LA-U dell'OLIVO
Aprile 25, 2024, 03:19:09 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 11 12 [13] 14 15
  Stampa  
Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 113781 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #180 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:22:29 pm »

Calcio e politica
Dobbiamo rassegnarci così?
Il caso Blatter non va considerato una questione che riguarda esclusivamente un mondo autoreferenziale, corrotto e governato da piccoli tiranni

Di Dario Di Vico

Non sottovalutate il caso Joseph Blatter, né quello che è avvenuto in questi giorni al vertice del calcio mondiale. O quantomeno non consideratelo una questione che riguarda esclusivamente un mondo autoreferenziale, corrotto e governato da piccoli tiranni. Nella crisi (profonda) degli organismi sovranazionali - quelli che nelle pie intenzioni avrebbero dovuto mettere in riga la globalizzazione - associazioni come la Fifa hanno accumulato un potere enorme grazie al fatto che possono disporre della localizzazione preferenziale di eventi-clou come i Mondiali di calcio.

Eventi che a loro volta influenzano potentemente gli equilibri interni e il posizionamento internazionale dei Paesi che sono disposti a pagare per ospitarli. Le varie Fifa nel tempo hanno conosciuto un profondo e paradossale mutamento di pelle, perché da un lato hanno perso il loro carattere orizzontale-associativo e si sono di fatto verticalizzate e privatizzate. Dall’altro però hanno perso quasi in parallelo la loro contendibilità, anzi sono entrate nell’orbita di oligarchi che si sono assicurati, come lo svizzero Sepp Blatter, la possibilità di esercitare una carica pressoché a vita. Sia chiaro: ciò non avviene solo a livello internazionale o nel mondo del football ma anche in ambiti più ristretti e nazionali possiamo facilmente individuare meccanismi simili e associazioni che hanno subito questa deriva, diventando preda di altrettanti padri-padroni quasi sempre assistiti da fidati e silenziosi tesorieri.

Tornando alla Fifa stupisce che l’autocrate Blatter abbia potuto in questi anni collaborare con le Nazioni Unite ricevendone una legittimazione internazionale che sarebbe stato meglio negargli. Lo svizzero deve la sua straordinaria carriera a un meccanismo perverso, figlio insieme della globalizzazione e di quella che avrebbe dovuto essere la democratizzazione degli organismi sovranazionali.
In un passato pieno di ingenuità e speranze in molti avevano pensato che l’afflusso dei nuovi Paesi africani e asiatici avrebbe aperto le associazioni, avrebbe dato vita a una nuova dialettica e avrebbe così temperato la storica predominanza - e gli errori di sufficienza - dei grandi Paesi occidentali. Purtroppo non è andata così: i Blatter di turno sono riusciti a manipolare i nuovi votanti e costruire attorno al proprio dominio delle larghe e oscure costituency tenute insieme dal sapiente dosaggio di poltrone, prebende e altri strumenti di corruzione.

Come dimostra l’incredibile scalata di Jeffrey Webb, presidente della Federazione calcio delle Isole Cayman, che ha potuto accumulare nel tempo una dozzina di cariche che lo mettono in grado di metter bocca su finanza e assegnazione dei Mondiali.
Va da sé che il movimento calcistico che ha espresso Mister Webb equivale come numeri a un oratorio di una media città italiana. È grazie a personaggi e coperture di questo tipo che Blatter ha potuto lucrare finora, gli sarebbe stato molto più difficile assemblare (e asservire) una maggioranza composta dai Paesi europei esposti in qualche maniera alla trasparenza chiesta e praticata dai media.
Dobbiamo quindi rassegnarci all’immobilismo perpetuo e alla vittoria del tiranno? Se i meccanismi di governance del calcio mondiale continuano a restare manipolabili una speranza può venire dalla reazione degli sponsor, l’altro vero potere forte.
Qualche segnale di maggiore attenzione alla reputazione sembra filtrare e quantomeno si parla di una possibile pausa di riflessione, ma stiamo parlando di aziende che agiscono in concorrenza tra loro e che difficilmente possono essere ricondotte a un codice di comportamento comune. Finora almeno è stato così.

30 maggio 2015 | 08:47
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/sport/15_maggio_30/dobbiamo-rassegnarci-cosi-c9bd99ba-0696-11e5-8da5-3df6d1b63bb7.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #181 inserito:: Giugno 21, 2015, 05:24:24 pm »

L’analisi le elezioni del 2016
Se l’immigrazione diventa la leva per scalare il Comune di Milano
Il disagio degli impiegati pubblici, da sempre bacino del Pd, e dei quartieri popolari
In questa fase i dem sono in sintonia con la cosiddetta galassia delle competenze

Di Dario Di Vico

Spulciando negli annali si scopre che il risultato di Alessandra Moretti (22,7%) in Veneto è inferiore alla sconfitta del Fronte Popolare che nel ’48 si fermò al 23,9%. La giornalista Alessandra Carini ha scritto che, visti i candidati, il Pd avrebbe perso anche contro Topo Gigio. Le analisi sono così feroci perché solo sei mesi fa il partito di Matteo Renzi esaltava la raggiunta «contendibilità» del Veneto e il premier validava quest’analisi con una presenza costante nelle fabbriche e nelle assemblee confindustriali. Eppure anche stavolta la sinistra ha segnato il passo in una terra che resta ostile e che sembra respingerla antropologicamente. La lista degli errori è lunghissima e le distanze tra centrodestra e Pd appaiono così larghe che anche un candidato più testato, come il sindaco di Vicenza Achille Variati, avrebbe perso comunque. Consumato il flop c’è poco da fare se non costruire un’opposizione di buon senso al governatore Luca Zaia, che ha promesso un secondo mandato più interventista del primo dipanatosi all’insegna del quieta non movere.

Ma l’onda della débâcle veneta si proietta già sul prossimo e più importante confronto del Nord, la scelta nel 2016 del sindaco di Milano. Fino a qualche settimana fa c’era la convinzione che il vincitore delle primarie Pd avrebbe avuto la strada spianata, ora invece è spuntata la paura perché il ciclo del renzismo vittorioso si è arrestato e in parallelo sono salite le quotazioni del milanese Matteo Salvini. Va da sé che la composizione sociale milanese è assai diversa da quella veneta e il Pd è in questo momento il partito in sintonia con le trasformazioni di un corpo sociale che, superate le vecchie classi, può essere mappato solo per grandi aggregati. Scemato il ruolo della borghesia economico-finanziaria è la grande galassia delle competenze a ricoprire in città un ruolo guida e a rilanciare l’idea di una Milano capace di scalare le graduatorie europee.

Una galassia che ha come esponenti di punta le archistar, i grandi medici, il top della consulenza d’industria e persino gli chef e che è molto esigente sulle policy ovvero le scelte concrete. Non si accontenta di sentir pronunciare ogni due frasi la parola «innovazione», cerca soluzioni vere per problemi veri. Il terziario moderno ha però anche una sua faccia in ombra, quella che corrisponde alle migliaia di freelance attratti dalla modernità di Milano e che scontano ogni giorno la contraddizione di possedere alto capitale umano e basso reddito.

Con questi mondi il Pd dialoga e la Leopoldina dello scorso sabato allo Spazio Ansaldo ne è stata la riprova. Dialoga mostrando rispetto per le competenze, incoraggiando i professionisti a partita Iva, facendo proprie tutte le nuove culture come lo sharing , il movimento dei coworking oppure le social street che operano su Facebook come nuovi comitati di quartiere. Accanto ai nuovi segmenti il centrosinistra milanese ha anche un radicamento tradizionale in un altro grande aggregato cittadino: l’impiego pubblico della scuola/università, degli ospedali, degli enti locali e delle municipalizzate. È un popolo che con il renzismo ha un rapporto conflittuale e alle parole d’ordine verticali sulle sfide di Milano 2020 preferisce un lessico più bersaniano, teso a ribadire i valori orizzontali e coesivi della sinistra. Eppure pur potendo in teoria il Pd sommare ceti innovativi e tradizionali la partita del consenso a Milano è aperta. La sfida viene dal basso, dalla geografia sociale del degrado urbano. Milano è una città cosmopolita che non ha vissuto contrapposizioni radicali all’immigrazione, ha cercato di metabolizzare i nuovi arrivati come aveva fatto negli anni 60.

Ci sono però segnali di slittamento di questa mentalità e il terreno più delicato dove si manifestano è la condivisione dei servizi. Vale per alcune linee del trasporto urbano di superficie, per la metro nelle ore del dopocena, vale per le scuole dove il numero dei bambini italiani e stranieri è in equilibrio. Vale certamente per la sicurezza. In tutti questi casi quando la gestione pubblica non riesce ad evitare cadute di qualità il milanese le vive come segno di una retrocessione e finisce per reclamare una differenza tra sé e gli stranieri che non vede più. Non è un rifiuto dell’accoglienza quanto una misurazione severa dei costi della solidarietà. È ovvio che elettoralmente si tratta di un terreno fertile per la nuova Lega di Salvini e un test lo abbiamo già avuto con la propaganda delle ruspe.

Il rischio per il Pd è di vedere sconfitta la retorica dell’innovazione da un centrodestra monotematico che punta sull’immigrazione come tallone d’Achille del renzismo meneghino. E che una volta aggregato il disagio dei quartieri popolari più esposti parta da questa base per conquistare l’elettorato moderato e fare bingo.

@dariodivico
20 giugno 2015 | 08:54
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_20/immigrazione-diventa-leva-scalare-comune-milano-47158436-1718-11e5-86ef-d7e3d30aa75b.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #182 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:31:10 pm »

I tappi alla ripresa
Ecco perché cresciamo troppo poco

Di Dario Di Vico

Nelle relazioni dei convegni si parla soprattutto delle condizioni favorevoli alla ripresa. E si concorda nel descriverle come esogene e pressoché irripetibili e così dicendo si allude ovviamente al basso prezzo del petrolio, agli impegni della Bce e alla svalutazione dell’euro sul dollaro. Terminato il programma del meeting, nei conciliaboli prima dello sciogliete le righe, il focus della discussione però diventa un altro: «Ma perché la nostra ripresa è così debole?». Perché nonostante tutti gli scenari di medio periodo concedano previsioni di bel tempo restiamo appesi all’emissione di questo o quel dato trimestrale o addirittura mensile? Prendete gli ultimi, quelli relativi alla produzione industriale di aprile, ebbene più di qualche economista era disposto a scommettere su un +0,8%, non si sarebbe stupito molto se poi il dato si fosse fermato attorno a +0,5%, ma non si sarebbe mai aspettato il vero responso: -0,3% su marzo. Un dato estremamente negativo perché segna una partenza tutta in salita del secondo trimestre 2015, proprio quello che con un risultato rotondo alla misurazione del Pil di agosto dovrebbe certificare che finalmente la nave va. Con questi presupposti, e pur contando su un rimbalzo tecnico a maggio, non è detto che l’esito sia quello auspicato.

Forse però più che aggiungere previsioni a previsioni ha senso ragionare su quali siano le cause, o se preferite i tappi, che ostacolano un flusso più regolare di ripresa delle attività e di conseguenza dati più lineari. Va detto che in materia le opinioni degli economisti divergono ampiamente. Per carità, le diagnosi della «malattia italiana» della crescita lenta concordano su molti fattori, la divergenza è sull’hic et nunc, su quali siano in questo momento le principali ostruzioni. La corrente più ampia sostiene che la ripresa italiana non va a briglia sciolta perché persiste un problema di bassa produttività sia del lavoro sia del capitale. Ci sarebbe bisogno, a tempi brevi, di relazioni industriali più vicine al mercato e quindi di un ampio ciclo di contratti aziendali rivolti a rimettere in asse il lavoro, con la ristrutturazione silenziosa che in questi anni ha comunque cambiato il meccanismo di funzionamento delle aziende sane. Il problema si pone anche sul versante del capitale, che risponde ancora a schemi ingessati e non è in grado, quindi, di interpretare i mutamenti dei cicli economici e le esigenze di sviluppo, che richiedono investimenti sia tradizionali (macchine) sia innovativi (capitale umano e reti). Un capitale poco aperto risulta, secondo questa tesi, il meno congeniale per interpretare al meglio questa fase della crescita e comunque rischia di diventare nel medio periodo un’occlusione.

Se il mea culpa sulla produttività convince una buona parte degli addetti ai lavori, non tutti però sono d’accordo nell’additarlo come il vero tappo di oggi. Una seconda corrente di pensiero propende per mettere sul banco degli imputati l’ampia polarizzazione che si è prodotta durante la Grande Crisi nel sistema delle imprese italiane. In soldoni: abbiamo imprese che macinano utili e programmano addirittura raddoppi del fatturato nei prossimi anni accanto a un numero largamente maggioritario di aziende che rischiano di chiudere e purtroppo, con tutta probabilità, chiuderanno. Questa divaricazione così profonda e drammatica sarebbe la madre di numeri così ballerini e a volte sconcertanti. Il tema della polarizzazione era stato già sottolineato, ad esempio, nelle Considerazioni finali del governatore Ignazio Visco e più in generale si spiega, tra le altre cose, con un ritardo della media delle imprese italiane nello sfruttamento delle tecnologie dell’informatica e della comunicazione. Le indagini in materia danno numeri poco confortanti.

Una terza corrente di pensiero, pur non sottovalutando gli elementi di cui sopra, è portata a puntare il dito sul perdurante ristagno della domanda interna. Non ci sarebbe dunque - sul breve - un problema legato al nostro sistema delle imprese poco produttivo e poco aperto ma la causa della ripresa a singhiozzo è individuata nella mancata (vera) ripartenza dei consumi, che finisce per tarpare le ali alla maggioranza delle aziende, ovvero a quelle che non riescono ad esportare né direttamente né come fornitrici di altre. E fin quando sarà così, sostengono i «domandisti», non si potrà sapere chi ha veramente ragione nell’individuare il tappo, mancherà la controprova.

Le cose dunque stanno così, non si riparte come vorremmo e gli addetti ai lavori non sono unanimi nel trarne valutazioni utili, quantomeno però evitano di ragionare in chiave politicista e ricadere anche loro nel vizio nazionale del Renzi sì/Renzi no. Resta, per concludere, un’annotazione affatto scontata: pur sostenendo - e a me è capitato molte volte - che l’industria italiana è profondamente cambiata e il nuovo paradigma è l’esperienza Luxottica, quando si tratta di dare una spallata al Pil rientra fortunatamente in campo Sua Maestà l’Auto. È vero che il ciclo produttivo dell’automotive è cambiato e oggi la vendita di una vettura porta fatturato a un numero enorme di fornitori di apparecchiature di ogni tipo e ad alto contenuto di elettronica, ma resta la sensazione che il Novecento conti ancora molto nei nostri destini.

17 giugno 2015 | 08:40
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_17/ecco-perche-cresciamo-troppo-poco-2ab9fce8-14b3-11e5-9e87-27d8c82ea4f6.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #183 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:11:35 pm »

La geometria italiana del capitalismo
Tra le grandi aziende passate in mano straniera prima di Italcementi ci sono anche Loro Piana, Pirelli e Indesit. Il vertice della piramide sparisce e resta il trapezio, alla cui base ci sono le tante piccole imprese, risorsa da non perdere

Di Dario Di Vico

Forse è utile cominciare dalla geometria e osservare come sempre di più il capitalismo italiano perda la tradizionale forma a piramide e acquisti quella a trapezio. Per dirla più crudamente il vertice sparisce e il baricentro si sposta in basso. L’elenco delle grandi aziende che in un lasso di tempo breve è passata in mano straniera comprende oltre l’Italcementi dei Pesenti la Loro Piana, la Pirelli e la Indesit. Tra le imprese private di lignaggio storico solo la Fiat si è proposta e si sta proponendo come polo aggregante, pur scontando la diluizione della presenza azionaria della famiglia Agnelli.

In generale si può dire che per il combinato disposto di 13 anni di euro e 7 di Grande Crisi gli imprenditori italiani non sono riusciti a mettere su la taglia necessaria per poter restare in gara come aggregatori nei settori caratterizzati da iper-concentrazione. Continuiamo a rappresentare la seconda manifattura d’Europa pur assomigliando a un trapezio e avendo perso lo slancio della piramide. Tra i sostenitori della moneta unica c’era chi aveva paventato qualcosa di simile ma allora si confidava romanticamente nella nascita di campioni europei, ovvero gruppi industriali a governance plurinazionale grosso modo paritaria. Non è avvenuto quasi mai, bensì la costante è che un grande gruppo prevalentemente tedesco o francese ne aggreghi altri di differenti Paesi Ue. Dando per scontato che la vendita del cemento abbia ferito l’orgoglio degli italiani e che non sarà di certo l’ultima della serie, occorre forse ragionare in termini nuovi sul tipo di rapporti che si devono stabilire con le multinazionali. Anche se finora non abbiamo avuto comportamenti particolarmente ostili da parte dei grandi gruppi che hanno comprato aziende italiane e persino Thyssen, Electrolux e Whirlpool alla fine siano scesi a patti con governo e sindacati. In almeno un caso poi, penso al farmaceutico, la presenza delle multinazionali è servita a motivare i nostri imprenditori di taglia media che si sono a loro volta internazionalizzati.

La base alta del trapezio di cui abbiamo parlato è rappresentata dalle nostre multinazionali tascabili e già l’aggettivo ne tradisce la caratteristica decisiva, quella di lavorare prevalentemente sulle nicchie e di aver raggiunto per questa via uno status di azienda globale. Ne abbiamo un bel numero e progressivamente il plotone si sta allargando, del resto la straordinaria avanzata dell’export italiano negli anni della Grande Crisi è stata possibile proprio perché la platea si è ampliata. Le nostre aziende medio-grandi hanno dunque grandi pregi e alcune di esse come Ferrero e Lavazza hanno in corso processi di aggregazione all’estero, eppure i difetti non mancano e si vedono a occhio nudo. Non sono sufficientemente managerializzate e in molti casi nutrono una vera idiosincrasia nei confronti della Borsa: due fattori che ne hanno finora limitato le potenzialità. Comunque il mix settoriale di questo segmento è interessante perché accanto a vere e proprie icone del made in Italy tradizionale ci sono aziende che hanno scommesso in maniera innovativa sulla distribuzione come Luxottica e Yoox. E si annunciano nuovi protagonisti come Eataly che vuole diventare sotto la conduzione di Andrea Guerra una piccola Ikea del cibo italiano. È ovvio che quando si confronta il vecchio con il nuovo si è portati a pensare che una volta i grandi gruppi godevano di un retroterra di protezione finanziaria (il metodo Cuccia) e oggi no, ma le differenze di contesto storico ed economico sono così ampie che la nostalgia non può avere campo.

Piuttosto nel futuro prossimo del capitalismo italiano è probabile che ritorni, in forme nuove, la mano pubblica. Al di là dei giudizio di merito sull’operazione è evidente che se la Cassa Depositi e Prestiti di Claudio Costamagna dovesse realizzare direttamente o indirettamente entrambe le operazioni di cui si parla (Telecom e Ilva) saremmo di fronte a una novità di un certo peso per la nostra industria. Resta sul lato basso del trapezio la larghissima presenza delle piccole imprese e di quello che Maurizio Sacconi definisce «il nostro capitalismo popolare». È una grande risorsa in termini culturali, è decisiva per la tenuta dei territori e in qualche modo riesce a dare forma compiuta all’individualismo italiano. È evidente però come manchi un grande progetto capace di portare a valore sistemico la straordinaria presenza dei piccoli, e anzi in questi anni si sono fatti passi indietro come testimonia il semi-fallimento del progetto di Rete Imprese Italia. L’apertura del capitale e le aggregazioni tra simili dovrebbero essere altrettanti passaggi di questo progetto ma le resistenze culturali sono profondissime e purtroppo neanche la Grande Crisi le ha smosse. Sia chiaro: non è certo dal basso che potremo rimediare al «taglio del vertice» ma nemmeno si può sommare danno e beffa.

30 luglio 2015 (modifica il 30 luglio 2015 | 08:52)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_30/geometria-italiana-capitalismo-a9133a04-3683-11e5-99b2-a9bd80205abf.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #184 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:22:30 pm »

I numeri e gli scenari
Le lepri del made in Italy non salvano la generazione perduta
Il meglio dell’impresa italiana, le «multinazionali tascabili», generano più valore che lavoro
Di Dario Di Vico

Dopo la generazione dei precari, che oggi hanno tra i 30 e i 40 anni rischiamo, dunque, di produrre un fenomeno ancora più drammatico, la lost generation. Intere classi di età destinate a restare fuori dal mercato del lavoro. A suonare l’allarme è un report del Fmi, un’istituzione che in passato ha preso più di qualche cantonata e quindi non è assimilabile al Verbo. Commenta l’ex ministro Tiziano Treu: «Questa è una fase dell’economia in cui è difficile fare previsioni a 5 anni, figuriamoci a 20!». E poi in materia di lavoro sono tante le variabili, «il dato macro della crescita ma anche il suo mix e poi non si possono dimenticare le policy specifiche rivolte al lavoro».

Prendiamo dunque il lavoro del Fmi con le pinze e usiamolo però come stimolo per dare uno sguardo in avanti basandoci sulle (poche) cose che sappiamo. Fatto salvo che l’allarme sulla lenta crescita non può che essere condiviso corre l’obbligo di dire che non è nemmeno automatico che all’incremento del Pil corrisponda un aumento dei posti di lavoro. Esiste ormai una robusta letteratura sulle riprese jobless, senza occupazione. Il governatore Ignazio Visco, molto attento ai problemi del lavoro, nelle Considerazioni finali ammoniva che «esiste il rischio, particolarmente nel Mezzogiorno, che la ripresa non sia in grado di generare occupazione nella misura in cui è accaduto in passato all’uscita da fasi congiunturali sfavorevoli». E il motivo è semplice: stiamo incrociando un ciclo tecnologico particolarmente vivace per cui «la domanda di lavoro da parte delle imprese più innovative potrebbe non bastare a riassorbire la disoccupazione nel breve periodo».

La nuova rivoluzione delle macchine, dunque, mangia lavoro o quantomeno non produce in misura significativa. Aggiungiamo un’altra considerazione che sa d’amaro: il meglio dell’impresa italiana, le multinazionali tascabili che solcano i mercati globali, sono capaci più di produrre valore che occupazione. Grazie alla ristrutturazione fatta durante la crisi sono diventate delle autentiche lepri, veloci ma anche tanto snelle. E di conseguenza se le imprese più innovative non sono labour intensive, per garantire larga occupazione bisogna pensare ad altro. Secondo Visco l’altro è «maggiori investimenti per l’ammodernamento urbanistico, per la salvaguardia del territorio e del paesaggio, per la valorizzazione del patrimonio culturale che possono produrre benefici importanti anche al di fuori dei comparti più direttamente coinvolti, quali edilizia e turismo». Anche perché un settore, la grande distribuzione, che in questi anni ha generato posti di lavoro ora sta segnando il passo e comincia a ristrutturarsi.

Al Fmi non piacerà ma quando parliamo di lavoro in Italia dobbiamo aver presente le dinamiche dell’impiego autonomo, che rimangono sostenute come dimostrano le oltre 50 mila partite Iva che si continuano ad aprire ogni mese. Due sono i settori privilegiati da questo flusso: la ristorazione che però rischia un’obiettiva saturazione e l’agricoltura, che sta invece riservando novità inattese. Infine i ragionamenti sulla lost generation italiana si devono infine collegare alla mutata geografia del lavoro. Perché l’ulteriore rischio che stiamo correndo è di formare giovani - talenti e anche no - che vanno a creare valore all’estero. Il dato di Londra che ormai conta più cittadini italiani di Padova - e la stima è prudenziale - illumina più di tante parole l’ennesimo paradosso del lavoro italiano. Morale della favola: anche chi può pensare che il report del Fmi arriva a conclusioni affrettate è meglio comunque che non stia sereno.

28 luglio 2015 (modifica il 28 luglio 2015 | 07:24)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_28/crisi-fmi-italia-lavoro-generazione-perduta-591cef50-34e8-11e5-984f-1e10ffe171ae.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #185 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:15:19 pm »

Il premier e le tasse
Le ragioni della svolta fiscale

Di Dario Di Vico

Da più parti sono stati avanzati dubbi e rilievi sulla reale capacità di Matteo Renzi di implementare la strategia anti-tasse annunciata sabato scorso. Anche il Corriere ne ha scritto con Daniele Manca e sicuramente il dibattito di policy avrà tempo e modo di dispiegarsi. Commetteremmo però un peccato di omissione se non aprissimo una riflessione parallela sugli slittamenti di cultura politica, perché pur senza scomodare il povero Copernico la mossa di Renzi segna una forte discontinuità. Le socialdemocrazie europee hanno un bisogno estremo di sparigliare, vista l’acclarata incapacità di elaborare una piattaforma politica per il dopo austerity e la totale irrilevanza fatta registrare nella recente crisi dei rapporti con la Grecia. Senza il Welfare state espansivo e senza l’economia mista le sinistre del Continente, come ha messo in evidenza in un suo libro Giuseppe Berta, sono pesci fuor d’acqua.

Renzi a modo suo, sfoggiando il solito atteggiamento da pugile spaccone, tenta di sfuggire alla maledizione delle socialdemocrazie del XXI secolo e sostiene che la sinistra non può vincere senza fare i conti con la questione fiscale. È facile sottolineare che nella svolta milanese di Renzi c’è tanto di politique politicienne, voglia di occupare il centro e di rubare il tempo a una destra in fase di ristrutturazione. È un’analisi corretta così come è sensato sottolineare che il segretario del Pd riprende e rimodula parole d’ordine berlusconiane. M a forse vale la pena andare più in profondità e tentare di cogliere tutte le valenze della svolta.

Personalmente ne ho rintracciate tre. Renzi finora è stato attento ai grandi interessi e si è speso molto per attrarre le multinazionali, non ha fatto però breccia nel ceto medio produttivo. Anche il pacchetto fiscale appena approvato (come sottolineato da Maurizio Sacconi) risente di questa impostazione e in qualche modo rimanda alle calende greche il confronto con le partite Iva e il popolo che si sente oppresso dal Fisco. È chiaro che chi aspira a comandare stabilmente la scena politica non può fare a meno del consenso dell’Italia diffusa e Renzi ne prende atto.

La seconda novità sta nell’analisi dei caratteri della recessione italiana o meglio della difficoltà a ripartire. Non finiremo mai di ringraziare le imprese che a colpi di export hanno salvato il Paese ma per far davvero risalire il Pil c’è bisogno di muovere la domanda interna. E se ci si mette su questa lunghezza d’onda si incontra subito il tema del mattone e dell’immobiliare. La tassazione sulla casa da noi colpisce il risparmio delle famiglie, genera in loro una sensazione di profonda incertezza e contribuisce a ingessare le attività. In altri contesti il meccanismo di funzionamento dell’economia reale è differente, da noi è così. La cultura economica non ha fatto del tutto i conti con questa peculiarità e ha rinunciato a indagarla. Ma è bene che torni sui suoi passi, non per appoggiare Renzi ma per capire meglio il Paese reale.

Il terzo punto è più strettamente politico e riguarda la sfida a Grillo. Alle Europee dello scorso anno il segretario del Pd è riuscito a contenerlo facendo proprio il tema della riduzione dei costi della politica ma il populismo dolce è tutt’al più una tattica elettorale, non una strategia. Del resto la forza di attrazione dei Cinquestelle sembra confermata e di conseguenza Renzi ha capito che non può pensare di eroderla alla Emiliano, invitandoli a governare. Meglio tentare di aprire una falla nella constituency elettorale di Grillo per sfilargli il consenso del ceto medio arrabbiato.

21 luglio 2015 (modifica il 21 luglio 2015 | 07:28)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_21/ragioni-svolta-fiscale-852d7e78-2f68-11e5-882b-b3496f35c4c0.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #186 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:24:56 am »

Palazzo Chigi e l’economia reale
Il vero ribelle è il partito del Pil

Di Dario Di Vico

Matteo Renzi alla fine ce l’ha fatta e sulla Rai il governo ha incassato con ampio scarto di voti l’imprimatur del Senato. Senza voler sottovalutare il peso numerico della sinistra dem e soprattutto la sua indubbia autorevolezza, gli avversari interni del premier appaiono come quei calciatori più bravi nel rilasciare le interviste pre partita che nel farsi valere nelle mischie sottoporta. Anche Matteo Salvini quando deve passare dalla propaganda spicciola, e spesso scontata, a dare prova di vera incisività politica mostra tutte le sue lacune o comunque i suoi ritardi.

I Cinquestelle, dal canto loro, sono bravissimi nell’esercitare la critica feroce del potere fino allo sberleffo ma si perdono un attimo dopo. Così il vero partito di opposizione al renzismo resta il Pil, un partito dannatamente concreto e che non si piega ai desiderata di Palazzo Chigi. Aspettiamo i dati di metà agosto sul secondo trimestre del 2015 ma intanto i riscontri che di volta in volta vengono dalla produzione industriale, dall’occupazione e dagli indici di fiducia ci fanno vivere sull’ottovolante, un giorno sembrano autorizzare l’ottimismo più limpido, il giorno dopo ci riservano una doccia scozzese. E ieri con le ultime rilevazioni sul tasso di disoccupazione è successo proprio così. La verità è che si sta confermando l’intuizione secondo la quale l’economia del dopo crisi sarebbe stata un’altra delle terre incognite alle quali dovremo abituarci.

I cicli economici si preannunciano molto più corti, sembra profilarsi una scissione tra recuperi di efficienza e ricadute sociali, i rapporti di potere si spostano a favore delle piattaforme digitali e a discapito dei produttori (tagliando sì l’intermediazione ma non generando nell’immediato ricchezza alternativa). Da cronisti annotiamo come in Italia i bilanci delle banche e delle imprese tornino ad essere lusinghieri - a volte anche in maniera pronunciata - mentre le rilevazioni sui posti di lavoro, la povertà e la condizione del Sud scandiscono il perdurare di un’ampia condizione di disagio. Si è già parlato a lungo delle riprese senza occupazione, il rischio è di trovarci di fronte anche a un ampliamento delle distanze tra vagoni di testa e vagoni di coda. I tempi di trasmissione della ripartenza possono essere più lunghi di quelli che conoscevamo, se non altro perché in materia di occupazione c’è da riassorbire il maggiore stock di cassa integrazione della storia.

La fenomenologia della vita aziendale è ricca di spunti: osserviamo, ad esempio, come anche in questo agosto la Electrolux lavorerà senza fermarsi ma questo sforzo non si tradurrà in un aumento delle persone che lavorano perché si tratta di far fronte a picchi di produzione e non a incrementi stabili delle vendite di elettrodomestici. Il risultato è che le imprese in svariati casi hanno timore ad aumentare strutturalmente il perimetro degli addetti perché giudicano i mercati ancora troppo volubili. Anche sul piano delle aspettative delle famiglie non abbiamo conosciuto una vera inversione della tendenza. Si continua a risparmiare tanto - circa un nucleo su due secondo i dati Ixè - ma si agisce così per paura, equivale a mettere sacchi di sabbia davanti alla porta per timore di una nuova alluvione.

Di fronte a queste evidenze c’è chi sostiene che fin quando non si detasserà la casa gli italiani non si capaciteranno del tutto che è arrivata davvero l’ora di un cambio di passo anche nei loro comportamenti e nei consumi. Di fronte a un’economia reale così riottosa a farsi dettare i tempi dalla politica, Matteo Renzi ha avuto finora una doppia reazione. Spesso ha pensato di poterle far cambiar verso usando a piacimento la leva della comunicazione (leggi propaganda), negli ultimi tempi però ha iniziato a ragionare in termini di discontinuità politico-culturale. A cambiare la cassetta degli attrezzi. La repentina svolta sulle tasse fa parte di questo percorso, è il tentativo di rispondere alle incognite del Pil con una strumentazione più aggressiva e capace di dialogare con l’Italia profonda.

Anche la sortita del sottosegretario Claudio De Vincenti, che ha invitato le imprese a quotarsi in Borsa per salire di taglia e intercettare meglio la ripresa, rappresenta una novità per certi versi inattesa. Ma quello che manca all’appello in questa riconversione di cultura politica è lo stimolo che può venire dal portafoglio di competenze del ministero affidato a Graziano Delrio. Si può (e si deve) rilanciare il mattone impostando però un nuovo modello di business capace di puntare sul privato e scontare il declino dei lavori pubblici. Esistono già delle proposte sensate, si tratta di renderle praticabili. Presto.

1 agosto 2015 (modifica il 1 agosto 2015 | 07:06)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_01/vero-ribelle-partito-pil-426035cc-380a-11e5-90a3-057b2afb93b2.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #187 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:38:32 am »

Ma certo la Rai non è la Bbc
Il nuovo Consiglio d’amministrazione è di serie B

Di Dario Di Vico

Le verità amare conviene dirle subito piuttosto che affidarsi a lunghe e ipocrite perifrasi: il nuovo consiglio di amministrazione della Rai è di serie B. Del ventilato progetto di copiare la Bbc è rimasta solo la prima lettera. Pur con il dovuto rispetto alle singole persone che ieri sono state nominate alla guida di Viale Mazzini, leggendo e rileggendo la lista non si può che arrivare a questo giudizio. Francamente non ci pare che il nuovo consiglio si sia dotato di quei profili professionali e di quelle competenze che dovrebbero servire alla Rai in una stagione che sarà caratterizzata da profonde discontinuità tecnologiche e da rimescolamenti degli assetti di mercato. Mancano figure con esperienze aziendali/gestionali significative o che comunque ne sappiano di televisione. L’unica eccezione è Carlo Freccero, di cui si potranno condividere o meno le sortite nei talk show ma che sicuramente conosce i ferri del mestiere. Il resto è composto per lo più da giornalisti della carta stampata in una singolare rivincita romana dei nipotini di Gutenberg sul mezzo televisivo.

La responsabilità di una scelta così sottotono è sicuramente del segretario del Pd che avrebbe potuto individuare ben altre opzioni pescando nel bacino di competenze tecniche e intellettuali che ancora gravitano attorno al suo partito e invece si è limitato ad accontentare le componenti a lui vicine. Per sé poi ha riservato una nomina iper-gigliata, quella di Guelfo Guelfi, che nel curriculum oltre la conduzione della vittoriosa campagna elettorale per il Comune di Firenze, vanta la presidenza del Teatro Puccini e, soprattutto, il ruolo di direttore creativo di Florence Multimedia (una società in house che cura la comunicazione della Provincia di Firenze). I maliziosi dicono che il premier abbia deliberatamente deciso di mandare il consiglio Rai in serie B perché gli basta un uomo solo al comando, il prossimo direttore generale Antonio Campo Dall’Orto i cui poteri saranno ulteriormente ampliati dalla riforma in gestazione alle Camere. Colpisce in parallelo che il centrodestra abbia rinunciato a rinominare Antonio Pilati, una figura di assoluta competenza e vero ispiratore della legge Gasparri. I bene informati assicurano che i berlusconiani si sono comportati così proprio per assecondare, in una logica da «piccolo Nazareno», il disegno ribassista del premier.

Il giudizio negativo sulla composizione del consiglio non può però oscurare il fatto politicamente nuovo prodottosi ieri con la designazione di Freccero da parte dei Cinquestelle, che si ritrovano ad avere il presidente della commissione di Vigilanza (Roberto Fico) e il consigliere più titolato. Non ci sono precedenti di un simile coinvolgimento dei grillini ed è singolare che abbia come terreno di gioco la Rai, se non altro perché così rinverdiscono una tradizione della Prima Repubblica. Che all’occorrenza utilizzava Viale Mazzini come laboratorio politico. È presto per sapere che frutti produrrà l’esperimento, va comunque seguito con attenzione se non altro perché i Cinquestelle restano un elemento-chiave del paesaggio politico italiano.

@dariodivico
5 agosto 2015 (modifica il 5 agosto 2015 | 09:16)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_05/ma-certo-rai-non-bbc-91ed09b8-3b2e-11e5-b627-a24a3fa96566.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #188 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:49:31 pm »

Lavoro a Ferragosto una novità da capire
Il tema della qualità della prestazione lavorativa nei servizi è decisivo — ancor più che nel manifatturiero — e può determinare il successo o l’insuccesso di un punto vendita.
Sarà meglio parlarne in termini costruttivi

Di Dario Di Vico

Mentre ci accapigliamo sui dati Istat e/o Inps per tentare di capire se le strategie per l’occupazione stiano dando o meno segni di efficacia irrompe all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del lavoro a Ferragosto.
Di primo acchito potrebbe apparire come un paradosso sintetizzabile così: di lavoro ce n’è poco per tanti e tanto per pochi. Più semplicemente si tratta di alcuni casi emblematici che vanno però esaminati con cura non solo perché generano nell’immediato un conflitto ma soprattutto perché contengono segnali anticipatori di ciò che verrà. Ovvero di un’economia più nervosa, meno prevedibile e piena di contraddizioni.

Il caso-principe ci porta alla Electrolux di Susegana (Treviso), azienda che per far fronte a quello che giudica un improvviso picco di domanda di frigoriferi sta facendo il diavolo a quattro per organizzare la produzione anche nel giorno di Ferragosto. Dall’impegno che la multinazionale svedese sta spendendo per riuscire, anche parzialmente, nell’obiettivo si ha la fondata impressione che non si voglia solo evitare di rallentare la produzione ma in qualche maniera si stia discutendo di potere. Già qualche mese fa l’azienda aveva rivendicato e applicato quello che ritiene un suo diritto ovvero comunicare direttamente con i lavoratori saltando la mediazione sindacale. In quel caso si trattava di rendere edotti operai e impiegati delle strategie produttive di medio periodo, in questo caso si è arrivati a telefonare a casa alle tute blu per ingaggiarle una ad una per il sabato lavorativo di Ferragosto. L’azienda sembra aver fatto centro, solo domani sapremo però quanti operai si saranno effettivamente presentati ai tornelli e quanti frigoriferi Cairo ad incasso l’Electrolux avrà recuperato nel giorno dell’Assunta. Di sicuro la forzatura ha deteriorato i rapporti sindacali e per ritorsione i rappresentanti di Fiom-Fim- Uilm minacciano di far saltare l’intero accordo che regola gli straordinari.

Al di là di Susegana, di straordinari nei sabato d’agosto le cronache del Corriere del Veneto hanno riferito ampiamente in questi giorni, ed è difficile persino star dietro all’elenco delle aziende nordestine che per far fronte a importanti commesse di mercato hanno ampliato l’orario di lavoro. Due casi vale la pena comunque di rammentare: quello della Arredo Plast che ad agosto tiene aperto grazie al fatto che ha scaglionato le ferie lungo un intero semestre e la Grafica Veneta che da anni lavora 24 ore su tre turni per poter competere anche in termini orari sul mercato globale. Se poi usciamo dall’ambito strettamente territoriale e dalla congiuntura del «lavoro che non c’è» e ci rapportiamo alle lavorazioni a ciclo continuo è evidente che il lavoro nel giorno di Ferragosto è sempre esistito e è stato supportato da generose maggiorazioni della paga. In definitiva non c’è niente di scandaloso nel lavorare nella giornata centrale dell’estate ed infatti a nessuno è venuto in mente, ad esempio, di chiudere l’Expo il 15 agosto.

Più complessa è la vicenda che riguarda la grande distribuzione. Da tempo è in corso un braccio di ferro sul tema delle aperture dei supermarket e dei centri commerciali nei giorni festivi. In questa circostanza il sindacato ha trovato degli ottimi alleati nella Chiesa e in un’organizzazione dei piccoli commercianti (la Confesercenti). Il conflitto si ripropone ovviamente a Ferragosto con le aperture decise dalle grandi catene in molte città d’Italia. A Bologna i sindacati confederali per evitare il lavoro in una giornata che giudicano consacrata al riposo hanno addirittura proclamato uno sciopero così come avevano fatto in altre occasioni. Per tutta una serie di motivi — non ultimo la complessa vertenza Ikea — si ha però l’impressione che le relazioni sindacali nel settore del commercio siano arrivate a un momento di svolta e il lavoro a Ferragosto (o festivo) non sia tutto sommato il problema più spinoso. Il sindacato ne fa una questione di bandiera e il confronto con le aziende della grande distribuzione ne ha finora risentito. Come dimostrano però alcune vertenze aziendali, come quella recentemente chiusa nel gruppo Autogrill, il tema della qualità della prestazione lavorativa nei servizi è decisivo — ancora più che nel manifatturiero — e può determinare direttamente il successo/insuccesso di un punto vendita. Chiusi gli ombrelloni e riposte le sdraio forse sarà meglio parlarne in termini costruttivi. Una considerazione che vale anche per l’Electrolux.

14 agosto 2015 (modifica il 14 agosto 2015 | 10:28)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_14/lavoro-ferragosto-novita-capire-d1fdae38-4257-11e5-ab47-312038e9e7e2.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #189 inserito:: Agosto 17, 2015, 06:44:35 pm »



Di Dario Di Vico

C’ è poco da cincischiare. Il dato del Pil del secondo trimestre 2015 (+0,2 per cento) è deludente e non solo per una questione di decimali. Segnala, infatti, come l’economia reale sia sostanzialmente rimasta al palo e non sia riuscita a usufruire delle straordinarie condizioni di contesto macro- economico che, come ormai sappiamo a memoria, si chiamano misure espansive della Bce, un più realistico rapporto euro-dollaro e prezzi del petrolio che-più-bassi-non-si-può. Il governo sembra non voler ammettere che le cose stanno così, professando però un ottimismo di maniera rischia di far diventare incolmabile la distanza tra la comunicazione di Palazzo Chigi e il sentire comune di una larga parte dell’opinione pubblica che stavolta abbraccia élite e popolo.

Le colpe in verità non sono tutte e solo del governo ma in qualche maniera tirano in ballo il basso dinamismo della società economica e l’incapacità di fare i conti fino in fondo con i veri tappi dello sviluppo italiano. Matteo Renzi ci ha provato con gli 80 euro che gli hanno dato un elevato dividendo politico ma purtroppo non si sono trasferiti ai consumi. I contribuenti li hanno usati per pagare altre tasse e quando ci sono riusciti li hanno messi sul conto corrente. Palazzo Chigi ci ha riprovato con il Jobs act e la decontribuzione delle nuove assunzioni e anche in questo caso il cavallo ha bevuto solo in parte, il mercato del lavoro non è ripartito come avrebbe dovuto e per ora ci si è limitati a stabilizzare una fetta di precariato. Nelle stesse condizioni non è affatto certo che molti dei feroci critici di Renzi avrebbero fatto meglio.

Detto tutto questo però stiamo rischiando di sprecare il 2015 senza aver riavviato il motore e rimandando l’appuntamento di anno in anno. È vero che a scorrere i dati della rilevazione di ieri sul Pil anche i nostri partner europei non se la passano bene. In qualche caso, come la Francia, vengono in superficie malattie più gravi della semplice defaillance di un dato congiunturale. Mal comune però non fa mezzo gaudio perché abbiamo imparato da tempo che le altre economie sono più rapide a risalire - vedi la Spagna - e noi siamo dei pachidermi. È chiaro comunque che tutto il Vecchio Continente paga i ritardi di una politica comunitaria inconcludente e di un’agenda monopolizzata dal rischio-Grexit. Del piano Juncker che doveva rinverdire i fasti intellettuali di Jacques Delors e segnare la discontinuità dalla legislatura affidata a Barroso si sa tutto sommato ancora troppo poco. E comunque non pare il jolly capace di ribaltare l’andamento della partita.

In attesa di novità dalla Ue, però, che dobbiamo fare in Italia? Leggendo i commenti di ieri si ha l’impressione che il Pil sia utilizzato, da una parte e dall’altra, per un referendum su Renzi. È scontato dirlo ma sarebbe meglio concentrarsi sulle cose da fare: il governo sta già lavorando alla legge di Stabilità che prevede un allentamento della pressione fiscale sulla casa. Si pensa per questa via di liberare risorse che potrebbero tornare ai consumi e di far saltare il blocco psicologico che finora ha sterilizzato fiducia e aspettative. Vedremo. Guai però a pensare che tutte le leve dell’economia reale si possano azionare da Palazzo Chigi. I comportamenti dei soggetti in campo sono decisivi anch’essi e sindacati e imprese non si possono limitare a compilare la pagella del governo. Ci sono compiti d’autunno anche per loro. Perché la Confindustria non sceglie risolutamente la strada della Borsa e non indica alle imprese la priorità della crescita dimensionale come strumento per cogliere le opportunità di mercato a dimostrazione del coraggio degli imprenditori? E i sindacati perché non propongono a una base stanca e ripiegata su se stessa il duplice obiettivo dell’unità tra le confederazioni e della riforma della contrattazione? È indimostrabile che l’adrenalina faccia salire il Pil ma è sicuro il contrario: il tran tran favorisce la stagnazione.

15 agosto 2015 (modifica il 15 agosto 2015 | 08:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_15/non-sprechiamo-altro-tempo-44e19b94-4316-11e5-a5fb-660d73bd7f47.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #190 inserito:: Agosto 22, 2015, 04:58:08 pm »

L’analisi
Renzi-Merkel: «patto del Decumano» per strappare flessibilità alla Ue
A lavoro insieme sull’immigrazione
Prove di intesa tra il premier italiano e la cancelliera tedesca. Obiettivo: chiedere un allentamento della pressione di Bruxelles sui conti per agevolare la ripresa

Di Dario Di Vico

Con un pizzico di ironia potremmo chiamarlo il patto del Decumano, il lungo corridoio centrale dell’Expo. Matteo Renzi ha puntato, non da oggi, le sue carte sulla capacità di leadership assoluta di Angela Merkel e a questo punto inevitabilmente è portato a raddoppiare la posta. La Germania fino a ieri era l’unico grande Paese che non aveva schierato a Rho il capo del governo (era passato solo il ministro Iris Gleicke) e la Merkel ha riparato a quello che sarebbe stato un torto. Con qualche acrobazia di calendario e adottando una rigida catalogazione da visita privata il primo ministro tedesco ha comunque onorato l’impegno con l’Italia. Arrivata a Milano poi ha fatto qualcosa in più: si è sottoposta a un incredibile e prolungato bagno di folla che ha messo a durissima prova i nervi degli uomini della sicurezza ma che è stato anche un test della considerazione popolare di cui gode. Ieri le centinaia di persone che tentavano di fotografarla, a scapito persino della loro incolumità, volevano in qualche modo portarsi a casa la foto del capo dell’Europa. Jean Claude Juncker non sanno nemmeno chi sia.

Renzi attento come è alla comunicazione ha abilmente assecondato il gioco della cancelliera. Del resto se la benevolenza di Silvio Berlusconi gli serve in Italia per resuscitare il patto del Nazareno, Angela Merkel gli occorre almeno dieci volte più. Gli serve per tentare di ottenere in sede Ue quella flessibilità di bilancio necessaria per inserire nella legge di Stabilità quegli obiettivi di politica economica che reputa indispensabili. Intervistato dal Corriere ieri il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, l’ha detto senza tanti fronzoli: «Tutto dipende da quanta flessibilità otterremo». E quindi dal credito politico che Bruxelles e Berlino vorranno concederci anche questa volta.

L’asse preferenziale di Renzi con la Merkel era iniziato già dopo le Europee del 2014 quando il governo di Roma diede via libera alle scelte dei commissari sostanzialmente volute da Berlino ed è proseguito fino alla gestione della crisi greca quando il premier italiano è stato attentissimo a non prendere mai le distanze da Berlino. Ora però per diventare, anche se per una breve stagione, un vero patto del Decumano ha bisogno che la Ue ci permetta di fare un po’ di deficit spending e di salire nel rapporto deficit-Pil dall’1,8% almeno a 2,2-2,3%. Un salto che in termini di risorse aggiuntive equivale a 7-8 miliardi. Solo in questo modo Renzi può riuscire a neutralizzare la clausola di salvaguardia sull’Iva, a tagliare la Tasi, a confermare la decontribuzione delle nuove assunzioni e a finanziare il rinnovo del contratto degli statali. La stagione politica che si sta per aprire in Italia al ritorno dalle ferie si presenta infuocata, lo scontro sulla riforma del Senato rischia di portarsi dietro anche un altrettanto ruvido confronto sulla politica economica e se Renzi dovesse ricevere dalla Ue un due di picche i margini per proseguire con costrutto l’esperienza di governo si farebbero inevitabilmente più risicati.

18 agosto 2015 (modifica il 18 agosto 2015 | 10:23)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_18/renzi-merkel-patto-decumano-7f3193ee-456e-11e5-a532-fb287b18ec46.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #191 inserito:: Settembre 02, 2015, 04:37:08 pm »

L’economia italiana
Ottimismo legittimo, cautela necessaria
Annotiamo con prudenza i dati positivi sul Pil perché nei mesi scorsi abbiamo vissuto sull’ottovolante delle statistiche con rilevazioni di segno opposto che si sono seguite in un arco di tempo ristretto

Di Dario Di Vico

I primi dati comunicati a settembre indicano un leggero miglioramento delle condizioni dell’economia italiana. Ieri l’Istat ha corretto di un decimale la rilevazione del Pil del secondo trimestre 2015 portandola da +0,2 a +0,3 e ha anche fornito numeri incoraggianti sulla disoccupazione. Annotiamoli con la necessaria cautela se non altro perché nei mesi scorsi abbiamo vissuto sull’ottovolante delle statistiche con rilevazioni di segno opposto che si sono succedute in un arco di tempo tutto sommato ristretto. Saggiamente ne avevamo concluso che la tendenza verso la ripresa non fosse così netta come si auspicava e che in qualche modo la fine della recessione e l’avvio di un nuovo ciclo si pestassero i piedi.

Dopo la comunicazione Istat di ieri questo giudizio non muta, possiamo accingerci a iniziare la nuova stagione con qualche grado di ottimismo in più. D’altro canto un decimale da solo non fa ripresa così come l’incremento - in un anno - di 180 mila posti di lavoro non ci autorizza a sventolare le bandiere. I politici, di un campo o dell’altro, lo facciano pure ma il giudizio dell’opinione pubblica avvertita deve restare necessariamente cauto. Le insidie, infatti, non mancano. Un esempio su tutti: il tasso di disoccupazione tra i 25 e i 34 anni - decisivo per capire l’assorbimento o meno di giovani qualificati - è cresciuto (in controtendenza) di un punto rispetto al 2014.

Comunque al di là degli elementi statistico-quantitativi che fotografano l’evoluzione della crisi può essere utile aggiungere qualche valutazione di natura qualitativa. Il fenomeno che in questa sede ci interessa sottolineare è quello della crescente polarizzazione dell’economia italiana, con la ripartenza che aumenta (invece di attenuare) le distanze. Il caso più evidente riguarda Nord e Sud. Qualche segnale positivo nei mesi scorsi è venuto dagli impegni presi da Fca per gli stabilimenti a sud di Roma così come la continuità produttiva dell’Ilva è da rimarcare con favore. Ma se prendiamo in esame ancora una volta la riduzione del tasso di disoccupazione, segnalata ieri dall’Istat, il divario territoriale si amplia. Il trend al rialzo è quasi interamente appannaggio del Nord e la differenza si allarga con un 7,9% nelle regioni settentrionali e un 20,2% nel Meridione.

Prima della pausa estiva si è parlato ampiamente dell’urgenza di nuove policy per lo sviluppo del Sud ma lo si è fatto in maniera confusa sommando spesso argomentazioni di indirizzo contrario. Varrà la pena sciogliere queste ambiguità e procedere.

La polarizzazione non è solo territoriale, riguarda anche il sistema delle imprese. Il Pil si è giovato della novità rappresentata dalle vendite di auto e ad agosto la polemica che ha occupato lo spazio maggiore sui giornali non ha riguardato il disperato salvataggio di un’ennesima impresa in crisi bensì come si dovesse rispondere a un picco di domanda di frigoriferi Electrolux, lavorando anche a Ferragosto oppure no. A fronte però di una quota significativa di aziende che è pronta a scattare il grosso dei Piccoli non sta riaprendo i battenti con maggiore serenità che in passato. Mostrano una grande capacità di resistenza e hanno persino stabilizzato parte dei contratti a termine, ma la stagnazione del mercato interno si va ad aggiungere al deterioramento del sistema dei pagamenti tra i privati e alla penuria di capitale circolante rendendo tutto tremendamente difficile. Ci sarebbe bisogno di accelerare nella riorganizzazione dell’offerta accrescendo la dimensione delle imprese ma questo processo non lo si può gestire per decreto. E intanto la polarizzazione avanza.

Se questa è, anche solo in parte, la fenomenologia che l’economia reale ci rimanda il presidente del Consiglio Matteo Renzi è giusto che faccia appello agli italiani perché si sentano protagonisti della ripartenza del Paese. Occorre però accompagnare l’invito alla responsabilizzazione con almeno due materie di scambio. La prima riguarda la preparazione di una legge di Stabilità che deve privilegiare le coerenze e non diventare l’ennesimo vestito di Arlecchino. La seconda più squisitamente politica riguarda la continuità dell’azione di governo. Se vista dal Parlamento la minaccia più o meno velata di interrompere la legislatura crea turbamento in quei deputati e senatori che disperano di essere ricandidati, vista dal versante delle attività produttive la stessa eventualità evoca l’immagine di un’altra tela di Penelope e di uomini politici che passano il tempo a cucirla e a scucirla.

@dariodivico
2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 07:54)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_02/ripresa-otimisti-cautela-3d1096b4-5134-11e5-addb-96266eadb506.shtml
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #192 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:03:01 am »

STATISTICHE
Il boom estivo dei consumi è un buon segno (purché continui)
Le famiglie comprano Panda.
I «millennials» preferiscono i social network alla moda

Di Dario Di Vico

I l 2,1% in più dei consumi evidenziato ieri dalla Confcommercio va maneggiato con le pinze. È un confronto diretto tra un mese di forte depressione, luglio 2014, e un altro, luglio 2015, decisamente più vivace e condizionato tra l’altro dalle alte temperature registrate nel Paese (e dal conseguente boom dei consumi elettrici dovuti ai condiziona-tori d’aria). Quel 2,1% nei mesi successivi calerà perché il confronto con l’ultimo scorcio del 2014 sarà meno asimmetrico e comunque quando si farà il riepilogo di fine anno si arriverà (forse) attorno a quota 1,2%. Esplicitato il caveat si può dire sicuramente che il mercato dell’auto sta trainando l’intera economia reale: viaggia a +15% rispetto a un anno fa e probabilmente a fine 2015 sarà superato quel 1,5 milioni di vetture vendute che era stato preventivato dalle caute stime dell’Anfia. E’ un mercato di sostituzione e determinato al 60% dalle famiglie, tanto che il modello più venduto è di gran lunga la Panda.

Ma quanto durerà? Secondo la Confcommercio l’incremento delle vendite dovrebbe proseguire e coprire almeno tutta la prima metà del 2016. Segnali positivi arrivano anche da un altro comparto di beni durevoli, gli elettrodomestici, che ha sofferto negli anni scorsi e ora è in risalita per la sostituzione di vecchi frigo e lavatrici, per l’appeal di alcuni dispositivi di innovazione tecnologica e per gli acquisti delle famiglie di immigrati. Per quanto riguarda l’arredo - che ha contenuto i danni anche grazie a un apposito bonus fiscale - un’iniezione di ottimismo arriva dall’indagine Findomestic, secondo la quale le intenzioni di acquisto per i prossimi mesi sono segnalate ai massimi dal gennaio 2013.

Più complesso è l’esame delle prospettive dei consumi legati al tessile-abbigliamento e all’alimentare. L’ultimo Rapporto Coop invita a riflettere sul cambio di mentalità che apportano i giovani, i cosiddetti millennials, e a un certo slittamento di gusto che alla fine può penalizzare i consumi o comunque indirizzarsi solo da Zara e H&M. Cambiano i meccanismi di riconoscimento sociale ora più legati ai social network che a un concetto tradizionale di eleganza e ricerca della griffe. I mutamenti nel campo della spesa alimentare sono molteplici e anche contraddittori tra loro. I prodotti gluten free sono aumentati del 50% nonostante che i celiaci in Italia siano solo il 3-4% della popolazione. In coda alle casse dei supermercati non si vedono più i carrelli pieni di una volta, si spreca molto meno e la spesa si fa a lotti più piccoli. Del resto non è un caso che nei corridoi non si trovino più le offerte 3x2 tipiche di un tempo passato. In questo contesto aumenta, specie in alcune aree territoriali del Sud, il peso dei discount simboleggiato anche dalla sponsorship della Nazionale italiana di calcio conquistata dai tedeschi della Lidl.

Le osservazioni sui cambiamenti del mercato e gli aggiustamenti degli stili di vita sono interessanti e compongono un puzzle in continuo mutamento ma il dubbio sull’immediato futuro dei consumi è legato principalmente a variabili di carattere più strettamente economico. Gli operatori si chiedono in che misura aumenterà il reddito disponibile degli italiani nei prossimi mesi e i timori delle associazioni del commercio sono legati ai contenuti definitivi della legge di Stabilità. Il governo vuole evitare l’aumento dell’Iva e quindi ha già detto urbi et orbi che vuole coprire l’ammontare delle clausole di salvaguardia previste ma tutto ciò sarà possibile solo se Matteo Renzi otterrà un bonus di flessibilità da Bruxelles.

10 settembre 2015 (modifica il 10 settembre 2015 | 11:33)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_10/boom-estivo-consumi-buon-segno-purche-continui-6b1815b8-577a-11e5-b3ee-d3a21f4c8bbb.shtml
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #193 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:50:16 pm »

Il corsivo del giorno
Il fisco leggero è solo un passo, serve dignità per il lavoro autonomo
Si attende dal governo la conferma alle intenzioni di rendere più favorevole la tassazione delle nuove partite Iva venendo incontro ai giovani professionisti


Di Dario DI Vico

La buona notizia è che il governo conferma per bocca del vice ministro Casero e del sottosegretario Zanetti le intenzioni di rendere più favorevole la tassazione delle nuove partite Iva venendo incontro ai giovani professionisti e a quanti di fronte al dramma della disoccupazione tentano la strada dell’auto-impiego aprendo ristoranti, centri benessere, botteghe artigiane, studi di consulenza informatica, fablab con le stampanti 3D o tornando a credere nell’agricoltura.

Varrà la pena ricordare come il sistema della partita Iva assomigli in Italia a una porta girevole, ogni mese se ne aprono di nuove all’incirca 50 mila e se ne chiudono - di vecchie - nella proporzione di 3/5. Uno dei motivi di questo turn over frenetico sta anche nel regime fiscale che per come è stato strutturato rende assai difficile la partenza di una nuova attività e il suo consolidamento. Portare l’Irpef al 5% nei primi anni per chi non supera i 30 mila euro di ricavi equivale quindi a favorire la nascita di nuove piccole imprese e l’auto-collocamento di quanti in età matura vengono espulsi dal processo produttivo.

La buona novella però finisce qui, è evidente che incalza la presentazione della legge di Stabilità e il governo debba approntare provvedimenti immediati ma non vorremmo che passata la festa si dimentichi il santo. Ovvero che l’intervento per i giovani professionisti e le partite Iva si limiti a rimodulare il regime dei minimi.

C’è da bloccare - da subito - l’incremento dell’aliquota di contribuzione alla gestione separata dell’Inps (che è al 27,72%), c’è da ragionare sul pagamento dell’Iva per cassa e non per competenza. E via di questo passo. La scelta più opportuna che il governo, una volta approvata la Stabilità, potrebbe fare è quella di mettere in cantiere un provvedimento ad hoc che dia dignità al lavoro autonomo e ne regoli Fisco e welfare. Esistono già depositati in Parlamento dei buoni disegni di legge, si tratta di esaminarli e nel caso migliorarli.

26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 08:34)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_26/fisco-leggero-solo-passo-serve-dignita-il-lavoro-autonomo-90d00c48-6413-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #194 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:09:32 pm »

Le scelte di confindustria
Quella sfida ai sindacati che riguarda anche il capitale
La fase che si è aperta contiene l’opportunità di riformulare la pratica della rappresentanza e di metterla in sintonia con i mutamenti, ma anche il rischio di restare a metà del guado con aziende scettiche e il sindacato più ostile

Di Dario Di Vico

In teoria l’ultimo scorcio di una presidenza dovrebbe rappresentare per la Confindustria una stagione di ordinaria navigazione e, invece, a qualche mese dal suo avvicendamento Giorgio Squinzi si trova a gestire una fase di straordinaria discontinuità. Che, come è scontato che sia, contiene opportunità e rischi. L’opportunità è quella di riformulare la pratica della rappresentanza delle imprese e di metterla in sintonia con i mutamenti dell’economia post-crisi, il rischio è di rimanere a metà del guado con imprese scettiche e sindacato ancor più ostile. A spingere il gruppo dirigente confindustriale sulla strada della discontinuità è stato, sul piano della cronaca spicciola, l’atteggiamento irriducibile della coppia Barbagallo-Camusso ma se guardiamo alla sostanza dei problemi troviamo alla radice della svolta una certa insoddisfazione verso il tran tran, cresciuta in questi anni nelle associazioni territoriali più vivaci, in parallelo alla volontà di interpretare il sentimento delle aziende-lepri. Quelle che corrono per il mondo e potrebbero maturare l’idea dell’inutilità della rappresentanza. Quindi voler leggere le ultime mosse di Squinzi con la vecchia metafora della colomba diventata falco - per di più in zona Cesarini - è riduttivo, in gioco c’è un potenziale salto di qualità della cultura associativa d’impresa. Che non può essere più quella di sette anni fa, la Grande Crisi se ha cambiato molti dei meccanismi di funzionamento dell’economia reale non poteva, infatti, lasciare inalterata la rappresentanza.

Un dirigente sindacale leggendo queste parole potrà obiettare che non ci dovrebbe essere bisogno di passare da un azzeramento seppur temporaneo del rapporto con Cgil-Cisl-Uil per costruire un associazionismo di qualità. E invece, nella situazione data, è proprio così ma non per colpa degli industriali. La verità è che quello che una volta era il monopolio sindacale della tutela del lavoro oggi è diventato uno spazio contendibile. Nelle aziende globali è l’imprenditore a farsi avanti e a sfidare Cgil-Cisl-Uil, tra i facchini della logistica sono i Cobas, nel terziario metropolitano delle partite Iva è la Rete. In questa grande trasformazione dell’economia e del lavoro sarebbe un guaio se gli industriali restassero con le mani in mano, caso mai sarebbe auspicabile che anche i sindacati dessero prova di altrettanto coraggio e volontà di innovazione. Quando conosceremo il decalogo delle regole che Squinzi ha annunciato potremo valutare con maggiore precisione quanto la Confindustria sia cosciente di ciò che le sta accadendo intorno e quali sono i percorsi che propone, è chiaro comunque che allontanare la contrattazione da Roma e portarla più vicino al mercato e alle persone è una conditio sine qua non per tentare di armonizzare rappresentanza ed economia post-crisi.

Francamente non credo, come pure è stato scritto, che Squinzi stia facendo tutto questo per portare acqua al mulino di Matteo Renzi. Penso che in Confindustria ci si sia resi conto da tempo che il premier ha messo nel mirino i corpi intermedi (anche) per ampliare la tradizionale constituency elettorale del centrosinistra e di conseguenza si sia maturata in Viale dell’Astronomia la convinzione che star fermi sarebbe, quella sì, una scelta complice. Con rappresentanze giurassiche la comunicazione guizzante del premier va, e andrebbe ancora per lungo tempo, a nozze.

Mettendo in discussione le vecchie relazioni industriali Squinzi però deve sapere che si genera un effetto-domino su altri capitoli del rapporto tra la rappresentanza e gli associati. Prendiamo, ad esempio, un tema altrettanto cruciale: la dimensione delle imprese. E’ possibile continuare a sottovalutare come questo sia uno dei passaggi ineludibili per rimettere in corsa il sistema-Italia nella competizione globale? Un’associazione meno concentrata sulla gestione dei contratti nazionali di lavoro dovrà giocoforza fornire nuovi servizi ai suoi iscritti e non potrà che individuare come prioritari di questa fase quelli destinati a favorire la crescita.

Si potrà non amare la Borsa ma l’apertura dell’azionariato, con gli strumenti più vari, è una scelta che non si può rinviare per troppo tempo. Luigi Zingales tempo fa ne parlò come «l’articolo 18 del capitale» e continua a sembrarmi una sintesi efficace.

9 ottobre 2015 (modifica il 9 ottobre 2015 | 09:56)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_09/quella-sfida-sindacati-che-riguarda-anche-capitale-79b4734a-6e5a-11e5-aad2-b4771ca274f3.shtml
Registrato
Pagine: 1 ... 11 12 [13] 14 15
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!