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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 113973 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Novembre 22, 2014, 06:36:41 pm »

Landini si autoproclama megafono nazionale ma serve saper dialogare

Di Dario Di Vico

Maurizio Landini deve la sua carriera da leader agli anni del megafono, alla dura pratica delle assemblee nelle mense aziendali e dei cortei dello sciopero, tutti momenti in cui l’amplificatore è l’amico più fidato del sindacalista. Nel tempo però Landini ha capito che la sua voce stentorea lo metteva in grado di autonomizzarsi dal megafono e proprio grazie a questa scoperta gli è stato possibile sfondare nei talk show, dove si rivela praticamente inarrestabile.

Chiunque, ospite o conduttore, si azzardi minimamente a contraddirlo viene asfaltato a colpi di decibel. Tanta perizia dei tempi televisivi deve avergli però dato alla testa e così si è messo a distribuire dal palco dei comizi patenti di onestà e di disonestà ai suoi concittadini. Per farla breve si è autoconvinto di essere diventato il Megafono del Paese. La verità è che Landini non vuole rinunciare mai a distinguersi, ora che la Fiom e la Cgil di Susanna Camusso la pensano allo stesso modo sul Jobs act e sulla legge di Stabilità il segretario vuole di nuovo ribadire il primato dei metalmeccanici.

Al punto da aver indetto per la sua categoria una doppia razione di scioperi rispetto a chimici, tessili, alimentaristi e lavoratori del commercio. Insomma dentro lo scontro con il governo sopravvive comunque una competizione per la leadership del maggiore sindacato italiano e questo alla fine pesa nel conto della conflittualità e nei toni del confronto. In tv poi Landini ripete sempre di essere stato il padre dell’accordo Electrolux ovvero di saper diventare, al momento giusto, un pragmatico.

Ascoltandolo e vedendolo gesticolare viene difficile credergli, dovrebbe mettere giù il megafono e dedicare un po’ del suo tempo ad ascoltare gli altri. Saper dialogare con gli altri sindacati (con Fim e Uilm i rapporti sono quasi allo zero) non è un reato e anche costruire un’analisi della crisi industriale meno propagandistica non sarebbe una cattiva idea.

22 novembre 2014 | 09:54
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_22/landini-si-autoproclama-megafono-nazionalema-serve-saper-dialogare-fff15344-7223-11e4-9b29-78c5c2ace584.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Dicembre 13, 2014, 04:44:13 pm »

Sciopero e retorica del conflitto
Tutto lo spreco di un’azione inutile
La manifestazione principale sarà a Torino, come il vertice italo-tedesco con il capo dello Stato.
Ma la contrapposizione tra premier e segreteria Cgil è così feroce da porre in secondo piano le opportunità internazionali


Di Dario Di Vico

La querelle sulla precettazione dei ferrovieri, prima disposta dal ministro Maurizio Lupi e poi ritirata, è servita quantomeno ad alzare la temperatura della vigilia di uno sciopero generale che rischiava il dimenticatoio. La scelta della data è stata laboriosa e non ha sicuramente giovato. Ma l’elemento che ha reso meno efficace di altre volte la preparazione consiste in una piattaforma di convocazione indirizzata contro «il combinato disposto di Jobs act e legge di Stabilità», come si può leggere sul sito della Cgil.

Per carità, si può anche decidere di convocare uno sciopero contro il combinato disposto, ma non è una motivazione che vale oro e che segna né un’originalità di pensiero né l’elaborazione di una piattaforma alternativa. E così è emerso in questi giorni che si tratta di un puro sciopero politico contro il governo, reo di aver azzerato il dialogo con i sindacati. È tanto politico che i lavoratori del teatro alla Scala hanno chiesto di togliere la tessera della Cgil ai parlamentari che hanno votato per il Jobs act. È un piccolo episodio ma tradisce la permanente confusione che si continua fare tra sindacato e partito, tra rappresentanza e politica. Ed è singolare che accanto a Susanna Camusso oggi ci sia la Uil, che ha scelto, per l’esordio della segreteria Barbagallo, il posizionamento più sinistrorso della sua storia. Le due confederazioni che oggi sfileranno nelle piazze d’Italia stanno difendendo, quindi, prima di tutto se stesse e il potere che hanno avuto nell’Italia della concertazione. Operazione legittima in democrazia, ma che si presenta modesta al confronto delle sfide che ci stanno davanti.

E, allora, era proprio necessario che la manifestazione più importante, quella segnata dalla presenza di Camusso, fosse quella di Torino, in coincidenza con un vertice italo-tedesco alla presenza del presidente Giorgio Napolitano? Era proprio indispensabile sottolineare agli occhi dell’opinione tedesca la difficoltà del nostro Paese di staccarsi dai vecchi riti e dalla retorica del conflitto fine a se stesso? No, si poteva disporre diversamente ma la contrapposizione che divide Palazzo Chigi dalla segreteria Cgil è così feroce che mette in secondo piano le opportunità internazionali, l’intelligenza tattica, l’immagine del Paese. Per di più si ha l’impressione che l’inedito duo Barbagallo- Camusso sia rimasto indietro anche nella lettura degli avvenimenti di questi giorni. L’Europa è ripiombata nell’incubo, l’esito della drammatica vicenda greca sta rimettendo in discussione quelle poche certezze che avevano acquisito, la partenza della commissione Juncker non sta certo segnando quella discontinuità che era stata promessa dopo il voto europeo e l’affermazione degli euroscettici in ben due Paesi di prima fascia (Francia e Inghilterra). Di fronte a questi macigni Cgil e Uil sanno solo replicare che «l’articolo 18 non si tocca», coltivare l’idea di una patrimoniale e convocare uno sciopero destinato a rivelarsi inutile.

Personalmente non penso che i sindacati vadano azzerati ma, anzi, in una fase in cui la società è smarrita e si tratta di rintracciare persino il senso di una comune riscossa c’è bisogno di buona intermediazione. E faccio un esempio concreto. La scorsa settimana si sono svolte le elezioni per il rinnovo delle Rsu alla Carraro di Campodarsego (Padova). Nonostante l’aumento degli aventi diritto al voto rispetto al precedente test del 2011 il numero dei delegati eletti è stato ridotto da 21 a 15, e questo per effetto di un accordo sottoscritto da tutte e tre le sigle che ha negoziato la riduzione dei diritti organizzativi in cambio di nuove assunzioni e investimenti. Chapeau. Ma è possibile che questa logica innovativa si manifesti solo nei territori e mai a Roma?

12 dicembre 2014 | 09:47
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_12/tutto-spreco-un-azione-inutile-a4ae9e5a-81d8-11e4-bed6-46aba69bf220.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Febbraio 04, 2015, 07:55:19 am »

1 FEBBRAIO 2015 | di Dario Di Vico
Consorzio del parmigiano reggiano

Di Dario Di Vico

Se il re dei formaggi vuole continuare a tener fede alla sua fama e salvare il trono deve darsi una mossa. Lo scontro che si è aperto nelle settimane scorse tra il Consorzio del Parmigiano Reggiano e gli allevatori non è una bega di territorio e la conferma si è avuta all’affollata assemblea (400 persone, tante in piedi) convocata per festeggiare gli 80 anni di attività.

E’ una vicenda che racconta le opportunità ma anche le miopie del made in Italy e così alla presenza del ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina quella che si è svolta nella mattinata di ieri è stata quasi una seduta di autocoscienza. Tema: come è possibile che una storia di eccellenza agro-alimentare (il parmigiano) si trasformi in una crisi di rapporti all’interno del mondo produttivo. La verità è venuta fuori abbastanza netta: il Consorzio, almeno così come è stato finora, non è adeguato ai tempi. Assomiglia, mutatis mutandis, ai vecchi patti di sindacato della finanza italiana. Innanzitutto non rappresenta tutti i segmenti della filiera del Parmigiano, ci sono solo i caseifici e restano invece fuori gli allevatori e la commercializzazione. In più la tradizionale strategia di tagliare la produzione quando serve alzare i prezzi è contestata dagli allevatori ed è miope.

Le cose da fare sono altre ovvero introdurre flessibilità nei caseifici producendo anche altri formaggi, realizzare aggregazioni tra le aziende più piccole che altrimenti non riescono a sopportare più i costi della lunga stagionatura, puntare con decisione alle esportazioni magari cominciando ad approfittare del cambio più equo tra euro e dollaro. Il tutto a pochi mesi ormai dalla fine del regime trentennale delle quote latte che introduce un ulteriore elemento di incertezza e preoccupazione. Che a Parma e Reggio si sia ormai fatta strada la convinzione che si è chiuso un ciclo e bisogna aprirne uno nuovo lo dimostrano le parole del presidente del Consorzio, Giuseppe Alai, accusato spesso di essere il garante dello status quo. Ieri in apertura dell’assemblea ha scandito:

    “Dobbiamo guardare alla globalizzazione come opportunità di espansione reale della domanda estera. E proponiamo alle imprese una forte evoluzione dei sistemi di aggregazione”.

Il ministro Martina ha avuto buon gioco a sostenere che buona parte delle riflessioni autocritiche avrebbero dovuto essere formulate per tempo, invece di continuare a negare fino a poco tempo fa “i punti di fragilità”. Fortunatamente, e nonostante un calo della qualità denunciato da molti allevatori, l’immagine internazionale del Parmigiano non ne è uscita a pezzi tanto che si moltiplicano i tentativi di imitazione.

La prima mossa, secondo Martina, consiste allora nel costruire “un luogo organizzativo stabile di tutta la filiera”, una sede dove di discuta dai prezzi alle piattaforme commerciali per l’internazionalizzazione. La seconda opzione è quella di rafforzare i consorzi di tutela “chiedendoci però che cosa vuol dire la parola ‘tutela’ nel 2015, e sicuramente non è quello che intendevamo negli anni ’80″.

Lo scenario è cambiato, si deve puntare sempre di più sull’esportazione perché le nuove classi medie del mondo sono il target giusto per l’espansione del Parmigiano. Un aiuto verrà dal negoziato TTIP con gli Stati Uniti che, anche da Parma, va guardato con favore e non come un’insidia.

Twitter: @dariodivico

DA - http://nuvola.corriere.it/2015/02/01/gli-allevatori-e-la-crisi-del-parmigiano/
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« Risposta #168 inserito:: Febbraio 20, 2015, 04:42:43 pm »

La dignità del lavoro autonomo
Di Dario Di Vico

Due emendamenti e il governo ha rimesso le cose al loro posto. Nei confronti delle partite Iva erano stati commessi in sede di legge di Stabilità altrettanti errori/amnesie, non erano stati bloccati gli aumenti della contribuzione alla gestione separata Inps e si era ritoccato il regime dei minimi Irpef pasticciando e aumentando di fatto la pressione fiscale. Ieri, dopo lungo penare, e dopo diverse esternazioni del premier Matteo Renzi orientate al pentimento, la maggioranza ha trovato il modo di riparare. Il fatto stesso che il veicolo legislativo utilizzato sia il Mille proroghe - e non potrebbe essere altrimenti - la dice tutta sul carattere last minute di questa scelta. Tra le debolezze della politica dobbiamo abituarci a convivere anche con questa variante: di fronte a problemi che sarebbe facile esaminare con cura e risolvere per tempo si architettano, invece, soluzioni sbagliate per poi correre ai ripari con il fiato corto e all’ultimo minuto. Aggiungo che diversi parlamentari della maggioranza ieri hanno enfatizzato il risultato raggiunto ma vale la pena ricordare loro che stanno festeggiando un pareggio, non certo una vittoria.
Il difficile, per certi versi, comincia adesso. Se il governo, insieme in verità a un folto gruppo di parlamentari dell’opposizione, si è finalmente reso conto che la presenza di tante partite Iva e freelance non è una sciagura per l’economia, bisogna passare a una fase costruttiva che cerchi di tenere insieme riconoscimento professionale, promozione, welfare e carico fiscale. Onestamente non pare che una visione di questo tipo la si possa rintracciare, per ora, nel pur ricco dibattito interno al Pd ancora influenzato dalle problematiche della sinistra novecentesca. Il ministro competente, Giuliano Poletti, avrebbe potuto per tempo spingere in avanti la riflessione e invece gli è mancato il coraggio. Tra i tecnici che accompagnano l’azione del governo c’è sicuramente una maggiore percezione - rispetto al Pd - della discontinuità ma non hanno ancora oltrepassato le colonne d’Ercole del laburismo: il riconoscimento della modernità del lavoro autonomo.

Molte cose, infatti, ci stanno cambiando sotto gli occhi. La scomposizione del ciclo produttivo dovuta alla Grande Crisi è stata profonda e capita che anche in medie aziende ci possa essere un direttore commerciale, pienamente inserito nell’organigramma, ma inquadrato a partita Iva. E che dire del mutamento dei confini tra lavoro in ufficio e lavoro a casa? In quante professioni e in quanti bacini di competenze il numero degli indipendenti sta ormai superando il numero dei dipendenti? Si potrebbe continuare a lungo e portare cento esempi ma per prima cosa occorre cambiare metodo, individuare soluzioni di medio periodo e non solo emendamenti. Penso alla previdenza: i conti in attivo della gestione separata dell’Inps sono stati usati di volta in volta a copertura di altre spese ma è forse arrivato il momento di individuare un altro schema. Qualche idea circola tra gli addetti ai lavori e la si potrebbe vagliare con maggiore attenzione, anche perché quando arriverà a casa dei freelance l’attesissima busta arancione con la previsione delle loro pensioni non sarà un giorno facile per il governo in carica.

Anche sul terreno fiscale forse è giunta l’ora di cambiare registro. Le partite Iva possono concorrere a generare ripresa e ricchezza? Se la risposta è sì, anche le scelte di merito devono essere conseguenti e vanno adottate norme che incentivino a crescere. E non, come capita oggi, norme che inducono a rifiutare lavori per paura di uscire dal regime dei minimi.

18 febbraio 2015 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_18/dignita-lavoro-autonomo-b5d68e0c-b736-11e4-bef5-103489912308.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Marzo 09, 2015, 05:19:43 pm »

Il caso
Il reddito minimo «modulare» e le coperture

Di Dario Di Vico

Le interviste di Tito Boeri e Beppe Grillo al «Corriere» hanno rilanciato il dibattito sul reddito minimo di cittadinanza, un cavallo di battaglia del M5S che potrebbe costituire un terreno di dialogo con il governo. È davvero così? In realtà come ha dichiarato l’ex ministro del Welfare, Enrico Giovannini, per la mole di investimenti necessari il reddito minimo «pesa» all’incirca come gli 80 euro. Se quest’ultimo a regime costerà 9,5 miliardi, ricondurre alla soglia di povertà i 6 milioni di individui che sono rimasti sotto, costa - dati 2012 - circa 7,5 miliardi. Queste cifre ovviamente hanno il potere di raffreddare qualsiasi pontiere, nel migliore dei casi infatti non si potrebbe far altro che rinviarlo alla prossima legge di Stabilità. E comunque per ora né al Welfare né a Palazzo Chigi si sta lavorando a un’ipotesi del genere. Si potrebbe però scegliere una strada B: un provvedimento meno ambizioso/costoso ma comunque ad alto valore politico-simbolico. Si potrebbe iniziare portando i nuclei di due persone non alla quota minima di 1.000 euro (soglia povertà) ma a mezza strada (500 euro) e in questo caso per le casse statali il conto sarebbe di «soli» 1,5 miliardi. Sarebbe, infatti, molto meno ampia la platea. Però sia che si scelga la via più ambiziosa o quella più realistica si devono implementare alcuni strumenti che rendano l’operazione trasparente, fruttuosa e non uno spreco. E sono almeno due le novità che erano state individuate proprio da Giovannini: il casellario dell’assistenza (un’anagrafe di quanto i singoli già percepiscono a vario titolo) e un test significativo sulla capacità dei servizi sociali di saper controllare eventuali abusi.

8 marzo 2015 | 10:02
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_marzo_08/reddito-minimo-modulare-coperture-4eb98bcc-c571-11e4-a88d-7584e1199318.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Marzo 13, 2015, 05:16:11 pm »

Jobs act e impresa
Il lavoro di creare lavoro
Gli industriali affermano che finora sarebbe stato impossibile sostenere l’occupazione non perché mancava il Jobs act quanto per la caduta delle attività

Di Dario Di Vico

Gli imprenditori italiani hanno i riflettori puntati addosso. Non passa giorno che qualche ministro se ne esca dicendo che «gli industriali adesso non hanno più alibi». Il riferimento diretto è alle nuove regole e ai generosi incentivi previsti dal Jobs act ma più in generale si è fatto largo il giudizio che in questi anni gli imprenditori italiani abbiano avuto il braccino corto, nell’assumere e soprattutto nell’investire. A queste opinioni la Confindustria ha replicato con una nota del Centro Studi secondo cui il tasso di investimento delle nostre imprese manifatturiere è tra i più alti al mondo: 23% contro il 13% di Germania e Francia. E il numero delle imprese innovative italiane è indicato come superiore a quelle francesi e britanniche e secondo solo alle tedesche.

Al di là delle cifre gli industriali affermano che finora sarebbe stato impossibile sostenere l’occupazione non tanto perché mancava il Jobs act quanto per la caduta delle attività, il vero fil rouge dei terribili anni che abbiamo alle spalle. La verità è che niente resta mai del tutto fermo e durante la Grande Crisi l’impresa italiana ha subito una metamorfosi. Si è ristrutturata dentro i cancelli della fabbrica e fuori di essi, acquisendo un profilo più snello e favorendo la nascita di filiere produttive competitive. Nel frattempo ha aumentato l’insediamento nei mercati esteri con molte puntate nei Paesi emergenti e conquistando posizioni in quelli di più tradizionale presenza. Naturalmente non si può dire che tutti gli imprenditori abbiano mostrato entrambe le capacità, che tutti si siano rivelati degli straordinari capitani coraggiosi, anzi proprio il peso assunto dall’export ha generato una drastica polarizzazione delle aziende tra quelle che hanno corso anche sotto la pioggia e quelle travolte dal crollo della domanda interna. I segnali che in questi giorni arrivano dai territori sono incoraggianti e sarebbe da masochisti ignorarli. Le medie imprese italiane scommettono sulla ripresa al punto che secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo i distretti italiani, smentendo chi ne aveva decretato il de profundis, a fine 2015 recupereranno addirittura i livelli di fatturato del 2008.

Se affianchiamo ai dati le dichiarazioni dei responsabili delle associazioni imprenditoriali del Nord sembrano esserci tutte le condizioni per spingere la crescita. E persino i due trimestri che tradizionalmente passano tra aumento della produzione industriale e incremento dell’occupazione potrebbero contrarsi. Se tutto ciò dovesse avvenire non sarà stato solo per effetto delle nuove regole del lavoro quanto per la forza intrinseca di una cultura industriale, quella dei nostri imprenditori, che si è rivelata capace di affrontare la discontinuità. A questa tradizione oggi, più che rivolgere battute velenose, forse dobbiamo chiedere dell’altro coraggio. Nella stagione che si sta aprendo sarebbe auspicabile uno sforzo di ulteriore apertura: una sorta di sinergia tra imprenditori che credono nelle loro aziende e le patrimonializzano, capitali pazienti che accettano di sostenere la ricerca e i progetti innovativi, nuove risorse manageriali che subentrino laddove la staffetta generazionale si rivela impraticabile. Non è impossibile.

10 marzo 2015 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_10/lavoro-creare-lavoro-52cb4536-c6f0-11e4-ace1-14c9e44d41cb.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Marzo 17, 2015, 12:02:06 am »

L’ira della Cgil pe la mossa di Landini
Tra i due litiganti ci guadagna la Cisl


Di Dario Di Vico

In attesa di vedere se la coalizione Landini modificherà l’offerta politica, di sicuro mette in moto dinamiche nuove nel movimento sindacale. Il congresso cgil di Rimini aveva visto trionfare Susanna Camusso ma il leader della Fiom ora rompe gli schemi. Non abbraccia l’idea delle primarie ma tenta di mettere assieme rappresentanza industriale classica e rete dell’associazionismo più vivace come Libera ed Emergency.

Il lessico di Landini per ora è confinato dentro l’universo-fabbrica e quindi dovrà aggregare mediatori culturali che gli portino in dote l’alfabeto dei territori e delle nuove forme di aggregazione giovanile. È chiaro comunque che questo percorso lo porta in rotta di collisione con la Cgil, che da una parte gli imputa di fare apprendistato politico-elettorale e dall’altra rivendica essa stessa di essere una coalizione sociale. Nella battaglia contro il renzismo - e forse in previsione della mossa di Landini - il sindacato di Susanna Camusso ha da tempo accentuato il carattere di soggetto-carovana.

Procede per campagne (contro il Jobs act o contro gli appalti al ribasso) o per iniziative-evento (l’anteprima di un film, la presentazione di un libro) e i suoi dirigenti girano in lungo e in largo il Paese per essere presenti. Si stempera il ruolo del sindacato come soggetto che elabora piattaforme, promuove vertenze, gestisce realtà di crisi. Così dopo la mossa di Landini inizierà un derby serratissimo in cui la Cgil e la coalizione Fiom si contenderanno gli stessi spazi, gli stessi interlocutori, la stessa radicalità. Un esempio? Per non farsi sorpassare la Cgil dell’Emilia-Romagna ha indetto ieri 4 inutili e ulteriori ore di sciopero contro il Jobs act.

Un ingorgo di questo genere potrà sul breve avvantaggiare la Cisl - la Uil si è cosi spostata a sinistra da non avere più campo - che già con la scelta di non partecipare allo sciopero generale di dicembre ha segnalato una sua differente propensione. Se la nuova segreteria Furlan riuscirà a innovare la cultura sindacale e produrre parole d’ordine sensate avrà davanti a sé delle praterie perché in fondo sia il governo sia la Confindustria hanno bisogno di un interlocutore credibile che organizzi idee piuttosto che scioperi.

14 marzo 2015 | 10:36
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_14/ira-cgil-pe-mossa-landini-due-litiganti-ci-guadagna-cisl-f595f564-ca19-11e4-8e70-9bb6c82f06ec.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Marzo 28, 2015, 04:33:56 pm »

La svolta
Il cambio di passo necessario per la rinascita dei piccoli
La grande flessibilità, che è stata per decenni la forza delle microimprese, non è più sufficiente per riprodurre un vantaggio competitivo quando mancano investimenti, innovazione e risorse umane Servono capitali per crescere

Di Dario Di Vico

Il richiamo di Mario Draghi all’eccessivo numero di microimprese italiane «a produttività inferiore alla media» e il dito rivolto «contro una regolamentazione che le incentiva a rimanere piccole» contribuiscono a riaprire il dibattito sulla dimensione delle aziende e lo fanno, con un timing per una volta favorevole, alla vigilia del convegno biennale dei Piccoli di Confindustria che si apre oggi a Venezia. Del resto siamo al settimo anno della Grande Crisi e mentre si intravedono segnali di ripresa è indispensabile aggiornare analisi e proposte. Questo lunghissimo scorcio di tempo è stato caratterizzato dalla decimazione delle Piccole e medie imprese italiane: una selezione darwiniana che ha visto convergere l’azione distruttiva di potenti fattori come la recessione, la globalizzazione e l’anagrafe.

Si è chiuso infatti in qualche maniera il grande ciclo antropologico che aveva visto migliaia di operai mettersi in proprio e diventare imprenditori. Quelle tute blu oggi hanno un’età elevata, spesso non sono riuscite a creare i presupposti di una buona staffetta generazionale e in dirittura d’arrivo pagano anche il prezzo della bassa scolarizzazione. La fenomenologia della crisi ci dice che nel periodo dal 2008 ad oggi sono uscite dal mercato le aziende del manifatturiero di bassa qualità e i settori che paiono aver pagato i prezzi maggiori sono sicuramente l’edilizia e l’intero ciclo del mattone, seguiti dai trasporti e dalla metalmeccanica diffusa. La grande flessibilità, che è stata per lustri la forza delle microimprese, non è più sufficiente per riprodurre un vantaggio competitivo laddove mancano investimenti, innovazione e nuovo capitale umano. È vero che i Piccoli in questi anni non si sono arresi, hanno dato vita a una strenua resistenza e hanno in qualche misura fatto anche da ammortizzatore sociale, licenziando meno di quanto il tracollo del fatturato avrebbe (purtroppo) richiesto, ma la diga non tiene più.

Fortunatamente non tutte le piccole aziende sono state spazzate via, anzi. Ed è dai «vivi» che bisogna ripartire, non dalla riproposizione delle statistiche sul numero dei «morti». I dati sulla vitalità dei distretti e sulla loro capacità di esportare dimostrano come almeno nei territori a industrializzazione diffusa il sistema si è riorganizzato in corso d’opera: le catene di fornitura si sono allungate, la specializzazione produttiva è stata affinata per tenere i concorrenti asiatici a distanza e in qualche caso i buoni rating di credito sono stati socializzati dai grandi verso i piccoli. Ed è proprio questa silenziosa metamorfosi che in qualche maniera ci regala ottimismo e ci insegna anche qualcosa nel merito delle scelte da fare. È una sorta di politica industriale implicita che si è realizzata non per una decisione centralizzata, tantomeno statale, ma per l’azione di svariati soggetti che sul territorio hanno capito per tempo cosa fare. A cominciare da ristrutturare le proprie aziende, renderle snelle e a zero sprechi.

La domanda che ci si deve porre a questo punto però è se possono bastare una riorganizzazione razionale, una combinazione intelligente di manifattura più servizi innovativi, qualche novità significativa nel campo della distribuzione o se invece si sente la necessità di cambiare passo. Per dirla tutta, speriamo proprio che non si faccia strada l’illusione di una ripresa-libera tutti e sono almeno due i motivi che lo sconsigliano. Il primo è che la ripartenza è ancora caratterizzata dalla spinta propulsiva dell’export mentre la domanda interna resta ancora depressa. Il secondo è che non tutte le imprese che sono sopravvissute fin qui hanno la garanzia di restare in piedi nei prossimi anni.

La selezione non è finita, ci si può augurare che sia meno spietata ma il ciclo della riorganizzazione della nostra offerta forse è appena cominciato. Fuori le idee, dunque. Valutiamo, ad esempio, se le norme vigenti in materia di reti di impresa e di incentivo all’aggregazione non possano essere migliorate. Qualche novità si attende dal nuovo accordo di moratoria dei debiti con l’Abi (Associazione bancaria italiana), un provvedimento sicuramente importante è quello — voluto dal ministero dello Sviluppo economico — per estendere le misure di incentivo previste per le startup alle Pmi innovative e seppur lentamente sta riprendendo un dialogo tra la finanza e i Piccoli.

Uno studio curato da Giovanni Tamburi e presentato lo scorso weekend a Vicenza ha indicato in 70-80 il numero delle imprese del Nordest che sono quotabili, più in generale sembra archiviata la stagione nella quale una condotta troppo spregiudicata dei fondi di private equity aveva creato un muro tra finanza e imprese familiari. Servono ora capitali pazienti che possano contribuire a finanziare lo sviluppo dei Piccoli e che sappiano attingere a quel risparmio che — come ha sottolineato Il Sole 24 Ore proprio ieri — supporta per meno del 10% la crescita delle imprese. È questa la discussione da fare se vogliamo dar seguito agli stimoli di Mario Draghi, il resto è déjà vu.

27 marzo 2015 | 09:53
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_27/cambio-passo-necessario-la-rinascita-piccoli-cc50527e-d457-11e4-831f-650093316b0e.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Aprile 04, 2015, 11:24:35 am »

Tasse e lavoro


Di Dario Di Vico

G li italiani non credono nella ripresa imminente. A dircelo è un sondaggio sfornato proprio ieri dalla Ixè di Roberto Weber in base al quale il 63% dei nostri concittadini non vede i segnali di un’inversione di tendenza e continua a pensare che il tunnel della crisi sia ancora lungo. I risultati del sondaggio, in prima battuta, sembrano contraddittori rispetto a quanto sostengono molti tra economisti e banchieri che in ripetute occasioni hanno illustrato una tesi più rosa. Ma mentre il giudizio degli addetti ai lavori si basa sui vantaggi che cominciano a riflettersi sull’economia per alcune variabili macroeconomiche (prezzo petrolio, svalutazione euro ed effetti del quantitative easing), gli italiani si basano sull’osservazione concreta dell’ambiente attorno a sé e ne ricavano per l’appunto che la ripresa non è ripartita.

Tra i tanti fattori che influenzano l’opinione pubblica i sondaggisti dicono che ce ne sono due prevalenti: l’andamento delle tasse e le dinamiche del mercato del lavoro. Proprio osservando entrambi questi indicatori gli italiani ne ricavano una sensazione pessimistica e il caso ha voluto che le ultime due rilevazioni dell’Istat abbiano finito per confermarla, quella sul tasso di disoccupazione di febbraio 2015 diffusa nei giorni scorsi e quella sulla pressione fiscale 2014 emessa ieri. In entrambe le occasioni il dato Istat avalla lo scetticismo degli italiani e in qualche modo smentisce l’ottimismo ostentato dal governo, come nel caso del ministro Giuliano Poletti che aveva parlato di un milione di posti di lavoro in arrivo il giorno prima dei dati negativi di febbraio. L a scaramanzia, se non la conoscenza dei fatti, dovrebbe consigliare più prudenza e comunque è chiaro che indulgere a messaggi eccessivamente «rotondi» non favorisce, in questa fase, il rapporto con i cittadini.

In particolare, per quanto riguarda il mercato del lavoro, il governo dovrebbe sapere che gli effetti del combinato disposto tra ripresa e Jobs act non saranno immediati: Pietro Nenni non trovò mai la stanza dei bottoni semplicemente perché non esiste e comunque l’economia ha sue dinamiche che non sono riconducibili al puro comando politico.

Non va dimenticato, ad esempio, che l’aumento della produzione industriale, laddove si verifica, comporta nel breve il riassorbimento della cassa integrazione e non crea nuovi posti di lavoro. Sappiamo inoltre che la decontribuzione favorirà la conversione di contratti precari in contratti a tutele crescenti, ma non possiamo pensare di determinarne dall’alto tempi e quantità.

Se dal lavoro rivolgiamo poi l’attenzione alla pressione fiscale non possiamo non guardare con allarme al 43,5% su base annuale e al 50,3 nell’ultimo trimestre del 2014 comunicati ieri dall’Istat, che consolidano l’impressione che gli italiani hanno avuto sugli effetti perversi della somma di nuovi tributi locali, accise e Iva.

Il governo replica che gli 80 euro non vengono contabilizzati come taglio delle tasse, bensì come spesa sociale (e si spiega così il dato sull’aumento delle uscite per +0,8%), ma la sensazione che resta è una: tutta quell’operazione ha sicuramente dato a Renzi un dividendo politico (alle Europee) ma non ha prodotto lo stesso esito in campo economico. È mancata la capacità di gestirla in maniera fruttuosa, si è pensato più a cavalcare l’elemento politico-propagandistico che a curare la trasmissione di quel taglio ai consumi e all’economia reale. Governare è più difficile che tener botta a un intervistatore.

3 aprile 2015 | 07:37
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_03/prudenza-che-manca-numeri-96c91756-d9c2-11e4-9d46-768ce82f7c45.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Aprile 20, 2015, 05:52:35 pm »

ANALISI COMMENTI Il corsivo del giorno

Evitare gli scioperi nel trasporto pubblico
Una proposta che aiuta la convivenza civile


Di Dario Di Vico

Era ora. Il governo per bocca del ministro Graziano Delrio nell’intervista di ieri al Corriere ha annunciato che adotterà misure «più stringenti» per evitare che (almeno) durante l’Expo e il Giubileo si possano proclamare e attuare scioperi - più o meno selvaggi - nel trasporto pubblico.

Era ora perché più di qualche osservatore aveva messo in luce da tempo come l’intero meccanismo che dovrebbe regolare la materia fosse andato in tilt.

I sindacati di categoria indicono ormai da qualche anno agitazioni quasi sempre calendarizzate di venerdì senza aver nessuna chance che le loro rivendicazioni possano essere accolte (per lo stato di dissesto dei conti delle controparti), i vertici confederali di Cgil-Cisl-Uil si comportano alla Ponzio Pilato e fanno finta di non saperne nulla, l’autorità garante che dovrebbe presiedere alla regolarità del settore è praticamente inutile e tutta questa deresponsabilizzazione viene alla fine pagata dagli utenti. Che sono costretti molte volte a perdere a loro volta una giornata di lavoro, anche perché in un mondo dove crescono le occupazioni autonome e i mezzi lavori il meccanismo delle fasce orarie ha sempre meno senso e si è rivelato una mera foglia di fico.

La questione si sarebbe dovuta affrontare da tempo e se il governo si è deciso a cambiare passo è solo perché teme che durante i grandi eventi possa succedere qualcosa di veramente irreparabile.
Meglio così che continuare a far finta di niente.
Ora è auspicabile che da parte sindacale si dimostri ragionevolezza e, come si sta facendo a Milano, si negozi una tregua.
I lavoratori hanno tutti i diritti di difendersi e di rinnovare i loro contratti, devono capire però che non possono danneggiare impunemente l’utenza. Si tratta, caso mai, di trovare nuove forme di lotta e di cercare l’appoggio solidale dei viaggiatori invece di continuare a contrapporsi ad essi quasi fossero degli avversari da colpire fino allo stordimento.

20 aprile 2015 | 09:35
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« Risposta #175 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:27:09 pm »

L’analisi
Cultura, grattacieli, cambiamenti Grigia? No, ora Milano è frizzante
Con l’immagine della città si sta modificando anche la sua percezione all’estero


Di Dario Di Vico

Dalle guglie del Duomo a quelle dell’Unicredit tower. Un’intera pagina sul Financial Times per descrivere il «Milan’s makeover», la trasformazione della città che ospita l’Expo. L’autrice e corrispondente del giornale, Rachel Sanderson, racconta la realtà di una città che grazie ai progetti di Porta Nuova e Citylife sta cambiando il suo skyline e si sta dando una nuova identità.
L’architettura, dunque, come metafora di un ritrovato dinamismo. Aprono musei, bar, coffee shop, ristoranti di qualità e scandiscono con la loro attività un processo grazie al quale Milano non è più la Cenerentola del cosiddetto fashion quartet ma riduce le distanze che la separano dai tre grandi centri della moda mondiale ovvero Parigi, Londra e New York. «È bello poter raccontare ai newyorchesi che vengono in Italia che a Milano ci sono tante cose nuove da vedere» dichiara Susy Gariboldi, un’anglo-americana che ha sposato un italiano e vive al nono piano del Bosco Verticale, le torri residenziali disegnate dallo studio Boeri per il complesso di Porta Nuova.

Marciapiedi per bambini
Sta cambiando all’estero la percezione di Milano? Non è più la città «grigia e triste» che la stessa Sanderson dice di aver conosciuto negli anni passati prima di scappare a Roma e poi tornare? «Sembra proprio di sì - risponde Leopoldo Freyrie, milanese e presidente dell’Ordine nazionale degli architetti -. Porta Nuova ha avuto un effetto positivo anche per come si è occupata dello spazio pubblico. Dal Duomo fino a piazza Gae Aulenti è nata una lunghissima passeggiata che i milanesi hanno fatta loro. E l’aria frizzantina che si respira in città è dovuta proprio a queste novità». Che le cose stiano cambiando lo conferma anche Federico Marchetti, amministratore delegato di Yoox che si è fusa di recente con un altro leader dell’e-commerce, la londinese Net-à-porter: «Le sensazioni su Milano sono positive e l’articolo del Ft lo testimonia. Da cittadino vedo anch’io dei miglioramenti, non solo grattacieli ma anche marciapiedi a misura di passeggini per bambini». Per avere però un test più veritiero sull’opinione degli stranieri «bisognerà aspettare qualche mese, inglesi e americani verranno per le sfilate della moda a giugno e a settembre e allora sapremo se questo nuovo giudizio positivo si sarà sedimentato».

Anche per Vittorio Colao, che dal quartier generale di Londra dirige la Vodafone, dopo 30 anni di inerzia «i segni del cambiamento sono visibili, c’è apertura alla modernità, integrazione tra vecchio e nuovo. Mi capita a Milano persino di sbagliare strada e vuol dire che ci sono tante novità». Ma attenzione, avverte il manager: «Bisogna risolvere il problema dei muri sporchi di graffiti, oggi danno un’impressione da città del Terzo Mondo in preda alle gang. Un segnale incoerente con tutto quanto di buono si sta facendo».


Ancora troppi vincoli
Francesco Micheli, imprenditore e presidente del festival di musica Mi-To sottolinea come i mutamenti «siano dovuti a fattori spontanei e a un nostro certo DNA, non certo ad azioni concertate dalla politica locale o nazionale». L’architettura, poi, ha un impatto mediatico forte e non è paragonale all’arte o alla musica contemporanea nella capacità di ridefinire l’immagine di una città. «Piazza Aulenti si è giovata di un approccio esperenziale. Del resto la società si apre e l’offerta di cultura non può rimanere ancorata a vecchi canoni, deve sapersi far ascoltare e far partecipare».
Se la percezione di Milano è in via di mutamento i nostri interlocutori pensano che sia questa l’occasione per far meglio e avanzano qualche consiglio. Per Freyrie l’innovazione urbana non deve restare elitaria ma investire anche periferie e semi-periferie: «Si costruisca social housing ma lo si integri con le funzioni della città». Colao sostiene che una nuova identità è legata anche all’illuminazione durante la notte e qui c’è ancora molto da lavorare. Micheli invita a non illudersi sugli investimenti stranieri. «È vero che è arrivato il fondo sovrano del Qatar a Porta Nuova ma non c’è ancora un vero flusso di capitali. Gli stranieri ancora non investono perché ci sono troppi vincoli».

10 maggio 2015 | 10:02
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Da - http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_10/cultura-grattacieli-cambiamenti-grigia-no-ora-milano-frizzante-79080f22-f6e8-11e4-bdc6-f010dce69e19.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:43:31 am »

Il confronto sui valori
Le due carte di Milano che parlano al mondo

Di Dario Di Vico

Si può dire che da venerdì sera esistono due Carte di Milano. La prima, la più nota, è un documento corposo sull’alimentazione e la nutrizione ed esprime le idee di quanti hanno creduto a un’edizione dell’Expo interamente dedicata al cibo e l’hanno preparata nei suoi contenuti-chiave. È una piattaforma che affronta coraggiosamente alcuni nodi cruciali della vita del pianeta, della sua sostenibilità e li prende di petto.

Un esempio si impone su tutti: la popolazione affetta da cattiva nutrizione ammonta nel mondo all’incirca a 805 milioni di persone e coesiste con la cifra-monstre di 2,1 miliardi tra obesi e in sovrappeso. È una contraddizione micidiale che forse più crudamente di altre fotografa le disuguaglianze e i paradossi dell’epoca che viviamo. A tratti la Carta di Milano potrà anche sembrare ingenua - la stessa ingenuità che viene rimproverata a papa Francesco - ma il tentativo che compie va nella giusta direzione. L a Carta punta in prima battuta quantomeno a riavvicinare le grandi istituzioni internazionali ai popoli, a mettere in connessione chi deve produrre soluzioni con chi ha il compito di rappresentare i problemi.

La prima Carta di Milano ha anche un altro merito che si può rivelare cruciale dopo l’angoscioso Primo Maggio milanese: contiene al suo interno differenti opzioni e consente quindi una vera dialettica tra gli opposti. Non esiste un pensiero unico dell’Expo come vogliono far credere gli improvvisati critici dell’ultimo momento, dentro la Carta di Milano c’è più coscienza critica di quanta la contestazione contro l’evento milanese sia riuscita finora a produrre.

L’impegno di personalità come Vandana Shiva e Carlin Petrini garantisce poi, grazie alla loro comprovata onestà intellettuale, un confronto dagli esiti tutt’altro che scontati. C’è solo da augurarsi che il dibattito sui contenuti abbia il rilievo che merita nei sei mesi dell’Expo e che accenda attorno a sé interesse e - perché no? - contrasto di idee. È obiettivamente vantaggioso per tutti che l’evento milanese non si riveli solo un grande parco divertimenti per adulti e bambini, una sorta di Disneyland in zona Rho-Pero.

La seconda Carta di Milano è quella che i cittadini delle strade attorno a piazza Cadorna hanno iniziato a scrivere appena i luoghi della loro vita quotidiana venerdì nel tardo pomeriggio sono state liberati dall’oppressiva presenza dei black bloc. Le valutazioni del giorno dopo ci suggeriscono che le forze dell’ordine hanno fatto bene a muoversi con cautela e ad evitare che potesse accadere l’irreparabile ma l’onta andava lavata. E così è stato, nella maniera più letterale, più spontanea e insieme civile che fosse possibile immaginare. Quella che ci piace pensare come la seconda Carta di Milano ci parla, dunque, dell’orgoglio di una comunità che vanta dietro di sé grandi tradizioni di coesione sociale e altrettanto larghe ambizioni di recitare un ruolo nel mondo di oggi. Le due cose devono andare assieme, non ha senso contrapporle. Non esiste un km zero delle idee.

Ai nostri figli vanno date più chance globali ed è questa la modalità moderna per creare coesione sociale. Con tutto il rispetto della tradizione sindacale non è con la moltiplicazione dei tavoli di concertazione e/o degli scioperi che tratterremo in Italia i nostri talenti e sapremo attrarre quelli stranieri. Dobbiamo creare occasioni di crescita economica/culturale e l’Expo, senza volerne esagerare la portata, è una. Quella che abbiamo a disposizione ora e non dobbiamo assolutamente sprecare.

La seconda Carta di Milano è in continuità con la storia di una città che è stata culla dei grandi riformismi del Novecento e che nel secolo nuovo a tratti ci è apparsa spaesata, come bloccata da una sorta di complesso del vorrei-ma-non-posso. È una città che ogni anno puntualmente si accende e si apre al mondo per la settimana del Salone del Mobile e poi soffre di incredibili amnesie.

Le responsabilità sono sicuramente di una classe dirigente che non riesce dare continuità alla sua azione, che è globale a singhiozzo. Dalle cose che stanno avvenendo in questi giorni in città però abbiamo la conferma che esiste un serbatoio di valori e di energie ineguagliabili. Grazie a loro Milano è e sarà città aperta.

3 maggio 2015 | 12:28
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Da - http://milano.corriere.it/notizie/politica/15_maggio_03/due-carte-milano-che-parlano-mondo-35340844-f177-11e4-a8c9-e054974d005e.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:01:15 am »

Sindacati e imprese
Le buone pratiche da seguire

Di Dario Di Vico

Il dibattito che periodicamente si apre in Italia sul futuro della rappresentanza dei lavoratori e delle imprese a volte rischia di evocare la famosa Corazzata Potemkin nella lucida rilettura fattane da Fantozzi. Manca quasi sempre il riferimento all’economia reale e alle sue necessità. Si parla solo di nuove leggi e si discute con il preciso scopo di litigare. E invece nella fase che viviamo, a cavallo tra recessione e ripresa, si sente la necessità di orientare gli sforzi di tutti in una comune direzione. Anche perché il terreno è cambiato e continua a cambiare sotto i nostri piedi: come sottolineano gli economisti e gli esperti più avveduti molte delle caratteristiche negative che abbiamo attribuito una tantum alla Grande Crisi sono destinate invece ad accompagnarci anche dopo la sua fine. Ci sono mutamenti dei mercati e del funzionamento delle economie che abbiamo appena incominciato a conoscere in questi anni e che è difficile vengano riassorbiti.

Un peso importante in questi cambiamenti lo giocano le tecnologie che non solo tagliano lavoro in molti nuovi ambiti, ma spostano potere decisionale all’interno dei mercati. Basta pensare alle piattaforme distributive online e le novità che sono destinate a produrre nei servizi, nella comunicazione e più in particolare nel commercio.

A monte avremo quindi cicli produttivi più corti e nervosi, decisioni di investimento più repentine che magari conviveranno con il ritorno dall’estero di lavorazioni, rincorreremo la qualità come tratto identitario della nostra presenza industriale. È in questo contesto che va collocata la riflessione sulle relazioni industriali/rappresentanza e fortunatamente ci sono già esperienze che si sono misurate con queste discontinuità e hanno proposto valide ricette. Sicuramente il caso Fca merita un’attenzione maggiore e un’analisi che non sia solo determinata dai pregiudizi su Sergio Marchionne, ma la meritano anche le intese che in Emilia si sono concluse nelle aziende dell’automotive di proprietà tedesca. Come dimenticare poi l’ampio spettro di temi e soluzioni proposti dall’esperienza Luxottica, quella che può essere considerata la madre del neoriformismo industriale italiano.

Siccome le buone pratiche generano emulazione, in questi anni sono stati conclusi nelle fabbriche - al riparo dalle burocrazie sindacali - numerosi accordi finalizzati a regolare in maniera moderna la lotta agli sprechi, le norme antiassenteismo, la partecipazione alla gestione dei flussi produttivi e questi negoziati hanno trovato nell’estensione del welfare aziendale una nuova modalità di scambio. È probabile che si tratti di intese che dal punto di vista letterale sono ancora indietro rispetto ai problemi che le «economie nervose» del post crisi ci porranno; hanno però già fatto proprio lo spirito giusto. Tentano di tradurre in fatti concreti una visione comune tra azienda e lavoratori sulla qualità delle produzioni e su una prestazione lavorativa che tende a responsabilizzare i dipendenti sui risultati. Non è poco, tra tante rivoluzioni culturali auspicate, celebriamone una che forse ha vinto.

La politica ha poco tempo per sondare davvero la società e il premier disintermediatore, pur visitando i siti produttivi del Paese più di qualsiasi predecessore, cede talora alla tentazione di confezionare in fretta e furia lo slogan del giorno (avrebbe dovuto, per esempio, essere più cauto sugli effetti dell’integrazione Indesit-Whirlpool). Così il prossimo 28 Renzi ha scelto di recarsi a Melfi proprio con Marchionne e di disertare l’assemblea annuale di Confindustria. I cronisti raccontano che l’ha giurata al presidente Giorgio Squinzi per un giudizio eccessivamente critico nei confronti dell’azione di governo. Tutto sommato però non è un gran problema. Caso mai è importante che in quella sede Confindustria tenga fermo il punto che ha annunciato: l’impegno a rimodulare la contrattazione allontanandola da Roma e avvicinandola ai lavoratori e al mercato. Del resto non è stata Marcella Panucci, direttore generale di viale dell’Astronomia, a dichiarare di recente ai microfoni di Radio24 «A me il modello Marchionne piace»?

25 maggio 2015 | 08:31
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_25/buone-pratiche-seguire-65dee54c-02a0-11e5-955a-8a75cacacc9d.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Giugno 02, 2015, 11:59:07 am »

CONFINDUSTRIA
Compito delle imprese è diventare grandi

Di Dario Di Vico

G li esperti attendono i dati di agosto del Pil del secondo trimestre per capire quanto sia robusta la ripresa in corso e di conseguenza quali aspettative sia giusto nutrire. Ma al di là di quel responso - pur importantissimo - emerge sempre più chiaramente che abbiamo bisogno di rafforzare il nostro sistema delle imprese e di aumentare il numero delle aziende capaci di solcare i mari globali. È con questo convincimento che molti osservatori, compreso chi scrive, sono andati ieri ad ascoltare Giorgio Squinzi alla prese con la relazione della sua ultima assemblea annuale da presidente degli industriali. Va detto subito che Squinzi ha letto un buon documento. Il merito che gli va riconosciuto è di aver aggiornato la riflessione confindustriale in materia di relazioni industriali e di aver aperto la porta a quelle «soluzioni innovative in azienda», che se oggi sono solo delle buone pratiche - forse un tantino isolate - devono diventare lo standard della contrattazione di domani. Di un negoziato che si metta definitivamente alle spalle l’alfabeto tradizionale e ne scriva uno nuovo per valorizzare le esperienze di dialogo, responsabilizzazione e partecipazione. È interessante anche che Squinzi abbia, per la prima volta in un’assise ufficiale della Confindustria, aperto alla novità del welfare aziendale definendolo giustamente «il terreno più sfidante delle moderne relazioni industriali».

Il compito del presidente non era agevole anche perché doveva rispondere ai rilievi che solo 48 ore prima il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, aveva rivolto proprio al sistema delle imprese scrivendo nelle Considerazioni finali che «l’attività innovativa in Italia è meno intensa che negli altri principali Paesi avanzati, soprattutto nel settore privato». Visco aveva anche aggiunto come fosse molto inferiore rispetto ai partner europei «la capacità delle imprese italiane di svolgere attività di ricerca e sviluppo al loro interno e di collaborare con università e altre istituzioni di alta formazione». Con molto fair play Squinzi ha replicato sostenendo, con passaggi convincenti e di buona fattura, che in Italia l’industria è stata e resta il vero presidio della modernità. Tanto che «ai più giovani dobbiamo raccontare che noi siamo stati e saremo protagonisti e non comparse della storia dell’industria mondiale, quella già scritta e quella che è ancora da scrivere». Non si può non essere d’accordo, ma è anche legittimo chiedersi se sia solo questa la risposta da dare, non tanto al Governatore quanto a un’opinione pubblica più ampia. Credo che la qualità e le potenzialità della nostra cultura manifatturiera siano alte e magari, proprio per la nostra capacità di mixare grande e piccolo, troveremo prima di altri il terreno della migliore collaborazione possibile tra le aziende-madri e i nuovi fab-lab. Tutto ciò però non basta se non sapremo aprire le aziende, se non faremo quella che l’economista Luigi Zingales ha avuto modo di chiamare «l’abolizione dell’articolo 18 del capitale», ovvero il superamento dei vincoli che bloccano la ricerca di risorse e soci necessari per crescere. Le condizioni ci sono, quella che sembra mancare ancora è la cultura. Potrà sembrare un paradosso, ma da un lato gli italiani anche in questa stagione di vacche magre non hanno smesso di risparmiare e dall’altro le banche fanno

sapere che avranno difficoltà a sostenere economia e imprese come facevano un tempo. Come se ne esce visto che abbiamo bisogno di rafforzare il sistema industriale e aumentare il numero delle multinazionali tascabili?

In un passaggio del suo discorso Squinzi ha chiesto «un abito su misura fatto di credito e finanza» per le piccole e medie aziende che vogliono correre. Tuttavia non ha mai citato la Borsa. È singolare come non si riesca ad aprire un vero canale di collegamento tra Confindustria e Piazza Affari, eppure oggi la strumentazione offerta per approdare sui mercati finanziari è molto più ampia che in passato e di abiti - magari non proprio su misura - ne esistono. Aggiungiamone ancora uno, se è il caso, nel frattempo però va organizzata una pubblica discussione su come portare capitali pazienti agli imprenditori che lo meritano, come convincerli ad aprirsi e quale debba essere il ruolo degli intermediari finanziari e delle stesse banche. Se Squinzi ieri avesse inaugurato questo forum avrebbe mostrato ancora una volta quel coraggio che lo ha portato negli anni a fare della Mapei un vero gioiello.

P.S. Secondo le anticipazioni diffuse da fonti ufficiali, nel testo del presidente a proposito di relazioni industriali avrebbe dovuto esserci un accenno alla possibilità di derogare ai contratti nazionali di lavoro. Un’affermazione che avrebbe dato pienamente ragione ex post a Sergio Marchionne e forse per questo motivo è stata accantonata. Però il gruppo dirigente della Confindustria sembra comunque intenzionato a percorrere questa strada. Vedremo.

29 maggio 2015 | 08:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_29/compito-imprese-diventare-grandi-79ff6c08-05c1-11e5-93f3-3d6700b9b6d8.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Giugno 09, 2015, 11:30:21 am »

La lega e gli imprenditori
La (difficile) via di Salvini dalla ruspa alla proposta

Di Dario Di Vico

Possiamo tranquillamente catalogarle come prove tecniche di Salvinomics. Alla fine il leader leghista ha utilizzato l’appuntamento di Santa Margherita Ligure con i Giovani Imprenditori come un primo test sulla lunga strada che dovrebbe portarlo a guidare un centrodestra unito. Non è un caso che abbia intercalato il suo intervento con diversi «sto leggendo» e «sto studiando». E in effetti, dai segnali che si colgono, Salvini ha intenzione di mettere a punto in tempi brevi le sue proposte su Fisco e welfare in modo da sostenere una sorta di cammino politico dalla ruspa alla proposta. La scelta di fondo è quella del No euro e le tesi che il segretario apprezza sono quelle dell’economista fiorentino Alberto Bagnai, collaboratore del Giornale e del Fatto Quotidiano. Salvini è durissimo nei confronti della Ue così come è ostile verso entrambe le superpotenze economiche, Usa e Cina.

La sua vicinanza a Vladimir Putin non si esaurisce, infatti, nella critica alle sanzioni economiche ma va ben al di là. Non vuole che gli europei firmino il Ttip, il trattato di libero scambio tra il Vecchio Continente e l’America mentre nei confronti della Cina Salvini nutre una diffidenza a tutto campo, dalla denuncia della contraffazione dei prodotti made in Italy fino ad opporsi all’approfondimento dei rapporti tra Bruxelles e Pechino.

Parlando ai giovani industriali il leader leghista si è mostrato pragmatico quando ha sottolineato come nel 2015 non ci sia più niente da inventare e si tratta solo di scegliere le policy giuste copiandole dai Paesi nelle quali hanno funzionato. Un ragionamento che vale per la Scozia «che non fa pagare tasse alle imprese nei primi tre anni» ma soprattutto per la flat tax ad aliquota unica del 15% per contribuenti e imprese. Come già scritto la nuova imposta causerebbe una diminuzione di gettito di 40 miliardi l’anno che i consiglieri di Salvini sostengono possa essere coperta con un’emersione di attività «grigie» e con un sanatoria dei pagamenti all’erario incagliati. I leghisti sostengono anche l’abolizione degli studi di settore e dell’obbligo dei pagamenti con il bancomat. In materia di welfare il segretario è fermamente contrario all’introduzione del reddito di cittadinanza che - a differenza di Roberto Maroni - considera «una forma di anestesia generale» che assomiglia molto ai provvedimenti degli 80 euro renziani. Secondo i suoi ragionamenti se dessimo spazio a provvedimenti di questo genere nel giro di 10/20 anni ci troveremmo con gli italiani a casa con il sussidio e gli stranieri che lavorano per pagare lo stato sociale di un Paese sempre più povero. Un’idea che Salvini caldeggia e sulla quale sta ancora lavorando - infatti non ne ha parlato ieri - è una riforma previdenziale che riguarda i giovani con un’anzianità contributiva fino a 10 anni per garantire loro un assegno sicuro e contemporaneamente non appesantire il carico previdenziale di chi assume. Al datore di lavoro verrebbe chiesta una contribuzione fissa di 5 mila euro sganciata dal calcolo percentuale sulla retribuzione.

Un secondo capitolo importante della Salvinomics riguarda proprio le aziende e se non è la fatidica promessa della luna poco ci manca. I provvedimenti a cui gli uomini che con lui stanno pensando riguardano innanzitutto una totale deducibilità dei costi di impresa, la lista comincia dalle spese per l’innovazione ma si va ben oltre. Si passa poi all’abolizione dell’Imu agricola e quella per i fabbricati e i capannoni destinati ad attività di impresa nei primi 5 anni o in presenza di perdita d’esercizio. Si finisce con l’Irap della quale Salvini vuole l’abolizione totale, anche se prevede un primo step esentando quelle imprese che anche in questo caso chiudono il bilancio in passivo. En passant va segnalato anche che si chiede l’abbassamento dell’aliquota Iva al 4% per tutti i prodotti di filiera italiana per agevolare il consumo di prodotti nazionali e contrastare la concorrenza sleale (cinese).

Accanto a materie e capitoli che investono direttamente gli interessi dei tradizionali mondi di riferimento del leghismo (artigiani e commercianti) il segretario ha usato il meeting dei Giovani Imprenditori per dare qualche anticipazione sulla sua visione di politica del credito proponendo la separazione tra banche d’affari e banche commerciali motivandola con il principio che i risparmiatori devono sapere e i loro soldi vengono investiti per sostenere le imprese o usati per speculazioni finanziarie. Sorprendentemente però Salvini non è in disaccordo, in via di principio, con la creazione di una bad bank che dovrebbe accollarsi le sofferenze bancarie, a patto però che ciò non si riveli un regalo ai grandi gruppi industriali ma che privilegi famiglie e piccoli imprenditori. Siamo in una primissima fase e di conseguenza l’elaborazione leghista risente di numerose approssimazioni ma per come si configurano oggi le varie proposte l’impressione è che si tratti di una piattaforma programmatica tesa a supportare le prossime sortite televisive del leader più che di una coerente (e credibile) elaborazione di governo.

6 giugno 2015 | 15:30
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_giugno_06/difficile-via-salvini-ruspa-proposta-a08dfdd2-0c4f-11e5-81da-8596be76a029.shtml
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