà vota centro-sinistra e grosso modo le stesse proporzioni si ri­trovano tra i membri del consiglio pro­vinciale.

La débâcle elettorale dei Democratici nel Lombardo-Veneto si spiega anche così con la diaspora dei «suoi» artigiani che segue la fascinazione leghista sulla classe operaia. Se non ci fossero le am­ministrazioni di Mantova, Padova e alla Provincia di Rovigo per i progressisti sa­rebbe un deserto politico, un’immensa zona no left dal Ticino a Trieste. «In que­ste terre oggi c’è disagio, quasi rabbia, verso la politica e la sinistra paga il prez­zo più salato per l’ormai cronica incapa­cità di interpretare bisogni e aspettative dei ceti produttivi» sostiene Malavasi. Lo scollamento si percepisce anche tra gli otto milioni di iscritti alla Lega Coop. Una volta il voto rosso andava in auto­matico, oggi non più. Il mondo della co­operazione si sente trascurato dal Pd e i dirigenti della Lega Coop hanno sotto­scritto con il governo la riforma del siste­ma contrattuale, quella avversata con ogni forza dalla Cgil e da tanti dirigenti del partito. Un’indagine realizzata in Ve­neto già qualche anno fa dalla Coop Adriatica è arrivata alla conclusione che il 40% dei soci coop potevano essere con­siderati elettori piuttosto fedeli del cen­tro- destra. Alle cooperative rosse ora ci si iscrive perché danno buoni servizi e offrono prezzi bassi ma poi la separazio­ne con le scelte politiche è nettissima.

Le organizzazioni economiche che rappresentavano il retroterra della sini­stra ora camminano per conto proprio, fanno e disfano le alleanze e non hanno bisogno di parenti ingombranti e per di più con le idee annebbiate. Le imprese di costruzioni della Lega Coop, come la Cmb di Carpi, sono apprezzate anche fuori dall’Emilia, in Lombardia per esem­pio, e sono presenti nei lavori per il Tea­tro alla Scala o per le infrastrutture di ter­ritorio. Nel mercato dell’interinale Lega Coop e Compagnia delle Opere hanno costruito una società comune, Obiettivo Lavoro. La grande crisi non ha spazzato via le coop abituate da sempre a fare da ammortizzatore sociale e così rinuncian­do agli utili e stringendo la cinghia sono riuscite ad evitare i licenziamenti di mas­sa. A Varese, dove pure opera la più com­patta Confartigianato d’Italia, attorno al­la Cna girano circa 5 mila imprese. «Più siamo distanti dalla politica più siamo credibili» sostiene il presidente provin­ciale Davide Parolo, titolare di un’autoffi­cina. La lontananza dai partiti è così pa­gante che Malavasi pensa che si debba dar vita ad una grande Federazione dei Piccoli che unisca tutte le rappresentan­ze dei piccoli imprenditori, degli artigia­ni, dei commercianti e della cooperazio­ne, anche se è evidente che scaverebbe un solco ancora più ampio con il Pd. Ognuno per la sua strada e addio al colla­teralismo. «La sinistra politica ha sba­gliato a snobbare i piccoli, è stato un er­rore storico privilegiare la Cgil, la Cisl o la Confindustria. La concertazione roma­na non rappresenta l’interesse genera­le » dichiara Laura Puppato, sindaco Pd (con partita Iva) di Montebelluna e neo-eletta al Parlamento europeo.

La Puppato è una delle poche eccezio­ni perché in quasi tutti gli altri distretti industriali il centro-destra prevale. Uno studio fatto lo scorso anno dalla Fonda­zione Edison ne aveva elencati ben 46 nei quali la coalizione capeggiata da Sil­vio Berlusconi aveva vinto. Anzi stravin­to, visto che in 33 casi la percentuale era stata fra il 73 e il 60%. L’unica eccezione del campione era rappresentata dal di­stretto delle piastrelle di Sassuolo (caro a Romano Prodi) dove il centro-destra alle politiche si era fermato al 43,4%. Ma ieri nonostante la costante presenza e at­tenzione di due ex ministri come Pierlui­gi Bersani ed Enrico Letta, il Comune ha cambiato di segno ed è passato alla de­stra. «Gli uomini e le donne del Pd non conoscono la realtà della piccola impre­sa, anzi la disprezzano e quando è l’ora delle urne sono ricambiati con eguale moneta» sostiene il deputato del Pd Ni­cola Rossi. «È inutile imbarcare i Cola­ninno e i Calearo quando tutti ricordano le scelte del ministro Visco, la rappresen­tazione di un fisco totalmente sordo. Ha abbassato l’aliquota dell’Ires e l’ha finan­ziata riducendo la deducibilità degli inte­ressi passivi. Una mazzata per le piccole imprese che si erano indebitate per fare investimenti. Al momento del voto non si dimentica».

Con il responso delle urne «è stata di­sarcionata anche la strategia imperniata sul ruolo degli amministratori come Chiamparino, Penati e Cacciari» com­menta Carlo Cerami, coordinatore lom­bardo della Fondazione Italianieuropei che sta per organizzare il 30 a Milano il primo appuntamento pubblico della si­nistra dopo il voto. Si parlerà del futuro delle banche italiane e saranno presenti i big del credito e dell’impresa. Ma così non rischiate di avvalorare la tesi leghi­sta che vi presenta come banco-centrici e filo-confindustriali? «Non sarà una passerella per banchieri, cercheremo di costruire un ponte tra finanza e territo­ri. Se imprese e credito non si parlano i piccoli vanno in ulteriore sofferenza» as­sicura Cerami, ma è cosciente del ri­schio. Il Pd nei grandi alberghi e la Lega per strada.

In termini di Pil la Lombardia e il Nord Est rappresentano 530 miliardi di euro, il 34% del Pil nazionale, una quota quasi interamente composta da ricchez­za prodotta dai privati. Su questa ma­cro- regione dal Ticino a Trieste sventola­no le bandiere del centro-destra che si considera tanto forte da poter mettere in calendario per il prossimo anno un derby tra Pdl e Lega per la supremazia in Lombardia e Veneto. Tanto la sinistra non prenderà palla comunque. L’egemo­nia della destra è così forte da reggere anche agli scossoni dello scontento dei piccoli imprenditori. La crisi, secondo i modelli della scienza politica, dovrebbe avvantaggiare le opposizioni, specie se di sinistra. Invece sta succedendo il con­trario, il Pdl non paga dazio e la Lega cre­sce sullo scontento degli operai che pre­sidiano i cancelli e dei commercianti che rischiano di chiudere.

Annota Rossi: «Chi si stupisce do­vrebbe sentir parlare in Parlamento i le­ghisti. Sui problemi della piccola im­presa sono preparatissimi. Pdl e Pd in­vece in questo si assomigliano, parla­no per sentito dire». Secondo Parolo (Cna) la rabbia dei piccoli imprendito­ri non segna ancora un divorzio dal centro-destra perché comunque «pen­sano che a palazzo Chigi ci sia un gover­no amico», nonostante che «sugli stu­di di settore il governo li abbia lasciati a terra». Ma la spiegazione più tran­chant viene da Nicola Rossi: «Non pro­muovo il governo, tutt’altro. Ma se un artigiano deve scegliere tra Sacconi e Damiano, tra Brunetta e Nicolais che pensate che faccia? Sacconi ha comun­que semplificato il regime di assunzio­ni e licenziamenti e Brunetta a modo suo sta lottando contro la pubblica am­ministrazione inefficiente. Il Nord a queste cose è attento».


Dario Di Vico
24 giugno 2009

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« Risposta #13 inserito:: Luglio 14, 2009, 11:35:37 pm »

L’analisi - La protesta dei piccoli

La finanza blasonata e il malessere degli artigiani

Le associazioni locali parlano apertamente del rischio di deindustrializzazione. La proposta per i comuni virtuosi


Che il presidente della Consob, Lamberto Cardia, tributasse un omaggio alle piccole e medie imprese definendole «trama fondamentale del tessuto imprenditoriale italiano » nessuno poteva prevederlo. Tantomeno si poteva indovinare che di fatto aprisse la sua relazione annuale denunciando il rischio di asfissia finanziaria che corrono artigiani e microimprenditori. I maliziosi leggeranno la sortita del presidente dell'authority di Borsa come un posizionamento personale filogovernativo e antibanchieri, ma la sostanza non cambia. I Piccoli sono entrati prepotentemente in agenda, non ci si può più girar dall’altra parte. E le iniziative sul territorio si susseguono vertiginosamente anche in pieno luglio. Sembra una corsa contro il tempo per evitare che queste siano, per molte aziende, le ultime ferie.

Venerdì 10 luglio a Treviso si è tenuta una riunione straordinaria dei gruppi dirigenti delle Unioni Industriali venete per fare il punto sui nodi aperti (il futuro di Porto Marghera e l'alta velocità) ma si è anche parlato del rischio deindustrializzazione. E il presidente degli imprenditori vicentini Roberto Zuccato ha dichiarato: «Fino a settembre teniamo, poi non sappiamo». Ieri a Cremona, Bergamo e Varese si sono tenute (vivaci) iniziative della Confapi aperte ai politici e alle autorità della zona. In un caso (Bergamo) ha partecipato anche il responsabile della Pastorale del Lavoro della Curia, don Francesco Poli e nell'altro (Cremona) persino il prefetto Tancredi Rocco di Clarafond. Giovedì prossimo a Busto Arsizio è prevista un'assemblea degli imprenditori del Basso Varesotto che si autodefiniscono «i contadini del tessile» e ce l'hanno contro i grandi delle griffe accusati di produrre fuori d'Italia. Per venerdì la Cna ha organizzato un giro nelle fabbriche padovane a rischio chiusura. Prosegue intanto la preparazione della manifestazione romana di Imprese che resistono (21 luglio) e l'ufficio studi più aggressivo d'Italia, la Cgia di Mestre, continua a fare a sportellate con l'Abi sulle statistiche dei prestiti. Oltre a mettere nel mirino gli istituti di credito i Piccoli avanzano varie proposte come quella di allentare il patto di stabilità per i Comuni virtuosi, una misura che da sola— secondo la Cna—sbloccherebbe 50 milioni di investimenti ma c'è anche grande attesa per il tavolo governo- Confindustria-Abi sulla moratoria dei debiti che dovrebbe iniziare i suoi lavori già giovedì 16 a Roma. E non è ancora chiaro in che modo e con quali prerogative potranno partecipare al negoziato le altre associazioni, da Confcommercio a Confartigianato.

Ma non è tutto. Le preoccupazioni dei Piccoli sono monitorate con grande attenzione anche dalla politica, in primo luogo dalla Lega Nord, che una volta si era definita «la lobby delle piccole imprese». Non è un caso che ieri il viceministro alle Infrastrutture, Roberto Castelli, abbia immediatamente plaudito alle parole di Cardia sottolineando come «il segnale che arriva dal territorio è sempre il più preciso e infallibile». Il messaggio è chiarissimo: i rappresentanti del Carroccio assistono preoccupati al ripetersi delle assemblee degli «artigiani ribelli», a cominciare da quelli di Jerago con Orago. Sotto osservazione c'è proprio la situazione di Varese dove, secondo stime avanzate dalla Confartigianato locale, il rischio chiusura riguarderebbe la ragguardevole cifra di 2 mila aziende. Varese non è solo una delle lande d'Italia a maggiore vocazione imprenditoriale, ma rappresenta anche il cuore politico della Lega Nord, da lì viene il fior fiore del gruppo dirigente, da Umberto Bossi a Roberto Maroni passando per Giancarlo Giorgetti. E dopo aver vinto le elezioni in quasi tutto il Nord veder chiudere le aziende nella roccaforte lumbard non sarebbe sicuramente un buon risultato. Anzi, potrebbe trasformarsi in un clamoroso autogol. Così tra i leghisti si parla di una iniziativa presa direttamente da Bossi, che ha in mente di organizzare per settembre un fitto calendario di incontri diretti sul territorio con gli artigiani, incontri ai quali vorrebbe far partecipare addirittura il ministro Giulio Tremonti.

Dario Di Vico
14 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 17, 2009, 05:12:35 pm »

E i redditi più bassi?


L’idea è interes­sante. Utilizza­re il rientro dei capitali fa­vorito dallo scudo fiscale per patrimonializzare le piccole e medie imprese, come ha proposto il mini­stro Giulio Tremonti, è una scelta che gode di un timing più che giusto. Può rivelarsi, infatti, uno strumento efficace a raf­forzare la struttura finan­ziaria delle aziende e di conseguenza a combatte­re con maggior chance di successo la paventata deindustrializzazione dei distretti. Anche chi ha avanzato negli ultimi gior­ni rilievi sulla scelta del governo di premiare con calcolata generosità il rientro dall'evasione, non potrà non riconoscere ex malo bonum , che l'occa­sione di far affluire quei capitali in direzione del si­stema produttivo è ghiot­ta. Del resto il messaggio che arriva agli imprendito­ri è corretto: investi nella tua azienda, sarai meno debole nei confronti delle regole di Basilea 2 e avrai agli occhi del sistema ban­cario un merito di credito più solido.

Con la scelta di ieri, che arriva poche ore dopo le misure (innovative) di re­visione del sistema previ­denziale, si va precisando la strategia di politica eco­nomica del governo nel­l’attesa dell'autunno. E' un approccio che rifugge dai roboanti piani di sti­molo e pare aver scelto in­vece la strada del mosai­co, fatto di piccole tessere tutte assai calibrate. Ma proprio in quella chiave pragmatica, che sta orien­tando l'azione dell'esecuti­vo, vale la pena riflettere se al puzzle di Tremonti non si possa aggiungere il tassello mancante: un in­tervento di sostegno ai redditi bassi. Misura che avrebbe politicamente il pregio di riequilibrare gli interventi, allargare la pla­tea dei beneficiari ed evita­re così un'asimmetria tut­ta a favore di evasori e im­prenditori.

C'è un dato che sfugge all'opinione pubblica. La copertura della cassa inte­grazione all'origine era al­l’incirca dell'80% rispetto al salario percepito, ma stiamo parlando del 1980. Oggi il valore si è abbassa­to fino a coprire solo il 43% della retribuzione lor­da. Lo stesso ragionamen­to vale per il sussidio di di­soccupazione. E' evidente che un provvedimento che rafforzi, a tranche op­pure parzialmente, la co­pertura salariale della cas­sa integrazione non può che essere socialmente gradito. Così come un so­stegno alle fasce basse del lavoro dipendente ottenu­to magari lavorando sulle detrazioni fiscali. Il costo di quest'operazione va ov­viamente modulato per­ché non risulti eccessiva­mente oneroso. Misure di questo tipo avrebbero l'effetto di rivi­talizzare la domanda inter­na: nel 2008 i consumi era­no scesi dello 0,9% e quest'anno è previsto un ulteriore calo attorno al 2%. Dal dopoguerra non era mai accaduto per due anni consecutivi. E’ la di­mostrazione di come le fa­sce di reddito più basse dei lavoratori dipendenti abbiano stretto la cinghia e non di un solo buco. Aiu­tarle a consumare di più avrebbe l'effetto di soste­nere la domanda di beni di largo consumo e dareb­be altro ossigeno a una fet­ta significativa del nostro sistema delle imprese

Dario Di Vico
17 luglio 2009

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