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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277699 volte)
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« Risposta #390 inserito:: Maggio 24, 2014, 06:10:59 pm »

Quanto conta il voto last minute

di ILVO DIAMANTI
24 maggio 2014
   
Per chi e per che si vota domani? Non è una domanda retorica. Certo, si vota per eleggere il nuovo Parlamento Europeo, ma è chiaro che la campagna elettorale è concentrata su un'arena politica diversa. Racchiusa dentro il perimetro nazionale. Eppure, va detto e ribadito, senza equivoci, che si tratta di elezioni europee. Percepite come tali da un'ampia parte degli elettori. Che, per questo motivo, da sempre le affrontano con minore attenzione rispetto alle altre consultazioni. Gli studiosi le considerano, non a caso, elezioni di "second'ordine" (definizione formulata da Reif e schmitt, 1980).

Nelle quali la mobilitazione degli elettori è più limitata e il voto viene, spesso, utilizzato come sanzione oppure ammonimento, più che come una scelta che li riguarda direttamente. Di conseguenza, l'astensione, normalmente, risulta più elevata. In Italia, è sempre avvenuto così. Per limitarci al periodo più recente: alle elezioni europee del 2004 votò il 73% degli aventi diritto. Due anni dopo, alle elezioni politiche del 2006, la partecipazione elettorale salì all'84%. Lo stesso è avvenuto negli anni seguenti. Alle elezioni politiche anticipate del 2008, infatti, votò l'81% degli aventi diritto. Ma l'anno successivo l'affluenza scese al 66%. È così dovunque, in Europa. Anzi, in Italia la partecipazione elettorale è significativamente più elevata. Nell'insieme dei 27 Paesi della Ue, infatti, nel 2009 l'affluenza si fermò al 43%.

Il fatto è che i cittadini hanno, nei confronti delle istituzioni europee, un atteggiamento distaccato. Le percepiscono lontane dalla loro condizione e dalla loro vita. Il che non significa che il voto di domenica non conti. Al contrario. Perché le ricadute delle politiche della Ue sulla condizione sociale ed economica dei Paesi, ma anche delle persone, sono sempre più evidenti. E ciò ha reso la campagna elettorale particolarmente accesa. In senso anti-europeo e anti-euro. Il che sottolinea come e quanto l'Europa abbia assunto rilevanza politica.

Tuttavia, il voto di domenica non riguarda solo l'Europa. Visto che la campagna elettorale si è tradotta, sempre più, in una resa dei conti politica. Nazionale. In Italia molto più che altrove. È, infatti, possibile che il FN guidato da Marine Le Pen, in Francia, e l'Ukip, guidato da Nigel Farage, in Gran Bretagna, risultino i partiti più votati, alle Europee. Ma a nessuno - per primi, ai due leader - verrebbe in mente di immaginare e chiedere le dimissioni di Hollande e Cameron. In Italia, però, è diverso. Perché la politica in Italia è diversa. E, per i partiti e la classe politica, contano soprattutto le faccende interne. Tanto più in questa occasione. Per questo conviene fare i conti con le ricadute del voto europeo sul piano politico nazionale. E, al tempo stesso, sul "non voto". Sull'astensione. E sul voto last minute. Maturato negli ultimi giorni. Alle elezioni politiche del febbraio 2013, oltre il 13% dei votanti affermò di aver scelto solo nei giorni in cui si votava. Più o meno: nel tratto di strada fra casa e seggio. Un altro 10% sosteneva di aver deciso nella settimana precedente.

Nel complesso, quasi un elettore su quattro ha risolto i propri dubbi negli ultimi 7 giorni. E si trattava, si badi bene, di elezioni (veramente) politiche. Non di elezioni europee tradotte in senso politico nazionale. È, dunque, molto probabile che la quota sia destinata ad aumentare, in questa occasione. Che, dunque, a un giorno dal voto circa due elettori su dieci siano ancora incerti se e per chi votare. Un anno fa, d'altronde, il 41% degli elettori last-minute pensava di astenersi. Ha deciso, appunto, all'ultimo minuto. Il maggiore beneficiario di quel voto, allora, fu il M5S. Che "strappò" una quota consistente di elettori alla tentazione del non-voto.

La composizione degli astensionisti, d'altronde, è mutata, negli ultimi anni. Fino a dieci anni fa coincideva largamente con l'area del dis-interesse, dell'indifferenza, della perifericità sociale ed economica. Coinvolgeva, soprattutto, i più anziani, i ceti medio-bassi, il Mezzogiorno. Poi il quadro è cambiato. Per la crescente insofferenza verso la politica e le istituzioni, che ha investito settori sociali dell'impiego privato e pubblico, del Centro e del Nord.

L'astensione è divenuta, cioè, una conseguenza della delusione. Un voto. Il voto-di-chi-non-vota (come recita il titolo di uno studio curato da Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino, Ed. Comunità, 1983). E ha colpito anche e soprattutto i partiti di Centrosinistra e di Sinistra. L'anno scorso, ad esempio, il Pd pagò un prezzo elevato alle divisioni interne, acuite dalle Primarie (un effetto non previsto di questa pratica di partecipazione). Ma anche a una campagna elettorale timida e defilata. Come se tutto fosse già risolto. E le elezioni fossero già state vinte. Ne beneficiò Grillo. Che alimentò e inseguì la rabbia degli elettori fino all'ultimo minuto. Fino all'ultimo voto. Come quest'anno. Non a caso ha girato dovunque, fino in fondo. Fino a ieri sera, a Piazza San Giovanni. E non a caso è andato in TV. Di persona, stavolta. Da Bruno Vespa. Per intercettare il "pubblico" anziano e moderato, tradizionalmente più distaccato dalla politica. Quindi, "astensionista potenziale". Ma anche per rassicurare. Per "normalizzare" la propria immagine. Per contrastare l'idea di rappresentare un voto in-utile. Solo di protesta. Con il rischio, però, di neutralizzare il proprio appeal presso gli insoddisfatti. Di contraddire il proprio ruolo, di pifferaio di Hamelin, alla testa degli elettori più "incazzati".

L'altro possibile beneficiario del voto "last minute" è il suo principale nemico. Pardon: avversario. Matteo Renzi. Che ha "personalizzato" la campagna elettorale, il Pd e il governo. E il bacino dell'astensione - soprattutto quello moderato - è, infatti, attratto dalla figura del Capo. Soprattutto oggi che l'archetipo, Silvio Berlusconi, appare stanco e invecchiato. Non a caso il voto di molti elettori di Centro e di Centrodestra sembra orientarsi verso il Pd. O meglio: verso Renzi.
La misura dell'astensione, dunque, dipende molto, dall'orientamento di questa campagna elettorale. Che, in una certa misura, si è tradotta in una sfida "personale": fra Renzi e Grillo. Tra un voto di fiducia (personale) e di sfiducia (nel sistema). Anche il risultato finale, per questo, appare ancora aperto.

Quanto all'Europa: può attendere. Almeno, per gli italiani.
 
© Riproduzione riservata 24 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/24/news/quanto_conta_il_voto_last_minute-87026400/?ref=HRER1-1
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« Risposta #391 inserito:: Maggio 28, 2014, 11:10:34 pm »

Nazionale e personale, ovunque primo partito
Di ILVO DIAMANTI
27 maggio 2014
 
Fino a ieri la base elettorale del centrosinistra era addensata nell'Italia centrale. Renzi è riuscito a intercettare la fiducia di ceti sociali e zone da sempre ostili. Dal voto di domenica è emerso il nuovo bipartitismo italiano. Pd e M5s insieme rappresentano due terzi dei voti. Tutto il resto è sfondo. L'astensione. Il M5s ha perduto dove è cresciuta maggiormente l'astensione. Nel Sud e in Sicilia, ma anche nel Triveneto (in Friuli, in particolare). Lo scambio. Buona parte dell'avanzata del Pd è avvenuta nelle aree dove il M5s è arretrato maggiormente come il Nordest, la Toscana, l'Umbria e le Marche. Il nord est. Nelle province tradizionalmente più bianche, Veneto (Treviso, Padova, Verona) il Pd è cresciuto in misura più elevata rispetto alla media nazionale.
La geografia politica dell'Italia è cambiata. Dopo oltre cinquant'anni di fratture territoriali, dalle elezioni sono emersi due partiti, meglio, due soggetti politici, "nazionali".

Il Pd primo partito in Italia. Alle regionali, ha conquistato il Piemonte e l'Abruzzo. Alle europee, ha quasi doppiato il principale antagonista, ottenendo oltre 5 milioni più del M5s. Anch'esso partito "nazionale", per distribuzione del voto.

Il PD di Renzi. Un "post-partito" personale. Il PD(R) ha superato la soglia del 40%. Mai raggiunta da un partito di sinistra, neppure nella Prima Repubblica. Fino a ieri, e anche nel 2013, la base elettorale di Centrosinistra era addensata nelle regioni dell'Italia centrale. Nella "zona rossa", come viene definita ancora oggi. Riflesso della frattura anticomunista che ha segnato il comportamento politico degli italiani. Riproposta, ad arte, da Silvio Berlusconi, per chiudere gli avversari dentro gli antichi steccati. In una condizione di "minoranza".

Ma quell'epoca è finita. E il PD si presenta come un partito nazionale. Il primo in quasi tutte le province italiane. E la sua crescita ha coinvolto non solo le province e le regioni del Centro. Ma, anche e soprattutto, territori ostili alla Sinistra. Come il "mitico" Nordest. Nelle province tradizionalmente più bianche del Veneto (bianco). Treviso, Padova, Verona, infatti, il PD è cresciuto in misura più elevata rispetto alla media nazionale. Perché è riuscito a intercettare il consenso e la fiducia di ceti sociali da sempre lontani e ostili nei confronti della Sinistra. I ceti medi autonomi, i piccoli imprenditori, i liberi professionisti. D'altronde, in un sondaggio di Demetra (per Confartigianato), condotto presso un campione di circa 800 artigiani veneti, nelle settimane precedenti il voto, il 34% degli intervistati annunciava che avrebbe votato per il PD. Un anno fa, un sondaggio condotto sul medesimo campione aveva dato esiti molto diversi. Visto che, allora, il partito più votato dagli artigiani risultava il M5s. Ecco, questo mutamento dà il segno della svolta a cui abbiamo assistito il 25 maggio. La geografia elettorale del voto di domenica, infatti, mostra come la crescita del PD sia largamente speculare rispetto alle perdite del M5s. In altri termini, buona parte dell'avanzata del PD, rispetto a un anno fa, è avvenuta nelle aree dove il M5s è arretrato maggiormente. Il Nordest, appunto. (Dove ha ripreso fiato la Lega.) Inoltre, molte province "di sinistra": di Toscana, Umbria e Marche. Alcune province della Sicilia. Il M5s, inoltre, ha perduto dove è cresciuta maggiormente l'astensione. Nel Sud e in Sicilia, anzitutto. Ma anche nel Triveneto (e in particolare, in Friuli-Venezia Giulia).

Il M5s stesso, comunque, si conferma attore del nuovo bipartitismo italiano. Accanto al PD, che ne costituisce il riferimento dominante. Insieme, i due partiti, oggi, rappresentano quasi i due terzi dei voti (validi). Ma la differenza fra i due, oggi, è che il PD ha quasi il doppio dei voti rispetto al M5s. E ne ha guadagnati oltre due milioni e mezzo, rispetto a un anno fa. Mentre il M5s ne ha perduti quasi tre.

Il risultato del Pd, d'altronde, è stato sicuramente favorito da Grillo e dal M5s. Che hanno concentrato la campagna elettorale "contro" Renzi. In questo modo, hanno trasformato la competizione in un referendum "personale". Pro o contro Renzi. Pro o contro Grillo. Usando la leva della "sfiducia", Grillo ha, così, canalizzato verso Renzi la domanda di "fiducia" che, anche se frustrata, è diffusa, nel Paese. Nelle zone e nei settori sociali "produttivi" del Nord. Ma anche nei mondi periferici, battuti dalla crisi economica. Così, il PD, unico partito rimasto sul territorio, ha potuto avvantaggiarsi della propria presenza organizzata. Ma anche della "fiducia" personale nei confronti di Renzi. Immune dal virus "anticomunista".

Non a caso, un sondaggio di Demos (per il Gazzettino) nello scorso aprile rilevava un grado di fiducia verso Renzi, fra gli elettori del Veneto (già democristiano, poi leghista e infine pentastellato), del 57%. Il più elevato ottenuto da un presidente del consiglio negli ultimi vent'anni. Berlusconi compreso. Berlusconi, appunto. Insieme a FI, appare periferico e quasi marginale. Presente soprattutto in alcune province del Sud. Lontano dalle origini, quando rappresentava la borghesia milanese e lombarda alla conquista di Roma. E se i partiti di Centro-destra, insieme, pesano ancora molto (circa il 30%, come ha osservato Luca Ricolfi), il declino di Berlusconi li rende privi di identità.

Da ciò la differenza e la continuità rispetto alle elezioni dell'anno scorso. Che erano politiche, non va dimenticato. Anche se la campagna elettorale, in queste elezioni europee, è stata giocata, quasi per intero, su questioni politiche "nazionali". Dal voto di febbraio di un anno fa erano uscite tre grandi minoranze politiche. Ora, invece, si confrontano una grande maggioranza di governo, il PD di Renzi. E una minoranza di protesta, il M5s. Tutto il resto è sfondo.

L'elemento di continuità e di stabilità, invece, è nella discontinuità e nell'instabilità del voto. L'anno scorso, rispetto alle elezioni politiche del 2008, oltre il 40% degli elettori cambiò partito, o meglio, schieramento. Quest'anno non sappiamo ancora di preciso quanti siano i voti "infedeli". Ma sono un'ampia quota degli elettori. Perché la fedeltà di voto non è più una virtù. E il cambiamento è divenuto regola. Così ogni elezione diventa un'occasione di confronto. Aperto. Dove non è possibile prevedere l'esito. Renzi, per questo, è atteso da un compito duro. Cambiare il Paese per convincere gli elettori. Ora, di certo, ha più forza per provarci.

© Riproduzione riservata 27 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/27/news/nazionale_e_personale_ovunque_primo_partito-87334198/?ref=HREA-1
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« Risposta #392 inserito:: Maggio 30, 2014, 07:47:30 pm »

Renzi e Grillo: chi ha sconfitto il M5S?
Ilvo DIAMANTI

Beppe Grillo ci ha messo un paio di giorni prima di accorgersi che, in effetti, non era andata così male al M5s. In fondo, superare il 21% dei voti validi, quasi 6 milioni di voti in valori assoluti, alla prima vera elezione europea affrontata, non dovrebbe apparire così disastroso. Troppo tardi. Non ci crede nessuno, ormai. Non solo perché, rispetto all’anno prima, si tratta di un arretramento notevole. In voti assoluti (3 milioni: un terzo in meno) e percentuali (oltre 4 punti percentuali). Ma anche sul piano territoriale. Visto, che, nel 2013, iI M5s, era primo in 50 province e secondo in 42. Mentre alle europee è secondo in 83 province. Ma primo in nessuna. È, dunque, difficile negare che si tratti di una battuta di arresto. Pesante.

Ma è altrettanto vero che l’impatto, sulla percezione degli elettori, è stato perfino superiore alla reale proporzione del risultato. Per quanto ampia. Anzitutto per colpa del PD di Renzi. Il PDR. Che, però, ha annichilito tutti, non solo il M5s. Pensate a FI, ridotta a un partito minore che non arriva al 17%. Insieme al NCD, rispetto al PDL nel 2009, ha perso metà dei voti. Cioè, 5 milioni.  Mentre altri gridano vittoria per aver raggiunto la soglia del 4%.

Eppure il senso e le proporzioni della sconfitta del M5s dipendono, in ampia misura, anche dai propositi annunciati – anzi: gridati - dal Capo. Dalle sue reazioni al risultato. Perché la valutazione di un esito discende, in modo indiscutibile, dalle attese. Così Tsipras festeggia il 4% come un successo. Perché ci credevano in pochi. Mentre gli elettori del M5s oggi faticano a digerire il 21%. E, seguendo l’esempio dei leader, si aiutano con il Maalox. Perché Grillo e Casaleggio hanno fissato gli obiettivi, il metro con cui misurare il risultato. Non il 25% e neppure qualcosa in più. Ma il sorpasso. Hanno promesso, minacciato, di far meglio di Renzi. Come scandisce l’hashtag #vinciamonoi. Lanciato dal blog di Beppe Grillo e divenuto il marchio del suo tour elettorale.  Almeno: di fargli sentire il fiato sul collo. Per spazzarlo via. Per andare al governo, al posto suo.

L’hanno gridato dovunque, in tutte le piazze reali e mediatiche più importanti. Da Piazza San Giovanni a Piazza Bruno Vespa. E, sulla loro scia, l’hanno ripetuto anche i parlamentari, gli amministratori, i dirigenti. Gli elettori. Li cacceremo tutti, questi abusivi del potere. Li processeremo. In Rete. Non vinceremo: stra-vinceremo. E ci credevano davvero. Mentre gli altri, gli avversari, gli analisti, i sondaggisti, comunque, lo temevano. Anche per quello che era successo un anno fa.

Così, quando sono usciti gli exit poll, che davano in chiaro vantaggio il PD, ne hanno seriamente dubitato. Mentre le proiezioni (che si fondano sui campioni di voti scrutinati) li hanno scossi. Ma di fronte ai risultati reali hanno dovuto rassegnarsi tutti. Alla vittoria del PD di Renzi. E, nel caso del M5s e dei suoi capi,  alla sconfitta. Che loro stessi, per primi, hanno decretato. Perché loro stessi, e Grillo per primo, hanno segnato la misura dell’asticella da scavalcare. Sempre più in alto. Così Renzi sosteneva che anche se il PD avesse ottenuto meno del 30% lui non ci pensava proprio a dimettersi, perché di elezioni europee, e non politiche, si trattava. Mentre Grillo e il suo ideologo gridavano il contrario. Che il M5s avrebbe sorpassato Renzi. Comunque, lo avrebbe tallonato. E che il voto europeo era politico. Un voto al governo e al presidente del Consiglio. Per questo oggi Grillo, Casaleggio e il M5s appaiono sconfitti. In modo più netto di quanto emerga dai dati. Battuti da Renzi e dal PD. Ma, prima ancora, da se stessi. E da #vinciamonoi, dopo le elezioni, su twitter, si è passati ironicamente a #vinciamoPoi.

Il M5s, oltre all’avanzata di Renzi, ha pagato la propria strategia elettorale. Lo ha rilevato  e ammesso – da ultimo - un’analisi dell'ufficio comunicazione dei parlamentari del MoVimento. Lo pensa anche quasi metà degli attuali elettori del M5s (come emerge da un recente sondaggio dell’Ispo). Osservazioni che non sono piaciute a Grillo. Perché mettono in discussione non solo la campagna, ma l’immagine stessa del MoVimento. Raffigurata e messa in scena dal Capo.  Che ha gridato tanto, fino a ieri. Al punto che, oggi, ogni rettifica, ogni precisazione, appare inutile.

Imbarazzata. E imbarazzante.
 
(30 maggio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/05/30/news/renzi_e_grillo_chi_ha_sconfitto_il_m5s_-87631492/?ref=HRER3-1
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« Risposta #393 inserito:: Giugno 04, 2014, 07:23:09 pm »

La Lega partito nazionale alla conquista del Sud

Mappe. Il Carroccio ha rialzato la testa dopo la débâcle delle politiche 2013 quando era scesa al 4 per cento. Alle europee ha aumentato la base elettorale, risalendo al 6 per cento. Ma non chiede più la secessione della Padania, ora brandisce la bandiera anti-europea

Di ILVO DIAMANTI
02 giugno 2014

A fatica, ma ha rialzato la testa. La Lega. Ha fermato il declino, che pareva inarrestabile, dopo gli scandali che, negli anni scorsi, hanno coinvolto direttamente i familiari e i fedeli - il cerchio magico - di Umberto Bossi. Era, infatti, crollata al 4%, alle elezioni politiche del 2013.

Più che dimezzata, rispetto alle precedenti consultazioni politiche del 2008 e alle europee del 2009. Invece, una settimana fa, ha ripreso la marcia, anche se non la corsa. Unico partito del centrodestra ad aver aumentato la base elettorale, rispetto a un anno fa. In voti e in percentuale. Oltre a superare la soglia del 4% (a differenza dei Fratelli d'Italia). È, infatti, risalita oltre il 6%, due punti più dell'anno prima. Ottenendo quasi 1.700.000 voti, circa 300 mila in più rispetto al 2013. Certo, i successi del 2009 - ribaditi alle regionali del 2010 - sono lontani. Però, non era facile immaginare che la Lega, scossa da episodi di familismo e illecito (un partito come gli altri, insomma), recuperasse. Invece è avvenuto. In gran parte, grazie alla sua tradizione e alla sua organizzazione. Perché, per quanto indebolita, la Lega, ha ancora una presenza diffusa e radicata sul territorio. L'unico partito ad aver mantenuto nome e simbolo dall'epoca della Prima Repubblica. L'ultimo partito di massa, anche se ha perduto le masse. In grado, tuttavia, di mobilitarsi e di mobilitare, quando serve. Come in questa occasione. Perché non si votava solo per il Parlamento europeo, ma anche per molte amministrazioni locali. La Lega era, infatti, presente alle elezioni con il proprio simbolo in 112 dei 243 comuni maggiori al voto. Se consideriamo i comuni del Centro-nord, in 110 comuni su 175. Nel Nord padano, in 73 comuni su 81.

Al primo turno, ha eletto sindaco - da sola o con liste locali e localiste - un proprio candidato (in un comune del padovano). Mentre altri 5 sono in ballottaggio. Senza contare i numerosi casi in cui si è presentata insieme al Centrodestra. Come a Padova, dove, Massimo Bitonci, leghista, contenderà la guida del Comune al (vice)sindaco uscente Ivo Rossi.

Tuttavia, non è chiaro cosa sia divenuta. La Lega. Quale identità abbia assunto. Di certo, non è più la Lega "Padana", che, da ultimo, rappresentava e rivendicava la "macroregione" del Nord. Visto che, la scorsa settimana, il Piemonte è stato riconquistato dal Centrosinistra, guidato da Chiamparino. Visto che nel Nord padano ha superato l'11% e nel Lombardo-Veneto ha sfiorato il 15%. Cioè: meno di metà del PD di Renzi, il PDR, molto vicino al 40%. Insomma, ha un bacino elettorale abbastanza ampio per contare ancora. Non certo per interpretare il "male del Nord". Tanto meno per rivendicare l'indipendenza. Il fatto è che la Lega, nel Nord, non è solo minoranza, anche nelle sue tradizionali zone di forza, ma è, oltretutto, divisa. Non solo tra fedeli di Bossi e Maroni. Anche fra i leader dell'ultima generazione. Basta guardare la regione dove ha ottenuto il risultato percentuale più elevato. Il Veneto. Conteso fra Salvini, il segretario, erede della tradizione padana, e Tosi, sindaco di Verona. Il quale, per quanto coinvolto, di recente, in alcuni scandali, insieme ai suoi uomini, ha ottenuto un risultato notevole. Salvini e Tosi, come ha osservato Francesco Jori (sui quotidiani veneti del gruppo Espresso), esprimono due strategie alternative. Tosi, in particolare, non è euroscettico e non mira a un'alleanza con Berlusconi, come Salvini. Ma a costruire un altro Centrodestra.

Quella emersa dal recente voto europeo, dunque, non è più la Lega Padana. Ma neppure la Lega di governo, dell'era berlusconiana. Né la Lega anti-romana e anti-meridionale, che abbiamo conosciuto in passato. Non perché abbia cambiato identità territoriale. Ma perché, semmai, l'ha perduta. O meglio, perché ha indebolito la sua impronta locale. Non è più Nordista come ieri. La Lega antieuropea ha, infatti, assunto una prospettiva "nazionale". Aperta, o almeno, proiettata verso il Centro ma anche verso Sud. Dove, certo, ha un peso molto ridotto e limitato. Ma ha allargato la sua presenza. Non solo nelle regioni rosse del Centro-Italia, dunque, ma perfino nel Mezzogiorno. Nelle regioni del Centro-Sud e nelle Isole, infatti, ha ottenuto oltre 106 mila voti. Il 6,3% della propria base elettorale. Poco, certamente. Ma, comunque, 4 volte più del 2013. Inoltre, è cresciuta di un terzo anche rispetto alle precedenti europee - mentre nelle altre aree è arretrata sensibilmente. Particolarmente rilevante, il suo aumento, in Abruzzo, Lazio, Puglia e nelle Isole. In Sicilia. Non a caso i luoghi esemplari, di questa stagione, non sono più Zermeghedo o Gambugliano, piccoli comuni del profondo Veneto, dove la Lega, nella seconda metà degli anni Novanta, aveva raccolto oltre il 60% dei voti validi. Quasi come la vecchia DC. No. Le nuove frontiere (extra)padane si sono spostate fino a Maletto, paese di 4mila abitanti, ai piedi dell'Etna, dove la Lega ha ottenuto quasi il 33%. Mentre ad Alimena, 2mila abitanti, in provincia di Palermo, è arrivata al 22%.

Questa espansione, lontano dalla patria originaria, evoca un'altra parte del repertorio leghista, già recitata in passato. L'imprenditore politico della paura. Che usa il megafono dell'inquietudine contro l'invasione degli immigrati, i quali giungono sulle nostre coste dal Nord Africa. Spinti dalla povertà e dalle guerre. Non a caso la Lega, a Lampedusa, ha conquistato il 17%. Altrove, nel Nord, l'allarme xenofobo risuona contro gli stranieri, che non sono più tali, perché l'Europa garantisce loro cittadinanza. E li spinge ad attraversare le frontiere da Est. La Lega. In questa fase, ha dimenticato la secessione, il federalismo. Ma anche il tam tam antiromano e antimeridionale. Ha, invece, brandito la bandiera della destra europea - antieuropea. E ultra-nazionalista. Oggi guidata da Marine Le Pen, a capo del FN. Con la quale, non a caso, la Lega si è alleata, in vista della costruzione di un gruppo nel nuovo Parlamento europeo. Così, per difendere il "popolo" dagli "altri" che ci assediano e invadono - da Est, da Sud. E dall'Europa. Per difendere se stessa dal declino. E dal M5s, che la insidia sul suo stesso terreno. Per tutelare il suo nuovo mercato elettorale, nel Sud. La Lega: è divenuta lepeniana. Una Lega non più Padana, ma "nazionale", se non nazionalista.

© Riproduzione riservata 02 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/02/news/lega_nazionale_cresce_nel_sud-87846391/
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« Risposta #394 inserito:: Giugno 05, 2014, 09:09:20 am »

Parole per riscrivere il Paese

"Ambiente", "giovani", "uguaglianza": è questo, secondo gli italiani, il dizionario anti-crisi da cui ripartire. Il sondaggio Demos-Coop

Di ILVO DIAMANTI
05 giugno 2014

ABBIAMO tentato di tracciare una mappa delle parole utili a "riscrivere il Paese". Per echeggiare il titolo della Repubblica delle Idee, che si apre oggi a Napoli. Parole estratte dai discorsi pubblici e dai dialoghi della vita quotidiana. Dalla comunicazione dei media e dal linguaggio comune. Le abbiamo sottoposte alla valutazione dei cittadini, intervistati attraverso un sondaggio condotto da Demos-Coop. Ne abbiamo ricavato una rappresentazione interessante. Anche se i sondaggi non godono di buona fama, in questi tempi. Tuttavia, chi li considera non degli oracoli, ma strumenti per cogliere gli atteggiamenti del (e nel) presente, ne può trarre indicazioni - a mio avviso - utili. Circa i riferimenti della società e le parole per dirli. Il che, in parte, è lo stesso. Ne esce una raffigurazione, per molti versi, coerente con le attese. Ma, comunque, significativa. Perché supera il perimetro dello stereotipo.

Se partiamo dal "fondo", la regione della mappa in basso, a sinistra, dove si concentrano le parole che combinano un sentimento ostile con una previsione negativa, circa l'importanza futura, incontriamo subito Berlusconi, accanto a Grillo e agli ultras (del tifo). Parole "gridate". Come i loro protagonisti. Spinti ai margini, ma tutt'altro che marginali. Al contrario. Perché dividono.

Descrivono un "Paese in curva", nel calcio come in politica. Dove la maglia e la fedeltà servono a marcare i confini contro gli altri. I bianconeri e i nerazzurri. Rossoneri e giallorossi. Comunisti e berlusconiani. Da mandare tutti quanti Vaffa... Appena più in su, incontriamo le "parole di ieri". Indicano soggetti senza futuro, oltre che deprecabili e deprecati. Ma, si sa, i sentimenti, spesso, colorano anche le previsioni... Le "parole di ieri", comunque, hanno una specifica connotazione "politica". Associano i partiti ai politici. Ma richiamano anche alcuni progetti di riforma. Il presidenzialismo e lo stesso federalismo. Ieri professato da tutti. A parole (appunto). Oggi non piace e non ha futuro. O forse: non ha futuro perché non piace più. D'altronde, la stessa Lega preferisce agitare la bandiera della (in)sicurezza, piuttosto di quella padana. Lo stesso "declino" spinge, nelle parole di ieri, lo Stato (mai come oggi, un participio passato). Ma anche l'Euro, "svalutato" anche rispetto all'Europa. Perché è una moneta senza Stato.

Colpisce, semmai, che in questo settore del campo finiscano anche le manifestazioni e la protesta. Le manifestazioni di protesta. In fondo: la partecipazione. Ma ciò suggerisce che la critica verso la politica e le istituzioni non produca (e non si traduca in) mobilitazione e indignazione attiva, come in altri Paesi. Ma, piuttosto, distacco e disgusto politico. "Gridato".

Così, il presente è affidato a Renzi. Unico soggetto politico che ottenga un giudizio positivo, anche in prospettiva. Ciò avviene anche perché risponde alla domanda - diffusa  -  di un "leader forte". Renzi. Tra le parole del nostro tempo, è posizionato, non a caso, accanto ai media "tradizionali": giornali, radio. E soprattutto la Tv. Perché restano determinanti per comunicare in modo "personale". E per costruire il consenso. Insieme, vecchi e nuovi media, disegnano una "democrazia ibrida". Che insegue il mito della democrazia diretta, attraverso la rete. Ma riproduce, al tempo stesso, i riti del governo rappresentativo, al tempo della personalizzazione. La democrazia del pubblico, che si sviluppa, soprattutto, attraverso la televisione.

In alto a destra, infine, c'è il lessico del futuro. Le parole che evocano un orizzonte atteso. I valori condivisi e le speranze diffuse. Ma anche le domande più urgenti - e insolute. Premiare il merito, combattere la disoccupazione, prima di tutto. Ma anche l'evasione fiscale. Tutelare l'ambiente, valorizzare le energie rinnovabili. Promuovere la crescita economica e gli imprenditori. Lavorare per il bene comune. Potrebbe apparire la lista dei desideri inarrivabili. Dei buoni sentimenti, che è facile invocare, assai meno realizzare. Però, è interessante e, comunque, importante che continuino ad essere evocati e invocati. Come la democrazia e il popolo - sovrano, che ne è il fondamento. E come i giovani. Segno di un futuro che fugge. Letteralmente. E ci lascia sempre più soli e più vecchi. E sempre più delusi.

In cima, come l'anno scorso, è Papa Francesco. Riferimento condiviso da tutti. Perché, più di tutti, ha saputo trovare "parole" in grado di orientare il linguaggio del nostro sconcerto quotidiano. Per dire, senza vergogna e senza violenza, cose tanto comuni quanto eccezionali, nella loro normalità. Perché, per riscrivere il Paese, non occorrono parole nuove, diverse dal passato. Servono parole "credibili". Che, per essere tali, però, debbono essere pronunciate - e testimoniate - da persone credibili. Da soggetti e istituzioni credibili. In modo credibile. Ma proprio qui sta il problema, raffigurato bene da questa mappa. Che rende evidente la distanza fra le parole della democrazia e del cambiamento, eternamente proiettate verso il futuro. E gli attori che le dovrebbero recitare e tradurre: imprigionati nelle parole di ieri. Oppure specializzati nell'agitare i sentimenti e, ancor più, i ri-sentimenti. Impegnati a dare volto e voce, anzi, grida, alla delusione e alla rabbia. Con l'esito di moltiplicare la delusione e la rabbia. Facendo apparire i valori, i luoghi e le persone che evocano il futuro: parole senza tempo. In-attuali. E inattuate.

© Riproduzione riservata 05 giugno 2014

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« Risposta #395 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:22:32 pm »

La paura della solitudine

di ILVO DIAMANTI
16 giugno 2014

   
BEPPE Grillo e Gianroberto Casaleggio si sono detti disponibili a confrontarsi sulla legge elettorale con Renzi. Legittimato dal voto europeo. Così, Grillo è uscito dall’isolamento, in cui si era rifugiato per inseguire un elettorato eterogeneo.

Dal punto di vista sociale e ancor più politico. Equamente distribuito fra sinistra, destra e antipolitici. Anche se la polemica con Renzi e il Pd l’aveva spinto, sempre più, verso destra. Per questo, comunque, Grillo ha sempre evitato di scegliere un alleato stabile. Accettando il rischio di finire fuori gioco. Di apparire, comunque, disinteressato ad assumersi responsabilità, a influenzare scelte e decisioni. Soprattutto, insieme ad altri soggetti politici. Così ha pagato un prezzo alto, alle elezioni europee. Ma anche alle amministrative. Alle europee. Aveva “minacciato” il sorpasso ai danni del Pd di Renzi. Con il risultato di convincere molti elettori di centro, ma ancor più di sinistra, incerti se e per chi votare, a recarsi alle urne. E a raccogliersi intorno a Renzi. Non solo, ma la stessa, aggressiva “profezia” statistica di Grillo — vinciamo noi! — ha trasformato un risultato ragguardevole, il 21%, in una sconfitta. Mentre il 40,8% ha fatto del Pd di Renzi il primo partito in Europa.

Alle amministrative, i successi conseguiti a Livorno, anzitutto, ma anche a Civitavecchia e in due altri comuni, sono significativi. Ma anche molto marginali, di fronte al successo del Pd, e del Centrosinistra. Che hanno vinto in 167 comuni (con oltre 15 mila abitanti) su 243. Mentre prima ne amministravano 128.

Restare nell’ombra, per questo, è divenuto molto più rischioso che “prendere posizione”. Soprattutto di fronte alla prossima discussione — e decisione — in merito alla legge elettorale. Orientata, come prevede l’Italicum, verso un proporzionale con premio di maggioranza al partito o alla coalizione che ottenga più voti. Oppure vinca il ballottaggio. Se davvero si realizzasse, per quanto riveduta e corretta, questa scelta metterebbe, davvero, fuori gioco il M5s. Protagonista del singolare sistema politico italiano. Un bipartitismo imperfetto. Perché oggi il Pd supera il 40%. E otterrebbe la maggioranza dei seggi in Parlamento, senza bisogno di ricorrere a ballottaggi. Perché, la principale alternativa, il M5s, almeno fino a ieri, ha sempre, decisamente negato ogni “compromesso” con i partiti e i politici nazionali. Si è, dunque, posto e imposto come partito anti-partiti. Da ciò il suo successo, nel passato. Ma anche il suo limite. Perché non è credibile come “alternativa”, vista la sua indisponibilità ad assumersi responsabilità di governo. Vista, inoltre, la sua vocazione all’isolamento e la sua allergia verso ogni alleanza. Tanto più perché la logica maggioritaria spinge alla coalizione. E potrebbe indurre il Centrodestra a ricomporsi. Per necessità, anche se non per affinità. Mentre oggi è diviso, frammentato e rissoso. Decomposto dall’esilio e dalla marginalità di Berlusconi. È questo il vantaggio competitivo del M5s, a livello nazionale, ma anche locale. Visto che, dove riesce a superare il primo turno, intercetta gran parte del voto di centrodestra (come ha rilevato ieri Roberto D’Alimonte sul Sole 2-4 Ore).

Ma se il Centrodestra si aggregasse di nuovo, indotto, o meglio: costretto, dalla Legge elettorale, allora il quadro cambierebbe profondamente. Per il M5s. Perché, insieme, le liste di Centrodestra (cioè, Fi, Ncd, Fdi, Lega e Udc), alle elezioni europee, hanno superato il 31%. Cioè, 10 punti più del M5s. Mentre, se passiamo all’ambito comunale, i limiti della solitudine del M5s appaiono ancor più espliciti. Infatti, se consideriamo i tre principali schieramenti (ipotetici), i rapporti di forza negli 8057 Comuni italiani, in base ai risultati delle recenti europee, appaiono molto evidenti. La coalizione di Centrosinistra prevarrebbe in 5238 Comuni (65%), quella di Centrodestra in 2585 (32%), il M5s in 95 (1,2%). Naturalmente, queste stime (realizzate in base a simulazioni a cura dell’Osservatorio Elettorale del Lapolis-Università di Urbino) sono del tutto ipotetiche. Hanno, cioè, finalità esemplari e servono a discutere sugli scenari politici del Paese. Ma per questo sono utili. A sottolineare il “problema” del M5s. Che ha grande capacità di attrazione, se marcia da solo. Tanto che è primo partito in 303 comuni (3.8% sul totale) e secondo in 3981 comuni (49.4%). Tuttavia, appare svantaggiato in una competizione che preveda e, anzi, imponga le coalizioni. Dove il Centrodestra, oggi scomposto e anonimo, potrebbe riemergere e “scendere in campo” di nuovo. Anche senza Berlusconi.

Per questo Grillo e Casaleggio hanno ri-aperto il gioco. Cercando alleanze, in ambito (anti) europeo, dove si sono accordati con l’Ukip. Secondo la logica: meglio male accompagnati piuttosto che soli.

Mentre in Italia si sono rassegnati al confronto con il Pd e, anzitutto, con Renzi. In parte, riprendendo il discorso avviato con la partecipazione di Grillo a “Porta a Porta”, insieme e accanto a Bruno Vespa. Il testimonial in grado, più di ogni altro, di “sdoganarlo”, di normalizzarlo sul piano politico. Come oggi, a maggior ragione, può avvenire incontrando, in forma ufficiale, Renzi. Con, oppure meglio, senza streaming. Per rientrare nel gioco politico, da cui si era, fino ad oggi, auto- escluso. E, prima ancora, per promuovere una legge elettorale diversa. Non maggioritaria. Che non favorisca le coalizioni. E non ri-evochi il Centrodestra, come avverrebbe con l’Italicum — e i suoi derivati. Negoziato da Renzi, non a caso, con Berlusconi e con gli alleati di centrodestra della maggioranza. Grillo e Casaleggio, per restituire un ruolo e un peso al M5s, rivendicano una legge elettorale di impronta “proporzionale”. Com’è, in fondo, quella attuale, dopo la sentenza della Consulta. Per non rischiare l’espulsione dal gioco politico. Isolati, in Europa, insieme a Farage. In Italia, soli contro tutti. Dunque, semplicemente soli.

© Riproduzione riservata 16 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/16/news/la_paura_della_solitudine-89071909/?ref=HREA-1
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« Risposta #396 inserito:: Giugno 23, 2014, 10:36:21 pm »

Effetto Renzi, fiducia al governo non ai partiti
Sondaggio Demos. A un mese dal voto europeo, cresce ancora il consenso per il premier. Ma il fattore età spinge verso l'alto anche Salvini (Lega) e Meloni. È la stagione della democrazia iper-personale
Di ILVO DIAMANTI
23 giugno 2014

Un mese dopo le elezioni europee, l'affermazione di Renzi e del Pd ha lasciato tracce molto profonde. Il Pd di Renzi. Il PdR: il Partito di Renzi. Un uomo solo al comando. Intorno al quale si intravede una democrazia senza partiti, che rivela una domanda crescente di leadership personale. Che, a centrodestra, appare ancora frustrata. Matteo Renzi. Secondo il sondaggio di Demos per Repubblica il 74% degli intervistati manifesta fiducia "personale" nei suoi confronti.

Mentre quasi il 70% valuta positivamente l'azione del suo governo. Tre italiani su quattro. Un livello di consenso larghissimo. Conquistato, in precedenza, solo da Monti, al momento dell'incarico. Non certo da Berlusconi, neppure nei giorni migliori. Oggi, tra le figure pubbliche, solo Papa Francesco è più popolare di lui. E, come il Papa, Renzi appare popolare presso tutti gli elettorati. Da Sinistra a Destra, passando per il Centro. Perfino fra gli elettori del M5S quasi 6 su 10 esprimono fiducia nei suoi riguardi. Dietro a Renzi c'è, ovviamente, il vuoto. Anche se, molto distanziati, emergono due leader relativamente giovani e nuovi. Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il segretario della Lega Nord ottiene, infatti, la fiducia dal 38% degli intervistati. Poco più della metà, rispetto a Renzi. Ma, comunque, oltre il doppio di due mesi fa. La presidente dei Fratelli d'Italia è valutata positivamente dal 36% degli intervistati: 10 punti più rispetto al sondaggio pre-elettorale. Si tratta di dati particolarmente significativi, soprattutto se messi a confronto con l'orientamento verso gli altri principali leader di partito. Alfano, Grillo, Berlusconi, Vendola: ottengono un grado di fiducia più ridotto. E, comunque, in calo sensibile o, al più, stabile, rispetto ai mesi precedenti. Questi atteggiamenti sono influenzati, in parte, dal risultato elettorale.

… Le tabelle su repubblica.it

Il Pd ha, infatti, sfiorato il 41% mentre la Lega ha superato il 6%. Molto lontana dal Pd, dunque. Ma, comunque, ben più del previsto. Per questo è l'unico partito che, secondo gli italiani, esca rafforzato dalle elezioni. Oltre al Pd, ovviamente. Che ha trionfato. Mentre il M5S, che pure ha superato il 21%, viene considerato "perdente" da oltre il 70% degli intervistati. Perché Beppe Grillo, per primo, aveva pronosticato il sorpasso. E, dunque, la sconfitta del Pd e del suo leader. Così, un risultato importante è divenuto un flop. Agli occhi dei suoi stessi elettori. Ma il vero sconfitto, in questa fase, è Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia. Il cui risultato elettorale è apparso deludente anche rispetto alle più pessimistiche previsioni. E ciò spiega il sorprendente grado di fiducia verso Salvini ma anche verso la Meloni, il cui partito non ha raggiunto la soglia del 4%. La loro relativa popolarità, infatti, riflette la crisi di leadership del centrodestra. Gregario ma anche ostaggio di Berlusconi. Che non riesce più a fornire identità e unità alla coalizione. Ma, al tempo stesso, ne condiziona le scelte. Mentre appare, inevitabilmente, sempre più vecchio. Come immagine politica, prima che di età. D'altronde, non solo Renzi, per primo e sopra tutti, ma anche Salvini e Meloni si distinguono dagli altri perché sono più "giovani", per generazione biografica e politica. Il fattore età, evidentemente, non ha mai contato tanto come ora.

Un mese dopo il voto europeo, il Pd appare, dunque, l'unico riferimento - e l'unico partito - della scena politica nazionale. Mentre FI e l'intero centrodestra sono alla deriva. In cerca di leadership e di identità (Il Ncd e Alfano: dove e con chi stanno?) E il M5S risulta ridimensionato, oltre la sua stessa "dimensione" reale, dalle attese generate dai leader, in campagna elettorale. Perfino la sinistra - nonostante il buon risultato ottenuto da Tsipras - appare scossa da tensioni interne. Non a caso il consenso personale di Vendola, leader del principale partito di quest'area, risulta molto basso. Il problema, semmai, è che neppure il Pd sembra aver tratto slancio dal voto. Appare, infatti, diviso ma, soprattutto, gregario. All'ombra del leader. Perché gran parte di quel 40,8% è stato intercettato da Matteo Renzi. Non per caso, nei 214 Comuni maggiori al voto in cui era presente (Osservatorio Elettorale LaPolis-Università di Urbino), il Pd ha ottenuto il 44,5% dei voti validi alle europee, ma il 31,8% (dunque 13 punti in meno) alle comunali. Dove Renzi, ovviamente, non si poteva candidare. D'altra parte, il 30% degli italiani afferma di aver votato, alle europee, in base alla fiducia verso il leader del partito scelto. Prima e più che per ogni altra ragione: programmi, ideali, orientamento di partito. E la motivazione "personale" del voto risulta molto più forte fra gli elettori del Pd: 47%. Più che per il Pd, insomma, gli elettori hanno votato per il PdR. Il Partito di Renzi.

D'altronde, si assiste all'ulteriore degrado del rapporto fra i cittadini e i partiti. Deteriorato dalle recenti inchieste sulla corruzione politica a Milano e Venezia. Tanto che oltre metà degli italiani, secondo il sondaggio di Demos, ritiene che oggi la corruzione politica sia più diffusa che all'epoca di Tangentopoli. Eppure, questo clima non ha delegittimato il governo e tanto meno Renzi. Forse perché ormai ci siamo assuefatti. Ma anche perché, nel frattempo, si è fatta largo l'idea che la democrazia non abbia bisogno dei partiti. Lo pensa, infatti, oltre metà degli intervistati. Cinque anni fa questa prospettiva era condivisa da circa il 40% degli italiani. E ci sembrava tanto. Un segno di declino della democrazia rappresentativa. Che oggi appare palese. Come la frattura dei cittadini nei confronti delle istituzioni rappresentative, oltre che della politica. Per questo la fiducia verso Renzi - ma anche verso Salvini e Meloni - è significativa. Indica una domanda di cambiamento, che va "oltre" - e, semmai, "contro" - i partiti. E si orienta e concentra sulle "persone". In particolare, sugli outsider. Si delinea, così, un'iper-democrazia iper-personale. Che, al fondo, solleva qualche inquietudine, sul futuro della democrazia rappresentativa. Ma anche sulla democrazia senza aggettivi.

© Riproduzione riservata 23 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/23/news/effetto_renzi_fiducia_governo-89755042/?ref=HREC1-1
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« Risposta #397 inserito:: Giugno 28, 2014, 12:08:34 pm »

Le incertezze dell'elettore volatile

Ilvo DIAMANTI

Siamo nell'epoca del "voto volatile". In cui le scelte elettorali hanno perduto coerenza e continuità. Un'epoca caratterizzata da mutamenti costanti e profondi. In cui ogni elezione diventa una competizione aperta. E, per gli elettori, un'occasione specifica, da affrontare senza certezze.

È da circa trent'anni, in effetti, che questa fase si è aperta. Solo che gli atteggiamenti non si traducevano in comportamenti. La disponibilità a cambiare non sfociava in comportamento. In particolare, per il deficit dell'offerta politica. E per il persistere del cleavage anti-comunista. Che "divideva" il mondo - il nostro piccolo mondo, a livello locale, nella vita quotidiana, nella realtà sociale e territoriale.

Unica, significativa, eccezione: vent'anni fa, nel 1994. Quando l'offerta politica cambia radicalmente. Perché, insieme al muro, dopo il 1989, in Italia erano crollati i partiti della Prima Repubblica. Per primi, i partiti anti-comunisti, la DC in testa. Così, le fedeltà elettorali si erano, necessariamente, spezzate. Salvo rinsaldarsi di nuovo. Per merito/causa di Berlusconi. Che aveva riproposto una duplice frattura. Coerente con il passato. Da un lato, aveva rilanciato la frattura anticomunista. Comunisti: tutti quelli che non stavano con lui. Dall'altro, ha evocato e promosso una nuova frattura, auto-centrata. La frattura "anti-berlusconiana". Da allora, e per vent'anni, il sentimento politico degli italiani si è adeguato a questa divisione. Anti-berlusconiani contro anti-comunisti. E viceversa. Così abbiamo assistito a una nuova epoca di stabilità elettorale, ben visibile sul piano territoriale. Visto che le mappe del voto, tenuto conto delle differenze dell'offerta politica, hanno riprodotto quelle del passato. Che vedono la sinistra ancora (co)stretta dentro i confini degli anni Quaranta. Nelle zone rosse. Mentre, intorno, si realizzava l'alleanza fra partiti regionalisti, post-democristiani e governativi. Nel Nord e nel Sud. Coalizzati e aggregati soprattutto da Berlusconi. Come, prima, dalla DC.

Parlare di "fedeltà", nella Seconda Repubblica, per questo, era ed è improprio. Perché i legami con la società, le radici dell'identità sono sempre più deboli. Come ha sostenuto Arturo Parisi (intervistato su Europa), meglio parlare di "abitudine". Riflesso della storia e della tradizione. Reazione soggettiva alla domanda di riconoscimento. Oppure risposta a interessi specifici. Abitudini, appunto, che però non hanno la forza della "fede" e neppure della fedeltà. Usurate, progressivamente, insieme all'artefice del cleavage della Seconda Repubblica. Soprattutto nell'ultima fase. Così, vent'anni dopo, anche le abitudini politiche non tengono più. Tanto più perché il rapporto con la politica si è personalizzato. Dal punto di vista dell'offerta: i partiti riassunti nelle persone. Nei leader. Ma anche della domanda. Visto che la partecipazione ha perduto i luoghi e i canali dell'aggregazione e dell'associazione. E della comunicazione. Nella "democrazia del pubblico", come l'ha definita Bernard Manin, i cittadini sono divenuti spettatori. A cui il leader si rivolge "personalmente", senza possibilità di re-azione. Mentre le nuove forme di coinvolgimento, impostate su internet e sui Social Media, prevedono persone che comunicano con altre persone. In direttamente (parafrasando Nadia Urbinati). Tutti insieme e tutti soli. Allo stesso tempo. Così, le fedeltà si sono perdute, perché non hanno più "senso". E le abitudini si acquisiscono e si perdono con qualche resistenza, ma senza troppi traumi. Soprattutto se sulla "fede" prevale il suo opposto: la "s-fiducia". Nei confronti di tutti gli attori politici: leader, partiti, istituzioni. È ciò che è avvenuto e si è verificato in Italia, in modo evidente ed esplicito, perfino violento, un anno fa. Alle elezioni politiche del 2013. Quando il 41% degli votanti ha cambiato area politica di riferimento (Indagine LaPolis). Anche per l'irrompere, sulla scena politica ed elettorale, di un soggetto politico che ha intercettato e canalizzato la "sfiducia": il M5s guidato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. In grado, da solo, di produrre il "movimento" di un quarto dei votanti. Nel decennio precedente, il "movimento elettorale" non aveva mai raggiunto il 10% (Indagini Itanes).

Ma l'epoca della volatilità e dell'incertezza elettorale si manifesta anche attraverso altri sintomi. In particolare, l'allungamento progressivo dei tempi di decisione del voto. Fino al momento del voto. Circa metà degli elettori riconosce di avere avuto dubbi, fin dall'inizio, se e per chi votare. Oltre il 10% ha continuato ad averne fino all'ultimo giorno.

La perdita della "fedeltà", ma anche delle "abitudini" di voto ha modificato, infine, il paesaggio elettorale. Scosso, dal 2013, da un continuo movimento sussultorio. La geografia elettorale: è divenuta fluida come i rapporti fra elettori e politica. Così, la "regionalizzazione" dei soggetti politici, le "Italiae" del voto (per echeggiare un testo di Antonio Gesualdi), sono state ridisegnate dal M5s, nel 2013. Primo partito con una taglia e un impianto "nazionale". Distribuito in modo omogeneo in tutto il Paese.

Ebbene, i sintomi del "voto volatile", della perdita delle fedeltà e delle abitudini elettorali si ripropongono, moltiplicati, un anno dopo. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Per quanto specifiche, di "second'ordine", hanno confermato e accentuato le tendenze emerse un anno fa. Il movimento elettorale: ha coinvolto circa un terzo degli elettori (il 32%, per la precisione: sondaggio dell'Oss. Elettorale LaPolis-Università di Urbino). Nel 2009, alle precedenti elezioni europee, la quota di elettori che aveva votato per un'area politica diversa, rispetto alle politiche del 2008, era, comunque, più limitata: 26%.

I tempi della decisione di voto: si sono allungati. Circa il 12% degli elettori ha deciso solo negli ultimi giorni. Il 21% nell'ultima settimana. E la geografia elettorale si è "nazionalizzata". Non solo il M5S, ma anche il PD di Renzi ha assunto una configurazione nazionale. Ha sfondato soprattutto nel Nord, dov'era particolarmente debole (come la sinistra). La stessa Lega è slittata verso Sud e ha conseguito alcuni risultati significativi perfino in Sicilia. Se consideriamo l'esito del voto amministrativo, in parte diverso, la capacità "autonoma" di scelta degli elettori, in base alla specificità dei contesti e delle situazioni, diventa ancor più evidente. Insomma, ogni elezione è destinata a fare storia a sé. E in ogni futura consultazione, agli elettori, si porrà la questione: "per che", "per chi" e, prima ancora, "se" votare. L'elettore volatile, infatti, è guidato da alcuni interessi. Da alcuni valori. Ma non ha una casa e neppure un territorio dove abitare. Per sempre. Dipende. Dall'offerta di case e dall'appeal dei territori. Dalla proposta politica e dei politici. Ogni elezione: è un voto senza destinazione stabilita.

Il testo presenta la traccia della comunicazione che l'autore proporrà, insieme a Luigi Ceccarini, al seminario della SISE (Società Italiana di Studi Elettorali) dedicato alle elezioni europee (e amministrative) del 25 maggio 2014, che si svolge oggi (27 giugno) a Firenze (Regione Toscana - Palazzo Sacrati Strozzi, Sala Pegaso, Piazza Duomo).

(27 giugno 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/06/27/news/incertezze_elettore_volatile-90116736/?ref=HREC1-4
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« Risposta #398 inserito:: Luglio 13, 2014, 11:12:37 am »

Quando i Partiti si ribellano ai Capi

MAPPE
Sempre più i partiti si sono trasformati in partiti personali, che seguono ascesa e declino dei loro leader.
E in questo contesto i casi del Pd e di Fi, attraversati da divisioni e polemiche interne, sono, esemplari

Di ILVO DIAMANTI

È SIGNIFICATIVO il moltiplicarsi, in questa fase, di conflitti — accesi — dentro a quel che resta dei partiti. Dentro al Pd e (perfino) a Forza Italia, in particolare. Dovunque, la fonte dei contrasti è la stessa.

I leader contro (oltre) i partiti. E viceversa. I partiti, d’altronde, nel corso degli ultimi vent’anni sono cambiati profondamente. Si sono "personalizzati". Fino a trasformarsi in "partiti personali" (come li ha definiti Mauro Calise), più che personalizzati. Differenti versioni del "partito del Capo" (per echeggiare un recente saggio di Fabio Bordignon, pubblicato da Maggioli). Dove il Capo non emerge dalla selezione e dalla mobilità interna al partito. Ma ne è l’origine e il fine. Fino alla fine. Tanto che, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’ascesa e al declino — rapido — di formazioni, nuove ma anche vecchie. In seguito al destino del Capo. L’Idv, scomparsa insieme a Di Pietro. Scelta Civica, insieme a Monti. L’Udc insieme a Casini. Fli insieme a Fini. Mentre Rivoluzione Civile si è dissolta con Ingroia. E Sel è in bilico. Accanto a Vendola. Solo la Lega resiste, anche dopo Bossi, molto ridimensionata. Ma si tratta di un "derivato" dei partiti di massa.

I casi del Pd e di Fi, attraversati da divisioni e polemiche interne, sono, però, esemplari. Perché raffigurano due versioni simmetriche e opposte del Partito del Capo. Fi è un partito aziendale, "costruito" intorno a Fininvest e, soprattutto, a Publitalia — la società di marketing e pubblicità. Impensabile distinguere il Partito dal suo Capo. Proprietario e imprenditore. Ma anche marchio originale e originario. Così, la decadenza politica del Capo, seguita alla fine dell’ultimo governo Berlusconi, nel novembre 2011, ha segnato il fallimento della "costituzione di un grande partito liberal- conservatore" (come chiosa Piero Ignazi, nel recente saggio sulla parabola del berlusconismo Vent’anni dopo, edito dal Mulino). Ma ha prodotto, al tempo stesso, il rapido declino elettorale, avvenuto alle elezioni politiche del 2013 e proseguito alle recenti europee. Così, sorprende la reazione di alcuni gruppi ed esponenti di Forza Italia. Indisponibili ad accettare i patti negoziati dal loro Capo con Renzi, in tema di riforme istituzionali ed elettorali. Sorprende: perché Fi "dipende" da Berlusconi. Eppure, al tempo stesso, è automatico che gli eletti e i dirigenti — a livello locale e in Parlamento — si ribellino alla prospettiva di venire assimilati dentro al Pdr: il Partito di Renzi. D’altronde, anche se "incorporata" nel Capo, Fi, nel corso del tempo, ha assunto una propria struttura stabile e autonoma, presente e diffusa nelle istituzioni e negli organismi pubblici. Da cui dipende il presente e il futuro professionale, oltre che politico, di moltissime persone. Difficile chiedere loro di suicidarsi senza, almeno, tentare di resistere.

Anche il Pd, peraltro, è "in rivolta" contro il Capo. Come titolava Repubblica sabato scorso. Ma si tratta di una storia molto diversa. Perfino opposta. Perché il Pd è l’erede dei partiti di massa della Prima Repubblica, Pci e Dc. Emerso dall’esperienza dei soggetti politici post-comunisti e post- democristiani. Alleati nell’Ulivo e riuniti, infine, nel Partito Democratico. Un soggetto politico, per questo, dotato di radici ideologiche e organizzative profonde. Impiantate sul territorio e nella società. Anche per questo, estraneo a modelli leaderistici. Attraversato, semmai, per tradizione, da correnti e gruppi, a livello nazionale e locale. Così, nella Seconda Repubblica, se il Centrodestra si è identificato in un solo Capo, il Centrosinistra non ne ha avuto nessuno, di in-discutibile. Semmai, molti, in continuo conflitto reciproco. Nel Pd, per questo, ogni leader che emergeva è stato, puntualmente, delegittimato e allontanato — più o meno in fretta. Così è avvenuto a Prodi, D’Alema, Amato, Rutelli, Veltroni. Per ultimo, a Bersani. Anche per questo non è riuscito a reggere la concorrenza di Berlusconi. E ha sofferto quella di Grillo. Che ha "personalizzato" una rete ampia di esperienze di segno diverso. Offrendo rappresentanza alla crescente ondata di delusione (anti) politica.

Il Pd. È cambiato profondamente dopo l’avvento di Renzi. Il quale ha conquistato il più "impersonale" e "multi-personale" dei partiti. Il Pd, appunto. Renzi: lo ha espugnato attraverso un (lungo) rito di massa. Durato oltre un anno. Le (doppie) primarie. Divenuto segretario, Renzi ha "conquistato", in fretta, la presidenza del Consiglio. Ha affrontato, quindi, la campagna elettorale per le europee. Sempre di corsa. Senza quasi fermarsi. Annunciando, in rapida sequenza, le cose da fare, le riforme da realizzare. Con tale e tanta velocità da rendere difficile, agli elettori e agli stessi attori politici, verificare se e cosa davvero venisse fatto.

Così, Matteo Renzi ha realizzato il post-Pd. O meglio: il Pdr. Il Partito di Renzi. Un modello "presidenziale". Dove lui comunica, direttamente, con i suoi elettori. Che superano i confini del Pd. Alle recenti elezioni, infatti, nei comuni dove si è votato anche per il sindaco, il Pd, alle europee, ha ottenuto14 punti in più che alle comunali. E ha sfondato i confini tradizionali della zona rossa, dove era rimasto quasi imprigionato per oltre 60 anni.

Ma se perfino nel partito personale per definizione, Fi, le logiche di partito sono entrate in contrasto con quelle del leader, ciò appare ineluttabile anche per il Pd. Che mantiene ancora tradizioni ideologiche e legami sociali profondi. Ha gruppi dirigenti e parlamentari eletti "prima" dell’avvento di Renzi. Così il confronto fra il Partito e il Capo diventa inevitabile. Fra Renzi e il Pd. Fra il Pdr e il Pd. Siamo alla resa dei conti. In particolare perché le questioni in gioco — legge elettorale e abolizione del Senato elettivo — mettono in discussione il principio di legittimazione e l’esistenza stessa dell’attuale ceto politico.

Eppure converrebbe a entrambe le parti una soluzione condivisa. Perché il Pd senza il Pdr, senza Renzi, rischia di ritrovarsi marginale. Ma Renzi (e il Pdr), senza "conquistare" e modellare il Pd, rischia di rallentare la propria marcia. E Renzi, a velocità "moderata", non riesco proprio a immaginarlo. Potrebbe fermarsi presto.

Forse mi sbaglierò, ma nel contrasto tra Fi e Berlusconi, tra il Pd e Renzi, i margini di mediazione sono sottili. Quasi invisibili. Fra il Partito e il Capo: ne resterà soltanto uno…

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/07/news/quando_i_partiti_si_ribellano_ai_capi-90887396/?ref=HRER1-1
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« Risposta #399 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:19:43 am »

Noi, vicentini a nostra insaputa

Ilvo DIAMANTI
Può sembrare un paradosso: la Procura della Repubblica di Vicenza indaga sul mostro urbanistico di Borgo Berga. Insediamento immobiliare e commerciale dove sorge il Tribunale. In altri termini: la Procura indaga su se stessa. Per essere più precisi, sulla propria residenza. È l'esito dell'inchiesta condotta e pubblicata da Repubblica.it nei giorni scorsi, in seguito alla quale lo stesso procuratore capo, Antonino Cappelleri, ha affidato alla Guardia Forestale una serie di accertamenti per verificare se effettivamente le costruzioni abbiano violato "la norma".

Ma, in effetti, c'è poco di che sorprendersi. Perché la "norma" è il Blob immobiliare che si propaga intorno a Vicenza. Assimila la città al suo territorio. E lo rende progressivamente uguale. Omologo. Informe e, talora, deforme. Il Tribunale, in effetti, svetta. Altissimo. Imponente. Circondato da una plaga urbanistica - residenziale e commerciale - a ridosso del torrente (fiume) Retrone. Un nome ignoto a chi non abita a Vicenza. Come, d'altronde, il Bacchiglione. Salito agli onori della cronaca negli anni scorsi. In particolare, nel novembre 2010, quando esondò e alluvionò la città. Invase il centro storico. D'altronde, il Bacchiglione attraversa la campagna a Nord della città, dove tutti lo conoscono come Livelòn.

Il problema è che di campagna, ormai, ne è rimasta poca. Il terreno non assorbe più nulla. E la cura degli argini e del territorio, ormai, è sporadica. Così basta che piova forte per un paio di giorni e il torrente diventa un fiume in piena. Esonda. È avvenuto nel 2010, appunto. È capitato di nuovo l'anno dopo. E succederà ancora. Lì, oltre Ponte Marchese, entrato nel territorio di Vicenza, il Livelòn - oppure il Bacchiglione - costeggia l'area del Dal Molin. Fino a qualche anno fa un aeroporto civile. Dove ora sorge un villaggio costruito per accogliere i militari USA. Un progetto contro cui hanno protestato e marciato decine di migliaia di cittadini. Per anni. Inutilmente, visto che il villaggio è sorto ugualmente. E oggi si erge imponente. Una piccola Manhattan. A un quarto d'ora dal centro storico. Dalla Basilica palladiana, restituita, da un anno, all'antico splendore. Una meraviglia. Dalla terrazza domini la città e i dintorni. Puoi vedere il Dal Molin. E il nuovo Tribunale. Che sorge dall'altra parte della città. Verso il "basso vicentino". Non lontano dalla Basilica, appunto. E a due passi da Villa Capra Valmarana. La (famosa) Rotonda di Palladio. A conferma che a Vicenza, nel cuore del Nordest, i paradossi "ambientali" non esistono. Sono la "norma". Intorno al Bacchiglione e al Retrone, accanto alla Basilica e alla Rotonda: è tutto Dal Molin. È tutto Borgo Berga. Senza soluzione di continuità.

Vicenza e il suo territorio: progettati da Palladio e dagli immobiliaristi. Insieme. In modo indistinto. D'altronde, Palladio non è il nome di un centro commerciale? O forse no: di un impianto sportivo... Quanto alla Rotonda, in questa terra informe, "una" sola non basta. Non serve. Meglio 10-100-1000 "rotonde". Dovunque. Nei punti più impensati e impensabili. Piccole, medie, grandi e grandissime. Rotonde ovali e di molte altre forme diverse. Talora concatenate, come anelli di una collana. Rotonde finte e illusorie. (Qualche settimana fa ho imboccato una curva improvvisa contromano. Ero convinto fosse una rotonda...).

E allora perché stupirsi? Meglio non scandalizzarsi. Se la Procura ha sede in un Tribunale abusivo "a sua insaputa", anche noi viviamo in un territorio abusivo - a nostra insaputa. Siamo vicentini "a nostra insaputa".

(18 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/10/18/news/vicentini_a_nostra_insaputa-68840213/
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« Risposta #400 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:31:59 am »

Le incertezze dell'elettore volatile

Ilvo DIAMANTI
Siamo nell'epoca del "voto volatile". In cui le scelte elettorali hanno perduto coerenza e continuità. Un'epoca caratterizzata da mutamenti costanti e profondi. In cui ogni elezione diventa una competizione aperta. E, per gli elettori, un'occasione specifica, da affrontare senza certezze.

È da circa trent'anni, in effetti, che questa fase si è aperta. Solo che gli atteggiamenti non si traducevano in comportamenti. La disponibilità a cambiare non sfociava in comportamento. In particolare, per il deficit dell'offerta politica. E per il persistere del cleavage anti-comunista. Che "divideva" il mondo - il nostro piccolo mondo, a livello locale, nella vita quotidiana, nella realtà sociale e territoriale.

Unica, significativa, eccezione: vent'anni fa, nel 1994. Quando l'offerta politica cambia radicalmente. Perché, insieme al muro, dopo il 1989, in Italia erano crollati i partiti della Prima Repubblica. Per primi, i partiti anti-comunisti, la DC in testa. Così, le fedeltà elettorali si erano, necessariamente, spezzate. Salvo rinsaldarsi di nuovo. Per merito/causa di Berlusconi. Che aveva riproposto una duplice frattura. Coerente con il passato. Da un lato, aveva rilanciato la frattura anticomunista. Comunisti: tutti quelli che non stavano con lui. Dall'altro, ha evocato e promosso una nuova frattura, auto-centrata. La frattura "anti-berlusconiana". Da allora, e per vent'anni, il sentimento politico degli italiani si è adeguato a questa divisione. Anti-berlusconiani contro anti-comunisti. E viceversa. Così abbiamo assistito a una nuova epoca di stabilità elettorale, ben visibile sul piano territoriale. Visto che le mappe del voto, tenuto conto delle differenze dell'offerta politica, hanno riprodotto quelle del passato. Che vedono la sinistra ancora (co)stretta dentro i confini degli anni Quaranta. Nelle zone rosse. Mentre, intorno, si realizzava l'alleanza fra partiti regionalisti, post-democristiani e governativi. Nel Nord e nel Sud. Coalizzati e aggregati soprattutto da Berlusconi. Come, prima, dalla DC.

Parlare di "fedeltà", nella Seconda Repubblica, per questo, era ed è improprio. Perché i legami con la società, le radici dell'identità sono sempre più deboli. Come ha sostenuto Arturo Parisi (intervistato su Europa), meglio parlare di "abitudine". Riflesso della storia e della tradizione. Reazione soggettiva alla domanda di riconoscimento. Oppure risposta a interessi specifici. Abitudini, appunto, che però non hanno la forza della "fede" e neppure della fedeltà. Usurate, progressivamente, insieme all'artefice del cleavage della Seconda Repubblica. Soprattutto nell'ultima fase. Così, vent'anni dopo, anche le abitudini politiche non tengono più. Tanto più perché il rapporto con la politica si è personalizzato. Dal punto di vista dell'offerta: i partiti riassunti nelle persone. Nei leader. Ma anche della domanda. Visto che la partecipazione ha perduto i luoghi e i canali dell'aggregazione e dell'associazione. E della comunicazione. Nella "democrazia del pubblico", come l'ha definita Bernard Manin, i cittadini sono divenuti spettatori. A cui il leader si rivolge "personalmente", senza possibilità di re-azione. Mentre le nuove forme di coinvolgimento, impostate su internet e sui Social Media, prevedono persone che comunicano con altre persone. In direttamente (parafrasando Nadia Urbinati). Tutti insieme e tutti soli. Allo stesso tempo. Così, le fedeltà si sono perdute, perché non hanno più "senso". E le abitudini si acquisiscono e si perdono con qualche resistenza, ma senza troppi traumi. Soprattutto se sulla "fede" prevale il suo opposto: la "s-fiducia". Nei confronti di tutti gli attori politici: leader, partiti, istituzioni. È ciò che è avvenuto e si è verificato in Italia, in modo evidente ed esplicito, perfino violento, un anno fa. Alle elezioni politiche del 2013. Quando il 41% degli votanti ha cambiato area politica di riferimento (Indagine LaPolis). Anche per l'irrompere, sulla scena politica ed elettorale, di un soggetto politico che ha intercettato e canalizzato la "sfiducia": il M5s guidato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. In grado, da solo, di produrre il "movimento" di un quarto dei votanti. Nel decennio precedente, il "movimento elettorale" non aveva mai raggiunto il 10% (Indagini Itanes).

Ma l'epoca della volatilità e dell'incertezza elettorale si manifesta anche attraverso altri sintomi. In particolare, l'allungamento progressivo dei tempi di decisione del voto. Fino al momento del voto. Circa metà degli elettori riconosce di avere avuto dubbi, fin dall'inizio, se e per chi votare. Oltre il 10% ha continuato ad averne fino all'ultimo giorno.

La perdita della "fedeltà", ma anche delle "abitudini" di voto ha modificato, infine, il paesaggio elettorale. Scosso, dal 2013, da un continuo movimento sussultorio. La geografia elettorale: è divenuta fluida come i rapporti fra elettori e politica. Così, la "regionalizzazione" dei soggetti politici, le "Italiae" del voto (per echeggiare un testo di Antonio Gesualdi), sono state ridisegnate dal M5s, nel 2013. Primo partito con una taglia e un impianto "nazionale". Distribuito in modo omogeneo in tutto il Paese.

Ebbene, i sintomi del "voto volatile", della perdita delle fedeltà e delle abitudini elettorali si ripropongono, moltiplicati, un anno dopo. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Per quanto specifiche, di "second'ordine", hanno confermato e accentuato le tendenze emerse un anno fa. Il movimento elettorale: ha coinvolto circa un terzo degli elettori (il 32%, per la precisione: sondaggio dell'Oss. Elettorale LaPolis-Università di Urbino). Nel 2009, alle precedenti elezioni europee, la quota di elettori che aveva votato per un'area politica diversa, rispetto alle politiche del 2008, era, comunque, più limitata: 26%.

I tempi della decisione di voto: si sono allungati. Circa il 12% degli elettori ha deciso solo negli ultimi giorni. Il 21% nell'ultima settimana. E la geografia elettorale si è "nazionalizzata". Non solo il M5S, ma anche il PD di Renzi ha assunto una configurazione nazionale. Ha sfondato soprattutto nel Nord, dov'era particolarmente debole (come la sinistra). La stessa Lega è slittata verso Sud e ha conseguito alcuni risultati significativi perfino in Sicilia. Se consideriamo l'esito del voto amministrativo, in parte diverso, la capacità "autonoma" di scelta degli elettori, in base alla specificità dei contesti e delle situazioni, diventa ancor più evidente. Insomma, ogni elezione è destinata a fare storia a sé. E in ogni futura consultazione, agli elettori, si porrà la questione: "per che", "per chi" e, prima ancora, "se" votare. L'elettore volatile, infatti, è guidato da alcuni interessi. Da alcuni valori. Ma non ha una casa e neppure un territorio dove abitare. Per sempre. Dipende. Dall'offerta di case e dall'appeal dei territori. Dalla proposta politica e dei politici. Ogni elezione: è un voto senza destinazione stabilita.

Il testo presenta la traccia della comunicazione che l'autore proporrà, insieme a Luigi Ceccarini, al seminario della SISE (Società Italiana di Studi Elettorali) dedicato alle elezioni europee (e amministrative) del 25 maggio 2014, che si svolge oggi (27 giugno) a Firenze (Regione Toscana - Palazzo Sacrati Strozzi, Sala Pegaso, Piazza Duomo).

(27 giugno 2014) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/06/27/news/incertezze_elettore_volatile-90116736/
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« Risposta #401 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:36:39 am »

Gli sbarchi e i morti invisibili che mi assediano

Di Ilvo DIAMANTI

Non so quanti disperati siano partiti verso le nostre coste, negli ultimi mesi. Dal Nord Africa e dell’Africa profonda. Ammassati in barconi incerti e insicuri. Quante povere persone (?) stiano per partire e quante ne partiranno ancora. In fuga dalla violenza e dalla fame. Non so quanti ne siano arrivati. E quanti no. Quanti di essi siano annegati. Quante migliaia di poveri corpi siano sepolti nel fondo di quelle acque. Uomini, donne, bambini. Non lo so. Ma mi fa paura la mia assenza di orrore. Mi fa orrore la mia pena senza disperazione. Come si trattasse di un evento lontano, che non mi riguarda. E mi fa orrore la ricerca di soluzioni senza soluzione. Chiudiamo le frontiere... Ma se l’Italia è una frontiera in-finita!  Aiutiamoli a casa loro… Casa loro? Territori senza stato e senza pace? Senza futuro e senza presente? Attraversati dalla violenza e dalla fame?

Mi fa orrore la tentazione di allontanarli da me, come fossero una realtà distante. Ma quei barconi carichi di disperati, guidati da mercanti di morte, partono da terre vicine. Tanto vicine che, dalle nostre coste più a sud, in alcuni punti e in alcuni giorni, le puoi vedere a occhio nudo. Mi fa orrore la mia abitudine all’orrore. Alla disperazione. Anche se è una reazione di autodifesa. Serve a vivere e a sopravvivere. Ad allontanare l’angoscia.

Così mi concentro su me stesso, sulla mia famiglia, sui miei amici, sul mio lavoro. E sulle mie ferie. (Come potrei riposarmi e distendermi, non dico divertirmi, con quel carico stracarico di disperati negli occhi? Come potrei fare il bagno, entrare in acqua, pensando che il mare intorno a me, in verità, è un sepolcro?) Quei barconi. Li vedo sbarcare, sugli schermi, senza vederli. Come si trattasse di immagini artefatte. Documentari girati altrove, in altri tempi. Anche se sono veri, quei poveri fuggiaschi, diventano persone senza personalità, ai miei occhi. Non migranti, ma “stranieri”: estranei da me. Lontani dal mio mondo.

Per questo li guardo con ostilità. Non perché minaccino la mia vita e la mia condizione. La mia sicurezza. Ma perché mi (im) pongono di fronte alla mia indifferenza. Alla rimozione dell’orrore - dagli occhi e dalla mente. E mi costringono a trasferire su di me la pena che dovrei provare verso gli altri. Così la sofferenza diventa insofferenza.  Risentimento. Verso quei disperati che mi fanno scoprire – e sentire - assediato. Da me stesso.

(25 luglio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/07/25/news/gli_sbarchi_e_i_morti_invisibili_che_mi_assediano-92343541/?ref=HRER2-2
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« Risposta #402 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:33:55 pm »

La democrazia per caso

Mappe. Il dubbio di fronte alle accuse di autoritarismo rivolte a Renzi non è che siano infondate ma che siano fuori luogo e fuori tempo.
Perché si tratta di storie vecchie, scritte da tempo. Senza troppo scandalo, anzi nell'indifferenza

di ILVO DIAMANTI
04 agosto 2014

La democrazia per caso
Per definire il disegno di riforma istituzionale avviato dal governo, si parla apertamente di deriva autoritaria. O di attentato golpista alla Costituzione. Mentre Matteo Renzi viene, per questo, descritto come un Pinochet. Un Piccolo Dittatore.

Più ridicolo, seppure (forse) meno pericoloso della rappresentazione - geniale - proposta da Chaplin, in altri tempi. Per tracciare la parabola - tragica - del Grande Dittatore. Più mediocremente, a Renzi viene imputato di avere progressivamente svuotato le istituzioni della democrazia rappresentativa, in particolare il Parlamento. Fino al punto di neutralizzarne un ramo: il Senato. Dove è sempre stato difficile disporre di maggioranze stabili. Renzi, d'altronde, è accusato di insofferenza verso ogni mediazione. Verso i partiti e i corpi intermedi. Sindacato e organizzazioni degli imprenditori, in primo luogo. E verso ogni controllo, si tratti di tecnici oppure di magistrati.

D'altra parte, Renzi ha ri-assunto in sé i ruoli di capo del governo e del partito di maggioranza. Al tempo stesso, ha piegato il Pd a propria misura e immagine. Lo ha trasformato nel PdR, il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In Parlamento, governa con una maggioranza variabile. A cui partecipano Ncd, i Centristi. Ma anche Fi. Dipende dagli argomenti. E, a seconda degli argomenti, appunto, deve affrontare l'opposizione, di Sel, della Lega, ma anche di Fi e - in modo non sempre palese - di componenti del Pd. Mentre diffida, per principio, della concertazione con le organizzazioni di rappresentanza degli interessi. Quanto al governo, si affida ai più fidati e fedeli (si scusi il bisticcio di parole). E per quel che riguarda i tecnici, se rallentano la marcia del governo e del suo Capo, vengono rimossi. Come, in questi giorni, Cottarelli, responsabile della spending review. Insomma, Renzi starebbe conducendo il Paese lungo una china autoritaria.

Il mio dubbio, di fronte a queste accuse, non è che siano infondate, ma fuori tempo e fuori luogo. Perché fanno riferimento a tendenze che Renzi non ha "inventato". Semmai, assecondato. In parte: accelerato. Per convenienza. Perché si tratta di storie vecchie. Scritte da tempo. Senza troppo scandalo e, anzi, nell'indifferenza.

La personalizzazione della politica e dei partiti. È in atto dagli anni Ottanta. Interpretata da Craxi. E, in modo diverso, anche da Berlinguer. Ma ha conosciuto una forte accentuazione negli anni Novanta. Assieme alla fine della Prima Repubblica, fondata sui partiti (di massa). Allora si è sviluppato il rapporto diretto fra cittadini e leader. Soprattutto dopo la "discesa in campo" di Berlusconi. Che ha usato le (proprie) televisioni come canale di partecipazione e di consenso. Gli altri partiti si sono adeguati. O hanno cercato di farlo. Con maggiore o minore successo. Si è aperta così l'era dei "partiti personali", la cui identità ed esistenza coincidono con quella del Capo. Sorti e scomparsi, oppure ridimensionati, insieme ai loro leader. Senza un leader capace di comunicare con gli elettori in modo "diretto", è divenuto pressoché impossibile vincere le elezioni. Per questo il Centrosinistra, da ultimo il Pd, erede dei partiti di massa, ha sempre stentato ad affermarsi. E, ancor più, a durare. Fino all'arrivo di Renzi, appunto.

La stessa - contestata - mutazione "genetica" delle istituzioni democratiche ha origini lontane. Anche in questo caso, è dagli anni Novanta che si assiste alla progressiva presidenzializzazione dei governi, peraltro coerente con quanto avviene altrove in Europa (come ha sottolineato una ricerca di Poguntke e Webb). Da allora, infatti, tutti i capi dei governi territoriali sono eletti "direttamente". Non solo i Sindaci, ma anche i Presidenti di Provincia e di Regione, rispondono direttamente ai cittadini. Allo stesso tempo, il peso politico dei Presidenti del Consiglio è aumentato, coerentemente con il loro legame "diretto" con i cittadini. Sottolineato dalla tendenza, consolidata, ad associare le coalizioni al candidato premier. Il cui nome è accostato al simbolo del partito, nelle stesse schede elettorali. Una consuetudine denunciata, da anni, da Giovanni Sartori come incostituzionale. Perché aggira le logiche della nostra democrazia. Parlamentare. Peraltro, anche il Presidente della Repubblica ha assunto un ruolo ben diverso da quel che eravamo abituati. Da Cossiga a Scalfaro, da Ciampi a Napolitano è divenuto un protagonista delle vicende politiche e istituzionali.

Infine, la concertazione. Il ridimensionamento del negoziato con i gruppi di interesse. Si era affermata negli anni Novanta, non a caso, nel vuoto politico e di governo lasciato dal crollo della Prima Repubblica. Ma, al tempo stesso, ha sottratto competenze e responsabilità alla politica e ai suoi attori. Oggi, però, i sindacati e le stesse associazioni imprenditoriali rappresentano sempre meno il mercato del lavoro. I sindacati: hanno una base composta perlopiù da pensionati e da impiegati pubblici. Mentre molti imprenditori si rappresentano da soli. E le loro organizzazioni si sono frammentate. Come il mercato.

Così, nel corso degli anni, l'Italia ha cambiato forma istituzionale e costituzionale. A metà fra presidenzialismo e premierato. Fra accentramento e federalismo. Senza disegni né riforme di sistema. Di fatto. Inseguendo emergenze continue e in-finite. Reagendo a spinte particolari e faziose. Chi accusa Renzi, oggi, di stravolgere la Costituzione dimentica, dunque, che ciò è già avvenuto. Da tempo. Almeno da vent'anni. E da vent'anni siamo divenuti una Repubblica "preterintenzionale". Dove vige una democrazia ibrida, a metà fra personalizzazione ultrà e partecipazione diretta. Fra leaderismo e rete. Fra Tv e Web. A Renzi, semmai, si dovrebbe imputare di non avere inventato nulla. E di non avere l'intenzione di farlo. Cioè, di non essere interessato tanto a dare senso al caos, pardon, al "caso" istituzionale, che (s) regola il Paese. Ma, semmai, di assecondarlo. Selettivamente. Accentuando e rafforzando gli aspetti più coerenti con i suoi interessi. E con la sua vocazione di Leader del PdR. Alla guida di un governo personale e di una democrazia per caso.

Per andare oltre, ci vorrebbe un progetto coerente, elaborato e discusso in un'assemblea costituente. Eletta dai cittadini, visto che le Bicamerali hanno sempre prodotto esiti improduttivi. (E poi, se il Senato perdesse gli attuali poteri, che Bicamerale sarebbe?). Ma, per procedere in questa direzione, ci vorrebbero tempo e con-divisione. In tempi veloci e divisi - o meglio, frantumati - come questi, non riesco a sperarci.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/04/news/mappe_democrazia_per_caso-93071281/?ref=HRER3-1
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« Risposta #403 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:24:37 pm »

Il piglio del premier e il valore del Pd
di ILVO DIAMANTI

11 agosto 2014
   
Viviamo tempi di democrazia "immediata". Dove le "mediazioni" e i "mediatori" sono più deboli. I partiti, le istituzioni rappresentative, le organizzazioni di interesse, ma anche i giornali e i giornalisti. Sono messi in discussione.

Mentre hanno conquistato rilievo la rete, i blog e i blogger. Così si è allargato lo spazio della relazione diretta fra leader e cittadini, fra cittadini e leader. Attraverso la rete. Ma anche la TV. Il dualismo fra Renzi e Grillo, alle ultime elezioni europee, ne fornisce un riassunto fedele. E conferma i limiti della rete, quando è il principale, se non unico, canale di comunicazione politica. Mentre Renzi interpreta, meglio degli altri, quel modello di "democrazia personale", ancor più che "personalizzata", che si è affermata in Italia. Ma anche altrove, in Europa.

Lo ha osservato, nel suo editoriale di ieri, Eugenio Scalfari. Il quale, una settimana fa, aveva già parlato di "egemonia individuale". Una tendenza che, a mio avviso, non va confusa con l'autoritarismo. Sul piano della "personalità" (per echeggiare Adorno), il tipo "autoritario" delinea, infatti, una sorta di "fascismo potenziale". Ebbene, io fatico a cogliere, in questi tempi e nel leader che li orienta, il marchio del fascismo potenziale. Anche se, come ho scritto, avrei affidato la riforma del Senato e, dunque, la modifica della Costituzione, a un'Assemblea Costituente eletta dai cittadini. Tuttavia, questa semplificazione istituzionale non mi sembra annunci una svolta "autoritaria". Ma conferma, semmai, la tensione fra diversi tipi di "democrazia".

Tuttavia, questa semplificazione istituzionale non mi sembra annunci una svolta "autoritaria". Nonostante che lo stesso Renzi, intervistato dal Financial Times, si spinga ad affermare che "nemmeno i dittatori riescono a fare le cose così in fretta...". Questa stessa affermazione conferma, piuttosto, la necessità del premier di marcare la sua diversità, rispetto agli altri. Il suo piglio "decisionista" insieme alla sua ricerca di consenso sociale. Il che conferma la tensione fra diversi tipi di "democrazia", che agita questa fase di cambiamento.

D'altronde, la democrazia rappresentativa riflette l'equilibrio instabile fra istanze di governo - legittimo - e partecipazione - diretta - dei cittadini. Ciò che, in fondo, Scalfari definisce "oligarchia democraticamente eletta". E che Bernard Manin chiama "aristocrazia democratica", perché l'elezione esprime, necessariamente, un'èlite. Non è, quindi, fonte di "democrazia in diretta" (per citare un recente saggio di Nadia Urbinati). Ma, semmai, "indiretta". Per tornare al presente, noi viviamo in tempi di "democrazia ibrida", "mediata" da diversi "media", che spingono in direzioni contrastanti. La tv e la rete, in particolare. Alimentano, da un lato, la "democrazia del pubblico" (come la chiama Manin), dove i cittadini sono spettatori. Dall'altro, la "contro-democrazia" (come la chiama Rosanvallon). La democrazia (diretta) del controllo e della sorveglianza.

Al tempo della democrazia ibrida, per governare, occorre, dunque, controllare diversi modelli e luoghi di consenso e partecipazione. Non solo la televisione e la rete, ma anche la piazza. Per questo Grillo, nella recente campagna elettorale, oltre a presidiare la rete, è andato da Bruno Vespa, ma anche, di nuovo, a Piazza San Giovanni. Per questo Berlusconi oggi è "periferico". Rinchiuso nella tivù, oltre che, per alcuni mesi, in casa. In-credibile sui nuovi media. E, inoltre, inefficace nella mobilitazione sociale, perché il suo partito non c'è praticamente più. Per questo, infine, oggi Renzi si propone come leader di successo. Perché è in grado di dialogare con i diversi media e i diversi modelli di democrazia. Abile a comunicare in televisione, ma anche sui social media. Consigliato da esperti di marketing politico e da blogger di grande competenza. Infine, o meglio: anzitutto, Renzi dispone della principale "struttura" della democrazia rappresentativa. Il Partito. Anzi: il Partito democratico.

Io, da tempo, lo definisco PdR. Partito democratico di Renzi. O Partito di Renzi. Per marcare la connotazione "personale" che ha assunto. Tuttavia, occorre chiarirlo con forza, oltre alla R c'è il Pd. Perché se Renzi ha allargato la platea del Pd, è anche vero l'inverso. Il Pd ha offerto a Renzi una base elettorale ampia, fedele e radicata. Che lo ha votato e lo voterebbe anche se non gli piace. Per "fedeltà". Così è avvenuto, in fondo, anche al Senato, negli ultimi giorni. Quando la riforma è stata approvata con il voto di gran parte dei senatori del Pd. Nonostante il dissenso interno.

Possiamo, comunque, fornire qualche indice più preciso di queste componenti. Anzitutto, possiamo ragionare sulla differenza tra il risultato alle politiche del 2013 e alle europee del 2014. (Per quanto si tratti di un indizio molto approssimativo e precario). La progressione del Pd, nelle due occasioni, è di circa 15 punti percentuali. Anche se isoliamo i comuni maggiori dove si è votato lo scorso 25 maggio, però, si osserva una tendenza simile. Alle Europee, infatti, il Pd ha ottenuto circa il 44%, alle comunali il 29%. Di nuovo: 15 punti di differenza.

Sul piano demoscopico, possiamo utilizzare un sondaggio condotto da Demos la settimana dopo le recenti elezioni su un campione nazionale. Messi di fronte all'alternativa tra leader e partito, gli elettori del Pd che si definiscono anzitutto "renziani" sono circa il 41%. Quelli che, pur indicando un leader preferito, si dicono anzitutto "elettori del Pd" sono il 34%. Ma il 19% non indica un leader preferito e può, quindi, essere considerato un leader orientato al partito.

Renzi, dunque, ha allargato il "pubblico" del Pd di oltre un terzo. Ha svuotato Scelta Civica e l'UdC, ha intercettato una quota significativa della base di FI e alcune componenti del M5s. Parallelamente, il Pd ha perduto una parte consistente del suo elettorato "ideologico", a favore di quello "personale". Che oggi pesa, mediamente, più che negli altri partiti. Tuttavia, si tratta di un valore aggiunto, che si somma a una base "fedele" molto più ampia rispetto agli altri partiti. Per questo oggi la leadership di Renzi prevale in modo tanto evidente. Perché nel PdR coabita oltre un terzo di elettori che vota per Renzi, anche se non ama il Pd. Mentre circa il 60% voterebbe per il Pd comunque. Anche "nonostante" Renzi.

Nessun altro partito, in questa democrazia personale, dispone di un leader tanto attraente come Renzi. Ma nessun altro leader dispone di un partito vero - l'unico sulla piazza - come il Pd. È questo il plusvalore del PdR. Oltre alla R, anzi: prima, c'è il Pd. E questo costituisce un grande vantaggio competitivo.
Ma, per Renzi, anche un grande rischio: fino a quando sarà in grado di tenere insieme, uniti e coerenti, questi due "partiti"?

© Riproduzione riservata 11 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/11/news/il_piglio_del_premier_e_il_valore_del_pd-93543011/?ref=HRER1-1
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« Risposta #404 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:37:10 pm »

Sostiene Tavecchio
Di ILVO DIAMANTI

Ebbene sì. Sono anch'io un tifoso, come metà degli italiani. E il tifo è un'appartenenza, quasi una fede. Assai più forte di quella politica. Infatti, molte persone cambiano partito, anche più volte. Talora perfino religione. Ma ne conosco pochi che abbiano cambiato la squadra per cui tifano. Cito, per tutti, il mio amico Mario, milanista da sempre. Una ventina d'anni fa si convertì. Cambiò il suo "credo" (come altri della sua chiesa). Divenne romanista. Non ricordo bene perché...

A chi tifa, però, non importa molto dei dirigenti di Lega e Federazione. Perlopiù, non li conoscono. Sanno appena chi sia il presidente del loro club. E non è detto. L'importante è che abbia risorse. E le investa. Per rendere la squadra più forte. Semmai, sono i presidenti a servirsi del calcio come veicolo di popolarità. E di potere. Politico, economico, commerciale. E, allora, chissenefrega di quel che sostiene Tavecchio. Delle sue parole sugli Opti Poba, che prima mangiavano le banane e oggi giocano alla Lazio... (video)

I più - tifosi e non - ne ignoravano l'esistenza, fino a ieri. Eppure Tavecchio è il rappresentante medio della classe dirigente del nostro calcio - o meglio: dei nostri club. Ma anche di una parte dei tifosi. Di una parte degli ultras. Della curva. E non solo. Perché il razzismo è diffuso. Ben oltre i confini del tifo e degli ultras. Le banane volano in campo dalle curve, ma anche da altri settori dello stadio. Contro i "nemici" di altro colore - e, soprattutto, di altra maglia. Tavecchio, dunque, è un dirigente "rappresentativo", che, con le sue parole, offre "rappresentanza" e visibilità a questa parte del tifo e degli stadi. Ben al di là dei suoi "meriti" e delle sue stesse intenzioni. Rischia, dunque, di dare legittimazione all'intolleranza che affolla le curve e gli stadi. Non solo italiani, ovviamente. Anche se solo in Italia può capitare che chi si esprime in quel modo possa diventare Presidente della Federazione. Il Rappresentante del Calcio Nazionale. Tanto che la stampa estera l'ha messo in prima pagina. Come "Le Monde": "Il razzismo si insedia alla testa del calcio italiano". Ma, appunto, chissenefrega. Se ciò avviene è perché, nel mondo del calcio, Tavecchio non è un caso "singolare", ma "esemplare". E ai suoi Grandi (sic!) Elettori non crea problema essere "rappresentati" da lui e dalle sue parole. D'altronde, in un Paese di piccole imprese, è giusto difendere i piccoli club italiani dagli "agnelli americani". Con i "preziosi" voti dei "lotiti" e dei "galliani". Che, com'è noto, non hanno legami con la politica, gli affari e le televisioni...

Per questo, conviene affidare il governo del calcio a Tavecchio. Specchio delle nostre (loro) società. Grandi e, ancor più, piccole. Non penserete mica che il calcio sia un "affare" per appassionati e idealisti?  Finalizzato a coltivare le buone maniere, il rispetto per gli altri? Il "bene comune"? Anch'io, d'altronde, quando tifo mi trasformo. Divento una specie di mostro. Come Hulk (quello verde, non il calciatore brasiliano). Meglio starmi distante...
E allora, viva Tavecchio! Che ha ideato la nuova bandiera della Nazionale. Simbolo di integrazione. Un tricolore con l'icona del piccolo Opti Poba. Che mangia una banana.

(09 agosto 2014) © Riproduzione riservata

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