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« Risposta #375 inserito:: Febbraio 24, 2014, 05:50:29 pm » |
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Il governo personale che corre veloce di ILVO DIAMANTI Il governo presieduto da Renzi contrasta violentemente con il precedente, presieduto da Letta. Per diverse ragioni. La prima, esplicita, riguarda il modo in cui è nato. Uno "strappo" personale. Subìto da Enrico Letta, ma anche da Napolitano, che aveva ispirato e tutelato il premier uscente. In qualche misura, questo è un governo del Presidente, in cui il ruolo presidenziale, però, non è più interpretato dal presidente della Repubblica, ma dal presidente del Consiglio. Matteo Renzi, appunto. Perché questo è il "suo" governo. Non quello di Napolitano. Ma neppure di altri leader: del Pd e dei partiti alleati. La lista dei ministri, per questo, conta, ma non troppo. In parte riproduce lo schema del governo precedente. Per qualità complessiva, a mio avviso, non è migliore. Ma poco importa. In fondo, i due precedenti governi, sostenuti da maggioranze simili, non hanno prodotto i risultati promessi. L'esperienza del governo dei tecnici, presieduto da Monti, anzi, ha contribuito al risultato elettorale di un anno fa. Quando, appunto, nessuno ha vinto. Se non il M5s: il partito degli antipartito. Che ha proseguito lungo il medesimo percorso anche in Parlamento. Come ha dimostrato, plasticamente, il confronto in streaming fra Grillo e Renzi. La seconda differenza, rispetto all'esperienza precedente, riguarda la composizione e, soprattutto, la natura della maggioranza. Il governo delle larghe intese era fondato sull'emergenza e sull'equilibrio. Dunque, sulla "stabilità". Non era il governo "di" Letta, ma un puzzle complesso, affidato all'opera di composizione del premier (... inter pares), sotto l'occhio vigile di Napolitano. Oggi il quadro è molto diverso. Anzitutto, la maggioranza parlamentare è cambiata. Il Pdl non c'è più. Berlusconi è all'opposizione, ma dialoga con Renzi, sulle riforme istituzionali. Il Centro è in briciole. Il Pd è attraversato da tensioni, ma è, di gran lunga, il partito più forte e unito. Dopo le primarie, in particolare, ha visto crescere i consensi e ha un leader forte. Fin troppo, magari. Così, il governo che nasce non ha un programma definito, ma una serie di obiettivi da perseguire in fretta. Per primi: la legge elettorale e le leggi istituzionali. Poi, la crescita economica, l'occupazione dei giovani, la riduzione delle tasse, la sburocratizzazione della pubblica amministrazione. In effetti, il vero programma del governo Renzi è di auto-legittimarsi. In Parlamento e di fronte agli elettori. E, per questo, si propone di "fare" le riforme. Al di là dei contenuti: portarle ad approvazione. In modo veloce. Una riforma al mese. Perché questo è il marchio di Renzi: la velocità. E perché è il segno dei tempi. Veloci. Dove gli esami non finiscono mai. Ma cominciano in fretta. Il primo, importante: fra tre mesi giusti. Le elezioni europee. Dove il premier e segretario del Pd misurerà il proprio peso politico "personale". Un'occasione di verifica determinante. Per tutti: partiti e antipartiti; maggioranza, opposizione e M5s, che si oppone alla maggioranza e all'opposizione. Poi si vedrà. Di certo, questo non è un governo a tempo. Perché non ha una missione precisa, se non governare e, in questo modo, rafforzarsi. L'altro elemento che caratterizza il programma di Renzi è "comunicato", con efficacia, dalla composizione del governo. Dalla biografia e dalla storia dei suoi ministri. Con qualche eccezione (Per tutti: Pier Carlo Padoan, indicato da Napolitano e dalla Ue), si tratta di giovani, di età e, spesso, di esperienza. Scalfari, nell'editoriale di ieri, l'ha definito, per questo, un governo "pop". A me, piuttosto, pare il "suo" governo. Un governo "personale". Dove l'unica figura e l'unica immagine che conti è la sua. E lo stesso vale dal punto di vista politico. Perché nel progetto di Renzi non c'è distanza eccessiva tra la maggioranza parlamentare e il partito. Fra il governo e il Pd. D'altronde, Renzi è il leader del Pd, per volontà degli elettori e dei simpatizzanti. Il Pd: l'unico vero partito rimasto in Parlamento e nel Paese. Gli altri navigano intorno a lui, in Parlamento. E, fra gli elettori, non hanno grande fondamento. Mentre, a destra, c'è un'opposizione debole. Quanto a Fi: è difficile per Berlusconi essere credibile, agli arresti domiciliari. E c'è il sospetto (e qualcosa di più...) che Renzi dialoghi con lui, anzitutto, per sottrargli elettori. Mentre la sfida antisistema del M5s potrebbe indebolirsi se non producesse risultati evidenti. D'altronde, alla "durata" del governo di Renzi contribuisce la resistenza di gran parte dei parlamentari di fronte all'ipotesi di tornare al voto. Visto che oltre la metà di essi è di prima nomina e, con il Porcellum "emendato" dalla Corte Costituzionale, pochi di loro avrebbero la garanzia di essere rieletti. Tutto ciò, in fondo, rischia di agevolare il compito di Renzi. Rafforzato dalla debolezza degli altri. E non è da escludere che, strada facendo, potrebbe trasformare questa maggioranza politica nel "suo" soggetto politico. Post-ideologico, post-comunista, post (e un poco neo) democristiano e post-berlusconiano. Infine. Post-moderno (come suggerisce Fabio Bordignon in un saggio su SESP). Il Post-Pd. Il partito Renziano. Raccolto intorno a un leader "nuovo" che raccoglie consensi personali crescenti, al di là e nonostante le sue azioni politiche. Come l'operazione ai danni di Letta. Non è piaciuta alla maggioranza degli elettori, ma la fiducia in Renzi, negli ultimi giorni, è salita lo stesso, raggiungendo il 60% (dati Ipsos). Il fatto è che gli elettori non si fidano più dei partiti e neppure delle istituzioni. Per cui tendono a personalizzare tutto. Anche e soprattutto le loro speranze. E oggi, dopo Monti, Bersani e Letta, finito il tempo dei tecnici e dei partiti, si affidano a un Capo che non si fida molto dei tecnici e neppure dei politici e dei partiti. Anche se (e proprio perché) pare faccia opposizione anche se sta al governo. Quasi che non c'entrasse con quel mondo. Il futuro di Renzi e del "suo" governo, dunque, appare molto incerto. Perché così è il futuro: incerto. E ogni scenario possibile dura l'arco di qualche giorno al massimo. Tuttavia, Renzi corre veloce, in tempi molto veloci. Non impiegheremo molto a capire se avrà un futuro. E che futuro avrà. Lui, il governo, il Parlamento. Il Paese. © Riproduzione riservata 24 febbraio 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/24/news/il_governo_personale_che_corre_veloce-79473423/?ref=HREA-1
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« Risposta #376 inserito:: Febbraio 26, 2014, 05:49:29 pm » |
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Renzi e il mito dei giovani al governo Ilvo DIAMANTI È singolare. In un Paese sempre più vecchio, dove i giovani sono perlopiù precari. E quando possono, se possono, se ne vanno via. Perché, come pensano due terzi gli italiani e quasi 8 giovani su 10, per fare carriera occorre migrare, andarsene altrove. Ebbene, in questo Paese vecchio, dove a quarant’anni ci si sente e si è considerati ancora giovani. E dove ci si definisce vecchi solo dopo aver compiuto 84 anni. In questo Paese, in Italia, è stato varato un governo di giovani. Guidato dal Presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana. Certo, anche Enrico Letta era giovane. Anzi, molto giovane, rispetto agli standard della politica italiana. Ma ha 10 anni di più. Ma, soprattutto, per lui vale quel che, a volte, i miei figli suggeriscono al mio riguardo (non senza ragione). Che a 18 anni è come ne avessi già avuto 40. A 18 anni, secondo loro, ero già vecchio. Matteo Renzi, invece, è giovane. Per stile e per immagine. Oltre che di età e per biografia politica personale. È arrivato alla guida del governo senza essere stato eletto in Parlamento. Senza aver conosciuto la Prima Repubblica. Nel 1992, mentre infuriava Tangentopoli, Renzi aveva 17 anni. Non era ancora maggiorenne. E oggi è spietatamente giovane. Ostenta la sua frattura generazionale, senza indulgenza per i “vecchi” politici. Da rottamare senza tanti problemi. Li sfida a viso aperto, le mani in tasca, in modo sfacciato, mentre parla al Senato, prima del voto di fiducia. Renzi. Giovane, in mezzo ai giovani. Il suo governo, è composto di giovani. Con poche eccezioni. Per primo Pier Carlo Padoan, il garante dell’economia verso la UE. Anch’egli, peraltro, politicamente “giovane”. Poi mi viene in mente Franceschini. Gli altri ministri, perlopiù, hanno poca esperienza istituzionale e un cursus honorum corto. E, per questo, sono poco conosciuti, se non, perfino, sconosciuti. Anche a me, almeno, che mi occupo di politica, ma non passo il tempo a consultare la Navicella, dove vengono proposte le note biografiche degli eletti al Parlamento. Per rispetto nei confronti degli interessati, non faccio nomi. Anche perché, lo ammetto, di alcuni di essi non conosco le opere né i giorni. E neppure i nomi… Non so se questo sia un problema solo mio. Non so neppure se sia un problema. In fondo, si continua a recriminare contro la gerontocrazia che regola il nostro mondo. Io stesso ho scritto invettive contro il Paese che fa fuggire i suoi giovani. E non è in grado di richiamarli, di farli tornare a casa. D’altronde, tre anni di governi affidati ai tecnici e agli esperti non è che abbiano prodotto risultati clamorosi. Non vorrei, tuttavia, apparire come l’ipercritico di professione, a cui non va mai bene nulla. E contesta oggi quel che ieri auspicava. Non vorrei. Però un po’ di misura, di equilibrio, in questo Paese, pare impossibile da ottenere. Tutto tutto niente niente, per citare quell’osservatore acuto – e acuminato - della nostra società che si chiama Antonio Albanese. Per dirla in altro modo: tutti vecchi o tutti giovani. Senza mediazioni. Eppure, a rischio di apparire impopolare e in contraddizione con me stesso, io credo che qualche “vecchio”, qualche tecnico o, almeno, qualche esperto, oppure, meglio ancora, qualche politico esperto e sperimentato, alla guida del Paese. Nel governo e nei gruppi dirigenti. Non ci starebbe male. Perché l’esperienza, perfino l’età, possono servire, in qualche occasione. In qualche misura. Tanto più e soprattutto in mezzo a tanti giovani. Qualche faccia nota, qualche capitano di lungo corso, in mezzo a tanti giovani marinai, potrebbe essere utile. A me, che ormai ho un’età, offrirebbe rassicurazione. Mi farebbe sentire un po’ meno vecchio (non giovane, per carità). Meno estraneo. E poi, in fondo, se il governo dovrebbe offrire uno specchio al Paese, del Paese, c’è il serio rischio di confondersi. Di non riconoscersi. Una classe dirigente così giovane e nuova, un governo così giovane e nuovo, un premier così giovane e nuovo, in un Paese così vecchio, con una gioventù così precaria, con gli occhi e la testa rivolti altrove. Che cosa c’entrano? Perché è giusto voltare pagina, assecondare la domanda di cambiamento. Svecchiare e rottamare. E io sono disponibile a fare la mia parte. Cioè, a farmi da parte. (Mi costerebbe poco: non ho incarichi pubblici di alcun tipo.) Ma, per costruire il futuro, non possiamo abolire il passato. Se non vogliamo ridurci a inseguire il presente. A ogni costo. (25 febbraio 2014) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/02/25/news/renzi_e_il_mito_dei_giovani_al_governo-79565742/?ref=HREA-1
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« Risposta #377 inserito:: Marzo 03, 2014, 05:33:00 pm » |
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Fiducia al 56% per il governo Renzi: uno su tre crede che arriverà al 2018 L'Atlante Politico. La promessa di una riforma al mese convince 6 elettori su 10 di ILVO DIAMANTI 03 marzo 2014 All'indomani della fiducia, ottenuta alle Camere, Renzi e il suo governo procedono spediti. Sostenuti da un elevato livello di consenso. Ma, al tempo stesso, da una diffusa consapevolezza circa le difficoltà e i rischi che li attendono. Oltre il 56%, degli elettori, secondo l'Atlante Politico di Demos, attribuisce loro - a Renzi e al governo - un giudizio positivo. Pari o superiore a 6. Non è poco, visto che si tratta del terzo governo negli ultimi tre anni. Da quando Mario Monti, nel novembre 2011, subentrò a Silvio Berlusconi. L'arrivo di Monti, allora, apparve la fine di un incubo. Il suo, non a caso, resta il governo più stimato, al momento dell'incarico. Anche se, un anno dopo, la delusione travolse anche lui. Fiducia al 56% per il governo Renzi: uno su tre crede che arriverà al 2018 TUTTI I DATI E I GRAFICI DEL SONDAGGIO su: http://www.repubblica.it/politica/2014/03/03/news/fiducia_al_56_per_il_governo_renzi_uno_su_tre_crede_che_arriver_al_2018-80065936/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-03-2014Matteo Renzi, invece, ha rimpiazzato Enrico Letta alla guida del governo, nelle scorse settimane, dopo tensioni interne alla maggioranza e, per primo, al Pd. Con un'accelerazione che non è piaciuta agli stessi elettori di centrosinistra. Eppure il consenso a favore del governo e, a maggior ragione, del Premier appare molto ampio. La fiducia personale nei confronti di Renzi, infatti, supera il 64%. Ma è interessante osservare come il più apprezzato, dopo di lui, resti proprio Letta (52%). D'altronde, la quota di chi valuta il governo Renzi migliore del precedente, guidato da Letta, non è maggioritaria. Misura, infatti, intorno al 44%, mentre oltre un terzo degli elettori li giudica più o meno equivalenti. La considerazione di cui ancora dispone Letta appare, in qualche misura, un riconoscimento e, forse, anche un "risarcimento" di fronte al - discusso - finale del suo governo. Ciò, però, rende ancor più significativo il grado di fiducia personale nei confronti di Renzi. (Che, fra i "simpatizzanti" di Letta, sale all'85%.) E ne suggerisce la ragione, forse, più importante. La domanda di "autorità". La richiesta di guida e di rappresentanza che ampia parte della società ha, ormai, trasferito dai partiti alle persone. Tanto che, lo rammentiamo, quasi il 70% degli italiani si dice d'accordo con l'opinione secondo cui, in questo clima di confusione, "ci vorrebbe un uomo forte alla guida del Paese" (Sondaggio Demos, gennaio 2014). Renzi, in fondo, risponde a questa estesa domanda di leadership. Sottolineata dal consenso trasversale di cui egli dispone. Da Sinistra a Destra, passando per il Centro. Con la sola eccezione degli elettori del M5S, fra i quali, peraltro, è apprezzato da oltre il 43%. Certo, a Renzi manca la legittimazione del passaggio elettorale. Tuttavia, egli è stato plebiscitato alle primarie del Pd, l'unico partito "vero" rimasto. Ma il suo consenso dipende anche dal "modo" in cui si è imposto. Con la forza. Per certi versi, con la prepotenza. Renzi appare, quindi, il premier di un "governo personale", che egli ha plasmato. E solo da lui ottiene significato. D'altronde, egli eredita una maggioranza definita, dal suo stesso predecessore, "strana". Uscita da un'elezione senza vincitori. Che ha rivelato un Paese diviso in tre grandi minoranze, poco comunicanti. Così, oggi la maggioranza degli elettori non si scandalizza se, per approvare alcune leggi, il governo debba ricorrere al sostegno dell'opposizione. Al voto di Sel, a parlamentari del M5S o a Forza Italia. Le polemiche suscitate dal negoziato con Silvio Berlusconi per delineare una nuova legge elettorale, l'Italicum, sembrano poco significative a gran parte degli elettori. D'altra parte, è difficile sostenere che ad avvantaggiarsene sia stato Berlusconi. Semmai, pare vero il contrario, a giudicare dalle stime elettorali, che vedono il Pd in crescita e il Centrosinistra largamente in vantaggio. Mentre, in caso di ballottaggio fra le due principali coalizioni, come previsto dall'Italicum, il successo del Centrosinistra guidato da Renzi sul Centrodestra di Berlusconi (o meglio, del leader da lui designato) risulterebbe schiacciante. Dunque, Matteo Renzi oggi appare l'Uomo Forte e Veloce, richiesto da una parte (ampia) del Paese per fare fronte alla debolezza della politica. Tuttavia, le riserve sulla sua effettiva capacità di "salvare" l'Italia e di realizzare i suoi buoni propositi appaiono diffuse. Da un lato, infatti, il 57% degli intervistati, nel sondaggio di Demos, crede che egli sarà, davvero, in grado, come ha promesso, di realizzare 4 riforme nei prossimi 4 mesi. Ma, dall'altro, oltre 4 elettori su 10 la pensano diversamente. Allo stesso modo, il 54% pensa che riuscirà a portarci "oltre la crisi". Ma, al momento dell'insediamento a Palazzo Chigi, la quota di quanti credevano nella capacità di Enrico Letta di "salvarci" era superiore al 60%. Nel caso di Mario Monti: superava l'80%. Il problema è che ci siamo abituati all'instabilità. All'insicurezza. Peraltro, gli italiani tendono a "rimuovere" i pericoli che vengono dall'esterno. La crisi che lacera l'Ucraina, infatti, appare una minaccia al 41% circa degli intervistati, ma il 44% (cioè, una componente maggiore) pensa il contrario. La vede, cioè, come un'ombra lontana. Tuttavia, il clima di incertezza che ci avvolge rende difficile guardare distante. Solo un terzo degli italiani, infatti, crede che questo governo durerà fino alla conclusione della legislatura. Non pochi, viste le difficoltà di questa fase. Ma, comunque, una minoranza. Matteo Renzi, dunque, è costretto a correre veloce. Perché la velocità è il suo marchio. Ma anche una necessità. Per affrontare molteplici insidie che, a detta degli stessi italiani, gli giungono da diverse direzioni. Lontane e vicine. I mercati, l'Europa, la delusione dei cittadini. L'opposizione di Fi e, ancor più, del M5S. Le trappole tese dai nemici. Ma, soprattutto, dagli amici. Dagli alleati e, in primo luogo, dal suo stesso partito. Il Pd. Dove molti sono in attesa. Che inciampi in qualche ostacolo. In qualche promessa mancata. Per questo Renzi è condannato a correre. A fare tutto in fretta. Senza troppi programmi. Perché domani è un altro giorno. Si vedrà. © Riproduzione riservata 03 marzo 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/03/news/fiducia_al_56_per_il_governo_renzi_uno_su_tre_crede_che_arriver_al_2018-80065936/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-03-2014
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« Risposta #378 inserito:: Marzo 10, 2014, 06:13:39 pm » |
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Crisi, Merkel, burocrazia Per gli italiani l'Europa è diventata impopolare MAPPE - Dal 2000 ad oggi dimezzata la fiducia nell'Unione Europea di ILVO DIAMANTI BEPPE Grillo ha incitato a recuperare «l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle Due Sicilie». Perché l’Italia sarebbe solo un’arlecchinata di popoli, lingue e tradizioni. In altri termini: non esiste. Solo la Lega, fino ad oggi, si era spinta a tanto. E non a caso Matteo Salvini ha sottoscritto entusiasticamente queste affermazioni. Ma a Grillo la Lega non interessa. E, in fondo, non gli interessano neppure i suoi voti, visto che, in larga misura, li ha già intercettati alle elezioni dell’anno scorso. A Grillo e al suo ideologo, Gianroberto Casaleggio, interessa, piuttosto, avviare la campagna anti-europea in vista delle prossime elezioni di fine maggio. D’altronde, il legame fra il progetto anti-europeo e quello macro-federalista, spinto all’estremo, nella percezione sociale, è molto stretto. La componente di chi ritiene che «Nord e Sud sono troppo diversi e dovrebbero andare da soli», infatti, cresce in base alla fiducia nella Ue. Nel passaggio fra il livello minore e maggiore di fiducia, raddoppia: dall’8% al 16% (sondaggio Demos, ottobre 2013). D’altronde, la Ue è una Unione di Stati nazionali, non di popoli. Non a caso, negli anni Novanta, la Lega cambiò atteggiamento al proposito, dopo la svolta secessionista del 1996. Che la Ue condannò in modo aperto. Fino ad allora, invece, la Lega, come recitavano i suoi slogan, aveva guardato «più vicino all’Europa più lontano dall’Italia». Da Roma. D’altronde, anche il messaggio di Grillo appare, soprattutto, anti-romano. Rivolto contro l’Italia dei partiti e delle burocrazie. Del Palazzo. E, a differenza della Lega, evoca la Repubblica di Venezia e il Regno delle Due Sicilie. Il Nord e il Centro-Sud. Dove il M5S ha ottenuto molti consensi. In vista delle prossime elezioni europee, intende tenere insieme l’anti-centralismo “romano” (e italiano) con l’anti-europeismo. Un sentimento che sta crescendo in modo rapido. In Italia, infatti, la fiducia nella Ue, rispetto al 2000 – alla vigilia dell’introduzione dell’Euro - è, letteralmente, dimezzata. Dal 57% al 29%, rilevato nelle ultime settimane (Sondaggio Demos). E negli ultimi mesi, da settembre 2013 ad oggi, è caduta di 5 punti. Toccando il punto più basso rilevato da quando il processo di costruzione dell’Unione Europea è stato avviato. Fin qui, tuttavia, si è tradotto, soprattutto, sul piano economico e, soprattutto, monetario. L’Europa, cioè, si è trasformata in un soggetto freddo, lontano. Una moneta senza Stato e senza politica. Senza identità e senza passione. È stata percepita, dunque, come un problema più che una risorsa. Un Grande Esattore, senza volto, se non quello della Merkel (e delle Banche), che esige senza garantire nulla. Per questo, ormai, pressoché un terzo degli italiani (per la precisione, il 32%) si dice d’accordo con l’affermazione che sarebbe meglio «uscire dall’euro e tornare alla lira». Si tratta di un atteggiamento che abbiamo già testato e spiegato in passato. Gli italiani accettano l’Europa dell’euro per forza. E per paura. Temono, cioè, che uscirne sarebbe pericoloso. Ma, al tempo stesso, guardano alla Ue e alla sua moneta con insofferenza crescente. Di giorno in giorno. Come si coglie ricomponendo gli orientamenti verso la Ue e verso l’euro in un unico profilo. Dal quale emerge che, in Italia, il peso degli europeisti (29%), che hanno fiducia nella Ue, supera di poco quello degli antieuropei (27%). Che si oppongono all’Euro e non credono nella Ue. Mentre gran parte degli italiani (44%) si rifugia in un atteggiamento euroscettico oppure eurocritico. Sopporta, cioè, l’euro senza aver fiducia nella Ue. Ma, visto che la Ue, nella percezione (non del tutto distorta) dei cittadini, coincide, in larga misura, con il sistema monetario, ecco che il sentimento dominante, fra gli italiani, è la sfiducia verso l’Europa - della moneta e, insieme, dei governi e degli Stati Nazionali. È, peraltro, interessante osservare come il maggior grado di anti-europeismo si raggiunga fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi: 43%. Un dato, in effetti, altissimo. Come quello delle casalinghe (44%) e dei disoccupati (38%). Mentre il maggior livello di europeismo si incontra, invece, fra gli studenti (43%), i liberi professionisti (48%) e fra gli impiegati del settore pubblico (39%). Sul piano territoriale, l’anti-europeismo è spalmato dovunque. Raggiunge il massimo livello nel Mezzogiorno e nel Nordovest (quasi 30%), mentre è un po’ meno diffuso nel Centro e nel Nordest (dove, comunque, supera il 20%). Insomma, il sentimento anti-europeo fornisce un bacino elettorale molto ampio, in vista delle prossime elezioni. Che hanno l’Europa come ambito e come posta in palio. I “Grilli d’Europa”, d’altronde, sono molti (come titolava Le Monde ancora un mese fa). I partiti antieuropei e anti-euro. Che potrebbero attingere anche dal grande serbatoio del sentimento euroscettico ed eurocritico. Fino ad oggi si è travasato nell’astensione. Oppure in un voto ispirato alla logica del “meno peggio”. Per paura. Ma potrebbe, in questa occasione, scegliere il voto di protesta oppure di “avvertimento”. Per esprimere la propria insoddisfazione e la propria delusione verso un’Europa identificata con i mercati, con lo spread e la crisi. D’altronde, già adesso vi sono partiti il cui elettorato è in ampia misura anti-europeo. Oltre alla Lega (53%), che ormai pesa poco (3-4%), il M5S, appunto, e, insieme, FI (entrambi: 37% di anti-europei e altrettanto di euroscettici). È lecito attendersi, dunque, che i richiami al federalismo macroregionalista e, implicitamente, anti-europeo, si rinnovino, sempre più accesi. Non solo da parte di Grillo e della Lega, ma anche di Berlusconi. In fondo, condividono il bacino elettorale anti-europeo, molto ampio. Che ha grandi margini di espansione, vista la contiguità con l’area degli euroscettici. Di certo, stavolta, contrastarli sarà difficile. Perché l’europeismo è poco popolare. Sostenuto per paura più che per convinzione. E per sfidare gli anti-europei sullo stesso terreno, in modo efficace, ci vuole il fisico… © Riproduzione riservata 10 marzo 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/10/news/crisi_merkel_burocrazia_per_gli_italiani_l_europa_diventata_impopolare-80625991/?ref=HRER2-1
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« Risposta #379 inserito:: Marzo 13, 2014, 11:32:16 pm » |
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Ma i giovani non fuggono di ILVO DIAMANTI La "fuga " dei giovani. Preoccupa gli italiani. Le famiglie, le imprese. I giovani stessi, ovviamente. Se ne vanno ma non rientrano. Giovani in fuga. Ne ho scritto qualche mese fa e ho ricevuto molte reazioni. Soprattutto di giovani, che se la prendevano con gli adulti. I loro padri, i loro "vecchi". Che hanno occupato i posti che contano, nel mercato del lavoro - soprattutto "intellettuale". E non intendono muoversi. Hanno, semmai, la tentazione - secondo la tradizione nazionale - di farsi affiancare dai figli. Di cedere loro il proprio posto, quando sarà il momento. Cioè, il più tardi possibile. Questi italiani, familisti e sempre più vecchi... ai giovani non resta che la disoccupazione, l'occupazione precaria. O la fuga. Questi italiani. Ma solo loro? Solo noi? A Parigi, dove insegno in questo periodo, colleghi e conoscenti fanno discorsi molto simili. Ne riconosco gli echi. E su Le Monde di qualche giorno fa, in prima, il titolo di apertura, gridava, in senso letterale: "Partenza dei giovani all'estero. Le imprese si allarmano". A tutta pagina. Il titolo rimbalzava, forte, sull'inserto economico. Con una precisazione: "Le imprese si preoccupano della fuga dei diplomati". D'altronde, il numero dei giovani che vedono il loro futuro all'estero è raddoppiato, negli ultimi anni, secondo uno studio dell'IFOP. E il problema appare più grave in quanto essi - i giovani - sembrano sempre meno spinti a rientrare. Insomma, i timori italiani aleggiano anche oltralpe. Sotto i cieli di Parigi. Dove il familismo e l'ancoraggio domestico dei giovani sono sicuramente meno forti che in Italia. Ricordo anni fa, al tempo delle proteste studentesche contro la legge sui "contratti di primo impiego". Contestati perché ritenuti un istituto che produceva ulteriore precarietà. Erano destinati, però, ai giovani già presenti sul mercato del lavoro, non agli studenti. Un tentativo di dare risposta precarietà degli strati sociali più periferici. Di lanciare un segnale - per quanto debole - alle banlieue in rivolta. E allora perché la protesta nelle università parigine, visto che il progetto del governo le riguardava solo marginalmente? I miei studenti mi spiegarono, con un sorriso, che loro erano francesi, non italiani (come me, sottinteso). E a 25 anni, finiti gli studi, non sarebbero rientrati a casa, con i genitori. Come i loro coetanei italiani (sottinteso). Ma avrebbero vissuto da soli. Per questo "protestavano". Per il proprio futuro che cominciava all'indomani. Oggi, però, anche i loro coetanei italiani se ne vanno. Magari tengono la residenza in famiglia. Ma se ne vanno. E se ne vanno soprattutto loro. I giovani "diplomati" (e, ovviamente, i laureati). I giovani francesi. Se ne vanno e non hanno fretta di tornare. Però, prosegue la ricerca della Camera di Commercio di Parigi, citata da "Le Monde", è giusto preoccuparsi, ma non si tratta di un problema francese. Solamente francese. Anzi, la "fuga di cervelli" (usa proprio questa formula, il giornale) risulta ben più ampia e importante altrove. In Italia, ovviamente. Ma anche in Germania e in Gran Bretagna. Destinazioni preferite, fra l'altro dai giovani italiani e francesi. Ma, allora, se oltre ai giovani italiani, francesi, anche quelli inglesi e tedeschi partono di casa, pardon, dal loro Paese. Soprattutto se diplomati e laureati. E vanno altrove. Negli USA, in Sud America, in Australia. Ma anche in Germania, in Inghilterra. Perfino in Francia e in Italia. Insomma vanno "altrove". Per fare esperienze, per migliorare le loro competenze, per imparare meglio le lingue. Per "sfuggire" al controllo della famiglia e della comunità. Per inseguire le loro curiosità e per raggiungere, incontrare, i contatti stabiliti sulla rete. Ovviamente, per cercare quel non trovano nel loro Paese. Lavoro, ma anche riconoscimento, novità e innovazione. Amicizia. D'altronde, l'Erasmus, all'università, li ha socializzati al mondo. Così, non fuggono, "partono" e, a volte, ritornano. Ma poi ripartono. Dipende dalle opportunità, dalle convenienze. Ma anche dalle loro scelte "personali". Il fatto è che sta finendo, in parte è già finito, il tempo della civiltà stanziale. Quando ci si muoveva solo per necessità o per costrizione. Certo, in altre aree, ovviamente, la "fuga" è e resta una necessità drammatica. Causa di grandi migrazioni. Ma in Europa i giovani non fuggono. Se non, talora, da noi. Gli adulti. I loro genitori. Al loro posto, lo farei anch'io. (13 marzo 2014) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/03/13/news/ma_i_giovani_non_fuggono-80918206/?ref=HREC1-7
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« Risposta #380 inserito:: Marzo 18, 2014, 12:21:55 pm » |
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Un Presidente senza partito di ILVO DIAMANTI 17 marzo 2014 L'incontro fra Matteo Renzi e François Hollande, all'Eliseo, due giorni fa, offre un'immagine esemplare. Affianca due casi singolari e speculari. Due Presidenti. Che propongono due profili, per molti versi, simmetrici. Hollande è un Presidente che dispone di poteri ampi. Garantiti da una forma di governo semipresidenziale. Eppure fatica a governare, perché ha un consenso molto limitato. Matteo Renzi, al contrario, è il presidente del Consiglio, vincolato da un sistema parlamentare complesso e da un Parlamento diviso. E per governare ricorre al consenso elevato (e in crescita costante) di cui dispone. Il confronto fra i due casi permette di ragionare sulle trasformazioni in atto nella democrazia rappresentativa. E, in particolare, sulle novità e sui rischi dell'esperienza - ma meglio sarebbe dire: esperimento - di Renzi. Il problema di Hollande è costituito dal clima d'opinione nei suoi riguardi e dal tipo di leadership che ha interpretato. Per imporsi alle presidenziali del 2012, Hollande aveva, infatti, sfruttato l'impopolarità del predecessore, Sarkozy. Troppo "berlusconiano", agli occhi dei francesi. Al punto di venire etichettato "Berluskozy". Hollande, invece, gli aveva opposto l'immagine del Presidente normale. In breve, però, è divenuto fin troppo "normale", agli occhi dei francesi. Incapace, per questo, di affrontare le emergenze "eccezionali" poste dalla crisi. I suoi poteri, per questo, non gli sono serviti e non gli servono a frenare l'onda di impopolarità, sollevata dalla sua impotenza di governare la crisi. Moltiplicata dalla debolezza dei partiti e del ceto politico, investiti dagli scandali e dalla sfiducia. Matteo Renzi deve, a sua volta, fare i conti con una crisi economica e politica, forse, più grave che in Francia. E con un clima di sfiducia verso i partiti e i politici, ma anche verso le istituzioni, peggiore che in Francia e in gran parte d'Europa. Eppure il gradimento nei suoi riguardi ha continuato a crescere (oggi è oltre il 60%). Anche se il "colpo di mano" con cui ha costretto il precedente premier, Enrico Letta, a cedergli il posto non è piaciuto alla maggioranza degli italiani, l'immagine di Renzi non ne ha risentito. Anzi. D'altronde, egli risponde a una domanda di rappresentanza, ma anche di governo, largamente frustrata fra i cittadini. I quali non credono nei partiti ma neppure nel Parlamento. Così, reagiscono in due diversi modi, fra loro contrastanti, ma coerenti. Attraverso una prospettiva "iper-democratica", come la definisce Stefano Rodotà (e, di recente, anche Luca Ricolfi). Cioè, rivendicando la partecipazione ed esercitando il controllo di tutti i cittadini alle decisioni pubbliche. Attraverso la mobilitazione, i referendum e, soprattutto, la rete. Saltando ogni mediazione, come sostengono - e fanno - Beppe Grillo e il M5s. D'altra parte, però, la domanda di rappresentanza si traduce in una prospettiva iper-personalizzata. Realizzata attraverso i media e la comunicazione. Un orientamento imposto, giusto vent'anni fa, da Silvio Berlusconi. Il quale ha creato, allora, Forza Italia. Il "partito personale" al suo servizio. Da utilizzare alle elezioni, in Parlamento, al governo. Matteo Renzi è arrivato dopo vent'anni di berlusconismo. Ma ne ha superato, largamente, l'inventore. La sua presentazione della manovra economica, come ha scritto ieri Philippe Ridet su Le Monde, "ha relegato Silvio Berlusconi alla preistoria della comunicazione". Di certo Renzi, a differenza di Berlusconi, non ha creato un partito personale. Ha, semmai, personalizzato il Partito Democratico, dopo aver vinto le primarie. Gli ha fornito la propria immagine. Anzi, gliel'ha imposta. Perché il Pd, per storia e organizzazione, non è in grado di coagularsi intorno a "un" leader. Senza fratture né tensioni. Lo stesso ha fatto con il governo. Lo ha trasformato in un "governo personale". Nonostante le debolezze della compagine ministeriale. O, forse, proprio per questo. Perché si tratta di una squadra di gregari, con una sola maglia, un solo capitano, un solo volto. Il problema di Renzi è che deve misurarsi con i tempi della politica e delle istituzioni. Causa di sfiducia e in-credulità fra i cittadini. Per questo Renzi va veloce. La velocità è il suo linguaggio. Ma anche la sua risposta politica alla politica del rinvio e alla resistenza politica a ogni cambiamento. Così, usa la comunicazione e il linguaggio, contro la politica e i politici, per creare consenso. E usa il consenso per superare le trappole e l'opposizione della politica. Anche del suo partito. Come ha osservato alcuni giorni fa Ezio Mauro: "Correndo deve anticipare la politica che vuole realizzare, per mettere le resistenze parlamentari, amministrative, della tecnostruttura davanti a un'opinione pubblica continuamente sollecitata da una scommessa di cambiamento in cui non credeva più di poter credere". Avrebbe bisogno, per questo, di un "partito del Presidente". Ma in attesa e in assenza di esso, agisce da solo. Contro tutto e tutti. In questo modo sfrutta a proprio vantaggio il clima antipolitico del tempo. Ne fa una risorsa politica. Trasforma la sfiducia politica in fiducia personale. In consenso alle proprie politiche. Si presenta e si propone, cioè, come "Presidente". Capo di una repubblica presidenziale "di fatto". A cui, peraltro, da tempo i cittadini si sono abituati. Attraverso l'elezione diretta di sindaci (che egli ha sperimentato). Ma anche attraverso la tendenza a "personalizzare" l'indicazione del premier di coalizione, anzitutto nelle schede elettorali (una pratica definita da Giovanni Sartori incostituzionale). Per bypassare i limiti della politica e il deficit di governabilità, ci siamo, dunque, trasformati in una sorta di presidenzialismo preterintenzionale, come ho segnalato altre volte. Matteo Renzi ha stressato questo orientamento, in parte per necessità, in parte per vocazione. Tuttavia, questo percorso presenta alcuni rischi. Per Renzi, ma non solo. Perché fare il Presidente, senza disporre di regole e di poteri istituzionali - e senza legittimazione elettorale - non garantisce prospettive certe. Ma costringe a spinte e a forzature continue. Soprattutto e tanto più se il Pd, per storia e organizzazione, è riluttante a personalizzarsi in funzione del Presidente. Alla guida di un presidenzialismo preterintenzionale e di un partito "ipotetico" (come lo definiva Edmondo Berselli), Matteo Renzi va veloce. Per costringere gli altri a (in) seguirlo sul suo terreno. Così, è condannato a correre. Finché il fisico e il fiato glielo permetteranno. © Riproduzione riservata 17 marzo 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/17/news/un_presidente_senza_partito-81174175/?ref=HRER3-1
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« Risposta #381 inserito:: Marzo 24, 2014, 04:58:44 pm » |
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L'indipendenza del Veneto non è uno scherzo Bocciato lo Stato centrale, no alla politica locale Sondaggio Demos. Questa regione pone oggi una questione che conta più di quella settentrionale di ILVO DIAMANTI SONO state accolte con qualche sorpresa e molta perplessità — per non dire incredulità — le notizie riguardo al referendum sull’indipendenza del Veneto. Promosso e organizzato dai movimenti autonomisti, il “plebiscito” si è svolto la scorsa settimana. Secondo i promotori, vi avrebbero partecipato circa tre elettori veneti (aventi diritto) su quattro. Quasi 2 milioni e mezzo. Con un esito “plebiscitario”: 89% di “sì”. Naturalmente, i dati sono ipotetici e non verificabili. Così, in Italia, è prevalsa la tendenza a liquidare l’iniziativa con un misto di sarcasmo e di scetticismo. LE TABELLE http://www.repubblica.it/politica/2014/03/24/news/l_indipendenza_del_veneto_non_uno_scherzo_bocciato_lo_stato_centrale_no_alla_politica_locale-81734444/?ref=HRER2-1A differenza degli osservatori stranieri, che hanno, invece, trattato l’evento con attenzione. Non solo per il precedente (immediato) della Crimea. Ma, ancor più, per le tensioni indipendentiste che scuotono altri Paesi europei. In Gran Bretagna, Spagna, Belgio... Così, mentre cresce l’insoddisfazione verso l’Unione Europea, si acuiscono le divisioni all’interno degli stati nazionali. Per questo conviene prendere sul serio il segnale che proviene dal Veneto. Anche perché rivela sentimenti estesi. In misura, magari, non “plebiscitaria”, come quella dichiarata dai “venetisti”, ma, tuttavia, maggioritaria. Lo conferma un sondaggio di Demos, condotto presso un campione rappresentativo di elettori veneti nei giorni scorsi (per la precisione: il 20 e il 21 marzo). La partecipazione al referendum, dai dati, esce ridimensionata. Ma resta, comunque, molto significativa. Quasi metà degli elettori veneti, infatti, sostiene di aver votato oppure di essere intenzionato a farlo. E poco meno dell’80% di essi si dice favorevole al quesito referendario: l’indipendenza veneta. Una posizione condivisa, d’altronde, da un terzo di coloro che dicono di non essere intenzionati a votare. Nell’insieme, la maggioranza degli elettori (compresi nel campione) si dice d’accordo con l’ipotesi che “il Veneto diventi una repubblica indipendente e sovrana”. Circa il 55%. Mentre i contrari sono poco meno del 40%. Dunque, l’indipendenza costituisce una prospettiva attraente per la maggioranza della popolazione. Piace, soprattutto, agli imprenditori e agli operai. I lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa, che costituiscono il “distintivo” economico e sociale del Veneto. Solo tra i più giovani — e, quindi, fra gli studenti — la posizione contraria all’indipendenza prevale nettamente. Oltre che fra i disoccupati. Anche dal punto di vista politico, gli orientamenti sono molto chiari. L’indipendenza veneta piace agli elettori di Destra (in particolare di FI) e, ovviamente, ai leghisti e agli “autonomisti”. Ma prevale nettamente anche fra gli elettori del M5s, dove, peraltro, negli ultimi due anni è confluito gran parte del voto leghista. Il Veneto, d’altronde, è politicamente una zona di centrodestra. Forzaleghista (come la definiva Edmondo Berselli). La distanza dei veneti dallo Stato nazionale, dunque, è cresciuta e oggi si traduce in aperto distacco. In misura molto maggiore che in passato. Tuttavia, molte cose sono cambiate, negli ultimi anni. La crisi, anzitutto, ha accentuato il risentimento verso lo Stato, riassunto, non solo simbolicamente, in Roma capitale. Le difficoltà economiche, infatti, hanno sollecitato maggiore sostegno e hanno reso più acuto il contrasto con il ceto politico e la burocrazia centrale. A differenza del passato, inoltre, la rivendicazione indipendentista, oggi, non evoca patrie immaginarie, come la Padania, ma neppure aree poco definite e, internamente, differenziate, come il Nord. Com’è divenuto lo stesso Nordest. Richiama, invece, il Veneto. La Regione. Considerata l’ambito che suscita maggiore appartenenza da circa il 25% dei Veneti (Oss. Nordest per Il Gazzettino, settembre 2012). Non a caso, la Lega (Padana), inizialmente tiepida verso l’iniziativa, l’ha, in seguito, sostenuta. Il governatore, Luca Zaia, in particolare. Che si prepara, a sua volta, a far votare al Consiglio veneto una proposta di legge per indire un referendum “formale” per l’indipendenza. Anche se incostituzionale, costituirebbe, comunque, per Zaia, il manifesto per una Lista civica (personale) in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Per compensare la debolezza della Lega. D’altronde, la Liga Veneta è “la madre di tutte le leghe”, come ebbe a definirla uno dei fondatori, Franco Rocchetta. Che venerdì sera era in piazza, a Treviso, a festeggiare il referendum e il mito dell’indipendenza veneta. Bisogna, dunque, prendere sul serio il segnale che proviene dal referendum. Al di là delle misure — ipotetiche — della partecipazione e del consenso dichiarate dagli organizzatori, la rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria. Al tempo stesso, bisogna interpretarne correttamente il significato. In-dipendenza significa, infatti, “non dipendenza”. E, dunque, autonomia. Autogoverno. Non necessariamente “secessione”. Ne danno conferma le opinioni circa il modo migliore “per sostenere gli interessi del Veneto”. La “piena indipendenza del Veneto”, infatti, è sostenuta da una quota ampia, ma non superiore al 30%. Meno di quanti riterrebbero più utile “eleggere parlamentari migliori” (dunque, capaci di esercitare maggiore pressione “su Roma”). Mentre appaiono ampie anche le componenti “federaliste”. È significativo come, fra gli stessi sostenitori dell’indipendenza veneta al referendum, quanti vedono nell’indipendenza “piena” la via maestra per affermare gli interessi regionali siano una maggioranza larga. Ma non assoluta: il 45%. L’indipendenza, dunque, costituisce per i veneti e il Veneto un modo per denunciare, in modo estremo, il disagio nei confronti dello Stato centrale. L’insoddisfazione contro la classe politica e di governo. Non solo nazionale, ma anche regionale. Da ciò, un’altra indicazione significativa. Soprattutto se si pensa al diverso impatto ottenuto dal referendum dei giorni scorsi rispetto alla manifestazione per l’indipendenza padana, promossa nel settembre 1996. Quando, in marcia lungo il Po per marcare la frontiera del Nord, si recarono pochi leghisti, spaesati e sparsi. Per rappresentare il sentimento e il risentimento territoriale, oggi, conviene rinunciare a patrie immaginarie, come la Padania. Ma anche alle macroregioni oppure ad aree ampie — e differenziate. Come il Nord e lo stesso Nordest. Per storia, economia, identità e interessi, infatti, è sempre più difficile tenere insieme il Veneto con il Piemonte, la Lombardia e lo stesso Trentino Alto Adige. Treviso con Milano e Bolzano. La “questione Veneto”, oggi, conta più di quella “settentrionale”. E affievolisce il Nordest. © Riproduzione riservata 24 marzo 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/24/news/l_indipendenza_del_veneto_non_uno_scherzo_bocciato_lo_stato_centrale_no_alla_politica_locale-81734444/?ref=HRER2-1
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« Risposta #382 inserito:: Marzo 31, 2014, 11:54:37 pm » |
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Camere, province, burocrazia: gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità MAPPE. La maggioranza non vuole toccare "i principi fondamentali" della Costituzione. Consenso sulla trasformazione del Senato in nome dei tagli alla politica di ILVO DIAMANTI 31 marzo 2014 Non sarà facile, per Matteo Renzi, portare a termine il suo programma di riforme istituzionali - che modificherebbero profondamente la Costituzione. Per almeno due motivi. La resistenza - anzi: l'opposizione aperta - di autorevoli componenti ed esponenti dell'ambiente politico e intellettuale. Anche di centrosinistra. In secondo luogo, la complessità - e la lunghezza - delle procedure richieste per iniziative che toccano la Costituzione. Per questo non sarà facile. Trasformare il Senato in una Camera delle autonomie, ad esempio. Con il contributo diretto dei senatori, visto che la riforma dovrebbe/dovrà passare, per due volte, attraverso la loro approvazione. Non a caso il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in un'intervista a Repubblica, proprio ieri, ha proposto, in alternativa, di abolire il bicameralismo, ma non il Senato. Attribuendo, cioè, solo alla Camera dei Deputati il potere di votare la fiducia al governo e di occuparsi delle materie politiche, economiche e sociali più importanti. Ma Renzi ha, immediatamente, ribadito la sua intenzione di andare avanti. Veloce, come sempre. In direzione opposta al passato. Per confermare la sua immagine di "rottamatore", che molto ha contribuito - e contribuisce - al suo successo. Che non accenna a declinare, come mostrano i sondaggi d'opinione. Naturalmente, prima o poi, anch'egli dovrà rendere conto dei risultati di tanti progetti. Anche se, come ha suggerito argutamente Nando Pagnoncelli sull'agenzia InPiù, "Renzi rammenta un giocoliere che fa volteggiare cerchi, palline e clavette. Non importa affatto se nel corso dell'esercizio ne cade qualcuna". Perché l'abilità e la velocità del protagonista rendono difficile al pubblico accorgersene. E perché, nel frattempo, altri progetti attraenti sono stati lanciati sul mercato. Tuttavia, la fiducia nei confronti del premier non è solo frutto di "illusionismo". Ma dipende, in modo significativo, dal consenso verso le proposte che egli ha avanzato. Come emerge da un sondaggio condotto qualche tempo fa da Demos, quando Renzi si accingeva a sostituire - con modi spicci e risoluti - Letta alla guida del governo. Cambiare la Costituzione, anzitutto, è considerato lecito e perfino utile, da quasi i due terzi della popolazione, se può migliorare l'efficienza delle istituzioni. Ovviamente, senza intaccarne i "principi fondamentali". Questa posizione, peraltro, è largamente condivisa, da sinistra a destra, passando per il centro. Solo un quarto dei cittadini intervistati sostiene, invece, l'intangibilità della Costituzione. "La più bella del mondo". Comunque, troppo equilibrata per poter essere modificata in punti "sensibili" come quelli di cui si discute. LE TABELLE su - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1Se si entra nello specifico delle proposte, il sostegno ai temi avanzati da Renzi e dal governo si conferma ampio e trasversale. L'abolizione delle Province e la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ottengono, infatti, l'approvazione di circa il 60% dei cittadini. Il sostegno risulta più elevato fra gli elettori del PD e di SEL, in riferimento all'abolizione delle Province. Mentre la trasformazione del Senato ottiene largo consenso non solo nella base del PD, ma anche del NCD. Tuttavia, anche fra gli elettori di FI e del M5s l'adesione ai progetti risulta molto estesa. Dietro a questi orientamenti si intuisce l'insoddisfazione diffusa nei confronti del funzionamento e dei costi del sistema pubblico. E, in generale, della politica. Vista la difficoltà di scindere i due piani, nella percezione sociale. Così si spiega il consenso plebiscitario verso l'ipotesi di ridurre il numero dei parlamentari. In qualche modo, sintesi dell'abolizione delle Province - e dunque delle burocrazie e delle amministrazioni provinciali - ma anche della trasformazione del Senato. Presentata, tempo fa, dallo stesso Renzi, come un contributo alla riduzione della spesa pubblica. Tuttavia, il sostegno dei cittadini alle proposte di riforma istituzionale ha anche un significato diverso. Riguarda la domanda di governo e di governabilità. Riflette, al tempo stesso, il malessere che attraversa la democrazia rappresentativa (non solo in Italia). Come emerge, con chiarezza, dal consenso espresso dai cittadini per l'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Approvata da quasi 3 persone intervistate su 4. E dalla maggioranza assoluta dei principali elettorati. Dal PD a FI, da SEL allo stesso M5s. L'ipotesi di rafforzare i poteri del capo del governo, invece, appare meno gradita. Ciò riflette, soprattutto, lo stile "presidenziale" di Renzi. Che ha personalizzato il PD, interpretando, però, (come ho già osservato) un "Presidente senza partito". Comunque, "oltre" il PD. Per questo è facile prevedere che il premier proseguirà sulla strada delle riforme senza rallentare. Le difficoltà che incontra e incontrerà lungo il percorso, invece di produrre ripensamenti, sono destinate a rafforzarne la determinazione. Perché le resistenze e l'opposizione - tanto più della sua parte e del suo partito - ne consolidano la legittimazione. L'immagine di "uomo solo al comando". Senza indulgenza per nessuno. Alleati e avversari politici. Manager pubblici e privati. Il problema, semmai, mi sembra proprio questo. La discussione appare, infatti, sempre più "personalizzata". E sempre più "radicalizzata" sulla Costituzione come "valore in sé". Oppure, fin troppo focalizzata sui singoli progetti: Le Province, il Senato... Viziata, per questo, da uno sguardo miope oppure presbite. Così, si rischia di trascurare aspetti essenziali. Per esempio, non ci si accorge che il ddl approvato dal Senato (come ha osservato Tito Boeri su Lavoce.info) "non abolisce affatto le province, ma si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni". Con "risparmi" del tutto ipotetici. Mentre, quanto alla nuova Camera delle autonomie, non è chiaro da chi e in che modo verrà costituita. Con quali competenze e con quali poteri. Più in generale, mentre si toccano, in modo deciso, punti sostanziali del nostro sistema istituzionale, non si spiega a quale modello si guardi. Che cosa vogliamo diventare. E si rischia, così, di proseguire quello stesso percorso intrapreso vent'anni fa. Quel riformismo episodico e sussultorio che ci ha condotti dentro a questa singolare Repubblica preterintenzionale. Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1
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« Risposta #383 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:16:21 pm » |
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Camere, province, burocrazia: gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità MAPPE. La maggioranza non vuole toccare "i principi fondamentali" della Costituzione. Consenso sulla trasformazione del Senato in nome dei tagli alla politica di ILVO DIAMANTI 31 marzo 2014 Non sarà facile, per Matteo Renzi, portare a termine il suo programma di riforme istituzionali - che modificherebbero profondamente la Costituzione. Per almeno due motivi. La resistenza - anzi: l'opposizione aperta - di autorevoli componenti ed esponenti dell'ambiente politico e intellettuale. Anche di centrosinistra. In secondo luogo, la complessità - e la lunghezza - delle procedure richieste per iniziative che toccano la Costituzione. Per questo non sarà facile. Trasformare il Senato in una Camera delle autonomie, ad esempio. Con il contributo diretto dei senatori, visto che la riforma dovrebbe/dovrà passare, per due volte, attraverso la loro approvazione. Non a caso il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in un'intervista a Repubblica, proprio ieri, ha proposto, in alternativa, di abolire il bicameralismo, ma non il Senato. Attribuendo, cioè, solo alla Camera dei Deputati il potere di votare la fiducia al governo e di occuparsi delle materie politiche, economiche e sociali più importanti. Ma Renzi ha, immediatamente, ribadito la sua intenzione di andare avanti. Veloce, come sempre. In direzione opposta al passato. Per confermare la sua immagine di "rottamatore", che molto ha contribuito - e contribuisce - al suo successo. Che non accenna a declinare, come mostrano i sondaggi d'opinione. Naturalmente, prima o poi, anch'egli dovrà rendere conto dei risultati di tanti progetti. Anche se, come ha suggerito argutamente Nando Pagnoncelli sull'agenzia InPiù, "Renzi rammenta un giocoliere che fa volteggiare cerchi, palline e clavette. Non importa affatto se nel corso dell'esercizio ne cade qualcuna". Perché l'abilità e la velocità del protagonista rendono difficile al pubblico accorgersene. E perché, nel frattempo, altri progetti attraenti sono stati lanciati sul mercato. Tuttavia, la fiducia nei confronti del premier non è solo frutto di "illusionismo". Ma dipende, in modo significativo, dal consenso verso le proposte che egli ha avanzato. Come emerge da un sondaggio condotto qualche tempo fa da Demos, quando Renzi si accingeva a sostituire - con modi spicci e risoluti - Letta alla guida del governo. Cambiare la Costituzione, anzitutto, è considerato lecito e perfino utile, da quasi i due terzi della popolazione, se può migliorare l'efficienza delle istituzioni. Ovviamente, senza intaccarne i "principi fondamentali". Questa posizione, peraltro, è largamente condivisa, da sinistra a destra, passando per il centro. Solo un quarto dei cittadini intervistati sostiene, invece, l'intangibilità della Costituzione. "La più bella del mondo". Comunque, troppo equilibrata per poter essere modificata in punti "sensibili" come quelli di cui si discute. LE TABELLE su - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1Se si entra nello specifico delle proposte, il sostegno ai temi avanzati da Renzi e dal governo si conferma ampio e trasversale. L'abolizione delle Province e la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ottengono, infatti, l'approvazione di circa il 60% dei cittadini. Il sostegno risulta più elevato fra gli elettori del PD e di SEL, in riferimento all'abolizione delle Province. Mentre la trasformazione del Senato ottiene largo consenso non solo nella base del PD, ma anche del NCD. Tuttavia, anche fra gli elettori di FI e del M5s l'adesione ai progetti risulta molto estesa. Dietro a questi orientamenti si intuisce l'insoddisfazione diffusa nei confronti del funzionamento e dei costi del sistema pubblico. E, in generale, della politica. Vista la difficoltà di scindere i due piani, nella percezione sociale. Così si spiega il consenso plebiscitario verso l'ipotesi di ridurre il numero dei parlamentari. In qualche modo, sintesi dell'abolizione delle Province - e dunque delle burocrazie e delle amministrazioni provinciali - ma anche della trasformazione del Senato. Presentata, tempo fa, dallo stesso Renzi, come un contributo alla riduzione della spesa pubblica. Tuttavia, il sostegno dei cittadini alle proposte di riforma istituzionale ha anche un significato diverso. Riguarda la domanda di governo e di governabilità. Riflette, al tempo stesso, il malessere che attraversa la democrazia rappresentativa (non solo in Italia). Come emerge, con chiarezza, dal consenso espresso dai cittadini per l'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Approvata da quasi 3 persone intervistate su 4. E dalla maggioranza assoluta dei principali elettorati. Dal PD a FI, da SEL allo stesso M5s. L'ipotesi di rafforzare i poteri del capo del governo, invece, appare meno gradita. Ciò riflette, soprattutto, lo stile "presidenziale" di Renzi. Che ha personalizzato il PD, interpretando, però, (come ho già osservato) un "Presidente senza partito". Comunque, "oltre" il PD. Per questo è facile prevedere che il premier proseguirà sulla strada delle riforme senza rallentare. Le difficoltà che incontra e incontrerà lungo il percorso, invece di produrre ripensamenti, sono destinate a rafforzarne la determinazione. Perché le resistenze e l'opposizione - tanto più della sua parte e del suo partito - ne consolidano la legittimazione. L'immagine di "uomo solo al comando". Senza indulgenza per nessuno. Alleati e avversari politici. Manager pubblici e privati. Il problema, semmai, mi sembra proprio questo. La discussione appare, infatti, sempre più "personalizzata". E sempre più "radicalizzata" sulla Costituzione come "valore in sé". Oppure, fin troppo focalizzata sui singoli progetti: Le Province, il Senato... Viziata, per questo, da uno sguardo miope oppure presbite. Così, si rischia di trascurare aspetti essenziali. Per esempio, non ci si accorge che il ddl approvato dal Senato (come ha osservato Tito Boeri su Lavoce.info) "non abolisce affatto le province, ma si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni". Con "risparmi" del tutto ipotetici. Mentre, quanto alla nuova Camera delle autonomie, non è chiaro da chi e in che modo verrà costituita. Con quali competenze e con quali poteri. Più in generale, mentre si toccano, in modo deciso, punti sostanziali del nostro sistema istituzionale, non si spiega a quale modello si guardi. Che cosa vogliamo diventare. E si rischia, così, di proseguire quello stesso percorso intrapreso vent'anni fa. Quel riformismo episodico e sussultorio che ci ha condotti dentro a questa singolare Repubblica preterintenzionale. Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1
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« Risposta #384 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:21:40 pm » |
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Dietro i secessionisti quel "male del Veneto" che diventa italiano Da trent'anni quest'area è il sismografo di tutti i cambiamenti e le crisi del Paese: ora segna la frattura tra i cittadini e lo Stato. L'insorgenza della Liga annunciò il declino della Prima Repubblica. E qui il M5S ha sfondato di ILVO DIAMANTI L'inchiesta dei magistrati di Brescia contro gli indipendentisti veneti può avere effetti pericolosi. Almeno quanto le iniziative e i comportamenti perseguiti. Perché, al di là del merito delle indagini, rischia di ridurre a caricatura un fenomeno complesso e fondato, che supera i confini della regione. È il "male del Veneto". Una questione che va presa sul serio. Perché il Veneto ha costituito, negli ultimi trent'anni, il sismografo dei cambiamenti e delle crisi, in Italia. A partire dai primi anni Ottanta, quando, appunto, emerse la Liga. "Madre di tutte le leghe", la definì il fondatore, Franco Rocchetta. Uno dei cospiratori, secondo i magistrati. Ora costretto agli arresti domiciliari. (Anche se non mi riesce di immaginarlo nei panni del para-terrorista.) L'insorgenza della Liga, anticipò la diffusione e l'affermazione della Lega in tutto il Nord. Ma annunciò anche la crisi della Prima Repubblica. Perché erose e, in seguito, sgretolò le fondamenta del partito che aveva governato, da sempre. La Democrazia Cristiana. La geografia della Liga ricalca, infatti, quella della DC. E segna, dunque, il passaggio di questa società dal governo all'opposizione. Anzi: all'antagonismo. Contro Roma e contro lo Stato Centrale. Sinonimi, nel linguaggio veneto e, in seguito, nordista e padano. Al tempo stesso, il Veneto interpreta, in modo aperto, l'affermarsi dei nuovi ceti medi "privati". I piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi. La Lega, prima e più ancora di Berlusconi, dà loro voce. Ne amplifica il risentimento e la protesta. Come hanno mostrato, efficacemente, Giorgio Lago e Francesco Jori, descrivendo e, in parte, amplificando la "voglia di indipendenza" espressa da quest'area. Riassunta nella formula geopolitica del Nordest. Ma in realtà sempre, saldamente impiantata sul Veneto centrale. Sul triangolo Vicenza-Padova-Treviso. Indipendenza, non secessione. Una rivendicazione che, qui, non ha mai attecchito. Neppure negli anni Novanta, quando la Lega Nord di Bossi ne aveva fatto una bandiera. Anche perché Il Nord e ancor più la Padania sono contesti poco o nulla condivisi, in Veneto. Territori immaginari: la Padania. O, comunque, relativi e "dipendenti": il Nord. Il cui significato "dipende", appunto, geograficamente e geo-politicamente, da Roma. Per questo è rischioso, oltre che superficiale, svalutare le tensioni indipendentiste espresse dal Veneto. Perché vengono da lontano e hanno ragioni condivise. Che, negli ultimi anni, sono esplose. Basti vedere quel che è avvenuto alle ultime elezioni, nel febbraio 2013, quando il M5S ha ottenuto, proprio in Veneto, un grande risultato. Soprattutto nelle aree dove era più forte la Lega e, prima, la Liga. Il M5S: ha sfondato soprattutto le basi sociali di quest'area e dei suoi rappresentanti politici - vecchi e nuovi. Ha, cioè, conquistato il voto dei lavoratori autonomi e dei piccoli imprenditori. Primo partito fra gli artigiani veneti con, circa, il 30% (sondaggio di Demetra per Confartigianato Imprese Veneto). Per questo, l'immagine pubblica proiettata dalle inchieste giudiziarie, oltre che dal profilo approssimativo e improbabile dei presunti cospiratori, banalizza le tensioni e le rivendicazioni che covano nella società veneta. Le riduce all'alternativa, errata e pericolosa, fra la criminalizzazione e il ridicolo. In entrambi i casi, riassume il "male del Veneto" in un vizio folcloristico e "periferico". Come il Veneto, in fondo, appare a molti italiani (ma anche a molti veneti, soprattutto alla Sinistra, che, non per caso, qui è sempre stata minoritaria). Meglio non illudersi. Anzitutto perché, come ha mostrato il sondaggio di Demos condotto su un campione rappresentativo, oltre la metà degli elettori veneti (55%) si dicono d'accordo con l'obiettivo (sollevato dal referendum) dell'indipendenza veneta. Anche se è concepita, soprattutto, come maggiore "autonomia", maggiore capacità rivendicativa nei confronti di Roma. In parte, nella maggiore qualità dei parlamentari e della classe politica. Tuttavia, le ragioni dell'indipendenza vanno oltre. Basta scorrere i dati dei sondaggi dell'Osservatorio sul Nordest, condotti da Demos e pubblicati ogni settimana sul Gazzettino, da quasi vent'anni, per cogliere la misura della frattura con le istituzioni. Visto che il 71% dei veneti è convinto che "i cittadini di questa regione lavorano e danno molto più di quel che lo Stato restituisce loro" (Demos, aprile 2013). Mentre il 75% dei veneti intervistati (Demos, novembre 2013) si dice d'accordo con l'idea, sicuramente inquietante, che oggi sia "necessario proclamare uno sciopero fiscale perché le tasse sono insopportabili". È, dunque, meglio non liquidare l'indipendenza veneta con qualche battuta. Lasciando che la giustizia faccia il suo corso e risolva il problema. Il "male del Veneto" ha radici profonde e diffuse, nella società e nel territorio. Ma non va neppure confinato, come una questione locale. Sollevata dai "soliti" veneti. Abituati a lamentarsi. Il "male del Veneto", come è avvenuto altre volte in passato, è il sintomo di un male più ampio. Riflette il disorientamento geopolitico europeo, sottolineato dalle crescenti tensioni autonomiste - in Spagna, Belgio, Gran Bretagna... Ma denuncia, soprattutto, il "male nazionale". La frattura tra gli italiani, la politica e lo Stato, rivelata, in modo esplicito, da un sondaggio recente, condotto in ambito nazionale (Demos, gennaio 2013). Il quale mostra come oltre metà degli italiani (52%, per la precisione) si dica d'accordo con la protesta dei Forconi. Un orientamento che appare particolarmente condiviso - non a caso - nel Nordest (61%). D'altronde, tra gli arrestati c'è un leader dei Forconi. Ma il sostegno alle ragioni dei Forconi risulta elevato anche nel Mezzogiorno. Dove, peraltro, è nato il movimento (in Sicilia, per la precisione). L'indipendenza del Veneto, dunque, ha ragioni di lunga durata. Che non possono essere spiegate, in modo consolatorio, come un "vizio locale". Perché evocano una "questione nazionale" dai contorni netti. L'indipendenza dei cittadini rispetto allo Stato e alle istituzioni. © Riproduzione riservata 04 aprile 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/04/news/il_male_del_veneto-82685973/?ref=HREC1-3
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« Risposta #385 inserito:: Aprile 07, 2014, 11:37:58 pm » |
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Lampedusa caput mundi Ilvo DIAMANTI Lampedusa non è più un luogo reale. È oltre. Molto di più. Iper-reale. Al punto da essere divenuta un mito. Ai confini, alle porte del "nostro" mondo. Lo conoscono tutti, ormai. Di qui e di là del mare. Pardon, del muro. Che separa noi da loro. E che loro cercano di raggiungere, scavalcare. Per entrare nel "nostro" mondo. Così la conoscono, di qua e di là. Di là. Perché è il punto di partenza. La prima stazione per cominciare il viaggio. Per cominciare a vivere dopo la fuga. Dalla fame, dalla povertà, dalla violenza. Lampedusa, per questo, non è un'isola. È un faro, una breccia, un rifugio. Ma di qua, dalla nostra parte, nel nostro mondo, è diverso. È un passaggio stretto, l'ultima frontiera e l'ultima barriera. Lampedusa, può diventare una prigione spietata, ha mostrato il filmato shock del Tg2 sul Cie lager. Ma è anche luogo di gente generosa. "Capitale mondiale di umanità", la definita Fabrizio Gatti, sull'Espresso. Abituata a "convivere", vivere-con gli altri. D'altronde, ormai, è difficile distinguere l'identità di Lampedusa e dei suoi abitanti dagli immigrati, dal popolo in fuga, su barconi e imbarcazioni precarie, che, senza soluzione di continuità, si dirige verso l'isola. Lampedusa, luogo di disperazione e di speranza. Come ha testimoniato Papa Francesco, con la sua visita. Il suo "viaggio" a Lampedusa. Quanti uomini in fuga sono passati di là? Quanti sono fuggiti di là? E quanti sono morti, nel viaggio? Secondo la Fondazione Migrantes, dopo il 2010, circa 4.000 "persone" sono annegate, scomparse per sempre, in fondo alle acque del Mediterraneo, per arrivare in Italia e in Europa. Molte di loro, davanti a Lampedusa. Nell'ottobre del 2013: almeno 400. Molti altri, dopo averla raggiunta, hanno proseguito il viaggio, in Italia, alla ricerca di un lavoro, una casa. Di una speranza. In attesa di familiari, parenti, amici. Alla ricerca e in attesa di diventare davvero "persone". E cittadini. E molti altri hanno continuato il viaggio, oltre le Alpi. A Nord. Verso altri Paesi. Francia, Austria, Germania. A Nord. Perché gli immigrati generano inquietudine e, spesso, paura - quando e dove arrivano. In tanti e in tempi rapidi. Ma, proprio per questo, costituiscono un "segno di sviluppo". Non a caso l'indagine sulla Sicurezza in Europa, curata da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis, quest'anno, ha rilevato come i maggiori timori verso l'immigrazione emergano in Germania e in Gran Bretagna. Cioè: i paesi dove l'economia va meglio. La Germania, in particolare. D'altronde, perché mai gli immigrati se ne dovrebbero andare da casa loro, affrontando i disagi, talora i drammi delle migrazioni, per recarsi in un Paese dove gli spazi per l'impiego e le tutele sociali sono deboli? Per questo Lampedusa è l'inizio e la fine del "nostro" mondo. Le colonne d'Ercole del "nostro" tempo. E segnano i "nostri" limiti. Il "nostro" limite. Per questo occorre andare a Lampedusa. Partire da Lampedusa. Non più muro, presidio contro l'invasione. Ma caput mundi. Capitale e crocevia di un mondo che non si chiuda. Che non consideri la povertà una condanna irrimediabile e senza speranza. Come la giovinezza. Da tenere lontano. Per paura. Non solo di loro, ma anche di noi. Loro, poveri e giovani, di là. E noi (sempre meno) ricchi e (sempre più) vecchi, di qua. Sazi, prigionieri del nostro stanco egoismo. Destinati al declino. Lampedusa, non più isola e confine. Ma crocevia. Significa non rassegnarsi al declino. (02 aprile 2014) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/04/02/news/lampedusa_caput_mundi-82539012/
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« Risposta #386 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:38:12 pm » |
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Ma oggi siamo tutti Post Il Paese provvisorio di Edmondo Berselli. Quattro anni dopo. Ilvio DIAMANTI Non ci sono più i partiti di una volta. Quelli che ti accompagnavano dovunque. In casa, in piazza, al bar, nel lavoro, a scuola, nel tempo libero, nelle manifestazioni di massa, nelle discussioni con gli amici. Non ci sono più i partiti di una volta che ti seguivano dalla culla alla tomba. E ti davano risposte chiare sul futuro. Tuo e del mondo. Ti dicevano in chi e in cosa credere. E tu li votavi per "atto di fede". Non ci sono più i partiti di una volta. Sono cambiati. Si sono personalizzati, mediatizzati, coincidono con un volto in TV. Ma, ormai, non ci sono più neppure i partiti media-personali, inventati da Berlusconi. I partiti di ieri, dell'era berlusconiana. Leggeri nella società e nella vita e pesanti, solidi e saldi al centro. Immagine, marketing e sondaggi. Anche quei partiti si sono appannati, rarefatti. E hanno lasciato il posto ai post-partiti. I non-partiti che usano la rete per comunicare, discutere, decidere. Per convocarsi e mobilitarsi, un flash-mob e via. I non-partiti guidati da leader veri, che però si fanno chiamare diversamente: portavoce. Non vanno in tivù, ma ci sono sempre egualmente. Perché le tivù li inseguono, visto che fanno audience. I portavoce che ce l'hanno con i partiti e con le tivù. Con i giornali e i giornalisti. Perché vengono ignorati, non hanno abbastanza spazio sui media... Ma ce l'hanno anche con i loro uomini, con i loro parlamentari, se ci vanno. Perché la tivù è, comunque, mefitica. Ci si vada oppure no. Lui, Grillo, il leader, pardon, il portavoce, lo sa bene. Perché la conosce bene. La tivù. Come l'altro leader. Renzi. Il suo vero, unico nemico. (O avversario? No, meglio nemico.) Perché unico, l'unico ad avere successo, a sfidarlo sul suo terreno. In tivù e fuori. L'unico a sottrarsi, come lui, al vecchio partito di una volta, ma anche a quello di ieri. Al partito media-personale inventato da Berlusconi. Perché lui, semplicemente, non se ne cura più di tanto. Di Berlusconi e del partito. Ha "espugnato" il PD, dopo un lungo inseguimento, per necessità. Per non averlo contro. E oggi se ne serve. Soprattutto in Parlamento, dove si approvano le leggi e le riforme che Renzi disegna e propone. All'esterno. Per il resto, però, fa da solo. Veloce e diretto. In fondo, il PD non è mai stato un partito "vero". È, invece, il frutto di un lungo, complesso, lavoro di rammendo. Mai riuscito davvero. Perché non è facile attaccare i pezzi di post-partiti. Il post-PCI e la post-DC. I post-Pds-Ds. E i post-popolari- Margherita-popolari. Un partito eternamente "incompiuto". Così Renzi guarda oltre. E guarda anche al di là del governo. Di cui è premier. Unico. A capo di una compagine dove solo lui conta davvero. Con una maggioranza di cui è difficile capire la vera composizione. Forza Italia, ad esempio, c'è oppure no? Sì e no. Dipende da quel che si vota. La legge elettorale o il DEF. Il Presidente di fatto di una Repubblica dove tutto è provvisorio, superato eppure ancora effettivo. Partiti, sistema elettorale, Senato, costituzione... Questa, insomma, è l'era dei post-partiti e dei post-leader, dei post-governi e delle post-coalizioni. Della post-democrazia, come la chiama Colin Crouch. Post. Perché siamo oltre, dopo, qualsiasi modello, qualsiasi definizione, qualsiasi traguardo. Post. Siamo la post-Italia. Un Paese allo "Stato (sic) fluido". Popolato di post-italiani. "Un universo che intensifica a dismisura il mondo televisivo, facendone proliferare senza limite le schegge in un riverbero continuo di specchi elettronici." L'irruzione dei nuovi media e delle nuove tecnologie della comunicazione, dei Social Media e degli smartphone, in fondo, ha rafforzato e moltiplicato questo universo, invece di farlo svanire. Perché ha permesso a tutti di esibirsi, in ogni momento, in ogni luogo, da casa loro, in strada, a scuola e in birreria. Ciascuno a lanciare il suo selfie al mondo. Senza distinzione di genere, età, titolo di studio e professione. Oltre ogni ideologia e religione. Questa post-democrazia, dove si affrontano post-leader di post-partiti che fatichiamo a distinguere con precisione. Per cui li chiamiamo tutti "populisti". Questa post-Italia, abitata da un "popolo" di "arcaici e postmoderni" al tempo stesso. Sempre in anticipo e sempre in ritardo. Noi, i Post-italiani. Raffigurati e rappresentati, fedelmente, dieci anni fa, da Edmondo Berselli. Con le immagini e le parole che ho proposto fin qui. In molti punti, in modo letterale e fedele. Altrove, con qualche adattamento e qualche aggiornamento. Edmondo Berselli se n'è andato giusto quattro anni fa. E molti di noi - io di certo - continuano a chiedersi cosa scriverebbe oggi. Del Paese provvisorio in cui viviamo. Dei leader post-politici che lo abitano. Di noi stessi. Che ne direbbe Eddy di tutto ciò? #statesereni. L'ha già scritto. Basta ri-leggerlo. Con un po' di nostalgia e molta attenzione. (11 aprile 2014) © Riproduzione riservata Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/04/11/news/ma_oggi_siamo_tutti_post-83338106/
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« Risposta #387 inserito:: Aprile 28, 2014, 06:12:57 pm » |
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La rimozione elettorale di ILVO DIAMANTI 28 aprile 2014 Manca meno di un mese alle elezioni. Riassunte, nel dibattito pubblico, dal voto europeo. E, insieme, politico. Italiano. Perché non c'è voto, in Italia, che non abbia effetti sul piano politico nazionale. Così la consultazione del 25 maggio sembra ridursi a due quesiti. Pro o contro l'Europa - e, in primo luogo, l'euro. Pro o contro Renzi - e, di conseguenza, pro o contro Grillo. Ci si dimentica che il 25 maggio avranno luogo anche altre elezioni. Non irrilevanti, per numero e importanza. Si voterà, infatti, anche per eleggere i sindaci e i consigli in oltre 4000 comuni, quasi la metà di quelli italiani. Tra questi, 27 capoluoghi di provincia e 14 città con oltre 100 mila abitanti. Inoltre, si eleggeranno il Presidente e il Consiglio di due Regioni: il Piemonte e l’Abruzzo. Dunque, in Italia si voterà per l’Europa, ma anche per numerosi Comuni e due Regioni. Ma è significativo che molti non lo sappiano. L’alto grado di incertezza rivelato dai sondaggi, insieme al peso delle astensioni, inoltre, riflette anche un elevato livello di non conoscenza. Difficile chiedere agli intervistati se e per chi voteranno, quando molti di loro non sanno per chi e per chi saranno chiamati a votare. D’altronde, la campagna elettorale non è ancora partita. Nelle strade non si vedono manifesti. Né volantini, nelle cassette postali. Tanto meno si incontrano volontari, nelle strade e nei mercati. Ma questa è un’altra storia. Riguarda la scomparsa della politica sul territorio. Anche se, in fondo, la rimozione delle prossime scadenze elettorali evoca lo stesso problema. La stessa tendenza. Il declino del territorio. O meglio: la perdita dei riferimenti territoriali. Vent’anni fa avveniva esattamente il contrario. I sindaci erano i nuovi sovrani. I veri capi della Nuova Repubblica. Eletti direttamente dal popolo. Insieme ai presidenti di Provincia. Come sarebbe avvenuto, negli anni a seguire, anche per i presidenti di Regione, pretenziosamente ri-nominati, per analogia con gli Usa, Governatori. Vent’anni fa: il territorio veniva agitato come una bandiera. Come il federalismo. Marcava la lotta contro lo Stato centrale. E contro il vecchio ceto politico. Contro i partiti “romani”. In fondo, lo stesso Berlusconi, anche se aveva definito il suo partito personale Forza “Italia”, era il capo di Forza “Milano”, in marcia “contro Roma” insieme alla Lega “Nord”. La sinistra, invece, appariva minoritaria, perché anch’essa localizzata, fin troppo, all’interno degli stessi confini di un tempo. Le regioni rosse dell’Italia centrale. Una sorta di Lega Centro (per citare Marc Lazar). Quest’Italia dei Comuni e delle Regioni aveva la sua cornice naturale nell’Europa. L’Italia: il Paese più europeista d’Europa. E al tempo stesso il più localista e antistatalista. Anzi: proprio per questo. Tanto più europeista — e localista — in quanto più lontano e disincantato nei confronti dello Stato. Ebbene, in vent’anni, tutto sembra cambiato. E, senza quasi accorgersene, gli italiani hanno perduto fiducia nel territorio. In tutti i principali ambiti di governo locale. Basta tornare all’ultimo Rapporto su “ gli italiani e lo Stato” ( dicembre 2013). Da cui emerge il calo (meglio sarebbe dire: il collasso) della fiducia verso i Comuni. Oggi “stimati” da circa il 30% dei cittadini. Cioè: quasi 20 punti in meno rispetto a fine anni Novanta. Mentre la fiducia verso le Regioni, nello stesso periodo, si è dimezzata e oggi supera, di poco, il 20%. Così, non deve stupire la rimozione delle elezioni amministrative, che si coglie in questa fase. Rispecchia la progressiva marginalità dei governi locali nel sentimento dei cittadini. Che non ha paragoni, negli altri Paesi europei. Visto che la fiducia nei confronti dei Comuni e delle Regioni, in Italia, risulta, di gran lunga, la più bassa in un’indagine condotta anche in Francia, Spagna, Germania e GB ( Pragma per l’Oss.Europeo sulla Sicurezza di Demos, Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, gennaio 2014). Abbiamo, dunque, perduto il nostro “ancoraggio” al territorio. E i partiti territoriali, non a caso, galleggiano faticosamente. Non solo la Lega, ma anche Forza Italia, pardon: Forza Milano. I quali, non per caso, per sopravvivere si affidano al sentimento anti-territoriale. O meglio anti-europeo. D’altronde, la fiducia nella Ue è crollata, quanto e più di quella verso i governi locali. Oggi è scesa intorno al 28%. Oltre 20 punti meno rispetto a dieci anni fa. Circa la metà rispetto alla Germania, ma 10 punti in meno anche rispetto alla Spagna (Oss. Europeo sulla Sicurezza). Così, ci ritroviamo senza riferimenti territoriali. Abbiamo perduto la fede nei Comuni e nelle Regioni. Mentre delle Province ci siamo sbarazzati senza neppure discuterne, a livello sociale. Cancellate, come una voce di spesa, un capitolo della spending review. Senza rimpianti e senza proteste. Il federalismo, d’altronde, chi l’ha visto? Tuttavia, ci sentiamo lontani e delusi anche dall’Europa. A cui restiamo attaccati solo per paura. Di quel che ci potrebbe capitare se ne restassimo fuori. Non per questo abbiamo recuperato fiducia nello Stato. Anzi. Lo Stato è un participio passato. Perché oggi esprime fiducia (si fa per dire…) nei suoi confronti circa il 13% dei cittadini. Cioè: quasi nessuno. Così non ci dobbiamo sorprendere se, per paradosso, il leader politico più popolare, oggi, Matteo Renzi, è stato sindaco e, prima, presidente di Provincia. Né che la maggioranza dei veneti si dica d’accordo con la rivendicazione di indipendenza. Perché Renzi appare un capo. Senza partito — e senza territorio. Mentre l’indipendenza veneta non evoca una patria diversa e alternativa. Ma l’in-dipendenza dallo Stato e da ogni altra istituzione territoriale. Comune o Regione. Per non parlare delle Province, che non esistono più. Oltre che dall’Europa. Un non-popolo senza patrie. Senza identità. Un Paese di apolidi. A questo rischiamo di ridurci, se non tentiamo, almeno, di resistere all’abolizione del territorio. Non solo dall’orizzonte (geo) politico. (A proposito: la Crimea da che parte sta?) Ma dal nostro “limes personale”. Dal nostro linguaggio. Dalle mappe che orientano la nostra vita quotidiana. © Riproduzione riservata 28 aprile 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/28/news/la_rimozione_elettorale-84648565/?ref=HREC1-1
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« Risposta #388 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:33:39 pm » |
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Nostra Signora Televisione di ILVO DIAMANTI 05 maggio 2014 Nostra Signora Televisione. Guardata con sospetto e con distacco. Un old medium. In altri termini: vecchio. Se non superato, in declino. Vuoi mettere internet? I social media? Twitter e Facebook? Vuoi mettere Beppe Grillo e il suo blog? Capace, con la regia di Casaleggio, di sbancare, alle elezioni del 2013? E di continuare la corsa anche in seguito? Fino a lasciar pensare a una replica, almeno, alle Europee del prossimo 25 maggio? La televisione. Una signora. Ma irrimediabilmente vecchia. Soprattutto i canali generalisti di Rai e Mediaset, con La7 a traino. Il duopolio imperfetto degli ultimi trent'anni. A reti unificate. Eppure... Tutti scalpitano, impazienti, per irrompere nei programmi tivù di RaiSet - e della 7. Tutti i leader politici che contano. E, a maggior ragione, quelli che contano di meno. Perché per contare occorre ricorrere a Nostra Signora Televisione. Per questo motivo Berlusconi, nell'ultima settimana, ha fatto irruzione in tutte le reti. E in molti programmi di informazione di prima serata. Dal Tg4 a Studio Aperto, al Tg2. E ancora: da "Porta a Porta" a "Piazza Pulita", da "Virus" a "In ½ ora"... Una presenza tanto costante e intensa da sollevare l'attenzione dell'Agcom (come ha documentato, ieri, un ampio servizio su Repubblica). D'altronde, la ripresa (per quanto relativa) di Berlusconi, alle elezioni di un anno fa, era trainata dalla partecipazione a uno spazio ostile: "Servizio Pubblico". Il talk guidato da Santoro insieme a Travaglio. Icone, più che portabandiera, dell'anti-berlusconismo. L'irruzione di Berlusconi, il Nemico Pubblico, aveva fatto salire gli ascolti fino a livelli mai raggiunti - né prima né dopo. Dal programma e dalla rete. Ma aveva anche permesso al Cavaliere di contrastare la sconfitta annunciata. Di esibire la propria determinazione a "resistere, resistere, resistere"... Per echeggiare una frase famosa, usata dal magistrato Francesco Saverio Borrelli, nel gennaio 2002, con un fine opposto. Cioè, contro Berlusconi. All'epoca, Presidente del Consiglio. In questi giorni, però, anche Beppe Grillo ha ripreso a frequentare la tivù. Ieri sera ha concesso una lunga intervista a SkyTg24. Ma, soprattutto, sembra stia negoziando la partecipazione al programma che, più di ogni altro, simboleggia il legame fra informazione televisiva e sistema politico. "Porta a porta". Il talk presentato - e diretto - da Bruno Vespa. Trent'anni dopo, visto il precedente del 1983. In occasione, non a caso, della serata dedicata da Rai Uno alle elezioni (politiche, in quell'occasione). Grillo, che tratta televisioni, giornali e giornalisti come "nemici". Come i partiti. In quanto "mediatori" della comunicazione e della democrazia. Che egli concepisce in forma "diretta" e "im-mediata". Oltre ogni rappresentanza. Grillo che, sul proprio blog, esibisce alla pubblica riprovazione i giornalisti infedeli - al loro compito. E, dunque, a suo avviso, pre-venuti: contro il M5s. Proprio lui, Beppe Grillo: da Vespa. Dopo aver polemizzato contro lo spazio riservato a Renzi e agli uomini del Pd e del governo. Nelle reti televisive nazionali. Mentre altri soggetti politici, meno accreditati, dal punto di vista elettorale, protestano contro la propria marginalità (esclusione?) mediatica. In particolare, la sinistra dell'Altra Europa. Dunque: la televisione, nonostante tutto. Impossibile farne a meno, se si ha l'ambizione di "vincere", o almeno di "esistere", alle elezioni. Perché le scelte degli elettori si definiscono proprio lì. E perché, soprattutto lì, si risolve l'incertezza. Maturano le decisioni degli indecisi. Che sono ancora molti. Oltre un terzo, secondo i sondaggi. D'altronde, alle Europee la partecipazione elettorale è, strutturalmente, più bassa. Nel 2009, in Italia, votò il 66% degli aventi diritto. Peraltro, livello fra i più alti in Europa. Ma è facile immaginare che, in questa occasione, l'affluenza alle urne scenda ulteriormente. Così diventa essenziale andare in tivù. D'altra parte, se facciamo riferimento alle elezioni politiche del 2013, quando l'attenzione appariva molto maggiore di oggi, possiamo osservare come quasi un quarto degli elettori abbia deciso se e per chi votare nel corso dell'ultima settimana (come mostrano le indagini di LaPolis, presentate nel volume Un salto nel voto, pubblicato da Laterza). La maggioranza, il 13% dei votanti, nei giorni delle elezioni. Il 90% degli elettori, peraltro, afferma di aver seguito la campagna elettorale (guarda caso...) proprio in televisione. Meno della metà, il 40%, attraverso internet. Secondo Ipsos, circa il 55% utilizza la tivù per informarsi sulle elezioni anche in questa fase. Il che significa la maggioranza di tutti gli elettori e di tutti gli elettorati. Compreso il M5s. Il soggetto politico, peraltro, che, alle elezioni del 2013, ha allargato maggiormente la propria base elettorale proprio nell'ultima settimana. Nel corso della quale ha conquistato circa il 30% dei suoi elettori. Per questo la televisione resta il vero "campo" della campagna elettorale. Il più conteso e il più combattuto. Perché il più influente. D'altronde, secondo l'Osservatorio di Demos-Coop del dicembre 2013, l'80% degli italiani si informa ogni giorno attraverso la tivù. Circa il 47% su internet. Il "mezzo" di informazione che ha registrato il maggior grado di crescita, negli ultimi anni. Dal 2007, infatti, è quasi raddoppiato. Tuttavia, resta ancora un medium molto delimitato, dal punto di vista degli utenti. Ne restano, infatti, largamente escluse le persone più anziane e meno istruite. Cioè, le più incerte. Le più difficili da contattare e, quindi da convincere. Anche perché, nel corso degli anni, hanno perduto fiducia nella politica, nei politici e nelle istituzioni. (E uno spettacolo osceno, come quello messo in scena prima della finale di Coppa Italia, a Roma, in diretta tivù, non può che aver moltiplicato questo sentimento.) Ebbene, per raggiungere e spingere gli elettori indecisi a votare - magari contro, per rabbia e delusione - ci vorrebbero contatti diretti. Personali. Con amici, conoscenti, familiari. Per sfidare la sfiducia ci vorrebbero persone di cui ci si fida. Ci vorrebbe la politica sul territorio. Come un tempo. Quando i partiti erano dentro la società, confusi nella vita quotidiana. Quando la campagna elettorale veniva condotta porta a porta. Mentre ora, per parlare con gli indecisi e gli incazzati, non resta che andare in tivù. A "Porta a porta". © Riproduzione riservata 05 maggio 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/05/news/nostra_signora_televisione-85250995/?ref=HREC1-10
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« Risposta #389 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:36:19 pm » |
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L’Europa ringrazi gli antieuropei Di ILVO DIAMANTI 19 maggio 2014 PER fortuna ci sono gli antieuropei. Che scendono in piazza contro l’Unione Europea e contro l’euro. Per fortuna dell’Europa. Ma, in fondo, anche di Renzi e del Pd. Perché grazie agli antieuropei si parla dell’Europa. E grazie al M5s, oltre che a Renzi, anche il Pd ha ritrovato le piazze. Gli antieuropei. Sono i soli soggetti politici a mobilitarsi e a mobilitare l’opinione pubblica, in questa fase. D’altronde, l’Unione Europea piace a pochi. (Come emerge da un sondaggio Demos-Pragma per la Fondazione Unipolis, gennaio 2014.) Esprime fiducia nei suoi riguardi il 27% degli elettori, in Italia, come in Gran Bretagna (che, però, è fuori dall’euro), il 33% in Francia, il 38% in Spagna. Solo in Germania il consenso nella Ue è maggioritario (55%). Non a caso, visto che la Germania costituisce l’asse portante dell’Unione. E gran parte del malessere, negli altri Paesi, dipende proprio da questo. Altrettanto — e, forse, più — negativo è il giudizio sulla moneta. Sull’euro. Poco più del 12 per cento degli italiani (intervistati da Demos, ottobre 2013) ritiene, infatti, che la moneta unica abbia prodotto «vantaggi ». Meno di metà rispetto a dieci anni prima, quando l’entusiasmo seguito all’ingresso nella moneta si era già consumato. Nell’aria si respira, dunque, una diffusa euro-delusione, particolarmente densa presso le componenti sociali più vulnerabili. Gli operai, le casalinghe, i disoccupati. Ma anche i lavoratori autonomi. Soprattutto nel Centro Sud. Non c’è, dunque, da sorprendersi di fronte a questa “singolare” campagna elettorale europea. Nessuno che si azzardi a dirsi europeista, in modo convinto. Tanto meno, a favore dell’euro. Non solo in Italia. Ma soprattutto in Italia. Prevalgono gli argomenti eurodelusi. Eurocritici, se non euroscettici. Disposti, al più, a indicare “l’Europa che vorremmo”. Che costruiremo. Domani. In caso di vittoria e di governo. Mentre ben più espliciti e determinati sono i soggetti — e i messaggi — politici antieuropei. Contro l’Europa delle banche e dei mercati, dei burocrati e dei funzionari. Contro l’Europa che neutralizza la sovranità degli Stati nazionali e/o dei popoli. Al più, l’Europa disegnata da questa campagna elettorale è un “non-luogo”. Un’entità incerta e indefinita. Per questo la campagna anti-europea diventa utile. Non tanto quella opportunista, condotta da Berlusconi, che contesta l’Europa (e la Germania) che lo contesta. Ma l’antieuropeismo determinato e convinto. Espresso, soprattutto, dalla Lega e dal M5s. La Lega, in nome dell’Europa dei popoli. E dell’indipendenza del popolo padano, in particolare. Il M5s, contro la democrazia in-diretta — e poco democratica — delle istituzioni europee. Definite, da Grillo, «un club Med, un dolce esilio dei trombati alle elezioni nazionali ». Ma, soprattutto, contro l’euro. Non a caso, il M5s propone di restare nella Comunità (non nell’Unione) Europea, ma di uscire dall’euro. Di tornare alla moneta nazionale. Con un referendum. Ecco, la Lega e, soprattutto, il M5s — su posizioni peraltro lontane e diverse — hanno, comunque, il merito di porre l’Europa, le sue istituzioni, la sua moneta al centro del dibattito. Per paradosso, sono i principali partigiani dell’Europa e dell’euro. Perché li prendono sul serio. E suggeriscono, al tempo stesso, la questione che dovrebbe, davvero, venire posta e sottoposta a tutti, in questa fase. E cioè: cosa succederebbe se uscissimo davvero dall’Unione Europea? E dall’euro? A dare ascolto ai sondaggi — che ovviamente non sono referendum — il risultato sembrerebbe netto e scontato. Il disincanto europeo, infatti, non pare giungere fino al punto di rottura. Fino a sfociare in euro-scetticismo o, peggio, in euro-rifiuto. Meno di un italiano su quattro, infatti, pensa che converrebbe uscire dalla Ue. Mentre meno del 30% pensa che l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro e tornare alla lira. Gli italiani, dunque, in larghissima maggioranza, anche se insoddisfatti, restano attaccati alla Ue e all’euro. Perché temono che, "fuori" dall’euro e dalla Ue, le cose andrebbero peggio. Potrebbero precipitare. E dunque: l’Europa e l’euro “nonostante tutto”, potremmo dire (echeggiando la formula coniata da Edmondo Berselli per l’Italia). Il problema è che non è facile sostenere le buone ragioni di un’idea e di un progetto “nonostante tutto”. Così prevale il silenzio. La reticenza. I sussurri. Gli unici a gridare sono gli anti Ue e soprattutto gli anti euro. Come Grillo. Che, peraltro, ha spostato la campagna delle europee sul piano interno. Nazionale. Non solo, ma soprattutto lui. Perché Grillo e il M5s sono divenuti i principali antagonisti del governo e di Renzi. Hanno trasformato il voto in un referendum: pro o contro Renzi. Pro o contro il M5s. Grillo, proprio per questo, sta mobilitando le piazze. Come prima del voto del febbraio 2013. Con la differenza, rispetto a un anno fa, che anche il Pd di Renzi lo ha seguito sullo stesso terreno. Che poi è il teatro tradizionale della sinistra. La piazza. Al di là dello scontro sui numeri, in base a report giornalistici e fotografici, com’è avvenuto in occasione delle recenti manifestazioni di Reggio Emilia, la novità è questa. Non solo Grillo, ma anche il Pd di Renzi è tornato in piazza. Non avveniva da tempo. Ma di ciò deve ringraziare “anche” la sfida di Grillo. Che lo costringe a mobilitarsi, a rafforzare la propria identità attraverso la partecipazione e la comunicazione “pubblica”. Ad agire come un “partito”. Così gli antieuropei ci costringono a parlare dell’Europa e delle sue ragioni. Senza svalutarle. In quest’epoca di non-luoghi e di non-partiti, non mi pare una cattiva notizia. © Riproduzione riservata 19 maggio 2014 Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/19/news/leuropa_ringrazi_gli_antieuropei-86536328/?ref=HRER1-1
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