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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278245 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 13, 2007, 04:07:47 pm »

POLITICA IL RAPPORTO

Gli italiani prigionieri della sfiducia

di ILVO DIAMANTI


A un primo sguardo, la chiave di lettura di questo decimo "Rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos per la Repubblica, è la stessa degli ultimi anni. La sfiducia. Ha sfondato ogni limite. Nei confronti delle istituzioni, soprattutto, ha raggiunto un livello mai raggiunto dal 2000 ad oggi.

Questo sentimento colpisce, in particolare, la magistratura, la scuola, oltre, ovviamente, allo Stato. Anche il consenso verso l'Unione Europea, fra i cittadini, cala al di sotto del 50%. Per la prima volta. Mentre la fiducia nella Chiesa diminuisce sensibilmente. Perdono ulteriormente "credito" le banche. Per non parlare delle istituzioni rappresentative: parlamento e partiti.

Pubblico e privato. Giustizia e interessi. Enti locali e nazionali. Poteri civili e religiosi. Nessun riferimento sembra in grado di conservare credibilità e legittimità fra i cittadini. Nulla di nuovo, potremmo dire, per questo Paese. Dove lo Stato, tradizionalmente, non gode di grande consenso. Tanto più da qualche tempo.

Tuttavia, questa volta, nell'aria si coglie qualcosa di nuovo. Basta considerare con attenzione la "sfiducia", la quale può assumere significati molto diversi.
C'è, ad esempio, una sfiducia "costruttiva", che si esprime quando esiste un'alternativa all'ordine esistente. Ma esiste anche l'inverso: una fiducia "distruttiva", che spazza via un sistema privo di legittimità e consenso. Ancora: c'è la sfiducia "critica", che sfida e sanziona le istituzioni, per costringerle a correggersi. Oppure: la sfiducia "democratica", contrappeso alle tentazioni del potere. Garanzia di libertà. Per citare Benjamin Constant: "Ogni buona costituzione è un atto di sfiducia". Ma c'è anche una sfiducia "cinica", espressa da individui "apoti" o "estranei".

Che intendono "chiamarsi fuori": per ragioni tattiche, opportunistiche; oppure, al contrario, per dissenso radicale. In ognuno di questi casi, però, la sfiducia rivela un orientamento "strategico" dei cittadini nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Questa fase, invece, ci sembra caratterizzata da un diverso tipo di sfiducia, che definiremmo "apatica". Senza passione.

Quasi indifferente. Di certo non finalizzata: né al confronto né allo scontro. Ma, soprattutto, non proiettata nel futuro. E' l'aspetto che distingue maggiormente questo Rapporto. Anche nei precedenti emergeva un diffuso sentimento di insoddisfazione retrospettiva e preventiva. Convinti, i cittadini, che "se ieri le cose sono andate male, domani andranno anche peggio".

La "sfiducia apatica", però, va oltre. Non evoca pessimismo, ma eclissi del futuro. Incapacità di guardare e di pensarsi oltre il presente. Anche perché, oggi, il linguaggio della politica e delle istituzioni risulta largamente incomprensibile. Due italiani su tre, d'altronde, ritengono che, ormai, non vi siano più grandi differenze tra i partiti. Certo: metà di essi pensa che "senza partiti non vi sia democrazia"; ma l'altra metà, di riflesso, la pensa in modo diverso. Anzi, circa il 40% sostiene che, anche senza partiti, la democrazia possa funzionare egualmente bene.

Ancora: il 54% degli italiani crede che i partiti debbano disporre di una "base di iscritti". Quindi: di un'organizzazione. Ma il 60% preferirebbe che la scelta del leader scavalcasse ogni vincolo associativo e avvenisse "attraverso elezioni aperte a tutti gli elettori interessati". La stessa indecisione si coglie di fronte alla distinzione fra destra e sinistra.

Insomma, la società italiana oggi appare "confusa". Priva di appigli a cui afferrarsi, per trovare stabilità e sicurezza. Ma anche di punti di riferimento, in base a cui orientarsi e aggregarsi. (Non a caso il Censis, nell'ultimo rapporto, per descrivere la società italiana ha parlato di "mucillagine": un'entità spappolata, senza coesione e senza spessore). Perché gli appigli e i riferimenti mancano. O sfuggono, cambiano di continuo. Oppure ancora: sono incomprensibili. Dal 1991, d'altronde, si susseguono progetti istituzionali, elettorali e politici sempre diversi, sempre provvisori.

Espressi in un linguaggio sempre criptico. Partiti che cambiano nome e cognome; coalizioni a "geometria occasionale". Modelli istituzionali e leggi elettorali in continua evoluzione. Delineano una geografia confusa, dai confini imprecisi. Tra Spagna, Germania, Inghilterra e Francia. Un'ardita opera di sincretismo europeo. Dal sondaggio su cui si basa questo Rapporto, d'altronde, emerge che circa un elettore su due, fra quelli che guardano con favore il proporzionale, valuta in modo altrettanto positivo anche il maggioritario. Non ha in mente un modello diverso e specifico, ma si è, semplicemente, è perduto nel contorto dibattito sui sistemi elettorali. E non si raccapezza più.

E', inoltre, difficile immaginare il "futuro" delle istituzioni in un clima così instabile. Quando il leader dell'opposizione assicura che questo governo è destinato a cadere. Domani. La settimana prossima. Al massimo fra un mese o due. Quando i leader della maggioranza e gli stessi ministri chiedono continue verifiche, minacciano la sfiducia. Senza soluzione di continuità. Difficile non provare sconcerto e senso di precarietà quando idee, valori, norme, istituzioni - i riferimenti della vita pubblica e dell'identità personale - appaiono tanto confusi.

Così, le stesse fondamenta del sistema rivelano qualche scricchiolio un po' sinistro. Il consenso nei confronti della "democrazia" rimane alto. Espresso dal 68% dei cittadini. Ma è in calo sensibile, rispetto agli ultimi anni. Visto che quasi una persona su tre pensa che, almeno per qualche tempo, se ne possa fare a meno. Questa "larga minoranza" cresce ulteriormente nella popolazione giovanile, fino a raggiungere il 40% fra coloro che hanno meno di vent'anni.

I giovani, peraltro, riflettono e riproducono, accentuati, tutti i principali sintomi della sindrome da "presente infinito", che oggi affligge la società italiana. Stressata da orientamenti ambigui e stridenti. Essi, infatti, sono coinvolti in ogni forma di partecipazione. Impegnati a percorrere le vie della protesta. Convinti, più degli altri, che non ci sia bisogno dei partiti. Che destra e sinistra siano distinzioni indistinte. I giovani: esprimono nei confronti di Beppe Grillo il maggior grado di simpatia. Molto superiore a quella attribuita ai principali leader di destra e sinistra. Prodi e Berlusconi. Veltroni e Fini.

Qui è il paradosso italiano del nostro tempo. Questa miscela di sfiducia "apatica", mobilitazione sociale permanente, immaginazione istituzionale e politica senza freni. Questa scena affollata di figure, sigle, bandiere, parole. Non evocano l'antipolitica, ma l'iperpolitica. Troppa politica: sui media, nelle piazze, nei gazebo. Genera instabilità, alimenta distacco, soffoca il futuro.


(13 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 18, 2007, 03:24:14 pm »

ECONOMIA

Un'inchiesta del New York Times parla di un Paese più povero e infelice. E' vero?

Una lunga e faticosa trasformazione è in atto. Ecco dove ci porterà

Declino, l'Italia ha sempre più paura

Che fine ha fatto il Belpaese?

di ILVO DIAMANTI

 
ABBIAMO discusso fin troppo di "declino", negli ultimi anni. Per questo, probabilmente, il ritorno prepotente di questa "parola" nel dibattito sul destino dell'Italia ha suscitato qualche reazione stizzita e, in generale, una certa prudenza.

Perché il declino è stato usato in altre, precedenti occasioni come una profezia, perlopiù irrealizzata (per nostra fortuna). Oppure come un argomento polemico, volto a indebolire le leadership di governo. Una discussione tutta "interna" al condominio italiano.

Come quella che, alcuni anni fa, ha coinvolto economisti, analisti, giornalisti, attori politici. Divisi in due fazioni: declinisti e antideclinisti. I primi sostenevano che l'economia del Paese perdeva velocità e competitività rispetto agli altri Paesi. Perché l'impresa era ammalata di nanismo, gli investimenti latitavano, le esportazioni calavano. Gli antideclinisti affermavano il contrario. Che si trattava di un ristagno prodotto da fattori e fatti internazionali. A partire dalla crisi provocata dall'11 settembre.

Poi, la discussione si era sopita. Anche perché, nel 2006, molti indicatori avevano cambiato segno. Si era parlato, allora, di ripresa. Il che, ovviamente, mal si combina con il concetto di "declino". Il quale delinea una parabola che ha avviato - irreversibilmente - la fase discendente. Non ammette "riprese". Al massimo, qualche sussulto.

Le date, peraltro, contribuiscono a chiarire i motivi sottesi ai sospetti suscitati da questo dibattito. Acceso negli anni di Berlusconi, si spegne quando al governo torna il centrosinistra, guidato da Prodi. Il quale non possiede poteri taumaturgici tali da invertire la parabola dello sviluppo. All'improvviso. In coincidenza (immediata) con il ritorno a Palazzo Chigi.

"Declino", per questo, è divenuto un concetto ambiguo. Una parola dal significato dubbio. Da usare con cautela. Un lemma del linguaggio polemico della politica. A cui si ricorre per stigmatizzare un governo "nemico".

Così, durante l'esperienza del governo Prodi, si assiste al "declino del declino". Anche se gli indici economici mostrano un andamento contraddittorio, inferiore alle attese dell'avvio. Per prudenza. Per timore di venire nuovamente smentiti dai fatti. E dagli "spiriti animali" (richiamati dal presidente Napolitano, a New York, qualche giorno fa) che attraversano la società e l'impresa italiana. Capaci, altre volte, di tirarsi fuori dalla palude afferrandosi per i propri capelli. Come il barone di Münchhausen.

Sentir parlare ancora di "declino", in modo brutale, sul New York Times, ha suscitato sconcerto. Ha, inoltre, indispettito e "insospettito" un poco. Visto che raramente il Nyt dedica tanto spazio al nostro piccolo Paese di periferia.

Tuttavia, l'autore, Ian Fisher, non è italiano. Non è frenato dalle nostre reticenze e resistenze "locali". Né ha timori nel riproporre stereotipi e luoghi comuni. Ma, soprattutto, non ha puntato sugli argomenti del passato, più o meno recente. L'andamento claudicante dell'economia c'entra poco nella sua ricostruzione.

Che, invece, ha allineato una sequenza di elementi a noi tutti molto noti. L'invecchiamento della popolazione, il calo demografico, i cervelli costretti a emigrare, il sistema politico bloccato, la fatica di fare riforme, il peso del debito pubblico, il distacco dei cittadini dalla classe politica, simbolizzato da Beppe Grillo.

Un ritratto divenuto, infine, di "senso comune". Documentato, per ultimo, dal "Decimo rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos-laPolis e pubblicato sul Venerdì di Repubblica nei giorni scorsi. Con una differenza significativa. L'uso di quella parola. "Declino". Suona come una condanna senza appello. Perché sancisce un destino. Tuttavia, se ci guardiamo dentro, se interroghiamo i nostri sentimenti e i nostri atteggiamenti, i primi a evocare il "declino", anche senza ammetterlo, senza pronunciarne la parola, siamo proprio noi.

Gli italiani, infatti, immaginano il prossimo futuro in modo pessimista. Sotto il profilo economico nazionale e familiare. Per quel che riguarda sicurezza, ambiente, servizi. Per non parlare della politica e delle istituzioni.
Dal punto di vista delle generazioni, ormai, i giovani sono sempre più rari e periferici, nelle gerarchie sociali e professionali. Ma, soprattutto, non si percepisce come il loro destino possa cambiare.

Circa due italiani su tre sono convinti che i giovani, nel corso della vita, non riusciranno a migliorare la posizione sociale raggiunta dai loro genitori (Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007). Ancora: una componente rilevante della popolazione ritiene di essere "scivolata" più in basso, nella stratificazione sociale, negli ultimi anni. Un terzo di coloro che si definiscono "ceto medio" denunciano un peggioramento della propria condizione e posizione. La stessa sindrome da "declino" è avvertita da quasi la metà di quanti si sentono "classe operaia", oppure ceto popolare (nel complesso, ancora la maggioranza: 40% della popolazione).

Non stiamo parlando di "dati di realtà", ma di percezioni, atteggiamenti, sentimenti. Cioè, lo stesso. Perché noi siamo ciò che ci sentiamo. E oggi ci sentiamo insicuri e "sfiduciati". Soprattutto quando alziamo gli occhi e ci guardiamo intorno. Quando osserviamo il sistema politico, le istituzioni. La nave in cui siamo imbarcati, tutti insieme. Gli italiani non riescono più a coglierne la direzione, la rotta, la destinazione. Perché la vedono "ferma".

Sentono i timonieri discutere fra di loro senza accordarsi su un itinerario specifico. Peggio, dopo aver navigato "a vista" per anni, colgono parole già udite. (Ricordate il proporzionale?). Per cui li assale il sospetto che si stia tornando indietro. E, in fondo, ne provano quasi sollievo. Perché rientrare al porto da cui si è partiti tanti anni prima è meglio che zigzagare all'infinito intorno allo stesso punto.

Ecco: se il "declino" indica questa attesa di qualcosa che non arriva perché neppure sappiamo più di che si tratta; ce ne siamo dimenticati. Come i soldati asserragliati nel fortino in mezzo al "deserto dei tartari", raccontato da Dino Buzzati. Con la differenza che, in questo caso, il destino (e il nemico) è senza nome. Se tutto questo è vero, allora la definizione funziona. Siamo in declino. Non riusciamo più a spingere sull'acceleratore. A navigare verso un orizzonte, magari lontano e indefinito. Come ogni orizzonte. Tanto meno riusciamo a stabilire una mèta vicina. Un porto nel quale fermarsi per un po', nell'attesa che la nebbia si sollevi. Per questo, respiriamo sfiducia a pieni polmoni.

Tuttavia, non è vero che siamo "infelici", come afferma il Nyt. Nove italiani su dieci si dicono, al contrario, personalmente "felici" (Osservatorio su Capitale sociale di Demos-coop: aprile 2007). Appunto: "personalmente". Felici "nel loro piccolo". Nel chiuso delle relazioni familiari, della cerchia dei rapporti tra amici. Nelle loro case. E, per questo, un poco claustrofobici.

Gli italiani: sprigionano i loro "animal spirits" soprattutto quando agiscono da soli. Oppure in piccoli gruppi, piccole imprese, piccole lobbies, piccole bande. Capaci di scatenare piccoli conflitti dal grande impatto. Gli italiani. Felici a casa propria, ma intimoriti dagli "altri". Dagli stranieri. Una società sterile che ha paura di farsi "contaminare". E medita di rinchiudersi.
La parola "declino", forse, non è del tutto adatta a raffigurare lo stagno in cui siamo immersi. Da cui stentiamo ad uscire, perché ci manca una mappa, una guida, un navigatore.
Però, se ci irrita, se ci scuote, se fa reagire: allora va benissimo.

(18 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Dicembre 23, 2007, 11:06:20 pm »

CRONACA MAPPE

L'eclissi della bontà

di ILVO DIAMANTI


ALLA VIGILIA del Santo Natale dobbiamo denunciare la scomparsa di un ospite atteso, soprattutto in questi giorni. La Bontà. Da anni, ormai, le sue visite erano divenute saltuarie. Sporadiche. Ma quest'anno non l'abbiamo proprio vista. Forse si è nascosta. Inibita da qualche cartello, che, alle porte della città, la invitava a girare al largo. Su Google, nonostante la stagione propizia, digitando "bontà", la ricerca propone 1.200.000 risultati (link). Poco più di "egoismo". Mentre la parola "inganno" ne restituisce 100.000 in più. Essere o apparire "buoni", d'altronde, non è più considerato un fattore di successo. Ammesso che lo sia mai stato. Oggi, semmai, è un segno di debolezza. In politica, al governo, nell'amministrazione e nella società.

Prodi: ha dovuto contraddire il suo aspetto pacifico e morbido. E se non gli riesce di sembrare cattivo, oggi, almeno, tutti gli riconoscono il merito della "caparbietà". Della testardaggine. Deciso a resistere resistere e resistere. A ogni costo. Veltroni. Ha rinnegato l'invenzione del "buonismo". Dottrina, linguaggio e, al tempo stesso, fisiognomica. Oggi, Walter Veltroni prosegue nella via del "dialogo", che riconosce l'esistenza e la legittimità dell'altro - avversario e non più nemico. Ma è ben deciso a decidere. A spingere il Pd oltre l'Unione. Oltre la mediazione. Perché, in politica e nella vita, oggi non si è credibili senza fare i "duri".

Come Gianfranco Fini. Agevolato dalla biografia politica personale. Oggi è in "guerra": non solo con gli avversari, ma anche con gli alleati. Sopra tutti: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere. L'eterno sorriso dell'uomo a cui piace piacere. Protagonista del romanzo popolare della Seconda Repubblica. Una fiction trasmessa senza soluzione di continuità e a reti unificate. Da qualche tempo si sposta da una piazza all'altra agghindato come un esistenzialista degli anni Cinquanta. Un personaggio di Beckett. O, meglio, un rivoluzionario, come l'ha definito, con affetto e ironia, il fedele Confalonieri: "Le immagini di piazza San Babila stracolma di gente che lo circonda, e lui che sale sul predellino dell'auto per salutare, mi ricordano l'arrivo di Lenin in Russia a bordo del treno piombato".

Ma più dei politici nazionali, di governo e di opposizione, a stigmatizzare la "bontà" - come un vizio più che una virtù - sono i sindaci. Definiti, talora, "sceriffi". Formula coniata, anni fa, da Giancarlo Gentilini, sindaco di Treviso per dieci anni (e oggi "sindaco aggiunto"). Nemico giurato di mendicanti, zingari e immigrati. Al cui indirizzo ha lanciato iniziative e invettive dal forte impatto simbolico. Anche se, nei fatti, ha fatto molte cose "buone" (guai a dirglielo, però; la prenderebbe come un'offesa), visto che il grado di integrazione della sua città, certificato dalla Caritas (meritoria organizzazione dal nome fuori moda), è tra i più elevati d'Italia.

Il suo esempio, però, è stato seguito dai sindaci di altre città. Di destra e di sinistra. Da Verona a Bologna, passando per Cittadella e Firenze. Perfino a Roma. Tutti impegnati ad assumere iniziative "emblematiche" contro accattoni, lavavetri, rom, romeni, immigrati-con-meno-di-500-euro-di-reddito-al-mese. I sindaci, d'altronde, più delle altre autorità pubbliche, sono incalzati ogni giorno dalle pressioni dirette ed esplicite dei cittadini. Tuttavia, alcune loro scelte (le più clamorose), più che alla soluzione del problema, sembrano finalizzate a "rassicurare". Esibendo la "tolleranza zero". Insomma: meglio sceriffi che missionari.

L'eclissi della bontà, d'altronde, oggi si riflette in tutte le parole della stessa "famiglia" semantica. Lo dimostra l'impopolarità delle formule che evocano dialogo, mediazione, condivisione. Per esempio: la "concertazione". Per non parlare della "cooperazione". Offuscata da dispute che intrecciano politica e finanza. Per la stessa ragione, è cambiato perfino il significato della "sicurezza". Fino a vent'anni fa era, per definizione, "sociale". E riguardava la salute, la previdenza, il lavoro. Il futuro delle persone e delle famiglie. Oggi, invece, (come mostra una recente ricerca di Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007) evoca, per riflesso pavloviano, paura dell'altro. La criminalità comune, ma anche gli immigrati. Le minacce all'incolumità e al domicilio personale. Di conseguenza, alimenta la richiesta di militarizzare il territorio. Di sindaci sceriffi. Appunto.

La bontà si è eclissata anche nelle relazioni di vita quotidiana. D'altronde, 7 persone su 10, in Italia, ritengono che "gli altri, se ne avessero l'occasione, approfitterebbero della mia buona fede" (Demos, novembre 2007). Per questo, anche se si è buoni, conviene dissimularsi. Non rivelarsi come tali. Ma dimostrarsi ostici, spigolosi, furbi. Quantomeno a fini preventivi.

Il linguaggio "pubblico" si è evoluto (si fa per dire...) di conseguenza. Il turpiloquio non è più tale da tempo. Non per caso, la manifestazione, forse, più clamorosa contro la classe politica è stata promossa da Beppe Grillo al grido "Vaffa...". D'altronde, la rissa e l'aggressione (non solo) verbale fanno parte del repertorio di ogni programma tivù, in onda su ogni rete, a qualsiasi ora.

La bontà, invece, è neutralizzata nello "spettacolo". Disciolta nelle diverse varianti del format di Telethon (iniziativa, in sé, meritoria), che scivola da una trasmissione all'altra, da una rete all'altra. Così vediamo le stesse figure che, fino al giorno (e a un'ora) prima, si occupavano dei delitti più efferati e morbosi del momento, cambiare improvvisamente personaggio. Indossare una sciarpa, un nastro, un distintivo. Raccogliere fondi per una "buona" causa. Per tornare, subito dopo, allo stile e al linguaggio di sempre. Così lo stimolo sociale della bontà viene risvegliato, ma a distanza. Ciascuno reagisce individualmente, da solo. Un sms e via. Lo spettacolo continua.

Naturalmente, la "bontà" non è scomparsa. Anzi si sviluppa. È un bisogno biologico. Una pratica diffusa, che si traduce in mille attività solidali e volontarie. Cui partecipa una quota estesa, e crescente, di popolazione. In modo nascosto. Io buono? Per carità! Buono sarà lei!

Tuttavia, la pretesa contraria resta, appunto, una pretesa. L'ascesa di una classe politica inflessibile e muscolare è una leggenda. Un artifizio retorico. In questo Paese dove i governi non riescono a decidere. Prima Berlusconi, abile a deliberare soprattutto sulle questioni che lo riguardavano direttamente. Oggi Prodi, in difficoltà nel contrastare la sfida di categorie professionali piccole ma agguerrite: camionisti, tassisti, controllori di volo. Mentre i sindaci dichiarano guerre che poi non combattono. (Perché non ne hanno i mezzi). Contro pericoli il cui peso emotivo è molto superiore a quello reale. I furti in appartamento, ad esempio, percepiti come una minaccia concreta dal 23% degli italiani (Demos per UniPolis). Mentre l'effettiva incidenza del reato è lo 0,2%.

Insomma, la "cattiveria", più che un volto, è una maschera. Così si spiega il bagno di folla riservato a Sarkozy, a Roma. Lui sì capace di decidere, anche a costo di scatenare conflitti e fratture sociali. In aperto contrasto con tutti. Lavoratori dei trasporti, studenti, operai, bande delle banlieues e intellettuali "da caffè". Senza arretrare. Incrociando, semmai, la spada e il glamour: gli scioperi, Cecilia e Carla Bruni.

In Italia, invece, la fermezza appare, principalmente, uno stile esibito in pubblico. Cui non corrispondono comportamenti coerenti. L'eclissi della bontà, per questo, non è il prodotto di un diverso e opposto codice etico. Né, tanto meno, di un diverso e opposto modello di azione. È, invece, la maschera di un Paese impotente e indeciso. Un Paese in penombra, dove non si intravedono valori e uomini "forti". E, se anche emergessero, sarebbe difficile riconoscerli. Perché il Bambino, se oggi nascesse in Italia, non troverebbe ad attenderlo i tre re Magi. Ma Vespa, Mentana e Cucuzza. La vita in diretta. L'eterno presente. Dove non c'è spazio per la "buona" novella. Ma neppure per quella cattiva.

(23 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 25, 2007, 07:21:59 pm »

Rubriche » Bussole

Una generazione difficile (da comunicare)

Ilvo Diamanti

 
Confesso che non avrei immaginato di ricevere tanti messaggi, di essere oggetto di tanti commenti "postati" sui blog, dopo le Mappe e le Bussole dedicate, nelle scorse settimane, ai giovani, agli studenti e alle città universitarie. Invece, continuano a giungere. Quasi tutti polemici nei miei confronti. A volte (soprattutto nei blog) acidi.

Gli studenti Erasmus dell'Università di Torino ne hanno fatto oggetto di una esercitazione: lettura dei miei testi e successivo commento. Puntualmente critico. Naturalmente, tante reazioni sono segno di interesse. Per questo, le ho lette con soddisfazione. Tutte. Anche quelle "politicamente scorrette" (non poche). Magari mi hanno irritato un poco, all'inizio. Ma solo all'inizio.

Tutta questa attenzione, però, mi ha sorpreso. In particolare, mi hanno spiazzato le critiche rivolte (in larga misura) ad aspetti che, nei miei testi, stanno sullo sfondo; occupano un posto minore. Ancor più le contestazioni a valutazioni ricavate dai miei articoli, ma che non mi appartengono. E sono di segno opposto rispetto a ciò che intendevo sostenere. Evidentemente, il messaggio lanciato sui media, spesso, viene recepito e interpretato in modo molto lontano dalle intenzioni originarie. Per colpa di chi "comunica", soprattutto. (Mia, in questo caso). Ma anche perché viene percepito e decifrato in base ad aspettative specifiche. Così, per quanto io abbia dedicato due distinti e successivi articoli alle medesime questioni, alcuni contenuti hanno suscitato, in molti lettori, opinioni in netto contrasto con quanto intendevo esprimere.

1. Il riferimento al delitto di Perugia, che ha sollevato tanta morbosa attenzione. Per me era solo uno spunto. L'occasione per entrare nella realtà delle città e della "socialità" universitaria. Molti lettori, invece, l'hanno considerato la chiave di lettura dei miei testi. Ritenuti, per questo, un esercizio di voyeurismo perbenista. Ispirato - viziato - dall'intento di stigmatizzare l'intera categoria degli "studenti fuori sede", come si trattasse di una popolazione dedita a pratiche dissolute e goderecce.

2. Da qui la seconda "accusa": generalizzare episodi isolati ed eccezionali all'intera realtà studentesca (peggio: giovanile). Un problema denunciato soprattutto dagli studenti stranieri dell'Erasmus; che svolgono una parte degli studi universitari in atenei di altri Paesi.

3. Dietro a queste "critiche" c'è l'irritazione suscitata da alcuni passaggi dei miei articoli. In particolare, aver definito gli studenti delle città universitarie "non-cittadini" che vivono in "non-città" (echeggiando un concetto di Marc Augé, molto noto: i "non-luoghi"). Quasi degli "apolidi", insomma.

Tornare un'altra volta sullo stesso luogo, nelle stesse città, sullo stesso argomento, a questo punto, può risultare noioso e ridondante. Ma è proprio ciò che, in effetti, sto facendo. D'altronde, può essere utile chiarire alcuni concetti, evidentemente equivoci, viste le reazioni. Assumendomi il rischio - a questo punto calcolato - di sollevare nuovi dubbi, senza risolvere quelli emersi.

Tuttavia, mi pare importante precisare, soprattutto, perché io abbia parlato - consapevolmente - degli studenti come "non-cittadini" che popolano "non-città".
Le "città", per definizione, sono luoghi abitati da "cittadini". Cioè: persone "residenti", titolari di diritti e di doveri. In modo attivo. In quanto sono soggetti alle leggi, pagano le tasse. Partecipano alla formazione del governo locale scegliendo, con il voto, gli amministratori; oppure attraverso l'associazionismo di rappresentanza sociale ed economica (quello studentesco opera solo dentro all'università).

Gli studenti "fuori sede" hanno il domicilio nelle città in cui studiano, ma non vi risiedono. (Gli studenti Erasmus, poi, risiedono in altri Paesi). Certo, sono soggetti alle medesime regole e alle medesime leggi dei residenti, ma non hanno rappresentanza né poteri. Per questo sono "non-cittadini". La "città" in cui risiedono è quella dove vive la loro famiglia. Sono "irresponsabili": perché non sono chiamati a "rispondere" di ciò che riguarda la loro vita. Il loro luogo di vita. Mentre, parallelamente, le autorità locali non si sentono "responsabili" verso di loro. Perché gli studenti non votano.

Tuttavia, nelle città universitarie gli studenti costituiscono una componente rilevante, talora dominante. Non solo dal punto di vista demografico, ma anche economico. Sono una fonte di reddito, per chi affitta stanze e camere, per il commercio e l'artigianato locale. Ma sono anche un fattore di spesa: perché è l'amministrazione locale che gestisce servizi e infrastrutture. Bisogna tener conto, ancora, che gli stili di vita della popolazione dei residenti e degli studenti, per alcuni versi, contrastano. Per cui si assiste, non di rado, a conflitti fra i due mondi sociali. Gli studenti e i residenti: vivono separati. Vicini e al tempo stesso lontani. Le scelte delle amministrazioni locali, tuttavia, sono condizionate dai sentimenti e dalle reazioni dei residenti che li hanno eletti, da cui dipende la loro legittimazione, la loro futura rielezione. Per questa ragione ho parlato di non-città. Per indicare quei contesti abitati perlopiù da non-residenti. In questo caso, dagli studenti. Che sono non-cittadini, perché estranei ai diritti-doveri della rappresentanza. (Non) città che si riducono a contenitori per attività di consumo. E riducono la popolazione (studentesca) in consumatori.

In contesti di questo tipo, d'altronde, si indeboliscono i legami sociali e la presenza dell'autorità. Certo, la realtà giovanile è densa di reti interpersonali, di rapporti di amicizia. Però, per ragioni generazionali, comprensibili, è riluttante ai vincoli e ai controlli. Anzi: per definizione, li contraddice e li contesta. E' ambiente espressivo, emotivo, ricreativo. Inoltre, gli studenti stringono legami (anche affettivi) con l'ambiente locale talora saldi. Ma perlopiù sono di passaggio. Ho usato, per questi motivi, la formula "comunità artificiale".

Le città universitarie, per le stesse ragioni, costituiscono un caso esemplare della condizione dei giovani. Che vengono parcheggiati dagli adulti in luoghi separati, dove vivono fra loro. Una zona (relativamente) franca da regole e autorità. Dove agiscono con limitate responsabilità, pochi poteri e, in fondo, diritti.

Non si tratta di un invito a tenerli di più in famiglia, insieme ai genitori. Al contrario: penso che i giovani debbano uscire di casa presto. Non solo per studiare. Ma per lavorare e per vivere. Non solo da studenti. Ma da cittadini. Oggi, invece, sette su dieci, a ventinove anni, risiedono ancora con i genitori. Perché non hanno ancora un lavoro stabile, una casa propria (costerebbe troppo). Inoltre (come ha osservato Guido Maggioni), è finito il tempo in cui la famiglia, per educare i figli, usava "mezzi autoritari e coercitivi".

Quando (fino agli anni Sessanta) ci si sposava "anche" per fuggire da casa, per liberarsi all'autorità autoritaria dei genitori. Per vivere la propria vita. Per diventare cittadini. Oggi, non ce n'è più bisogno. I giovani possono sperimentare la loro autonomia (relativa) presto. Fin dall'adolescenza si allontanano dalla famiglia, per studiare le lingue, fare corsi di perfezionamento, stages. L'Erasmus. Sono più liberi. Ma al tempo stesso più dipendenti. Figli insicuri di genitori insicuri. I giovani. Condannati a una lunga transizione verso una maturità che non arriva. Purtroppo per loro. E per noi.


(P.S. Fra i motivi polemici nei confronti dei miei articoli, ritorna, frequente, un fastidio stilistico. Verso la mia prosa, che presenta poche virgole e troppe virgolette, oltre a uno sterminato numero di punti - in libertà. Ma, a questo proposito, ho poco da spiegare. Se non che i miei testi si possono trasmettere facilmente per sms)


(24 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:09:25 pm »

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LD leader della LdC

di Ilvo Diamanti


Lamberto Dini, leader dei Liberaldemocratici, ha dichiarato che il suo partito ha levato la fiducia al governo. Che Prodi, quindi, non ha più la maggioranza. Al Senato.

Liberaldemocratici. O forse Liberal Democratici: LD. Una sigla che non ricordiamo di aver visto alle elezioni del 2006. Anche se tante erano le liste, in quell'occasione, che qualcuna, sicuramente, ci è sfuggita. Peraltro, liberaldemocratico è un attributo cultural-politico diffuso. Forse solo gli esponenti della sinistra radicale lo rifiutano. Ma non tutti, probabilmente. Tuttavia, non crediamo che Lamberto Dini parli a nome loro. Dei liberaldemocratici di tutto il Paese. Anche perché dubitiamo che i liberaldemocratici si riconoscano - tutti quanti - nella sua figura. Con tutto rispetto: Ciampi è un'altra cosa. Riteniamo, invece, che si riferisca davvero a un partito. Che, riassunto in sigla, d'altronde, coincide con le sue iniziali. LD come Lamberto Dini.

Già in passato aveva usato lo stesso acronimo. Ma allora si chiamava Lista Dini. O meglio: Rinnovamento Italiano. Presente alle elezioni europee del 1999. Dove ottenne l'1,1%. In cifre: 350mila voti. Immaginiamo che Lamberto Dini, leader di LD, parli a nome loro, quando sostiene che il governo non ha più la maggioranza dei consensi. Non ha più la fiducia del Paese. Ridotta al 25% degli elettori. Per la defezione dell'1,1% degli elettori che egli rappresenta. Forse, però, quando LD parla di un partito, non fa riferimento a "elettori". Ma a singoli senatori. Dini, in primo luogo. Un partito senatoriale, dunque. Da non confondersi con gli altri "nanetti", su cui ironizza, regolarmente, Giovanni Sartori. Perché l'Udeur di Mastella, i socialisti di diversa collocazione, perfino i pensionati si sono presentati alle elezioni. I loro voti - magari pochi - li hanno presi. LD, invece, dopo il 1999 si è embedded in altri contenitori.

L'ultima traccia della sua base elettorale risale a quei 300mila voti o poco più ottenuti alle europee di otto anni fa. Chissà: nel frattempo potrebbero essere cresciuti. Per cui immaginiamo che LD vorrà presentarsi con la propria lista, da solo, alle prossime elezioni. Meglio se con una nuova legge elettorale, in cui la coalizione non sia "premiata" e non divenga, quindi, una soluzione obbligata. In cui ogni lista sia costretta a correre con le proprie gambe. Oggi, però, abbiamo il sospetto che LD indichi un PID: Partito individuale Dini. O, meglio, un PdI. Partito di individui, che si associano per esercitare il loro potere di "ricatto" in Senato. Per il bene del Paese. Ma soprattutto il proprio. Chiamiamolo, allora, più correttamente LdC: Lista della Casta.

(27 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 30, 2007, 12:30:32 pm »

POLITICA MAPPE

L'uomo anfibio tra pubblico e privato


ROMANO Prodi, negli ultimi giorni, ha polemizzato contro la "sfiducia artificiale". Quel malessere diffuso, fra gli italiani, cui hanno dedicato pagine intere autorevoli testate straniere. Il presidente del Consiglio non contesta queste analisi. D'altronde, tutti i sondaggi le confermano. Ma sostiene, in modo esplicito, che si tratta di sentimenti amplificati.

Costruiti, in qualche misura, "ad arte". Da un'opposizione irresponsabile. Ma anche dai media, pronti a trasformare sussurri in grida. Offrendo ai cittadini una rappresentazione pessimista; in contrasto con la realtà e con ciò che il governo, concretamente, "fa". Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha contraddetto, con puntiglio, il "declinismo". Le letture che - in Italia e fuori - definiscono il nostro Paese depresso e stagnante. Dal punto di vista economico, demografico e del sentimento. C'è da scommettere che dedicherà una parte, almeno, del suo discorso di fine anno alla questione della fiducia. O del suo complemento: la sfiducia. Per presentare il 2008 come una svolta verso il futuro. Non come la pallida replica dell'anno che se ne va.

Si tratta di polemiche, in parte, giustificate. È vero: la sfiducia è ormai un argomento (forse il principale) di lotta politica agitato contro l'avversario. Da molto tempo. Da quando, cioè, con l'avvento di Berlusconi, si è affermata la "democrazia del pubblico", fondata sulla crescente importanza della personalizzazione, dei media e dei sondaggi.

È altrettanto vero che i media contribuiscono ad alimentare la sfiducia e l'insicurezza. D'altronde, i "buoni sentimenti" non fanno notizia. Non alzano l'audience. Vuoi mettere l'angoscia, la paura, l'odio? La bontà e la carità funzionano solo nelle fiction dedicate ai santi del passato, anche recente. Si tratti di Wojtyla o di San Francesco.

Queste "colpe", tuttavia, non assolvono la politica dalle sue responsabilità. Il senso di precarietà prodotto dall'azione di governo, i conflitti che agitano la maggioranza e l'opposizione. Ma non possono neppure svalutare le radici sociali e soggettive di questo sentimento. Che, invece, sono largamente rimosse. La sfiducia, l'incertezza e la delusione non costituiscono vizi dell'Italia d'oggi. Attraversano i principali Paesi occidentali da almeno vent'anni. Con poche pause. La sfiducia, peraltro, ha una "meccanica" particolare, come abbiamo sottolineato altre volte. Si concentra soprattutto sul "pubblico", ma anche sugli "altri".

D'altronde, il compito della tutela sociale, sanitaria, previdenziale dallo Stato si è spostato progressivamente sui privati. E sul "privato". Il lavoro è sempre più frantumato e temporaneo. Mentre i riferimenti che offrivano ideologia, identità e aggregazione si sono indeboliti. Fatti noti a tutti. Riassunti dal sociologo Richard Sennett nel "declino dell'uomo pubblico". Flessibile perché indebolito dalla "corruzione del carattere". Un fenomeno che si è affermato insieme alla "privatizzazione". Non solo in ambito economico, anche nella vita quotidiana. Dove ciascuno insegue "soluzioni private a problemi privati" (come osserva il filosofo Gilles Lipovetsky). Numerosi segni, d'altronde, rivelano il contemporaneo diffondersi di felicità individuale e infelicità pubblica.

A differenza di quanto sostiene il Nyt, gli italiani sono felici. Ma nel loro piccolo, nella loro vita personale, nella cerchia stretta della famiglia e degli amici. Nonostante le preoccupazioni economiche (il lavoro, il reddito, il costo della vita) stiano spargendo inquietudine anche in quest'ambito. Gli italiani, invece, si sentono insoddisfatti quando si guardano intorno. Quando si rivolgono ai servizi e alle istituzioni. Al sistema pubblico locale e soprattutto statale. Ma anche quando si rivolgono agli altri. Alle persone con cui non hanno consuetudine. (Soprattutto gli immigrati, perché cumulano le paure dell'altro che non ri/conosciamo; e della globalizzazione, che incombe su di noi, facendoci sentire vulnerabili). Per questo crescono le forme di aggregazione "diffidenti" e particolariste. Fondate sull'interesse professionale, locale. Oltre a una pluralità di appartenenze faziose, ideologiche e settarie. Nessuna in grado di marcare linee di confine nette; o di attrarre e mobilitare le "masse". Tutte in grado, però, di opporre veti. Di fare esplodere, insieme alla protesta, la sfiducia generale. Minoranze dominanti.

È difficile, indubbiamente, "governare" ma anche fare politica, mentre affonda l'uomo pubblico. Tanto più se, nel frattempo, l'uomo privato stenta ad emergere. A frasi largo. Perché la rivendicazione di uno "stato minimo" contrasta con la difficoltà (forse: la velleità) evidente di asserragliarsi dentro a un "io minimo" (la definizione è di Cristopher Lasch).

Non per niente il garante Francesco Pizzetti ripete da tempo che stiamo perdendo la "privacy". Mentre Stefano Rodotà sostiene che l'abbiamo già perduta. I nostri dati personali, ormai, vengono raccolti e schedati: a ogni transazione bancaria, a ogni passaggio autostradale con il telepass, a ogni acquisto fatto con carta di credito o bancomat. Per non parlare dei cellulari. Che tutti possiedono. E usano dovunque: a casa, per strada, sul lavoro, a scuola, a pranzo, al cinema, in autobus, in auto. Perfino in Chiesa. Forse per comunicare meglio con Dio. Ciascuno di noi può essere rintracciato e "tracciato", un passo dopo l'altro, attraverso i cellulari. Sempre: il giorno e la notte. E che dire della rete? Google registra e archivia i nostri tracciati su Internet. Attraverso "Google maps", fra non molto, sarà possibile scrutare la nostra vita e i nostri movimenti. Cellulari e rete, insieme: permettono incursioni senza limite nella nostra vita quotidiana. I maggiori scandali degli ultimi anni/mesi, d'altronde, nascono da "intercettazioni". Da Calciopoli all'Unipol a Bancopoli, a Vallettopoli. Fino a quelle pubblicate qualche settimana fa fra dirigenti Rai e Mediaset. Ma, soprattutto: Berlusconi e Saccà. Certo: non si tratta di "gente comune". Però, grandi scandali e grandi intercettazioni rammentano che, a maggior ragione, i più piccoli potrebbero essere ascoltati e osservati. Senza troppi scrupoli.

Tutto ciò avviene senza destare eccessive preoccupazioni. Ci stiamo abituando alla riduzione dello spazio privato. Infatti (indagine Demos per Fondazione UniPolis, ottobre 2007), 1 italiano su 5 si dice disposto a farsi controllare la posta e le e-mail; circa 1 su 3 a permettere il monitoraggio sul proprio conto bancario. In nome della sicurezza. Ma, soprattutto, quasi 9 italiani su 10 chiedono che "venga aumentata la sorveglianza con telecamere di strade e luoghi pubblici". Siamo giunti alla "banalizzazione" della videosorveglianza (come ha scritto il sociologo Eric Heilmann). Le telecamere spuntano dovunque, evidenti. Ma non ci preoccupano. Elettrodomestici a cui affidiamo la soddisfazione del bisogno di sicurezza. Elementi "naturali" del nostro paesaggio quotidiano. Li accettiamo senza negoziarne le condizioni d'uso. Anche se gli obiettivi sorvegliati siamo "noi". Infine, sempre nel nome della sicurezza, si stanno preparando norme e controlli che permettano la schedatura del Dna. (Altrove, come in Francia, è già avvenuto). Degli immigrati, delle categorie "pericolose". Insomma, si mira a legalizzare la raccolta delle informazioni genetiche. La chiave per accedere alla nostra specifica "struttura individuale".
Un'ipotesi largamente condivisa. In nome della paura dell'altro. La banalizzazione e la diffusione delle tecnologie di controllo. L'abitudine a essere spiati senza saperlo. E a spiare gli altri a loro insaputa. La cessione di ogni estremo sistema immunitario della nostra individualità. Tutto ciò suggerisce un paradosso. Mentre celebriamo il declino del pubblico, in realtà, il nostro privato tramonta. Perché siamo sempre "in" pubblico. Siamo sempre pubblico. Spioni e spiati. Allo stesso tempo. Come non essere inquieti? Come non provare sfiducia e paura? La personalizzazione, la mediatizzazione, i nuovi partiti, le riforme istituzionali, lo stesso sistema elettorale. Risposte utili, talora importanti e perfino necessarie per restituire governabilità al Paese e rappresentanza alla società. Ma non bastano. Sono scorciatoie. Se la politica non dà risposte a questo "uomo anfibio", perso nella battigia tra pubblico e privato.

(30 dicembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Gennaio 03, 2008, 05:27:20 pm »

CRONACA

Oggi i sentimenti più cupi "abitano" a destra, proprio come due-tre anni fa erano a sinistra

Il privato unico rifugio di speranza.

L'auspicio che i giovani salgano a posti-guida

Il Paese del disincanto invoca il ritorno al futuro

di ILVO DIAMANTI


Il clima d'opinione di un'epoca è segnato dalle "parole". Formule, frasi, slogan, modi di dire, che scandiscono i nostri discorsi. Li ripetiamo all'infinito. Senza accorgercene. Influenzano la nostra visione delle cose, disegnano la realtà intorno a noi. Perché le parole non sono neutrali. Possono cambiare significato, in base all'uso che ne facciamo. Ma, al tempo stesso, il loro uso ripetuto cambia significato alle cose.

Oggi, ad esempio, noi siamo colmi di "sfiducia". E dei suoi derivati: delusione, insoddisfazione, risentimento, disagio, malessere. È il linguaggio del tempo. Ci induce ad essere aggressivi, per autodifesa. Dirsi "buoni" suscita sospetto; oppure sorrisi di comprensione. Perché è sinonimo di "ingenui". Persone perbene ma poco furbe. Mentre a dirsi soddisfatti e ottimisti, a predicare fiducia e benessere, si rischiano commenti e giudizi "storti". Come è capitato a Prodi e Napolitano. I quali, nei loro discorsi di fine anno, hanno parlato, in modo premeditato, di serenità, fiducia.

Elencando altre "virtù" indicibili. Non contenti, hanno ribadito, entrambi, che l'economia e la società italiana non sono in "declino". ("La Spagna", ha ribadito il premier, "non ci ha superato").

Prevedibili le ironie di testate e commentatori che della dissacrazione hanno fatto un brand. D'altronde, la sfiducia e il declino sono meccanismi di delegittimazione istituzionale efficaci. Erodono il consenso di chi governa, da quando l'Opinione Pubblica sovrana non vota più per "atto di fede". E neppure per soddisfazione. Ma, al contrario, per insoddisfazione. E, visto che è insoddisfatta e sfiduciata da una quindicina d'anni, a ogni elezione punisce, puntualmente, chi governa.

Per questo, il sondaggio Demos-Eurisko - dedicato a rilevare gli atteggiamenti degli italiani nel passaggio tra vecchio e nuovo anno - registra una gran dose di pessimismo. Distribuito e tarato, però, su basi rigorosamente "politiche". Il pessimismo, infatti, cresce esponenzialmente scivolando da sinistra a destra.

Dalla maggioranza all'opposizione. Su tutti i temi: dall'economia nazionale al reddito personale; dalla sicurezza alle tasse. Fino alla Politica: la Madre di Ogni Malessere. Certo, qualcuno potrebbe osservare che motivi per essere ottimisti e per "pensare positivo" non ve ne siano molti. Citando, a ragione, le difficoltà crescenti che condizionano la vita di una parte della società ben definita. I lavoratori dipendenti del privato a reddito fisso. Oltre agli intermittenti e agli atipici (in gran numero fra i giovani).

Ma è anche vero che il pessimismo più elevato affligge i lavoratori autonomi e i liberi professionisti più degli operai. Non "gli ultimi", dunque; ma almeno i "quartultimi". Inoltre, qualche sospetto può emergere di fronte a un'impronta politica così marcata. E così variabile. Se oggi il pessimismo abita prevalentemente a destra, due o tre anni fa gravitava esattamente sull'altro versante. A sinistra. Che, allora, stava all'opposizione. Se nuove elezioni rovesciassero l'attuale assetto, è, dunque, probabile che le parti si invertirebbero di nuovo. E la nuvola del pessimismo tornerebbe a oscurare il cielo del centrosinistra.

Tuttavia, al di là del pregiudizio politico che vizia il giudizio sulle cose che ci riguardano, resta l'ipoteca delle parole. Gli italiani, conferma il sondaggio Demos-Eurisko, continuano a dirsi "felici". Anche se in misura minore degli anni scorsi. Dal 90% di due anni fa si è scesi all'80% delle ultime settimane. Però, accettano di dirsi felici solo in "privato". Ma anche rispetto al loro "privato". Sono, dunque, disposti a scommettere che la loro vita "personale", perfino il loro "reddito familiare" possano migliorare, nel corso del 2008. Però, all'esterno, di fronte agli altri, non lo ammetteranno mai.

Invece, la definizione più adatta a descrivere gli italiani - secondo gli italiani - è, coerentemente: "arrabbiati". Seguita, a distanza, da "opportunisti". È probabile, a questo proposito, che gli intervistati ritengano se stessi "arrabbiati" e gli altri "opportunisti". Certo: riusciamo ancora a definirci "ingegnosi", "creativi" e perfino "generosi". Ma usiamo queste etichette con minore convinzione di un tempo. Mentre cresce la tentazione di dirsi "depressi" ed "egoisti".

Il mito degli "italiani brava gente", in altri termini, sembra definitivamente tramontato. Dissolto. Appartiene a un passato che è passato per sempre. Anche se si trattava, appunto, di un mito. Una leggenda, che non reggeva alla prova dei fatti. Un luogo comune; magari poco fondato, ma, appunto, "comune". Condiviso. Orientava la nostra immagine pubblica. Ma anche la nostra auto-immagine. E, di conseguenza, la nostra condotta. Ma oggi pochi italiani accetterebbero di venir chiamati "brava gente". Soprattutto all'estero. Si sentirebbero squalificati.

Imprigionati nell'antica iconografia: sole-pizza-mandolino. (E, tra parentesi, mafia). Oggi la "brava gente" sembra, invece, seriamente e sinceramente incazzata. Perché la criminalità ci insidia, le retribuzioni sono troppo basse, i prezzi continuano a crescere. Mentre i politici si interrogano e discutono a tempo pieno sulla "legge elettorale", che interessa al 4,5% dei cittadini. Nessuno, insomma.
Per questi motivi crediamo che ci si debba (pre) occupare maggiormente delle parole. Del linguaggio con cui esprimiamo la nostra vita quotidiana e il nostro mondo.

Non possiamo che essere "arrabbiati" se le parole di pace e dialogo sono bandite, inutilizzate, inutilizzabili e inutili. Se, quando vengono usate in tivù e nei giornali, noi giriamo pagina e cambiamo canale. Se, quando sono pronunciate da una figura pubblica, diamo per scontato che siano false. Menzogne pronunziate ad arte. Se, quando le sentiamo esprimere nella vita quotidiana, guardiamo chi le ha pronunciate come fosse un nane (dalle mie parti: un tonto). Se, infine, quando le diciamo noi, sentiamo il dovere di scusarci subito.

Il 2008 si inscrive a pieno titolo nell'Era degli Apoti, in cui siamo entrati da tanti anni. Apoti, per citare Giuseppe Prezzolini: quelli che non la bevono. I disincantati. Non i "delusi": ma i "disillusi". Quelli che sono "delusi" per cautela metodica. Per difesa preventiva. Quelli che, negli ultimi vent'anni, hanno visto cadere muri, sistemi politici, regimi, partiti e leader. E li hanno visti riemergere e risorgere. Magari con altri nomi. Per cui non la bevono più. Pronunciano ogni parola con sospetto. Quest'anno sono in allarme di fronte alle incombenti celebrazioni di un quarantennale pericoloso.

Il Sessantotto. Un altro mito rivoluzionario, che evoca sogni, movimenti e mutamenti. Invecchiati e contestati. Come molti dei suoi profeti. Figurarsi: nell'Anno degli Apoti. Meglio neppure pronunciarlo. Un'altra parola-da-non-dire.

Gli italiani, oggi, sono naturaliter arrabbiati. Tuttavia, stimolate, due persone su tre ammettono di pensare al futuro con "speranza". Speranza: una parola sopravvissuta a stento allo spirito (cinico) del tempo. Si associa all'auspicio maggiormente condiviso dalla popolazione, per il nuovo anno: "più giovani ai posti di comando". Immediatamente seguito da: "migliorare la scuola e l'università". E' il "futuro" che avanza.

Sopravvissuto alla revisione del nostro vocabolario. Impoverito dal senso cinico dominante. Non sappiamo per quanto tempo ancora. Perché, di questo passo, molto presto anche il futuro non avrà più un nome. Una parola per dirlo. Così, fra un anno, festeggeremo ancora il 2008.

(3 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:28:51 am »

CRONACA MAPPE

Criminalità, quando la percezione diventa reale

di ILVO DIAMANTI


LA COMMISSIONE affari istituzionali, presieduta da Luciano Violante, nei giorni scorsi ha invitato i direttori delle testate giornalistiche e delle reti televisive nazionali a spiegare perché la paura della criminalità continui a crescere mentre il fenomeno tende a ridimensionarsi.

Implicita - e neanche troppo - l'idea che la principale responsabile sia l'informazione televisiva. L'iniziativa ha provocato, da parte dei direttori e dei dirigenti radiotelevisivi, reazioni irritate. Largamente comprensibili e, a nostro avviso, giustificate. Tuttavia, la questione è sicuramente importante. E merita di essere affrontata, una volta di più.

Partendo dal problema di base: il divario fra i dati e le percezioni. Esiste davvero? A nostro avviso sì. L'abbiamo sostenuto altre volte e lo ribadiamo in questa sede. Anche se le statistiche variano, in base alla fonte e al dato rilevato. Si tratti del ministero dell'Interno, dell'Istat, di Eures-Ansa, delle autorità giudiziarie oppure, direttamente, delle Forze dell'ordine.

Comunque, negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell'insieme, non è cambiato. Semmai, in alcuni casi, particolarmente significativi, è calato. Dal 1991 al 2006, gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo (ministero dell'Interno): da 3,3 a 1,1 per 100mila abitanti. I furti in abitazione sono passati dallo 3,6 a 2,4 per mille abitanti. Gli scippi da 1,3 a 0,4 per mille abitanti. Sono cresciute, invece, le rapine: da 0,7 a 0,9 per 1000 abitanti. La percezione della minaccia criminale, invece, negli ultimi dieci anni è cresciuta in modo prepotente.

Nel 1997, l'Osservatorio Ispo (curato da Renato Mannheimer) faceva emergere come il 16% degli italiani indicasse la "criminalità" fra i due problemi più urgenti da affrontare. Due anni dopo, la quota di persone che riteneva urgente lo stesso problema raddoppiava: 35%. Più o meno la stessa percentuale rilevata nel 2002 (in una lista di temi un po' diversa) da Demos. La cui indagine più recente (novembre 2007) pone la "criminalità" al primo posto fra le preoccupazioni degli italiani (40%).

Aggiungiamo che questa tendenza non è specificamente italiana, ma da noi risulta più acuta che altrove. Nell'indagine di Eurobarometro, condotta nello scorso autunno, la criminalità è considerata un problema prioritario dal 24% della popolazione, nell'insieme dei 27 Paesi della Ue; un dato stabile rispetto alla rilevazione primaverile. In Italia la stessa preoccupazione è, invece, denunciata dal 33% dei cittadini. Cinque punti percentuali in più rispetto al precedente sondaggio.

Il divario fra la misura e la percezione della criminalità, a nostro avviso, esiste. Ma spiegare l'insicurezza come un prodotto dell'informazione televisiva è sicuramente sbagliato.

1. In primo luogo, si tratta di una lettura riduttiva, fondata su termini e concetti che, negli ultimi anni, hanno cambiato significato, in modo profondo. Per quel che riguarda il fenomeno della "criminalità", le comparazioni con il passato sono improprie (lo ha notato, di recente, Nando Pagnoncelli). Trascurano il peso, dominante, dei reati che minacciano l'intimità, il domicilio, l'incolumità delle persone. Riassunti nelle definizioni di "microcriminalità" o di criminalità "comune". Ma per la gente "comune" questi reati, commessi negli ambienti di vita quotidiana, costituiscono, la vera "macro-criminalità". Gli stessi omicidi volontari (dimezzati dal 1990 al 2005: da 1695 a 601: Rapporto Eures-Ansa, 2006), d'altronde, avvengono soprattutto nella cerchia familiare e amicale (40%). Il senso di insicurezza è, quindi, cresciuto perché i reati di gran lunga più diffusi ci insidiano direttamente, da vicino. Personalmente. Noi, la nostra casa, i nostri cari.

2. Anche per quel che riguarda le responsabilità dell'informazione televisiva, occorre precisare. Di certo, la televisione è, oggi, il primo e principale mezzo di informazione. L'87% degli italiani afferma di seguire, ogni giorno, le notizie in tivù (Demos-coop, novembre 2007). Tuttavia, lo spazio dedicato dai telegiornali alla "nera" è limitato. Si va dal 2-3% del tempo complessivo, nel 2007, su Tg1, Tg3 e Tg4, fino al 4-5% sul Tg2 e su Studio Aperto (dati Geca Italia). Una frazione troppo piccola per incolparli di aver distorto la percezione degli italiani. E', semmai, utile allargare il campo all'intero sistema della comunicazione. Per quel che riguarda la televisione: ai rotocalchi di approfondimento, ai programmi che miscelano informazione e intrattenimento, alle trasmissioni popolari del pomeriggio e del mattino. E' qui che i delitti di vita quotidiana occupano maggiore spazio. Al punto da divenire sequel di successo.

Inoltre, non dobbiamo trascurare gli altri media. I quotidiani e i settimanali. Non solo perché si rivolgono a un settore particolarmente informato. Ma perché, da quando si è affermata l'informazione su Internet, intervengono sui fatti, in tempo reale. Perché, inoltre, i giornalisti televisivi impostano i notiziari incalzati (e influenzati) dalle edizioni on-line dei quotidiani e dai tg delle reti satellitari (Sky e Rai-News 24, in primo luogo).

3. Tuttavia, ricondurre lo scarto fra realtà ed emozione al ruolo (e alle responsabilità) dell'informazione significa ignorare almeno altri due "colpevoli". Altrettanto significativi. Il primo è il cambiamento del paesaggio urbano e sociale. Il rarefarsi delle reti di solidarietà, dei contatti personali, della fiducia. Le risorse che rendevano più "sicuro" il mondo intorno a noi. Ne abbiamo parlato altre volte: quando non conosciamo chi abita intorno a noi, viviamo chiusi in casa, blindati (porte, finestre, mura), armati, difesi da cani da guardia che ci separano dagli altri; quando il territorio circostante diventa inguardabile e inospitale.

Allora, è difficile non sentirsi inquieti, impauriti. Sperduti. Allora i media diventano sempre più importanti, perché costituiscono il principale, spesso unico canale di relazione con il mondo. E trasferiscono in casa nostra il mondo, con i suoi molteplici motivi di tensione e di paura.

Il secondo "colpevole" è l'ambiente che, nei giorni scorsi, ha "chiamato a rapporto" l'informazione radiotelevisiva: la classe politica. Perché, da un lato, usa la sicurezza e l'insicurezza come armi improprie, per catturare consensi. Alimentando e usando le paure come bandiere e, spesso, come clave. Mentre, dall'altro, non è estranea al sistema mediatico. Al contrario. I politici: sui media, li incontri ovunque.

Soprattutto in tivù. Quando si discute di immigrazione e del costo della vita. Quando irrompono i rifiuti di Napoli. Ma anche nella saga infinita dei delitti "di fuori porta". A Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. I politici: pronti a tutto pur di conquistare qualche minuto sugli schermi. Basterebbe chiedere ai direttori delle testate radiotelevisive (giornalistiche e non) quante telefonate ricevano, ogni giorno, da politici (destra o sinistra, non c'è differenza) bramosi di esternare i loro sentimenti e le loro opinioni sui fatti del giorno. In altri termini: di apparire.

Dietro allo scarto fra le misure e la percezione dell'insicurezza, quindi, non ci sono i tg o la tivù in sé. Ma il diverso rapporto fra comunicazione, informazione e vita quotidiana. Che è divenuto diretto e immediato. Le informazioni fluiscono in tempo reale e raggiungono le persone in ogni momento. Per cui, viviamo in un eterno presente. Gli eventi fluiscono, senza soluzione di continuità. Qualcuno sovrasta gli altri. Per una settimana, un giorno, magari un solo minuto.

Il ruolo di chi fa informazione, nel mondo dell'iperinformazione, per questo, è determinante. Nella babele di notizie, che fluiscono senza sosta, i media fissano il punto su cui si concentra l'attenzione di tutti. Come una torcia nella notte - ha suggerito Zygmunt Bauman - illuminano un fatto, un evento, una persona. Assecondati, anzi, sollecitati dal sistema politico, che da tempo ha sostituito la partecipazione con la comunicazione. E ha bisogno di dare un volto, un'identità, un nome all'incertezza incerta che alita nell'aria. E inquieta tutti. Certo, la realtà conta, ci mancherebbe. Ma, per "imporsi", deve bucare la notte.

Incendiare il buio. Altrimenti la notte, dopo un po', cala di nuovo e inghiotte tutto e tutti. E' questo il pericolo da evitare: che la "percezione" sia l'unico "fatto" significativo. Come ha rammentato Ezio Mauro, nel suo viaggio a Torino, intorno alla Thyssen. Dove ha incontrato gli operai. Invisibili, da tempo. Per diventare visibili hanno dovuto bruciare. In sette. Come torce. Ora che si sono "spenti", c'è il rischio che il buio li inghiotta di nuovo.

(13 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 18, 2008, 11:44:43 pm »

Rubriche  Bussole

Democrazia minima

Ilvo Diamanti


Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso il loro dissenso verso la sua visita. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile che coltiva la centralità della "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.

Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana.

Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.

Sessantassette professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.

Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8% dei professori e dallo 0,2% degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.

Una democrazia incapace di "tollerare" un dissenso così minuscolo - anche se esprime posizioni "poco tolleranti" - è seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.

La colpa non è del 2% degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2% della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro.

Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.

(18 gennaio 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Gennaio 18, 2008, 11:52:32 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 20, 2008, 04:44:08 pm »

POLITICA IL COMMENTO

La notte della Repubblica

di ILVO DIAMANTI


SETTIMANE come questa lasciano un sentimento di sconcerto di rara intensità. Un giorno dopo l'altro, una cattiva notizia. Un'emergenza.
Senza soluzione di continuità. I rifiuti di Napoli e le polemiche sulla lezione di Benedetto XVI alla Sapienza, annunziata e successivamente annullata. Le accuse dei magistrati a Sandra Lonardo e al marito, Clemente Mastella; e le dimissioni del ministro Guardasigilli. L'appoggio esterno dell'Udeur al governo (un paradosso) e la possibile crisi.

L'inchiesta sulle segnalazioni di Berlusconi a Saccà e la condanna del governatore siciliano Cuffaro per favoreggiamento. E ancora: i contrasti fra Confindustria e sindacato, le proteste dei metalmeccanici. Fino alla nuova tragedia sul lavoro, a Marghera. Non manca proprio nulla al catalogo dei mali italiani - antichi e nuovi. Per cui cresce la tentazione popolare (non di rado praticata) di star lontani dai giornali e dai telegiornali. Oppure, di girare pagina e canale ogni volta che incontriamo la politica, ma anche la cronaca.

L'inverno civile che stiamo attraversando non accenna a chiudersi, tanto meno a intiepidirsi.
Non deve sorprende, allora, se, da molte parti, si evocano i primi anni Novanta. La fine della prima Repubblica. L'avvio di una transizione patologica che non transita mai, ma diventa sempre più indecifrabile.

Molti segni, d'altronde, suggeriscono questo accostamento. Gli (esorbitanti) indici di sfiducia nelle istituzioni e negli attori politici; il ricorso al referendum sulla legge elettorale; gli scontri fra magistrati e politici. Il copione di questa stagione rammenta da vicino quello di quindici anni fa. C'è, per questo, chi invoca il '92; una nuova frattura. Per ritentare l'impresa avviata allora, senza fortuna. Voltare pagina, andare oltre "l'anomalia italiana".

Come la chiamavano gli osservatori stranieri. Come la percepivano, con fastidio, gli stessi italiani. I quali, però, oggi assistono spaesati alla catena senza fine delle cattive notizie. Quasi rassegnati. Perché molto è cambiato dal '92. A differenza di allora, non hanno ganci a cui attaccarsi, né reti che li tengano insieme. Ma, soprattutto, non riescono a guardare avanti. A sperare.

1. Agli inizi degli anni Novanta, gli italiani, di fronte alla dissoluzione dei partiti e alla delegittimazione della classe politica, potevano aggrapparsi ad alcuni appigli. I magistrati, considerati i "giustizieri". I tribuni del popolo indignato, che "non ne poteva più". I nuovi soggetti politici, emersi nel vuoto prodotto dallo sbriciolarsi della prima Repubblica. Partiti: la Lega, la Rete. In seguito, Berlusconi e Forza Italia. An, cresciuta sulle radici del Msi. Mariotto Segni e i referendari. L'Ulivo nascente. Inoltre, i sindaci, che colmavano la distanza fra istituzioni e società "personalizzando" il rapporto con i cittadini su base locale.

La "questione settentrionale", agitata dalle piccole imprese e dai movimenti autonomisti, non marcava solo distacco, ma anche domanda di riforme profonde. E alimentava il disordinato dinamismo del Mezzogiorno. Sotto il profilo economico, dell'associazionismo, delle città.

Poi, ci rassicurava il vincolo esterno imposto dall'Unione Europea. Che ci costringeva a comportamenti finanziari ed economici virtuosi. In fondo, la grande fiducia riscossa dall'Unione Europea in quegli anni rifletteva la grande sfiducia nello Stato e nella classe politica del nostro Paese.

2. Il Paese, per quanto diviso e attraversato da tensioni profonde, nei primi anni Novanta era tenuto insieme da alcune grandi organizzazioni di rappresentanza economica, dalle associazioni volontarie. La "concertazione", promossa da Ciampi (al tempo presidente del Consiglio) insieme a sindacati, Confindustria e, in seguito, ad altre organizzazioni di categoria, costituì un metodo per affrontare la crisi economica del Paese. Ma anche per ridurre il deficit di consenso e di fiducia nelle istituzioni. D'altronde, insieme al "muro" erano crollate anche le ideologie.

Mentre, dopo la fine della Dc, i cattolici si erano "sparsi" in tutte le direzioni, in tutti i principali partiti.
L'Italia, quindici anni fa, nonostante le tensioni e le fratture, appariva un Paese accomunato dalle particolarità; per questo flessibile, capace di adattarsi, di "arrangiarsi" nelle occasioni più difficili. Di reagire alle emergenze. Anzi: di reggere alle fratture (come quella Nord/Sud) e di trasformare le emergenze in motivo di unità e rilancio. Oggi, invece, i colpi e i contraccolpi che scuotono il sistema non suscitano speranza. Solo spaesamento.

3. I ganci si sono sganciati. Rispetto ai primi anni Novanta è cresciuta ulteriormente la sfiducia nei confronti dei "partiti" e dei "politici". La "casta" dei privilegiati (per riprendere il titolo del fortunato libro di Stella e Rizzo). Contro cui si è mobilitata una protesta "antipolitica" molto ampia. Il cui esponente più significativo è Beppe Grillo.

I sindaci, soprattutto al Sud, non fanno più miracoli. Anzi. I cittadini li sentono lontani, quanto e più degli altri politici. Il Paese si è spezzato. Il Mezzogiorno: rientrato nella spirale del sottosviluppo, ricacciato negli stereotipi del passato. Il Nord - e il Nordest, in particolare - impegnato a marcare le distanze da Roma e dal Sud. L'Unione Europea non è percepita più come un'ancora, ma, da una quota crescente di cittadini, come un vincolo, un freno. Il Paese più eurottimista d'Europa, infine, è divenuto euroscettico. Insofferente verso l'euro, considerato responsabile dell'inflazione crescente. Per alcuni attori politici, come la Lega, Bruxelles è, da tempo, come Roma. Entrambe capitali di Stati nemici.

I magistrati non godono più del consenso popolare. La fiducia nei loro confronti si è quasi dimezzata, rispetto a quindici anni fa. Ma è calata anche rispetto a pochi anni addietro. Sono percepiti non più come "garanti" della democrazia, ma come "un" potere in conflitto con gli altri.

4. Non c'è più colla a tenere insieme i pezzi della società e del Paese. Le organizzazioni economiche e sociali - Confindustria e sindacati in primo luogo - appaiono anch'esse largamente "sfiduciate" dai cittadini. Non "concertano" più. Confliggono, si dividono e dividono. La stessa presenza di grandi associazioni oggi appare un po' sbiadita. Le Onlus si stanno trasformando in grandi imprese, per quanto dedite a finalità benefiche. Parte del volontariato si è, anch'esso, aziendalizzato. La compassione e la solidarietà si sono mediatizzate. Praticate a distanza. Un Sms, un'offerta sul proprio conto. Un clic e via. Siamo più buoni.

Cattolici e laici: non definiscono più identità compatibili. Ma sempre più alternative. Solchi di una comunità che non è più tale. Divisa dall'etica e nella politica.

5. Così, anche i rimedi e le terapie non hanno più la stessa presa di un tempo. Lo stesso referendum è accolto dai più (che lo sostengono) come il male minore. Una pistola puntata alla tempia, per costringere il legislatore a legiferare. Ma dopo vent'anni di referendum elettorali, affidare loro una missione salvifica pare davvero troppo. Anche la minaccia di nuove elezioni.

Magari, anzi, probabilmente si avvia a diventare un destino ineluttabile. Ma è difficile immaginare che un nuovo terremoto, uno strappo violento, possa sottrarci a questa condizione miserevole. Perché, quindici anni dopo, è svanita la speranza che aveva accompagnato il "crollo" del sistema. Quasi come un evento liberatorio. Una palingenesi che avrebbe fatto sorgere un ordine nuovo. Uomini nuovi. Per questo, ora che è quasi buio, affrontare la notte di una lunga campagna elettorale fa correre un brivido.

Senza ganci, senza colla, senza cornici. Ma con queste regole, queste divisioni, questi partiti e questi leader, in gran parte responsabili della lunga e improduttiva transizione italiana. Qualcuno è disposto a sperare ancora in un big-bang che riunisca i pezzi di questo Paese a pezzi? E che, per caso (o per caos), ricomponga il complesso mosaico italiano?


(20 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 24, 2008, 09:47:59 am »

Ilvo Diamanti

Democrazia minima
 

Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso, a tale proposito, il loro dissenso. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria, come ha fatto il Rettore, per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile fondata sulla "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.

Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana.

Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.

67 professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.

Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8 % dei professori e dallo 0,2 % degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va comunque concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.

Una democrazia incapace di "tollerare" il dissenso (anche quando esprime posizioni "poco tolleranti"), neppure se è così minuscolo, ci appare seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Se non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.

La colpa non è del 2 % degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2 % della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro. Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.


(18 gennaio 2008)


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Democrazia minima / 2

Microfisiologia partigiana della crisi


L'analista cinico e disilluso, abituato a trattare in modo cinico e disilluso la nostra democrazia cinica e disillusa potrebbe riassumere in modo cinico e disilluso l'esito di questa legislatura - ansiogena e convulsa. Usando, come approccio la "fisiologia partigiana". La patologia partitica, dettata dalla dipendenza del nostro sistema da una pletora di formazioni piccole e piccolissime. Partiti minuscoli, senza ideologia e senza programma. Perlopiù, riconducibili al solo leader. Alimentati e riprodotti da un sistema elettorale che impone le coalizioni preventive. E da una distribuzione del voto che divide gli italiani in due. Antiberlusconiani contro anticomunisti. Partiti che valgono poche centinaia di migliaia di voti. Per riferirsi all'ultimo punto di crisi: l'Udeur ha raccolto circa mezzo milione di voti, nel 2006. L'1,4% dei voti validi, ottenuti perlopiù in Campania. Determinanti, dato l'equilibrio delle forze in campo. Non solo fra gli elettori, ma anche in Parlamento. E soprattutto in Senato. Dove, infatti, numerosi "soggetti politici" sono in grado di condizionare le scelte della "maggioranza". Partiti individuali - o quasi - e individui senza partito. Pallaro, Di Gregorio, i Liberal-Democratici (LD: come Lamberto Dini), Turigliatto. E altri ancora, la cui visibilità dipende dal momento. Ovvio che ogni partito con basi elettorali limitate e tanto più i partiti individuali, presenti solo in Senato, temano ogni legge che ne metta a rischio l'esistenza. Ma anche l'influenza. Leggi maggioritarie veramente maggioritarie? No grazie. Proporzionali? A condizione che non pongano vincoli troppo esigenti. L'ideale: un proporzionale con soglia di sbarramento allo 0,5%. Oppure, in alternativa: una legge elettorale che "costringa" tutti a indicare le alleanze "prima" del voto. Così che, in un clima di incertezza tanto elevata, nessuno possa rinunciare a nessuno, se vuol vincere le elezioni. Leghe locali, pensionati, casalinghe, consumatori; e domani, immaginiamo, tassisti, professionisti e nimby di ogni genere, tipo e latitudine.

Nessun Vassallum e nessuna bozza Bianco; ma neppure il sistema tedesco (5% di sbarramento? Entrerebbero solo 5-6 partiti). Unica soluzione? Il "nanarellum". Un sistema elettorale che garantisca esistenza e influenza ai "nanetti", come li chiama Giovanni Sartori. Per questo, l'analista cinico e disilluso vede nel collasso di questi giorni un esito annunciato da tempo. A prescindere dalle inchieste dei magistrati. Qualcuno l'aveva pure detto, nei mesi scorsi. Ci pare Mastella, ma non vorremmo sbagliarci. (Anche perché non è il solo ad aver detto cose simili). Recitiamo a memoria: "Se si va al referendum, se questa maggioranza pensa di sostenerlo o di permetterlo; se accetterà "derive" maggioritarie, si sappia che il governo non durerà un minuto di più". Sarà un caso, ma la defezione di Mastella e dell'Udeur è venuta all'indomani della decisione della Corte Costituzionale, che ha decretato la legittimità del referendum elettorale; dopo il sostanziale stallo (fallimento) del negoziato (fra interessi impossibili da comporre) sulla legge elettorale, promosso da Veltroni e sostenuto, a parole, da Berlusconi; dopo la volontà, dichiarata da Veltroni, di far procedere il PD "da solo". Oggi, in sede negoziale. Ma anche domani, alle elezioni.

Sembra la cronaca di una fine annunciata. Colpisce una legislatura che, superato questo cupo gennaio, scivolerebbe, inevitabilmente, verso la prova del referendum.
Una questione di "fisiologia politica": è l'istinto di sopravvivenza dei partiti minimi (e non solo il loro) che sembra spingere alle elezioni, al più presto possibile. Per votare con il vituperato "porcellum". Meglio "porcelli" ma vivi, insomma.

E' una lettura cinica e disillusa, da analista cinico e disilluso. Banale e qualunquista: ce ne rendiamo conto. Utilizza argomenti mediocri. Fa riferimento agli istinti politici più elementari invece che agli accesi dibattiti dei giorni scorsi. Svaluta le polemiche aspre riguardo al rapporto fra magistratura e politica, Chiesa e Stato, cattolici e laici, Nord e Sud. I temi, gravi, della politica economica, finanziaria, internazionale, la sicurezza, l'occupazione, le morti sul lavoro. Trascura perfino la contrapposizione - a suo modo passionale - fra antiberlusconiani e anticomunisti. Dedica attenzione massima a cose minime, insomma. Lo stesso approccio, cinico e disilluso, tuttavia, suggerisce pensieri diversi e quasi opposti. Che sollevano qualche dubbio sulla fine anticipata - anzi: immediata - della legislatura. Sulle elezioni subito: ad aprile. Contro queste prospettive congiura l'istinto di conservazione dei parlamentari. Molti dei quali, se legislatura non arrivasse a metà percorso - se finisse prima di ottobre, insomma - perderebbero il diritto alla pensione. Rinuncerebbero ai numerosi benefit offerti loro dall'attuale carica. Senza alcuna garanzia di venire ricandidati e rieletti. Perché ogni seggio lasciato rischia di essere perso. Perché la concorrenza cresce sempre di più (se Mastella e l'Udeur, putacaso, confluissero nel centrodestra, a chi leverebbero posto? Posti?). Osservazioni venali e veniali di fronte alla gravità del momento e alla serietà dei motivi gridati dagli attori politici che interpretano la crisi attuale. Temi etici, estetici, programmatici, economici, deontologici, istituzionali, costituzionali e altro ancora.
Sbaglia sicuramente l'analista cinico e disilluso, quando descrive una "democrazia minima", i cui destini si decidono a Ceppaloni. Quando racconta farse che finiscono in tragedia.

(24 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 01, 2008, 05:57:56 pm »

Ilvo Diamanti

Rubriche  Bussole

Più che una casa, un collegio
 

Molti si sono sorpresi del rapido e disciplinato ritorno a casa di Fini e Casini.

O meglio: nella Casa delle Libertà. Dopo le ripetute polemiche dei mesi scorsi. Quando avevano certificato, a più riprese, la fine della coalizione, a causa dell'ultima invenzione del Cavaliere: un nuovo partito. Deciso in pochi giorni, da un uomo solo. Lui. Silvio Berlusconi. Artefice di Forza Italia, del Polo e della CdL. Deciso a cambiare ancora. Un nuovo soggetto politico. La scelta del nome affidata alla "gente comune", chiamata a esprimersi nei gazebo sparsi nelle strade e nelle piazze. Popolo della Libertà o Partito della Libertà? Barrare la casella corrispondente. Un luogo politico in cui far confluire tutti gli elettori - ma anche tutti i partiti - di centrodestra. L'ultima provocazione. Quasi una minaccia. Quasi che Fini e Casini potessero venire espropriati del loro partito e dei loro elettori da un giorno all'altro.

Da ciò le tensioni. Sottolineate da affermazioni perentorie, sulla stessa lunghezza d'onda: "Il Cavaliere pensi a Casa sua, tanto la Casa delle Libertà non c'è più". Non era vero, evidentemente. Poche settimane e tutto come prima. Gli stessi uomini nella stessa Casa. Il proprietario, Berlusconi, e gli inquilini: Fini e Casini. Oltre a Bossi. D'altronde, in questa situazione, ogni diversa possibilità appare impossibile. Il collasso improvviso del governo, la prospettiva - inevitabile - delle elezioni anticipate, con il Porcellum, che nessuno è riuscito a riformare, nonostante molti incontri, molti progetti e molte parole (vane). Lascia pochi margini di manovra ai partiti del centrodestra. L'unico modo per rivincere, sfruttando l'onda della sfiducia nei confronti del governo e del centrosinistra, è ripresentarsi uniti. Tutti. Intorno all'inventore di questa alleanza considerata impossibile, prima. Post-fascisti, nazionalisti e indipendentisti, nuovisti e neodemocristiani, nordisti e sudisti: tutti insieme. Solo Berlusconi poteva provarci e, prima ancora, pensarlo.

In seguito, questa Casa divenne una specie di Collegio. Difficile da abbandonare. Ogni volta che qualcuno aveva cercato di uscirne, si era perduto. Fini e, prima ancora, Bossi e la Lega. Erano rientrati, uno alla volta, nella Casa del Cavaliere. Perdonati e premiati.

D'altronde, senza di loro, il Cavaliere non era in grado di vincere (lo aveva sperimentato nel 1996). Ma senza Berlusconi, il destino degli altri è la marginalità. Prigionieri uno dell'altro. Ma con ruoli definiti e stabiliti. In particolare: il leader. Il sovrano. Sempre lo stesso. Anche questo spiega le insofferenze e le intemperanze dei due leader alleati. Fini e Casini.

Costretti a giocare da anni, e per chissà per quanto ancora, la parte delle "giovani promesse", dei candidati al "dopoberlusconi". Una "guerra di successione", come aveva riassunto, argutamente, Adriano Sofri i conflitti degli ultimi mesi in seno alla CdL. Rinviata, ancora una volta. Fino a quando, almeno, resterà in vigore questa legge. Che obbliga le forze politiche a coalizzarsi. Pena la sconfitta. E, infatti, Veltroni, quando promette che il Partito Democratico correrà da solo, non si illude. Ma pensa che sia necessario perdere oggi per vincere domani.

A destra, invece, Fini e Casini non ci sperano. Fini: conta ancora di succedere al Cavaliere. Il suo è il secondo partito della coalizione. Lui è il leader più stimato dagli italiani, insieme a Veltroni. Chissà. Se Berlusconi decidesse di fare altro. Magari, di salire al Colle non solo per consultazioni. Chissà. Dovrebbe toccare proprio a lui. (Ammesso che, alla fine, non prevalga una dinamica di tipo dinastico a favore di un erede della famiglia regnante...). Casini, invece, ormai dispera. Berlusconi non si fida più di lui. E viceversa.

Lui sa che non potrà succedergli. Inoltre, ha manifestato altre volte intolleranza per la condizione di "giovane di belle promesse", a cui è condannato da trent'anni. Ormai ha i capelli bianchi, è stato Presidente della Camera. Viene da un'altra Repubblica. Ad assistere Berlusconi, vent'anni dopo Forlani: proprio non ci sta. Però: il suo gruppo dirigente e i suoi elettori non lo seguirebbero. Lo ha verificato a proprie spese Follini, quando, meno di tre anni fa, sfidò Berlusconi. Sostenne che non era il candidato-premier giusto per il centrodestra. Che, comunque, bisognava superare lo statuto monarchico del centrodestra. Con l'esito di trovarsi solo, nel suo partito. E, quindi, fuori. Poi: il suo elettorato, soprattutto nel Mezzogiorno (la maggioranza), non accetterebbe di cambiare schieramento. A sinistra: mai. E, forse, neppure al centro. Meglio insieme a Berlusconi, soprattutto se promette il ritorno al governo.

Così, Tabacci, democristiano e proporzionalista irriducibile e senza pentimento, convinto; da sempre, che la via giusta è quella di mezzo, privo di ambizioni leaderiste, se n'è uscito, a sua volta. Tenterà di aprire uno spazio "autonomo", al centro, insieme all'ex leader della Cisl, Savino Pezzotta. Contando sul peso della tradizione moderata, ma anche sul disgusto di molti elettori, frustrati dagli esiti del bipolarismo di questi anni. Casini, invece, è rimasto a Casa. Con Fini e Bossi.

La foto di gruppo, in vista delle prossime elezioni, li vedrà tutti insieme, accanto al Cavaliere. Come nel 1994, nel 2001 e nel 2006. A conferma di una verità nota. Nel centrodestra il partito unico c'è sempre stato, anche se continua a proporre sigle diverse. Unito - e magari talora disunito - intorno a un leader. L'unico fattore capace di tenerli insieme. Ieri, oggi. Forse domani. Di certo, non c'è bisogno di primarie per indicarlo. Né di concorsi per indovinarlo.

(31 gennaio 2008)

DA repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 03, 2008, 03:56:25 pm »

POLITICA MAPPE

Passioni apatiche nel Paese del mah

di ILVO DIAMANTI


MANCHERANNO due mesi e mezzo alle elezioni. Giorno più, giorno meno. L'incarico esplorativo affidato a Marini dal presidente Napolitano, allo scopo di formare un governo tecnico che riformi il sistema elettorale, risponde a un fine giusto quanto impraticabile. Scrivere una legge elettorale peggiore di quella attuale è, certamente, una missione impossibile. Ma l'idea di comporre, in qualche mese, orientamenti e interessi apertamente divergenti, anche fra partiti dello stesso schieramento, lo è altrettanto.

Se non al prezzo di compromessi improbabili. Col rischio di passare dal "porcellum" al "pasticcium". Per questo conviene essere realisti. La campagna elettorale è già cominciata (anche se non è mai finita). Difficile credere a governi di "pacificazione". Visto il clima politico di questa breve legislatura, la stessa formula appare sarcastica. Una presa in giro. Neppure le associazioni economiche, che pure hanno sostenuto questa esigenza, ci credono davvero. Al più, auspicano, come ha fatto ieri Montezemolo, una fase costituente. Ma "dopo" le elezioni.

Tuttavia, sbaglia chi vede nel voto una svolta, in grado di scuotere l'opinione pubblica. Un colpo di cancellino e via: il passato è passato. Si ricomincia daccapo. In effetti, dubitiamo che ciò possa avvenire. E, a nostro avviso, ne dubitano gli stessi italiani. I quali guardano al prossimo voto senza troppe illusioni. D'altronde, voltar pagina potrebbe significare il ritorno, due anni dopo, della stessa coalizione che ha governato il Paese dal 2001 al 2006. Un uomo solo al comando: Silvio Berlusconi. E intorno Fini, Casini, Bossi. Magari insieme ad alcune "new entries": Mastella e Dini.

Insomma: il nuovo che avanza. Difficile che questa prospettiva possa restituire speranza ai cittadini. Come era avvenuto nel 2001, quando, davvero, molti italiani si affidarono al Cavaliere perché, dopo tanti sacrifici, volevano finalmente essere felici. Pochi anni e la speranza finì sepolta sotto una valanga di delusione. Da cui Prodi e il governo di centrosinistra non sono riusciti a liberarli. Al contrario. Tuttavia, pensare che gli italiani possano affrontare con entusiasmo la prossima scadenza elettorale. Che ritengano sul serio la CdL (divisa da ambizioni personali e di partito, ma unita dal "porcellum" e dal Cavaliere) capace di cambiare l'Italia, rilanciare l'economia, ricucire gli strappi della società, ricostruire un clima di fiducia.

Sembra sinceramente troppo. Diciamo, allora, che gli italiani si sono adattati a vivere questa "vita in diretta". On-line. Come su Internet. Dove navighi a vista, visiti siti e incontri persone, comunichi e giochi. Poi, quando sei stanco, spegni e riaccendi. Se il computer non funziona, resetti. E ricominci. Tutto come prima.

Siamo un Paese attraversato da "passioni apatiche". Scosso da emozioni sterili. Arrabbiato per default. Si va al voto, si reclamano elezioni subito, senza illudersi che serva veramente. Che le cose possano cambiare sostanzialmente. Un po' come i processi infiniti, che vanno in onda a tempo pieno e si svolgono sotto gli occhi di tutti. Un tempo erano confinati in uno spazio dedicato: "un giorno in pretura". Poi si sono trasferiti "tutti i giorni da Vespa, Mentana e Cucuzza".

Con i protagonisti presenti, al gran completo: avvocati, imputati, testimoni, magistrati, psicologi, preti, criminologi, criminali, giornalisti, esperti. Affiancati da politici, veline e cuochi. I processi e le indagini si svolgono in diretta, sui media, perché non importa giungere a una soluzione. Scoprire i colpevoli. Anzi: è vero il contrario. Infatti, spesso, raggiunto il successo mediatico, i casi certi diventano incerti. I colpevoli predestinati diventano presunti e poi neppure quello. Cogne, Garlasco, Perugia. Oggi perfino Erba. Il che, da un certo punto di vista, è bene. Perché è giusto che la giustizia sia giusta. Ma il problema è un altro. Le persone si sono abituate al caso insoluto. O meglio ancora: il caso - personaggi e interpreti - per loro diventa più interessante della soluzione. "Passioni apatiche". Appunto.

Questo Paese dei casi insoluti, dei governi incompiuti, delle transizioni eterne. (Dopo 16 anni è lecito definire l'Italia una "Repubblica transitoria"). Ormai assiste all'esplosione di emergenze che diventano normali. Guarda Napoli, sepolta dai rifiuti. Da settimane, mesi. E immagina che lo sarà ancora: fra settimane e mesi. (Tanto più, visto che il disgusto e la protesta costituiranno importanti temi di campagna elettorale, determinanti ai fini del risultato).

Così gli scandali, sollevati a colpi di intercettazioni pubblicate e riprodotte sui media. Interpretate in tv, come fiction. Ormai ritornano, a ritmo regolare. E investono, in modo bipolare, destra e sinistra. Per cui nessuno, ormai, crede che verranno davvero risolti. Che si giungerà a una soluzione definita e definitiva. Che qualcuno pagherà. Un po' come la grande enfasi sulla Casta. Che infuria da mesi e mesi. Contro i privilegi della politica e della sottopolitica. Dei politici e dei sottopolitici. Che abitano le stanze del Palazzo e delle palazzine di provincia.

Fin qui, è servita a produrre best-seller editoriali, a elevare gli indici di ascolto delle trasmissioni televisive, a generare una miriade di blog e di meet-up di denuncia e protesta. E a promuovere manifestazioni partecipate e indignate. Con il risultato che alle prossime elezioni voteremo con la stessa legge elettorale, per liste decise dalle segreterie nazionali, senza possibilità di scelta per i cittadini. In altri termini: passeremo dalla Casta alla Casta.

Questa rabbia sterile e diffusa: invade la vita quotidiana e contamina il linguaggio. Fino a divenire un genere, uno stile di comunicazione. Fa vendere giornali e alza l'audience delle trasmissioni. La denuncia gridata, personalizzata, senza soluzione di continuità, a lungo andare, mitridatizza tutti. Perché ci si assuefa, in fondo. A questo mondo di ladri e malviventi. Veri e presunti. Inseguiti dagli inviati di Striscia e delle Iene. Intercettati da servizi segreti e agenzie private. Denunciati sui media, da cui ottengono spazio e visibilità. Fino a divenire, a loro volta, protagonisti. Eroi. Negativi: ma pur sempre eroi. Al centro della scena.

Questa protesta che dilaga ovunque, senza trovare soluzione. Sbocco. Quasi un fenomeno espressivo: si protesta per liberare il risentimento che sentiamo dentro di noi. Ma non per "ottenere". Al massimo per "impedire". Per porre e imporre veti. Rassegnandosi, però, a non cambiare.

Queste "passioni apatiche": generano una società impassibile. Che accetta le divisioni, perfino le contrapposizioni più radicali, senza reazioni forti. Pensiamo alle tensioni territoriali, alla frattura tra Nord e Sud. Aveva suscitato mobilitazioni violente, quindici anni fa, sulla spinta della Lega. Oggi sono date per scontate. A Nord: i cittadini vivono e gli imprenditori producono "come se" Roma non ci fosse. Votano Lega o Forza Italia. Per inerzia. Mentre in gran parte del Mezzogiorno prevale la rassegnazione ad essere tornati "Sud". Periferia economica e sociale. Che usa la politica come una risorsa particolarista e localista.

Più della legge elettorale, delle elezioni anticipate, del "porcellum" e del governo tecnico, è questo cielo grigio, è l'atmosfera uggiosa di questi giorni, che ci preoccupa maggiormente. Questo scenario in cui ciascuno è indotto ad arrangiarsi (l'arte in cui gli italiani riescono meglio - secondo gli italiani stessi). Questo Paese del mah... ("Come ti va?". "Mah...").
E ci preoccupa, personalmente, l'impressione di scrivere, da tempo, lo stesso articolo. Con parole neppure troppo diverse. Di tratteggiare la stessa mappa, una settimana dopo l'altra. Probabilmente, la "passione apatica", dopo un'osservazione prolungata e ravvicinata, ha contagiato anche noi.

Dopo aver trascorso troppo tempo a fare diagnosi, promettiamo, da domani, di interrogarci anche sulle terapie. Sapendo, però, che accettare e riconoscere la malattia è la prima condizione per guarire. L'altra, più difficile, è voler guarire davvero.


(3 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 17, 2008, 09:14:18 pm »

POLITICA

MAPPE

Presidenzialismo all'italiana

di ILVO DIAMANTI


Ci stiamo avviando a un'elezione di svolta. Sancisce l'avvio di una democrazia dell'opinione, personalizzata e mediatica. Caratterizzata dalla competizione diretta fra i leader. Due fra tutti: Silvio Berlusconi, appunto, e Walter Veltroni. Come in Francia oppure negli Usa. Anche se in Italia non vige un sistema presidenziale, i principali candidati e i principali partiti agiscono "come se" fosse così.

E' questa la novità. Non solo Berlusconi, anche Veltroni si comporta da candidato presidenziale. Non solo il Popolo della libertà, l'ultima invenzione del Cavaliere: anche il Partito democratico agisce da partito "presidenzialista". Il ruolo assunto dai media appare dominante, per scelta consapevole e condivisa. Veltroni e Berlusconi hanno presentato la propria candidatura, una settimana fa, con un discorso puntualmente teletrasmesso. Scegliendo due scenari diversi ed egualmente significativi. Berlusconi è tornato al teatro di San Babila, dove, accanto a Michela Brambilla, ha arringato i militanti dei Circoli della Libertà; il seme del Pdl. Veltroni ha parlato a Spello. Di fronte una folla di giovani. Alle spalle: l'immagine suggestiva del borgo medievale, la cui storia riassume la tradizione rossa e quella cattolica.
Insomma: il manifesto del "suo" Pd. Nei giorni seguenti, entrambi sono stati ospiti nel salotto televisivo di Bruno Vespa. Per definizione, la "terza Camera" del Parlamento; diciamo pure la "Cameretta". Quindi, altre apparizioni, in trasmissioni e reti diverse. Uno Mattina, Tg1, Matrix, TV7. Ed è solo l'inizio, immaginiamo. Veltroni, peraltro, oggi partirà con un pullman "democratico" per un viaggio attraverso le province italiane. Per mantenere il contatto con il territorio. E con i media.

Va detto che anche i precedenti candidati premier del centrosinistra avevano frequentato i media. Per necessità, Prodi, che non ha mai amato la tivù. Non solo Mediaset: neppure la Rai. Facendo della sua allergia all'immagine un marchio personale. Mentre Rutelli, nel 2001, aveva cercato di sfruttare al meglio la propria competenza e presenza mediatica. Si era scontrato, però, con la "resistenza" dei leader dell'Ulivo, che lo avevano candidato perché convinti di perdere. E con l'indisponibilità di Berlusconi, vincitore annunciato, a confrontarsi con lui.

Oggi, invece, tutto è cambiato. Due leader, due partiti al loro servizio, il reciproco riconoscimento, la comunicazione come terreno di confronto condiviso. Anche per imporsi e, al tempo stesso, difendersi, di fronte a un'offerta politica che si è pluralizzata.
Per polarizzare la competizione e mettere fuori gioco i concorrenti. In un versante, la Sinistra Arcobaleno, guidata da Bertinotti. Nell'altro, la Destra, di Storace e Santanché. Al centro: l'Udc di Casini (alfine "spinto" a correre in proprio), la Rosa Bianca di Tabacci e Pezzotta. Perfino l'Udeur di Mastella. I quali accusano i soggetti politici maggiori di voler trasformare il bipolarismo in bipartitismo. Ma la tendenza, come abbiamo detto, sembra annunciare una competizione bipersonale, piuttosto che bipartitica. Un modello presidenziale "di fatto". Fra leader e partiti personalizzati che si confrontano senza insultarsi. Con una agenda che, fin qui, appare quasi speculare. Con differenze di tono. Ma sul lavoro, sulle tasse, sulla sicurezza, sulla politica estera. Non si colgono abissi. Fratture irreparabili. Mentre sulle questioni sensibili e discriminanti, come sui temi etici (famiglia e aborto), prevale la prudenza. Non è un caso che Berlusconi non abbia "accolto" la lista di Giuliano Ferrara. Né che il Pd si dimostri freddo verso i radicali; o meglio: verso il loro "marchio".

I temi polemici dominanti degli ultimi quindici anni sembrano, per ora, messi da parte. L'anticomunismo, anzitutto. Anche perché i "comunisti" sono usciti dal centrosinistra; hanno dato vita alla Sinistra Arcobaleno. Rinunciando perfino al loro simbolo storico: la falce e il martello. Parallelamente, si è affievolita la polemica antiberlusconiana.

Insomma: il modello imposto da Berlusconi, 15 anni fa, oggi è condiviso anche da Veltroni. Che lo interpreta con disinvoltura e abilità. Il leader del Pd è, infatti, apparso convincente e rassicurante quanto il Cavaliere. Più "berlusconiano" di lui, oseremmo dire. I sondaggi suggeriscono, infatti, che Veltroni sia riuscito, sin qui, a intercettare un gradimento superiore a Berlusconi, in occasione dei discorsi inaugurali, a Spello e a San Babila (entrambi trasmessi in tivù). Ma anche a Porta a Porta. La roccaforte da cui, nel 2001, il Cavaliere aveva lanciato il suo "programma per l'Italia". La sua marcia trionfale alla conquista del governo del Paese. Anche stavolta Berlusconi ha tenuto la scena, da consumato attore della politica qual è. Ma è apparso più "vecchio". Non tanto per un problema di età (anche se la sua maschera senza tempo inquieta un poco). E' che, ormai, è oberato dalla sua storia politica. Che coincide con la cosiddetta seconda Repubblica.

Conclusa (per ora) l'esperienza politica di Prodi (suo compagno di strada per oltre dieci anni), Berlusconi è rimasto solo. Unico testimone di un'era che ha annunciato il "nuovo" quindici anni fa. Ma ora suscita frustrazione. E' un monumento a se stesso, il Cavaliere. Un'istituzione. Fatica a "dare la scossa" agli spettatori (pardon: agli elettori). Veltroni, in questa fase, sembra in grado di rispondere meglio alla domanda di cambiamento diffusa nella società. Anche se, come recita di continuo Berlusconi, neppure lui è "nuovo". Fa politica da oltre trent'anni. Però, nel nuovo decennio (secolo, millennio) - ha cambiato mestiere e immagine. Ha fatto il sindaco della capitale.
Veltroni, quindi, sembra aver fatto breccia nella società media che si specchia nei media.

I sondaggi (per ultimo: Ipsos) indicano che, in un ipotetico "faccia a faccia" presidenziale, terrebbe testa a Berlusconi. Mentre dal punto di vista "partitico" il Pdl mantiene un vantaggio ancora rilevante nei confronti del Pd (che, pure, sta crescendo). Da ciò la strategia di Veltroni: "personalizzare" la competizione. Dimenticando, per quanto possibile, le appartenenze e gli orientamenti di partito. Per cui è possibile che Veltroni continui a presentarsi da solo, sui media. In attesa di misurarsi con Berlusconi. Una questione diretta e personale, fra lui e Silvio. Come fra Sarko e Ségolène, in Francia. Oppure, negli Usa, fra Obama e la Clinton. Per ridurre il distacco tra Pd e Pdl. Sfruttando la concorrenza accesa (da Udc, Udeur, Rb e Destra) che si è aperta nel mercato elettorale a cui si rivolge il Pdl.

Così, il gioco delle parti sembra essersi quasi rovesciato, rispetto al passato. Quando Berlusconi era la comunicazione e il centrosinistra l'organizzazione. Oggi, al contrario, Veltroni cerca il confronto diretto con Berlusconi. Mentre Berlusconi sfrutta il peso del retroterra politico. Il Pd punta sulla personalizzazione, il Pdl sulle appartenenze. Il Pd evoca e indica il "nuovo", mentre il Pdl lo insegue.

Non sappiamo, però, cosa avverrebbe se i sondaggi indicassero un'effettiva e significativa riduzione della distanza fra Pd e Pdl. Se Veltroni minacciasse davvero la leadership del Cavaliere. Allora, forse, la "politica delle buone maniere" e del reciproco riconoscimento potrebbe interrompersi bruscamente. Berlusconi potrebbe decidere di cambiare registro, come avvenne due anni fa, al convegno degli industriali a Vicenza. I toni della campagna cambierebbero. Veltroni tornerebbe un comunista. L'erede di Prodi. Il Signore delle tasse. Berlusconi, a sua volta, diverrebbe, di nuovo, non l'avversario, ma il Nemico. Da sconfiggere ed emarginare.

Insomma, il destino della nostra democrazia sembra legato all'esito delle prossime elezioni. Molto dipende da chi saranno i candidati alla vittoria finale. Berluskozy e Obama Veltroni. Oppure, come sempre, il Caimano e il Comunista.

(17 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 23, 2008, 02:41:00 pm »

Rubriche

di Ilvo Diamanti

Bussole

Passioni e ri/sentimenti in un tempo di cambiamento


Il caso di Casini è utile per capire ciò che sta capitando in questi tempi di cambiamento politico. Non peraltro gli abbiamo dedicato particolare attenzione, negli ultimi mesi. Al proposito, la questione che suscita maggiore curiosità (e discussione), è la seguente. Quanto pesano, sulle scelte di Casini, le ragioni "personali"? Quanto, invece, le ragioni "politiche"? Casini giura che il suo unico (o perlomeno: principale) interesse è di salvaguardare l'identità. Il marchio del partito. Che riassume una storia democristiana. Per cui: l'eredità della DC. Di garantire lo spazio e i valori del Centro, contro il "nuovismo" della logica maggioritaria, espresso da PD e PDL. Grandi contenitori anonimi senza tradizione. Per cui ha chiesto, invano, di mantenere la sua bandiera. In altri termini: di potersi apparentare senza sciogliersi nel nuovo partito di Berlusconi. Seguendo l'esempio della Lega, piuttosto che quello di Fini e di AN. Divenuti PdL e Popolari europei dalla sera alla mattina. O viceversa: dalla mattina alla sera. Senza esitazioni. D'altro canto, Berlusconi e Fini, echeggiati dai megafoni che li circondano, hanno liquidato la scelta di Casini come un fatto personale. Indotto - secondo loro - dall'insofferenza nei confronti del Cavaliere. Il Padrone, che tratta gli alleati da beneficiati. Ragazzi fortunati, che, se non lo avessero incontrato, sarebbero rimasti a fare la gavetta a vita. Uno a destra l'altro al centro. Entrambi "fuori" (gioco). Invece hanno ricevuto poteri e onori. Onori e poteri. Occupando perfino cariche politiche e istituzionali importanti. Casini: la Presidenza della Camera. Dopo essere stato allievo e assistente di Forlani, interpretare la parte dell'attor giovane e belloccio nella rappresentazione politica e mediatica allestita da Berlusconi: insopportabile.

Un'altra lettura "personale", suggerisce che Casini non riuscisse ad accettare di vedersi ridotto al quinto-sesto posto nella gerarchia del nuovo partito. D'altronde, come interpretare altrimenti il modo in cui si era materializzato il PdL: nuovo prodotto politico del centrodestra? Inventato da Berlusconi in autunno. Per non lasciare la bandiera del "nuovo" al Pd di Walter Veltroni. E per smuovere le acque nella CdL. In FI: congelata e frammentata da mille interessi e mille particolarismi. E, a maggior ragione, per addomesticare gli alleati, AN e UdC. Che tanto l'avevano fatto penare ai tempi del suo governo. Ma anche dopo. Sempre pronti a sfidarlo, a marcare le distanze, a mettere in discussione il suo primato. Era ora di finirla. Per cui, anno nuovo, partito nuovo. Chi ci sta ci sta. Gli altri: a casa loro. D'altronde, aveva sdoganato lui Fini e il suo partito, quando non era neppure considerato post, ma neo-fascista. E i Dc di Casini. Pochi voti e molte pretese. Senza di lui sarebbero scomparsi. Anche perché, in maggioranza, i loro elettori non li avrebbero seguiti. Sarebbero rimasti con il Cavaliere. Bossi e la Lega, invece: alleati fedeli. Non hanno mai creato problemi, dopo il "ritorno a casa", nel 2000. Basta assecondare il loro chiodo fisso: il Nord, il federalismo. Tollerarne le intemperanze. Il PdL, nelle intenzioni di Berlusconi, serviva, anzi: serve a spazzare via tutte queste resistenze. Come foglie secche. Anche Fini aveva polemizzato violentemente con Berlusconi, nei mesi scorsi. Però, le elezioni alle porte, ha dovuto decidere in corsa. Prendere o lasciare. Ha preso. Anche perché Berlusconi lo ha coinvolto "prima" di Casini. Ciò che ha il significato di una investitura. Come avesse vinto lui la "guerra di successione" (formula di Sofri), che lo ha opposto a Casini, negli anni e nei mesi scorsi. Non importa che i tempi del ricambio al vertice del nuovo partito siano tutt'altro che precisi e definiti. Berlusconi, d'altronde, è - e, comunque, ritiene di essere - eterno. Il problema è di "gerarchia". Chi ambisce alla fascia di capitano, se finisce in panchina, ha chiuso. Da ciò la reazione di Casini. Se non è possibile ambire alla successione del "grande partito di centrodestra", allora meglio restare il leader di un "piccolo partito di centro" alleato con la destra. Meglio n. 1 dell'UdC che il 5 del PdL. Richiesta inaccettabile, soprattutto per Fini (che ha rinunciato a tutto, per fare il n. 2 alla PdL). Poi si sa: una parola tira l'altra. Ciascuno chiede all'altro di fare un passo indietro, e pianta la propria bandiera un passo in avanti. Fino a che la discussione degenera e non c'è più spazio per le mediazioni. Fino a che nessuno può fare altro che andare per la propria strada. Con un certo timore. Perché i voti dell'UdC, anche se smagrita, servirebbero a Berlusconi, per vincere sicuro. E la Grande Casa di Berlusconi è sempre stata accogliente, per Casini. Per quanto vi abbia vissuto da inquilino. E come tale sia stato trattato.

Va detto che, nella narrazione dei media, ma anche nei discorsi pubblici, l'interpretazione personalistica ha preso il sopravvento su quella politica. I conflitti privati hanno convinto più dei discorsi sulla missione del Centro. Questa micropolitica della vita quotidiana, che valuta le stanze del potere come fossero luoghi di relazioni private. Posta in questi termini, tuttavia, la questione risulta incomprensibile. Perché oppone "personale" e "politico". Come se la dimensione "biografica" fosse alternativa a quella "partitica". Non è così. Non è mai stato così. Ma oggi meno di sempre. Perché la differenza fra i partiti e i leader è sfumata. La distanza: sottile. La scena politica è affollata da partiti personali e personalizzati. Leader senza partiti. Oppure, con intorno partiti "à la carte". Usa e getta. Creati su misura. Inutile tornare sull'argomento. Per un catalogo aggiornato (dal PiDG al PLD) preferisco rinviare alle altre, precedenti Bussole.

Resta l'impressione che per interpretare la politica italiana (e non solo) occorra andare oltre la scienza e la sociologia politica. Oltre gli studi e le discipline istituzionali. Oltre le analisi elettorali e geopolitiche. E dedicare più tempo al gossip, alle confidenze, ai sussurri, al pissi pissi. Consultando, sui giornali, le cronache del Palazzo. Ascoltando le voci di corridoio. Attenti a Dagospia oltre (più) che alle riviste del Mulino. Più della classica coppia amico/nemico, in politica contano la gelosia, l'ambizione, l'irritazione, l'invidia. Sentimenti e risentimenti piccoli, capaci di suscitare grandi passioni.

(21 febbraio 2008)

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