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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277892 volte)
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« Risposta #315 inserito:: Dicembre 17, 2012, 04:06:19 pm »

Il dilemma del Professore

di ILVO DIAMANTI


La Seconda Repubblica è finita, ma non del tutto. Il leader che l'ha inventata e guidata, per quasi vent'anni, è ancora lì. Silvio Berlusconi. Non si decide a uscire di scena. Per il bene del Paese. E, in primo luogo, "per i miei interessi", come ha esplicitamente affermato negli scorsi giorni. Da ciò la difficoltà di costruire una democrazia "normale", fondata sull'alternanza possibile.

Da ciò la difficoltà di Mario Monti, nella ricerca di un ruolo, dopo le prossime elezioni. Monti: vorrebbe continuare l'opera avviata un anno fa. Ma sulla base di un'investitura democratica e non aristocratica. Per volontà popolare e non del Presidente. Dopo una consultazione elettorale in Italia e non per scelta degli "altri". Su Monti, come si è visto anche nell'ultima settimana, "investono" i Popolari europei. La Merkel in testa. Ma anche il presidente francese, Hollande, socialista, ha espresso la sua stima verso il Professore.

I leader politici (oltre ai mercati) internazionali si chiedono perché mai gli italiani debbano esporsi al rischio di eleggere  -  democraticamente  -  un governo "populista". Oppure una maggioranza fragile, condizionata da forze politiche anti-europee. Com'è già avvenuto in passato. I leader e i mercati stranieri: si chiedono (talora apertamente) perché gli italiani debbano andare al voto, quando dispongono già di un premier "affidabile" (dal loro punto di vista).

"Purtroppo" la democrazia ha le sue regole. E i suoi rischi. Da troppo tempo  -  per citare Marc Lazar  -  l'Italia costituisce un interessante "laboratorio" dei cambiamenti  -  e delle distorsioni  -  delle democrazie europee. E, per questo, opera in una situazione instabile. Sarebbe ora che entrasse in una "noiosa" condizione di "normalità". Superando le deviazioni della Seconda, ma anche della Prima Repubblica. Non è ancora possibile, pare. Come dimostrano i dilemmi di Monti, in questa fase.

Il Professore vorrebbe, infatti, riproporsi come premier, dopo le elezioni. Ma è difficile trovare una posizione adeguata alle sue  -  legittime e comprensibili  -  aspirazioni. La "casa" più sicura e coerente, in base all'esperienza recente, sarebbe il centrosinistra. In particolare: il Pd. Che i sondaggi stimano in largo vantaggio. Soprattutto dopo le primarie. Le quali, tuttavia, hanno garantito un largo consenso a Bersani. Indicare un candidato diverso  -  o un premier diverso, dopo il voto  - significherebbe vanificare la volontà degli elettori. Dire loro  -  e a tutti  -  che il centrosinistra aveva scherzato.

Un'altra ipotesi, di cui molto si parla, prevede che Monti venga candidato dalle forze politiche di Centro. L'Udc, Fli, la lista promossa da Montezemolo. Una soluzione che potrebbe fare del Terzo Polo l'alternativa vera al centrosinistra. Anche perché l'attuale sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, concepito in era berlusconiana e mantenuto con il concorso determinante di Berlusconi, ha prodotto un duplice effetto: maggioritaria e personale. Spingendo, cioè, la competizione elettorale in senso bipolare e presidenziale. Ha, infatti, opposto fino ad oggi Berlusconi al candidato della sinistra. Prima Prodi (l'unico ad averlo battuto, per due volte). Poi Veltroni. Ma oggi Berlusconi ha un consenso personale limitato. La sua parabola si è conclusa nell'autunno di un anno fa. Quando ha dovuto "arrendersi" e rassegnare le dimissioni. Costretto da vincoli esterni, ma prima ancora interni. Dalla crisi di fiducia nel Paese e dall'incapacità di tenere insieme la sua maggioranza. Oggi, il suo ritorno politico ha permesso al Pdl di risalire. Ma di poco: 3-4 punti. Il suo partito: non arriva al 20%. E poi: è diviso. Berlusconi. La stessa Lega: esita ad allearsi con lui. Come potrebbe dimostrare la propria volontà di rinnovamento, ripresentandosi di nuovo al voto con Berlusconi?

Per questo, se Monti divenisse il candidato premier del Centro, il Terzo polo potrebbe trasformarsi nel Secondo. L'alternativa al centrosinistra. Egli stesso diverrebbe, a sua volta, l'alternativa a Bersani. Il suo avversario. Per l'improponibilità di Berlusconi. Per il basso grado di legittimità delle forze di centrodestra. Ma anche per il consenso personale di cui dispone il Professore  -  risalito oltre il 50% nell'ultima settimana (come segnalano i sondaggi di Demos e Ipsos).

Chiarisco subito che, a mio avviso, si tratterebbe di una prospettiva "normale" e, anzi, auspicabile  -  in altri tempi e in altri contesti. Proporrebbe, infatti, l'alternativa fra due candidati e due aree politiche "compatibili". Una più lib e l'altra più lab. Entrambe, sostanzialmente, europee e democratiche. Il problema, tuttavia, è che in questa fase e in queste condizioni, un Patto di Centro guidato da Monti attrarrebbe non solo i voti "moderati", ma anche il sostegno personale di Silvio Berlusconi. Il quale, anche ieri, nel lungo monologo "recitato" a Canale 5, ha ribadito la propria disponibilità a fare un passo indietro. Ma solo se Monti si candidasse. In altri termini, Monti apparirebbe non solo "colui che unisce i moderati", ma il garante del Cavaliere e dei suoi.

Per questo oggi Monti si trova in una posizione critica. Perché non può essere candidato dal centrosinistra. Neppure in modo furbescamente mascherato. L'ipotesi di staffetta, di cui si è parlato negli ultimi giorni, appare, infatti, discutibile. Perché gli elettori hanno il diritto di sapere per chi e perché votano. Al momento del voto. Per quale premier e quale maggioranza.

Ma se Monti (per citare Eugenio Scalfari) "cadesse in tentazione" e si candidasse con il Centro, diverrebbe l'alternativa a Bersani. In particolare se Berlusconi facesse un passo indietro. Difficilmente potrebbe, domani, allearsi con il centrosinistra. Tanto meno divenire premier di una coalizione di "unità nazionale". Se non nel caso che nessuno, al Senato, ottenesse la maggioranza dei seggi (ma Monti, per questo, dovrebbe tifare per la Lega e il Cavaliere, nelle regioni del Nord).

C'è, infine l'ipotesi, avanzata ieri, che Monti promuova una propria lista personale. In autonomia da tutti gli altri. In questo modo si metterebbe davvero in gioco. Tuttavia, per questo, rischierebbe molto. Alcuni sondaggi recenti (Swg, per esempio) gli attribuiscono intorno al 6%, che salirebbe al 15%. Però, appunto, insieme alle forze di Centro. Troppo poco, per coltivare ambizioni di premiership. Al contrario, abbastanza per comprometterle.
Per continuare a svolgere un ruolo di primo piano, nei prossimi anni, penso che il Professore debba, dunque e comunque, rifiutare, apertamente, l'offerta, ma anche i voti del Cavaliere. Prendere esplicitamente le distanze da lui. E quindi decidere. Se, come e con chi scendere in campo.

Ma solo "restando fuori", a mio avviso, potrebbe occupare, in seguito, ruoli istituzionali importanti. Oppure ruoli di governo. Nella coalizione vincente. O al di sopra delle parti. In caso di particolare emergenza.
Mario Monti, più di ogni altro, oggi può contribuire a "normalizzare" la nostra democrazia. Spezzando, definitivamente, il filo che ancora ci lega alla Seconda Repubblica. Cioè, a Silvio Berlusconi.
Ma, proprio per questo, deve "restare fuori".

(17 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/17/news/il_dilemma_del_professore-48908565/?ref=HREA-1
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« Risposta #316 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:32:50 pm »

Il cavaliere solitario per istinto e strategia


di ILVO DIAMANTI

SOLO contro tutti. È la parte che, oggi, recita Berlusconi. Un po' per istinto e per sentimento. Un po' per calcolo e per strategia. Per istinto e sentimento. Perché non si fida di nessuno. Neppure dei "suoi". Anzi, soprattutto di loro. I leader alleati (fino a pochi anni fa). Fini e Casini, postfascisti e neodemocristiani. Miracolati. Sdoganati e recuperati da lui, nei primi anni Novanta. Quand'erano gli esemplari sopravvissuti di una specie in via di estinzione. Destinati a scomparire. Oppure a finire fuori gioco. Emarginati ed esclusi. Berlusconi ha offerto loro un ruolo di primo piano. E loro, in cambio, hanno tramato per la sua successione. Fino ad abbandonarlo. Lasciandolo solo. Come ha fatto gran parte dei parlamentari del Pdl e del centrodestra.

Lo scorso ottobre, dopo la condanna del Tribunale di Milano a suo carico per frode fiscale, nel processo Mediaset. Berlusconi. Si è sentito vulnerabile. Ed è tornato. È sceso di nuovo in campo. Meglio, in campagna elettorale. Anzitutto e soprattutto in televisione. Abituato com'è a considerare la tivù la grande madre dell'Italia media. L'Italia dei media. Il Paese dove, ancora oggi, l'80% degli italiani usa ogni giorno la tivù per informarsi (Sondaggio Demos-Coop, dicembre 2012). Il problema, semmai, è che Berlusconi si è abituato a comunicare solo da solo. Attraverso monologhi. Non sopporta i dialoghi, le interviste serie. Le domande: per lui sono interruzioni. Quasi aggressioni. Tanto più se avvengono  -  come ieri pomeriggio  -  su RaiUno, la Rete istituzionale. In una trasmissione pop-olare, come l'Arena. Allora reagisce con sdegno. Minaccia il conduttore, Massimo Giletti, di andarsene. E fatica a riprendere il controllo di se stesso.
Forse anche per tattica. Per recitare da solo contro tutti. Solo davanti a tutti. Amato e, magari, odiato. Ma non ignorato. Dimenticato. L'unico silenzio sopportabile, per lui, è quello  -  fragoroso  -  degli ultimi mesi. Quando parlava senza parlare. Appariva senza apparire. Per far evaporare l'ondata di impopolarità che lo aveva travolto nel corso del 2011. Lui, costretto a farsi da parte. Ma sempre lì. Incombente. Pronto a ritornare.

Ma Silvio Berlusconi, oggi, agisce da solo contro tutti anche per calcolo e per strategia. Per imporre se stesso come attore politico "centrale"  -  e al tempo stesso principale "frattura"  -  della competizione politica ed elettorale. Com'è avvenuto negli ultimi vent'anni. Nella Seconda Repubblica, dove Berlusconi ha costruito e costituito il nuovo "muro" che divide l'opinione pubblica e gli schieramenti. Pro o contro di lui. Teme, Berlusconi, che questa situazione cambi. Di venire emarginato. E, quindi, sconfitto. Perché questo sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, progettato e imposto da lui e dalla sua maggioranza nell'autunno del 2005, ha effetti bipolari. E, per certi versi, presidenziali. Tende, cioè, a trasformare la competizione elettorale in un confronto fra due leader, due persone. A capo di due coalizioni. Che si contendono il governo in loro nome. Una delle tante anomalie di questa Repubblica preterintenzionale, dove le riforme si affermano nella pratica. Senza bisogno di riforme. Berlusconi teme di diventare un concorrente insieme ad altri. Bersani e Monti per primi. Teme di perdere la rappresentanza e, prima ancora, il marchio dei "moderati".

Teme: che i moderati vengano interpretati, dopo tanto tempo, da un moderato vero. Un liberale come Monti. Mentre, a lungo, sono stati riassunti nell'alveo dell'estremismo mediatico e populista  -  piuttosto che popolare. Per questo, anche ieri, su RaiUno, Berlusconi ha ribadito la necessità che gli italiani lo votino  -  contro la Sinistra di ispirazione veterocomunista. E ha insistito sulla necessità di isolare il Centro. Di Casini, Fini, Montezemolo. E di Monti che, anche senza essersi espresso apertamente, potrebbe divenirne la bandiera. La figura di riferimento. In grado di attrarre altri "moderati" dei due schieramenti. Un grave rischio per Berlusconi. Doversi misurare non solo con un "vecchio boiardo" del Pci. Ma con un "moderato". Accreditato in ambito internazionale. Così, per imporsi come "l'altro polo" della competizione bipolare, alternativo al Pd e a Bersani, per difendersi dalla "minaccia moderata", Berlusconi non esita a riprendere il repertorio populista. A recitare il copione antipolitico. Contro l'euro e contro l'Unione europea. Contro la Germania. Contro la Merkel e il suo "sottopancia", Sarkozy.

Argomenti usati dalla Lega, ma anche e soprattutto da Grillo e dal M5s. Di cui imita il linguaggio e il personaggio. Anche se in modo diverso e alternativo. Perché Grillo "usa" la tivù, senza andarci. Ma, anzi, sanzionando gli esponenti del suo movimento che vi partecipano. Anche se in televisione Grillo imperversa. Con i videomessaggi ripresi dal suo blog. Con i comizi registrati in piazza. Con le traversate a nuoto dello Stretto e altri eventi concepiti apposta  -  per sollevare rumore mediatico. Berlusconi, invece, considera la televisione "casa sua". Ma recita la parte del perseguitato. Vittima di una congiura ordita da gran parte dei giornali e delle reti  -  che non siano di sua proprietà.

Insomma, Berlusconi sfida Monti, ma anche Grillo, sul loro terreno. Monti: incapace di "mantenere le promesse". Di realizzare ciò che Berlusconi non aveva potuto attuare, per vincoli esterni. (Non l'avevano lasciato governare...). Grillo: caso esemplare di degrado dell'homo politicus, ridotto nuovamente a scimmia. Più antipolitico e antieuropeo di Grillo. Berlusconi mira a riprendersi i voti degli elettori di centrodestra delusi, confluiti, negli ultimi mesi, nel M5s. Mentre, al tempo stesso, cerca di ridimensionare il ruolo e le competenze di Monti. In fondo, scandisce il Cavaliere, è solo un professore. "Non è mai stato nella trincea del lavoro, non è mai stato protagonista dell'economia". Anche per questo si "rifugia" nel centro. Che, nella competizione elettorale, in Italia, non costituisce un luogo "centrale", ma "residuale". Un'intercapedine del sistema politico.

Silvio Berlusconi, dunque, va alla guerra - elettorale. Combatte da solo. La solitudine non lo spaventa. Lui teme l'indifferenza. Il silenzio. Così, probabilmente, oggi si può dire soddisfatto. Perché è sulla bocca e sugli occhi di tutti. Io stesso gli ho dedicato, per intero, questa Mappa.
Eppure, certamente, tutto ciò non gli basta. Non gli può bastare. Per essere solo. Perché, per ora, è ancora "uno tra gli altri". Come altri. Lo sfidante di Bersani, Monti, Grillo... Più che il Muro: una trincea.

(24 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - repubblica,it
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« Risposta #317 inserito:: Gennaio 01, 2013, 11:57:52 am »

Politica, volontariato e lavoro: il Paese liquido torna a sognare

MAPPE.

Nel Rapporto Demos su "Gli italiani e lo Stato 2012", la convinzione della società civile che i nostri vizi storici possono essere superati.

Dissolte le vecchie istituzioni, si può ricostruire.

Cala la fiducia nella Chiesa e anche nel Quirinale, crisi di credibilità per il Parlamento.

Attesa per il leader del Pd e il premier uscente

di ILVO DIAMANTI


Viviamo tempi liquidi. Ricorro alla metafora - nota e fin troppo usata - di Zygmunt Baumann. Il quale, per descrivere i cambiamenti del nostro tempo, ha liquefatto tutto. Dalla società alla modernità. All'amore. Tuttavia, nessun'altra definizione mi pare altrettanto efficace per riassumere i dati di questa XV indagine di Demos (per Repubblica), dedicata al rapporto fra gli Italiani e lo Stato. Anni liquidi.

LE TABELLE su repubblica.it

Per il logoramento subìto dai principali riferimenti sociali. Le istituzioni: hanno perduto credibilità e fiducia fra i cittadini, negli ultimi anni. A partire dalle più accreditate: le Forze dell'ordine e il Presidente della Repubblica. La stessa magistratura arranca (10 punti in meno negli ultimi due anni). E poi i governi territoriali: Comuni e Regioni, fino a poco tempo fa simboli del federalismo, alternativi al centralismo statale. Cedono anch'essi. In misura significativa. Come le associazioni di rappresentanza economica - sindacali e imprenditoriali. Per non parlare delle banche. Per definizione, istituti di "credito"... In costante perdita di "credito".

È come se la società non riuscisse a salvaguardare i suoi argini, le sue radici. Sotto i colpi della crisi economica, ma non solo.
E divenisse (appunto) sempre più liquida. D'altronde, la fiducia negli attori della democrazia rappresentativa è ridotta a livelli minimi.
Non parliamo solo dei partiti ma, soprattutto, del Parlamento. È inquietante vedere come solo il 7% degli italiani lo ritenga credibile.
Non sorprende, dunque, che oggi solo il 22% esprima fiducia nello Stato. Circa 7 punti meno di un anno fa. Nell'insieme, dal 2005 ad oggi l'indice medio di fiducia degli italiani verso le istituzioni politiche e di governo, è sceso dal 42% al 29%. Quello verso le istituzioni economiche e sociali dal 35% al 22%. Difficile non dirsi d'accordo con Sabino Cassese e Barbara Spinelli, quando - utilizzando prospettive diverse - definiscono l'Italia una "società senza Stato".

Anche se, in questa fase, neppure la società e le sue istituzioni se la passano troppo bene. Non solo le associazioni imprenditoriali e sindacali, come abbiamo già detto. Anche la fiducia verso la Chiesa non è mai stata tanto bassa: 44%. Quasi 20 punti meno di dieci anni fa. L'unica istituzione in ripresa è l'Unione Europea. Si è attestata al 43%. Un rimbalzo di sette punti rispetto a un anno fa. Tuttavia, il consenso nei suoi confronti era già declinato sensibilmente negli anni scorsi, visto che ancora nel 2008 si aggirava intorno al 58%. Si tratta, peraltro, di un atteggiamento ambivalente. La Ue, infatti, viene accettata "nonostante". Suscita insoddisfazione, ma la gran parte degli italiani pensa che "senza" o "fuori" di essa sarebbe molto peggio. Un sentimento analogo a quello verso i servizi. Sanità, scuola, trasporti. L'insoddisfazione nei loro confronti è, infatti, cresciuta anche nell'ultimo anno. Soprattutto riguardo a quelli pubblici. Tuttavia, solo una piccola porzione di cittadini - due su dieci - ritiene opportuno allargare lo spazio del privato.

Anni liquidi. Si è logorata perfino "l'arte di arrangiarsi". La loro (nostra) "consumata" capacità di adattarsi. Di reagire alle difficoltà - e di creare, innovare - usando le risorse disponibili, nella società e nell'ambiente. Si sta "consumando" (Demos per Intesa Sanpaolo, novembre 2012). Così "non ci resta che la famiglia". L'unica istituzione e l'unico riferimento in cui gli italiani si riconoscano. A cui si aggrappino. In questi anni liquidi.

Eppure, alla fine del 2012, il più liquido di tutti, il Paese si scopre - se non proprio più ottimista - un po' meno pessimista di prima. Secondo il 37% degli italiani, infatti, il 2013 sarà migliore di quello che stiamo lasciando. Mentre il 25% ritiene che sarà peggiore.
Un anno fa il quadro appariva rovesciato: gli ottimisti erano il 27% e i pessimisti il 42%. Ancora: cresce la fiducia nella capacità del Paese di sfidare i propri vizi storici. Per prima: la lotta all'evasione fiscale. Mentre si rafforza la convinzione che l'economia riprenderà slancio. E che l'immagine e la credibilità internazionale dell'Italia migliorerà. Infine, occorre sottolineare come, secondo l'indagine di Demos per Repubblica, la partecipazione sociale non sia calata nell'ultimo anno ma sia, invece, cresciuta sensibilmente rispetto a cinque anni fa (dal 54% al 60%). Segno di una diffusa disponibilità a - e volontà di - cambiare.

Da ciò un quesito. Un dubbio. Com'è possibile coltivare un - per quanto tiepido - sentimento di ottimismo in tempi tanto liquidi? Affaticati dalla crisi - economica e politica? Tenendo conto che si tratta di un sentimento nuovo e diverso, rispetto agli ultimi anni.

È possibile - anzi, probabile - che i due atteggiamenti si spieghino reciprocamente. Che la destrutturazione del passato alimenti la speranza di strutturare il futuro. In fondo, questo è l'anno di Monti (come emerge dal sondaggio di Demos). Al di là dei giudizi sul suo operato e sul suo ruolo: è il "dopo Berlusconi". Così come Grillo: "attore" della messa in scena (anti) politica. Entrambi, sintomi e simboli di un cambio d'epoca. Una svolta. E se è vero che Silvio Berlusconi è ritornato, ancora una volta. Se invade gli schermi con gli stessi proclami di 5-10-20 anni fa. È, tuttavia, difficile non percepirlo come un segno del passato. Il passato. L'icona liquida di un Paese liquido.
D'altra parte, solo una minoranza circoscritta degli italiani (intorno al 13-16%) pensa che Berlusconi possa vincere le elezioni e diventare premier. La maggioranza prevede - ragionevolmente - il successo del Centrosinistra (44%) e scommette sul primato di Bersani (28%).
Al più: di Monti (il 27% lo vorrebbe premier).

L'idea che il 2013 possa essere migliore del 2012 e degli anni precedenti non costituisce, dunque, un auspicio rituale (dettato, magari, da disperazione.) Riflette, piuttosto, la sensazione diffusa che l'anno trascorso segni la fine di un ciclo. Un cambio d'epoca. E ciò suscita inquietudine ma anche attesa. Perché se il passato è scritto e de-scritto, il futuro è un libro con molte pagine bianche. Non ancora scritte. Che noi stessi possiamo scrivere. Almeno in parte. Allora, tanti auguri! E buon anno (liquido).

(31 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/31/news/italiani_politica_speranza-49713312/
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« Risposta #318 inserito:: Gennaio 05, 2013, 04:12:38 pm »

Io sono un conservatore


Ilvo DIAMANTI

   
Conservatori. È l'accusa che Mario Monti ha rivolto a Stefano Fassina, Nichi Vendola. E a Susanna Camusso. I quali, da tempo, avevano imputato al Professore, questo stesso peccato capitale. Monti: colpevole di essere un "conservatore". Perché i conservatori, in Italia, sono impopolari. E stigmatizzati. Da sinistra, ma anche da destra. Nessuno che ammetta di esserlo.

Ebbene, vorrei fare coming out. Io sono un conservatore. Non riesco ad ad accettare i sentieri imboccati dal cambiamento. Molti, almeno.
Il paesaggio urbano che mi circonda. E mi assedia.
La plaga immobiliare che avanza senza regole e senza soste.
L'indebolirsi delle relazioni personali e dei legami comunitari.
Il declino dei riferimenti di valore  -  perfino di quelli tradizionali.
La famiglia ridotta a un centro servizi, a un bunker sotto assedio.
La retorica dell'individualismo esibizionista e possessivo. Che ci vuole tutti imprenditori  -  di se stessi.
La Rete come unico "spazio" di comunicazione.
Gli smartphone che rimpiazzano il dialogo fra persone.
I tweet al posto delle parole.
La relazione senza empatia.
Le persone sparse che parlano  -  e ridono, imprecano, mormorano - da sole.

In tanti intorno a un tavolo, oppure seduti, uno vicino all'altro. Eppure lontani. Ciascuno per conto proprio, a parlare con altri. In altri luoghi - distanti. Tempi strani, nei quali tanti si sentono "spaesati", perché il "paese" appare un residuo del passato. E la "comunità": un fantasma della tradizione. Il lavoro senza regole e senza continuità. La flessibilità senza fine e senza un fine. Cioè: la precarietà.
La politica senza società, il partito personale, riassunto in un volto e in un'immagine. Dove i consulenti di marketing hanno sostituito i militanti. E al posto delle sezioni si usano i sondaggi (d'altronde, quando si dà la possibilità ai cittadini di esprimersi si recano a milioni, alle urne, di domenica e persino a capodanno).

Insomma: i personaggi, gli interpreti e i luoghi della modernità liquida. Non mi piacciono. Li conosco ma non mi ci riconosco.
Magari li subisco  -  in silenzio. Ma preferisco  -  di gran lunga - "conservare" quel che resta: del territorio, della comunità, delle relazioni personali, dell'economia "giusta", della politica come identità. Il "nuovo" come valore in sé non mi attira.

Lo ammetto: sono un conservatore. E ne vado orgoglioso.

(04 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/01/04/news/io_sono_un_conservatore-49882360/?ref=HREA-1
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« Risposta #319 inserito:: Gennaio 07, 2013, 07:33:23 pm »

Mappe / La Lega al bivio: meglio sola o male accompagnata?

di ILVO DIAMANTI


L'ACCORDO fra la Lega e il Pdl, molto probabilmente, si farà. Nonostante i dubbi della Lega. Ma Berlusconi non può farne a meno. Per non finire ai margini. Sconfitto dal Pd - vincitore annunciato.

Vincitore annunciato, il Pd, con fin troppo anticipo, per non comportare qualche rischio. Ma anche, soprattutto, da Monti e dalle sue liste.
Per coltivare la speranza di contare, nel futuro Parlamento, grazie a un buon risultato al Senato. Nel Nord e soprattutto in Lombardia, dove si vota anche per rinnovare il governatore e il Consiglio regionale. Un accordo, quindi, obbligato. Ma non è detto che convenga davvero a tutti.
O meglio, conviene sicuramente a Berlusconi. Il quale rischia, altrimenti, non solo di perdere le elezioni, ma, soprattutto, la dissoluzione del Pdl. Il suo partito personale. Che da solo, non ha chance di competere. Ma se il Pdl e lo stesso Berlusconi non esercitassero, almeno, un potere di interferenza e di veto, in ambito parlamentare perderebbero anche il loro potere sul territorio. In altri termini: si perderebbero.
Molto diversa è, invece, la posizione della Lega. Per oltre dieci anni alleata fedele di Berlusconi. Oggi rischia di diventare ostaggio del Cavaliere. Il quale, nel caso di mancato accordo, minaccia di far cadere tutte le giunte del Nord, dove la Lega è al governo con il centrodestra. Perché non è detto che l'intesa con Berlusconi e il Pdl offra alla Lega di Maroni benefici superiori ai costi - politici ed elettorali.

La Lega, infatti, attraversa una stagione difficile - da cui non è ancora uscita. Dopo essere stata coinvolta da scandali che hanno investito i suoi gruppi dirigenti e, in primo luogo, la leadership di Umberto Bossi. Insieme al "cerchio" stretto dei suoi fedeli (e dei suoi familiari). Con effetti pesanti sul piano elettorale. In poche settimane, infatti, il peso elettorale leghista, stimato dai sondaggi, si è quasi dimezzato. Da oltre il 10% a meno del 5%. Per ragioni evidenti. La Lega ha costruito il proprio consenso sul principio della "diversità".
Dagli altri partiti. Dal "ceto politico". Si è proposta e imposta come "alternativa". Ha alimentato e intercettato il clima antipolitico perché considerata, a sua volta, non un partito. Ma un "anti-partito". Alternativo e antagonista rispetto ai partiti "romani". Lontani dal territorio e dalla società. Dal Nord - patria della rivolta contro il potere politico corrotto e inefficiente. Gli scandali dell'ultimo periodo hanno seriamente danneggiato il "principio della diversità" leghista. La Lega di lotta e di governo. Per questo motivo Roberto Maroni ha dovuto agire "contro" Bossi (suo amico di sempre). Ma soprattutto contro il cerchio di amici e familiari che gli stava intorno. E contro Berlusconi.
Complice di Bossi. Interprete, ma anche simbolo, dell'intreccio fra politica e affari. Che riguarda il Cavaliere, sul piano personale, ma, ancor di più, il ceto politico del partito, a livello nazionale e locale. Reclutato sulla base della fedeltà e degli interessi, assai più che dei valori e della competenza. Forza Italia e il Pdl: partiti-azienda, emblemi della politica come marketing.

La Lega di Maroni, non a caso, ha preso le distanze da quel modello e dal suo artefice. Dal Cavaliere e dalla sua corte. Dalla classe politica del Pdl. Ha, invece, investito sugli amministratori locali e regionali, per fronteggiare, almeno sul territorio, i principali concorrenti.
La "delusione" - che ha spinto molti elettori leghisti nell'area dell'indecisione e dell'astensione. Verso il M5S di Beppe Grillo, che ha intercettato l'insoddisfazione e la frustrazione di molti leghisti contro i partiti. Anche - soprattutto - nei confronti della Lega. Maroni.
Ha rotto, per questo, con il centrodestra, insieme a cui governava la Lombardia. Ha, inoltre, fatto opposizione dura al governo Monti. Sostenuto, fino a novembre, anche da Berlusconi e dal Pdl.

Maroni. Per rappresentare la Lega all'esterno, si è affidato a figure molto diverse. Ma, comunque, visibili e presenti sui media.
Un "antagonista", dal linguaggio esplicito, come Matteo Salvini. Ma, soprattutto, un amministratore poco leghista, come Tosi. Sindaco di Verona. Ri-eletto, nel maggio 2012, in piena "crisi" della Lega, con il 57%, alla testa di una civica "personale".

Il rischio, per la Lega di Maroni, è che l'accordo con Berlusconi e il Pdl vanifichi questo faticoso percorso di "riabilitazione". Che, negli ultimi mesi, ha cominciato a produrre qualche piccolo risultato. Visto che i sondaggi la danno in - lenta - risalita. Oltre la soglia del 5%. (Più di quanto aveva ottenuto alle politiche del 2006.) D'altronde, gli elettori "delusi", che hanno abbandonato la Lega nell'ultimo anno, si mostrano diffidenti nei confronti di Berlusconi. Gli preferiscono Grillo. Mentre gli stessi elettori "fedeli" appaiono tiepidi verso il Cavaliere. L'ipotesi, avanzata da Berlusconi, di affidare a un altro  -  Alfano o perfino Tremonti  -  il ruolo di premier, non risolve il problema. Perché il leader della coalizione rimarrebbe lo stesso. Visto che nel Pdl a comandare è - e resterebbe - uno solo. Berlusconi.

Da ciò il dubbio (confermato da alcuni sondaggi). La Lega, presentandosi da sola, con un proprio candidato premier (per esempio: Tosi), potrebbe allargare notevolmente gli attuali consensi. Molto più che se si presentasse in compagnia di Berlusconi e del Pdl. La Lega, tuttavia, è indotta a siglare l'accordo per il timore di perdere la rappresentanza in Parlamento. Per competere alla presidenza della Lombardia. Per non rischiare la presidenza del Veneto e del Piemonte.

In questo caso, però, l'immagine dei lunedì, ad Arcore, con Bossi e il figlio a cena da Berlusconi: riapparirebbe.
E comprometterebbe la ricostruzione - della credibilità - avviata la primavera scorsa. Ancor più delle inchieste della Procura.
(È di ieri l'ultima, sulle spese del gruppo al Senato).

L'accordo tra Berlusconi e la Lega appare, dunque, probabile, anzi quasi certo. Berlusconi ne ha bisogno ed è disposto a tutto pur di siglarlo. Mentre alla Lega pone un'alternativa insidiosa. Un dilemma difficile. Perdere -  subito - il governo delle regioni del Nord. O rischiare di perdere, per sempre.

Voti e identità. 

(07 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #320 inserito:: Gennaio 13, 2013, 11:59:23 pm »

Il segnale che arriva dalle regioni rosse

di ILVO DIAMANTI


PIÙ DI TRE MILIONI di persone che vanno a votare il candidato premier del centrosinistra fanno sicuramente bene alla nostra democrazia. Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po' meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra.

Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch'esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì.

È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l'Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos).

Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell'attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte "a caldo".

1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l'interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo.

Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti "esterni" ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di "rottura" con il passato. Con le burocrazie di partito.

2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse  -  esclusa l'Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche.

Proprio lui, sospettato di "berlusconismo". Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L'elettorato orientato dagli apparati e dall'organizzazione sul territorio. B) L'elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone "rosse"). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.

3. L'alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della "rottamazione"). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l'estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.

4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all'opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).

Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi.

a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell'attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve "normalizzare" e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un'eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti.

b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i "duellanti" in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C'è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.

In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.
 

(27 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #321 inserito:: Gennaio 14, 2013, 05:56:22 pm »

La video-politica di Silvio Munchausen

di ILVO DIAMANTI

DOPO Santoro, Berlusconi è alla caccia di Bersani. Lo vuole sfidare a duello. Davanti alle telecamere. Per sconfiggerlo. E, di conseguenza, vincere le elezioni. Perché dopo la performance a "Servizio Pubblico", si sta diffondendo la convinzione che la partita, fino a ieri considerata chiusa, si possa riaprire. Anzi: sia già riaperta. Il risultato più importante dell'avvio della campagna elettorale, in fondo, è proprio questo. Il ritorno del Cavaliere irriducibile e mai domo.

Come il Barone di Münchhausen che si solleva dallo stagno tirandosi per il codino. Un vero miracolo (non fosse altro per i capelli...). A cui Berlusconi ci ha abituato in altre occasioni. Tuttavia, più che di un miracolo si tratta di una leggenda. Scritta da Berlusconi a proprio vantaggio. Perché la televisione contribuisce a orientare il gioco elettorale. Ma sono altri i fattori a determinare il risultato. Berlusconi ne è consapevole. E ha utilizzato la televisione, insieme ai sondaggi, per annunciare profezie che si auto-avverano. Puntando sulla propria presenza oppure assenza. A seconda dei casi e delle opportunità.

A partire dal 1994, quando "scende in campo" e invade la televisione. In particolare, le proprie reti. Fino al "faccia a faccia" con Occhetto su Canale 5, da Mentana. Dove Berlusconi annuncia che i sondaggi lo danno nettamente vincitore. E Occhetto replica: "Ma siamo in ripresa...". Cioè: abbiamo perso. La sconfitta dei "progressisti", tuttavia, era già stata scritta. Dalla capacità di Berlusconi di interpretare la nuova legge elettorale maggioritaria. E di utilizzare il marketing elettorale per promuovere il proprio prodotto. Anzitutto: se stesso. Artefice del "nuovo" in politica. Un marchio di successo. Attraverso la tivù, inoltre, Berlusconi polarizza il confronto elettorale. Escludendo il "terzo polo", allora rappresentato dal Patto per l'Italia, composto dal Ppi e dal Patto Segni. Così la campagna elettorale si traduce nella sfida fra lui e Occhetto. Il Nuovo contro il Vetero(comunista).

Nel 1996, invece, Berlusconi perde il confronto con Prodi. In televisione (di fronte a Lucia Annunziata). E alle elezioni. Più che per motivi mediatici, però, per ragioni politiche. Mentre Berlusconi si divide dalla Lega, infatti, Prodi "unisce" i Popolari e la sinistra. E allarga l'alleanza a Rifondazione, attraverso un patto di desistenza. Da lì in poi, il Cavaliere non accetterà più "faccia a faccia", per quasi 10 anni. Non per paura, ma perché non gli conviene. Nel 2001 evita il confronto con Rutelli - troppo giovane e brillante, per lui. Perché rischiare quando i sondaggi lo danno in largo vantaggio? Le tivù servono ad accreditare la convinzione della vittoria già scritta. Dai sondaggi. I leader di centrosinistra, per primi, ci credono. Evitano intese con Rifondazione e Di Pietro. Mentre Berlusconi aggrega tutti. Dalla Lega alla destra. Salvo scoprire, alla fine, che alla Camera, dove Rifondazione non si presenta, il distacco è minimo. Un punto percentuale: 45% a 44%.

Berlusconi ritorna in tivù, ad affrontare terreno "ostile", solo nel 2005. A "Ballarò". Dopo la pesante sconfitta subita alle Regionali. Per contrastare, come sta facendo in questa fase, la convinzione che il suo ciclo sia concluso. Così, all'inizio del 2006, in campagna elettorale, invade di nuovo le tivù. E sfida ogni leader del centrosinistra. In particolare Prodi. Fino all'ultimo faccia a faccia. Concluso dalla promessa del Cavaliere: "Abolirò l'Ici". La disfatta annunciata si traduce in sconfitta di misura. Una quasi-vittoria. Determinata, però, da altri fattori. In primo luogo, la nuova legge elettorale, il Porcellum, che costringe tutti ad allearsi. E permette a Berlusconi di dividere, ancora, il mondo in due: pro o contro di lui. Il Cavaliere, inoltre, utilizza i sondaggi di un istituto americano, per comunicare che la partita non è chiusa. Per sconfiggere lo sconfittismo dei suoi uomini e dei suoi alleati.

In occasione delle elezioni del 2008, simmetricamente, evita di nuovo ogni confronto in tivù. Per non turbare gli equilibri elettorali annunciati dai sondaggi, che lo danno largamente vincente. Per non legittimare un avversario, Walter Veltroni, abile nell'uso del mezzo televisivo. L'irruzione di Berlusconi in tivù, in questa fase, sfociata nella disfida di "Servizio Pubblico", dunque, non è una novità. Ripete un modello sperimentato, dal Cavaliere. Il quale rientra in campo e sceglie avversari e partner quando ne ha bisogno. Cioè, quando è in difficoltà. E deve recuperare. Quando deve, anzitutto, convincere i suoi che la partita non è ancora chiusa. Che è possibile farcela. Che lui non è finito. Va in televisione, Berlusconi, per ridurre il confronto politico in una sfida fra lui e Bersani. Il quale, oggi, appare il vincitore predestinato (dai sondaggi. Forse con troppo anticipo). Per questo, come nel 1994, cerca anzitutto di "scardinare" il Terzo Polo. Il Terzo candidato. Monti. Berlusconi, da Santoro, non ha quasi nominato Bersani, ma ha polemizzato ripetutamente con Monti. Per delegittimarlo. Ma anche per riprendersi gli elettori delusi del Pdl, che guardano con interesse proprio al Professore. Per questo, Berlusconi cerca ora il confronto diretto con Bersani. Per ripristinare, come nel 1994, il gioco bipolare e bi-personale che ha attraversato l'ultimo ventennio.

La differenza, rispetto al passato, è che in questa campagna elettorale il ricorso alla tivù è stato praticato, per primo e in modo bulimico, da altri. Per primo, da Monti. Per far conoscere in fretta il proprio prodotto politico, cioè se stesso. Come Berlusconi nel 1994. Pur non disponendo, a differenza del Cavaliere, di mezzi economici e imprenditoriali adeguati. Né, a differenza di Bersani e del Pd, di struttura organizzativa e di militanti sul territorio. D'altra parte, l'80% degli italiani si informa prevalentemente attraverso la televisione.

Così, quasi vent'anni dopo, ci troviamo ancora in piena video-politica. E mancano ancora 45 giorni dal voto. Non oso pensare cosa possa succedere da qui alle elezioni. Tuttavia, vent'anni dopo, qualcosa è cambiato. Dopo vent'anni di berlusconismo e di marketing politico, Berlusconi ha vent'anni di più. E si vedono tutti. Non è "nuovo". È invecchiato - e si vede. Anzi: è vecchio, come egli stesso ammette (scherzandoci sopra). Più che vincere gli interessa resistere. Il timore è che insieme a lui non siano invecchiati tutti gli attori politici. Che non siamo invecchiati tutti (noi). Al punto da non riuscire a staccare gli occhi dalla televisione  -  incapaci di rivolgerli alla società e al territorio. La lezione delle primarie  -  e l'incombere della crisi  -  suggeriscono che il vento sia cambiato. Il prossimo voto è l'occasione per verificarlo. E per dimostrarlo.

(14 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #322 inserito:: Gennaio 21, 2013, 07:51:01 pm »

Campagna elettorale formato reality

A poco più di 30 giorni dal voto, è un continuo rincorrersi di sondaggi. Che dicono tutto e il contrario di tutto.
La vittoria che sembrava certa del centrosinistra un mese fa ora si trova a fare i conti con la, vera o presunta, rimonta di Berlusconi.
Ma il dato inequivocabile è come le rilevazioni siano diventate un'arma da campagna elettorale

di ILVO DIAMANTI


MANCA ancora un mese al voto. Anzi, qualcosa di più. Ma è come se, a spoglio iniziato, si discutesse degli exit poll. In attesa delle proiezioni. Con il timore che le stime fornite si rivelino sbagliate. È già avvenuto. Nel 2006, in particolare. Quando gli exit poll annunciarono la larga vittoria dell'Ulivo di Prodi. Mentre, a spoglio concluso, la competizione si risolse in un quasi-pareggio.

Oggi, a un mese al voto, è come se fossimo ancora lì, dentro e davanti gli schermi, a interrogarci sull'attendibilità delle stime prodotte dai sondaggi. Che da troppo tempo e con troppo anticipo, hanno decretato il successo del centrosinistra e del Pd, guidato da Bersani.
Oggi, come nel 2006, si teme  -  oppure si spera, a seconda dei punti di vista  -  l'idea della rimonta di Berlusconi. Alimentata da alcuni sondaggi, che registrano un avvicinamento tra il centrosinistra e il centrodestra.

Tra Bersani e Berlusconi la forbice si stringe, è la voce che corre. Amplificata da Berlusconi, che, come highlander, affolla gli schermi, più volte al giorno, per narrare la leggenda del proprio eterno ritorno. E che è lì, addosso a Bersani. Anzi, l'ha praticamente superato.
Sondaggi alla mano. I propri, naturalmente. Come nel 2006. Oggi, quel precedente incombe. E legittima ogni timore e ogni speranza.
Tanto che Luca Ricolfi, sulla Stampa, autorevolmente, si chiede e chiede: "E se Berlusconi vincesse ancora?". Tanto più dopo la performance a "Servizio Pubblico", la trasmissione di Santoro. All'indomani, giornali e giornalisti, sondaggi alla mano, "hanno dato i numeri" del (presunto) recupero prodotto da quella prestazione.

Il problema è che mai come oggi i sondaggi sono apparsi tanto discordanti. A livello nazionale, infatti, il centrosinistra oscilla dal 33% a oltre il 40%. Il centrodestra dal 24% a 34%. Così tutto  -  ma davvero tutto  -  diventa possibile. La vittoria larga e schiacciante del centrosinistra. Oppure la rimonta di Berlusconi. Peraltro, questa carovana di sondaggi e di dati si snoda ovunque. In televisione e sui giornali. Non c'è emittente, tg e talk politico che non abbia il suo istituto demoscopico e il suo pollster di riferimento. Che fornisce i suoi numeri e le sue stime ogni settimana, a volte ogni giorno.

La Rete, da parte sua, rilancia tutti i sondaggi, tutte le stime e tutte le statistiche. Così viviamo immersi in una sorta di reality a reti  -  e testate  -  unificate. Di cui tutti sono al tempo stesso attori e spettatori. D'altronde, i talk politici e di approfondimento stanno ottenendo indici di ascolto elevati. In particolare, quando va in scena Berlusconi. Possibilmente, in terreno nemico o comunque insidioso.
Dove gli è possibile recitare la parte del Cavaliere di Münchausen. Che si risolleva, per miracolo, quando tutti lo danno per finito.

Berlusconi: può contare sull'assuefazione al modello che egli stesso ha inventato e affermato  -  in Italia. La politica come marketing e come spettacolo. A cui è difficile sottrarsi. Non vi riescono neppure gli avversari. Per cui recitano, insieme a lui, nel teatro della (media) politica. Affiancati da altri attori. I conduttori televisivi, i giornalisti, gli esperti. I pollster. (Lo preferisco a "sondaggisti").
Nuovi protagonisti. Perché recitano la parte dei "garanti". E dei giudici. Quelli che misurano il gradimento e il consenso dei partiti e dei politici presso l'opinione pubblica. Per cui traducono la competizione elettorale  -  che avverrà tra un mese oppure una settimana  -  in un plebiscito continuo. Che si rinnova e si ripropone ogni giorno e in ogni momento del giorno. Con il limite  -  oppure il vantaggio  -  che non c'è un solo risultato, un solo indice, una sola misura. Ce ne sono molte. Così nessuno vince e nessuno perde, in modo definitivo.
Dipende dal momento, dal sondaggio, dalla trasmissione.

Naturalmente, l'approssimazione che caratterizza le stime dei sondaggi riflette alcune ragioni molto ragionevoli.
Ne segnalo solo alcune, a cui ho fatto cenno in altre occasioni.

1. I sondaggi rilevano le opinioni degli elettori, che però cambiano, via via che il voto si avvicina. Gran parte degli elettori non si interroga sulla propria scelta a mesi e neppure a settimane di distanza. Anche per questo la quota degli indecisi è alta. E tende a ridursi insieme alla distanza dalle elezioni.

2. Le scelte degli elettori (sondati) dipendono dall'offerta politica. Fino a un mese fa solo il Centrosinistra era sceso in campo. Trainato, peraltro, dalle primarie. Tutto il resto era sospeso. Il ruolo di Berlusconi, l'alleanza fra Pdl e Lega. La presenza di Ingroia a Sinistra.
E, in particolare, l'iniziativa e lo spazio di Monti.
Ciò spiega l'ampiezza dei consensi attribuiti al Pd e al centrosinistra. Fino a qualche settimana fa, soli in un campo politico confuso.
Ma ciò spiega anche la "riduzione" della forbice registrata dai sondaggi, nell'ultima fase. Perché oggi il centrosinistra fa i conti con altri soggetti politici. Veri e definiti.

3. Tuttavia, la "misura" di questa tendenza è difficile da dimostrare. Perché manca ancora oltre un mese al voto e gli indecisi sono ancora circa il 30%. E molto può cambiare. Anche perché la campagna elettorale serve proprio a questo: a rafforzare oppure a modificare le tendenze rilevate dai sondaggi.

Infine c'è la questione fondamentale. I sondaggi, come ha sottolineato Nando Pagnoncelli, si sono trasformati "da strumento di conoscenza ed analisi ... a strumento di propaganda e di previsione". E, aggiungo, di spettacolo. Più che rilevare l'opinione pubblica, la mettono in scena e la costruiscono. Un'evoluzione particolarmente favorevole a Berlusconi. Che prima degli altri ha introdotto la politica come marketing.
E meglio di altri ne controlla gli strumenti e le tecniche.

Così, nella confusione demoscopica e nel reality della campagna elettorale, che oggi impazzano, il Cavaliere è riuscito a rilanciare il bipolarismo personale: Pdl-Berlusconi vs Pd-Bersani. Complice l'afasia di. Ha messo all'angolo Monti e la sua coalizione.
Ma anche Grillo e la Sinistra di Ingroia.

È riuscito, inoltre a sollevare il dubbio: "E se vincesse di nuovo Berlusconi?". Non importa se sia vero. Un altro autorevole analista di sondaggi, come Paolo Natale (su "Europa"), anzi, definisce la rimonta una "leggenda". Ma sollevare il dubbio e perfino contestarne il fondamento, in fondo, significa legittimarlo. E accettare il gioco della (video) politica come marketing significa riprodurre il berlusconismo. Una recita ormai stanca e invecchiata. Come il protagonista. E come gli altri attori che lo assecondano, pur recitando la parte degli avversari. Come gli spettatori-elettori. Noi. Che abbiamo l'occasione, tra un mese, di chiudere il reality show a cui partecipiamo da vent'anni.

(21 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #323 inserito:: Gennaio 31, 2013, 01:04:44 am »

Bersani avanti anche dopo il caso Mps.

Pdl in recupero, ma sempre sotto di 10 punti

Nel sondaggio Demos calano gli indecisi.

Il centrosinistra mantiene un margine ampio: al Senato arriva a 11 punti, ma l'incognita dei premi regionali rende ancora incerto l'esito finale.

La coalizione Monti sale al 18%. M5S al 13%. Renzi leader preferito


di ILVO DIAMANTI


A MENO di un mese dal voto, le distanze tra le coalizioni si riducono. Ma di poco. Le polemiche intorno alle vicende del Monte dei Paschi di Siena sembrano aver prodotto effetti, fin qui, limitati sulle intenzioni di voto. È ciò che emerge dal sondaggio di Demos per Repubblica, realizzato negli ultimi giorni. Per quanto coinvolto da critiche e sospetti, il Pd, alla Camera, ha ceduto meno di un punto e rimane appena sotto al 33%. Mentre il Pdl ha recuperato un punto e supera, così, il 19%. Il Centrosinistra, comunque, si attesta sul 36,4%, circa 10 punti più del Centrodestra (2 meno di una settimana fa). Al Senato, il vantaggio risulta ancora più ampio: 38% a 27%. Cioè, 11 punti. A livello nazionale. Tuttavia, la legge elettorale non permette previsioni, perché al Senato l'assegnazione dei premi di maggioranza avviene regione per regione.

LE TABELLE (su www.repubblica.it)

Resta, quindi, l'impressione che lo scandalo Mps, nonostante abbia monopolizzato il dibattito pubblico, non sia riuscito a produrre una svolta decisa nel clima d'opinione. Le intenzioni di voto, negli ultimi giorni, non hanno subito variazioni sensibili. Così, le differenze osservate, rispetto a una settimana fa, sembrano dettate da altre ragioni. Soprattutto, dal progressivo scongelamento degli indecisi - ancora numerosi: circa il 30%. Un processo che favorisce il Centrodestra - la cui "riserva" di delusi è molto ampia. Ma
anche la coalizione guidata da Monti. Nell'insieme, ha guadagnato un punto e mezzo e si avvicina al 18%. Spinta dalla formazione del premier, Scelta Civica, salita al 12,5% (cioè, di quasi un punto). Anche l'Udc, per la prima volta, recupera consensi (anch'essa quasi un punto). E frena l'emorragia di voti che aveva subito, fino ad oggi, a favore della Lista Monti.

La principale indicazione offerta dal sondaggio di questa settimana, dunque, riguarda proprio il peso assunto dal Terzo Polo. Il quale, per la prima volta dopo il 1994, sembra interrompere, o comunque indebolire, la dinamica bipolare del sistema partitico e della competizione elettorale in Italia. D'altronde, altri indizi, raccolti dal sondaggio, concorrono a spiegare - e a confermare - questa tendenza. In primo luogo, l'immagine del leader. La fiducia verso Monti, infatti, nell'ultimo mese è scesa di quasi 5 punti. Ma resta comunque alta: 42,5%. Il premier è terzo, nella graduatoria dei leader. Peraltro, il 38% degli elettori lo considera il più "competente". E il 61%, soprattutto, lo riconosce in grado di "garantire la credibilità del Paese all'estero".

La capacità "competitiva" di Monti e della coalizione di Centro marca, dunque, la principale differenza rispetto alle ultime due elezioni. In particolare, rispetto a quelle del 2006, quando il Centrodestra trascinato da Berlusconi, riuscì a rimontare tutto lo svantaggio accumulato in precedenza. Fin quasi a pareggiare, con Prodi. Ma allora il confronto (lo scontro?) era diretto. Tra Berlusconi e Prodi: non c'era nessuno. Casini e l'Udc erano alleati con il Cavaliere. Oggi, invece, "in mezzo" c'è Monti. Il quale, nell'ultima settimana, ha preso di mira il Centrosinistra. In modo aggressivo. Per rubare il mestiere - e la scena - a Berlusconi. Per apparire la vera alternativa a Bersani - e soprattutto a Vendola. Per chiudere e confinare il Cavaliere "a destra". E intercettare il flusso dei delusi del Pdl - tanti, ancora rifugiati fra gli indecisi. In attesa di decidere. Se votare e per chi.

Un altro segno delle difficoltà che incontra il "bipolarismo", in questa fase, è offerto dall'atteggiamento verso il "voto utile". Meno condiviso rispetto al passato. Certo, il 54% degli elettori ritiene ancora opportuno "concentrare il voto sulle due coalizioni maggiori". Ma nel 2008 l'orientamento "maggioritario" veniva espresso da un'area di cittadini superiore di quasi 9 punti.

In un sistema attraversato dall'alternativa pro/anti-berlusconiana, l'indebolirsi del bipolarismo danneggia proprio lui. Berlusconi. Il quale, non a caso, ha rifiutato di partecipare a un confronto in tivù con gli altri cinque leader. Avrebbe significato porsi sul medesimo piano di tutti gli altri. Ammettere e riprodurre la fine del bipolarismo - e del berlusconismo.

A Centrosinistra, Bersani (48,5%) è ancora il secondo tra i leader, nella valutazione degli elettori. Dietro al suo avversario delle primarie, Matteo Renzi. Che ottiene un giudizio positivo da quasi due terzi degli intervistati. A conferma della grande fiducia di cui gode ben oltre i confini del centrosinistra. Evidentemente, la scelta di "volare basso", di tirarsi fuori dalla contesa per i posti al Parlamento, ne ha rafforzato ulteriormente la credibilità. Tanto più in questa fase di distacco dalla politica. Proprio per questo, però, diventa importante - e utile - per Bersani coinvolgere Renzi. Come testimonial del proprio progetto. Della propria leadership.

Il Centrodestra, come abbiamo visto, sta risalendo. Ma, fin qui, non sfonda. L'appeal del Cavaliere resta debole. Ultimo nella graduatoria dei leader, per popolarità. Fermo al 20%. Nonostante la grande capacità di tenere la scena, in tivù. E nonostante la tivù resti, per la larga maggioranza degli elettori (60%), il principale canale di informazione in questa campagna elettorale.

Il che contribuisce a spiegare la scelta, annunciata da Beppe Grillo, di tornare in televisione, in vista del voto. Non si sa dove, come e quando. D'altronde, il M5S, nelle stime di voto, è accreditato del 13%. Tanto, ma meno di qualche mese fa. Così Grillo - l'unico a riempire le piazze, in questa campagna elettorale - ha deciso di tornare alle origini. In televisione.

Non so che pagherei per vederlo a un "faccia a faccia". Con Monti, Bersani, Berlusconi. E Vespa...

(30 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #324 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:57:35 pm »

Delusi dalla Curia, conquistati da Ratzinger: così gli italiani hanno imparato ad amarlo

In dieci anni crolla la fiducia nella Chiesa, l'apprezzamento per Benedetto XVI ora la sorpassa.

I risultati del sondaggio di Demos&Pi dopo la scelta del Papa di rinunciare al soglio pontificio.

Ecco il pensiero di cattolici e laici alla vigilia del conclave

di ILVO DIAMANTI

OGGI si conclude il papato di Benedetto XVI. Il quale resterà, comunque, Papa. Emerito. Come un professore universitario in pensione. Benedetto XVI, d'altronde, è anche un professore. Un teologo finissimo, che ha guidato la Congregazione per la Dottrina della fede per oltre vent'anni. Rigoroso nel tracciare i confini della religione cattolica in tempi di secolarizzazione. Di confronto con altre fedi e altre religioni - assai più esigenti di quella cristiana - veicolate dai flussi migratori.

A Joseph Ratzinger la Chiesa chiedeva di marcare i segni e principi dell'identità religiosa. In altri termini, il "distintivo cristiano", come l'ha definito Romano Guardini, teologo importante. Influente ai tempi e nei luoghi di formazione del Pontefice, Romano Guardini (tra Frisinga, Monaco e Tubinga). Invece Benedetto XVI se ne va. Si ritira. Fiaccato da problemi di salute. Dall'età. Ma forse anche dal peso degli scandali che hanno scosso la Chiesa nel corso del suo papato. E degli intrighi, delle tensioni che attraversano il Vaticano. Da alcuni anni in modo particolarmente violento.

Una "scelta difficile", l'ha definita il Papa, ieri, nella sua ultima udienza. Ma anche un segno di "umanità". E di "modernità", come ha scritto Ezio Mauro, all'indomani dell'annuncio. Per questo traumatico, per un'istituzione metastorica come la Chiesa. Per una figura, come il Papa, che fonda il suo riconoscimento, la sua stessa legittimità, oltre ogni modernità. Oltre il tempo. Oltre
l'età - propria e del mondo. Per questo, il gesto del Papa è un'ammissione di debolezza. Non solo propria, ma anche della Chiesa. Con effetti che rischiano di essere molto più rilevanti di quanto si pensi, nel rapporto tra la Chiesa stessa e la società. Soprattutto in Italia, dove ha sede il "Soglio pontificio".

D'altronde, la fiducia nei confronti della Chiesa, fra gli italiani, è calata sensibilmente. Negli ultimi 10 anni: di quasi 20 punti. Dal 63 nel 2003 al 44% di oggi (sondaggi Demos).

LE TABELLE GLI ITALIANI E IL PAPA (su repubblica.it)

In un Paese nel quale quasi tutti si dicono "cattolici" o, comunque, "cristiani", è interessante e significativo osservare come oltre metà dei cittadini non nutra fiducia nella Chiesa. La svolta, a questo proposito, avviene nel 2009, l'anno in cui esplodono gli scandali sulla pedofilia che coinvolgono molti esponenti del clero, a diverso livello e in diversi paesi. Lo stesso anno in cui Dino Boffo, allora direttore dell'Avvenire, viene "crocifisso" da lettere anonime - e false - amplificate e strumentalizzate da una pesante campagna di stampa. Allora la fiducia nella Chiesa crolla sotto il 50%. Al di sotto della metà degli italiani. Ma il declino procede, anche in seguito. Parallelamente alle vicende che scuotono il Vaticano. E testimoniano di una Chiesa lacerata da lotte di potere.

Certo, la Chiesa non è solo questa. È anche molto altro. Come testimonia la presenza di religiosi e organizzazioni in diversi luoghi del mondo, fra i poveri e i disperati. Lontano dal Vaticano. In Italia, peraltro, la Chiesa, in molte aree, costituisce un tessuto associativo e di servizi di grande importanza per il territorio e la società. Complementare, talora concorrente rispetto a quello pubblico. Ciò non è più sufficiente, però, a garantirle il credito della maggioranza dei cittadini.

Diverso è l'atteggiamento nei confronti del Papa. Benedetto XVI succede a Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla. Capace, come pochi altri, nel nostro tempo, di "personalizzare" la Chiesa. Di unificarne l'immagine. Il Papa dei viaggi nelle diverse terre. Della riconciliazione con le altre religioni. Il Papa che ha estetizzato e sacralizzato anche il dolore, la malattia, la stanchezza. Fino alla morte. A differenza di Benedetto XVI, che invece si è "ritirato", ammettendo la propria inadeguatezza. Ebbene, la popolarità di Papa Ratzinger resta sensibilmente al di sotto rispetto a quella di Wojtyla.

Tuttavia, proprio negli anni degli scandali e del declino della Chiesa, la fiducia nei suoi riguardi è risalita. E nell'ultimo scorcio, dopo le dimissioni, è cresciuta ancora. Anche se il giudizio sulle ragioni della rinuncia divergono. Il 44% degli italiani (intervistati da Demos due settimane fa) le attribuisce a motivi di stanchezza e di salute, secondo la versione proposta dal Papa. Quasi altrettanti, il 43%, pensano, invece, che le dimissioni siano la conseguenza delle tensioni e delle lotte che lacerano il Vaticano. Naturalmente, l'orientamento cambia in base alla pratica religiosa. I praticanti assidui, ma anche quelli saltuari, credono maggiormente alle spiegazioni del Papa. I non praticanti alle ragioni non dette e in-dicibili, da Ratzinger e dalla Chiesa. Tuttavia, anche fra i cattolici praticanti, l'incredulità sulla versione del Papa è molto estesa.

Tutto ciò ha contribuito, nell'ultimo periodo, a ridimensionare ulteriormente la "fede" nella Chiesa. Ma non la fiducia verso il Papa. Che, anzi, è risalita ben oltre la Chiesa stessa. D'altronde, oltre il 70% degli italiani si dice d'accordo con la decisione di Ratzinger. Senza grandi differenze tra praticanti e non praticanti. Anche chi ritiene queste dimissioni conseguenza del clima di tensioni e di conflitti interni al Vaticano approva, in larga maggioranza la scelta del Papa. Perché si tratta di un'ammissione di vulnerabilità e di inadeguatezza. Oppure di una "denuncia", non importa. È, comunque, un segno di "umanità". Avvicina il Papa agli uomini. Ma, forse, anche per questo, è destinato a indebolire ancor di più la Chiesa.
 

(28 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/02/28/news/delusi_dalla_curia_conquistati_da_benedetto_xvi_cos_gli_italiani_hanno_imparato_ad_amarlo-53557913/?ref=HREA-1
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« Risposta #325 inserito:: Marzo 11, 2013, 06:05:14 pm »

Destra e sinistra perdono il proprio popolo.

M5S come la vecchia Dc: interclassista

Mappe.

Il voto ha segnato una svolta violenta, che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio.

Con Grillo operai e lavoratori autonomi, addio legami di territorio.

Il Pdl aveva il consenso delle piccole imprese, Bersani quello delle tutte blu.

Entrambi lo hanno smarrito

di ILVO DIAMANTI


NON è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S. Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica.

La prima - a cui abbiamo già dedicato attenzione - colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo "sradicamento" dei partiti principali nello loro zone "tradizionali". Il Pd: in alcune province storicamente di sinistra. Nelle Marche e in Toscana, soprattutto. La Lega: nel Nordest, nella pedemontana lombarda e piemontese. Nelle province "forza-leghiste", un tempo "bianche". Democristiane. Infine, il PdL, che ha perduto, in misura superiore alla media, nelle Isole. Sicilia e Sardegna. Dove è forte, fin dalle origini.

LE TABELLE Così operai, imprenditori e disoccupati hanno scelto il M5S (su repubblica.it)

Una geografia politica di lunga durata è mutata bruscamente e in modo profondo. Almeno quanto la struttura sociale ed economica del voto. È qui la seconda "crisi", esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento. Il centrodestra, in particolare, aveva conquistato il consenso dei ceti produttivi privati. Gli imprenditori, ma anche gli operai delle piccole e medie imprese private. E gli stessi in-occupati. Aveva, inoltre, ereditato, dai partiti di governo della prima Repubblica, il consenso delle aree del Mezzogiorno maggiormente "protette" dallo Stato.

Il Centrosinistra e soprattutto il Pd si erano, invece, caratterizzati per il consenso elettorale garantito dai ceti medi tecnici e impiegatizi. I vent'anni della seconda Repubblica, in fondo, si riassumono in questa frattura sociale e territoriale. Marcata dalla "questione settentrionale" e dai soggetti politici che, più degli altri, l'hanno interpretata. La Lega e Silvio Berlusconi. La Destra popolare opposta alla Sinistra im-popolare. Sostenuta dai professionisti, gli impiegati (soprattutto "pubblici") e gli intellettuali.

Ebbene, oggi il marchio della Seconda Repubblica appare molto sbiadito. L'identità sociale - per non dire di "classe" - delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata.

Il centrodestra "popolare" ha perduto il suo "popolo" (lo ha rilevato anche Luca Comodo, sul Sole 24 Ore). Il suo peso, tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, rispetto alle elezioni del 2008, è pressoché dimezzato: dal 68 al 35%. Lo stesso tra gli operai: dal 53 al 26%. Mentre, fra i disoccupati, gli elettori di centrodestra sono calati dal 47 al 24% (indagini di Demos-LaPolis, gennaio-febbraio 2013).

Anche il centrosinistra e la sinistra si sono "perduti" alla base. Hanno, infatti, intercettato il voto del 35%, tra le figure "intellettuali", il personale tecnico e impiegatizio: 12 meno del 2008. Del 32% dei liberi professionisti: 10 meno delle precedenti elezioni.

Centrodestra e centrosinistra, soprattutto, hanno smesso di costituire i poli alternativi per i lavoratori dipendenti e indipendenti, occupati e disoccupati. Perché, in queste elezioni, non hanno, semplicemente, cambiato profilo socioeconomico. Ma sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità. La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica, infatti, non si è rivolta all'altra. Gli operai - e i disoccupati - non si sono spostati a sinistra. Tanto meno - figurarsi - gli imprenditori e i lavoratori autonomi. I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori "in fuga" si sono rivolti altrove. Hanno scelto il M5S. Per insoddisfazione - spesso: rabbia - verso le "alternative" tradizionali. Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo.

Così, oggi, in Italia si assiste a una competizione politica singolare, rispetto a quel che avviene in Europa. Dove l'alternativa avviene - prevalentemente - fra Liberisti e Laburisti, Popolari e Socialdemocratici. Centrodestra e Centrosinistra. Che rappresentano, storicamente, lavoratori indipendenti e dipendenti. Imprenditori e operai oppure impiegati. Mentre oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti "esterne" al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù...

Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa all'italiana. Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica. Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%). Fra i "liberi professionisti" (31%) e fra gli studenti (29%) - dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale "nazionale". Distribuito in tutto il territorio.

Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio. Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell'area di governo gli "ultimi arrivati". Non è così. Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda - ma anche la Prima - Repubblica oggi non riescono più a "dividere" e ad "aggregare" gli elettori. Siamo entrati in un'altra Storia. I partiti "tradizionali", per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.

(11 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/11/news/destra_e_sinistra_perdono_il_loro_popolo_m5s_come_la_vecchia_dc_interclassista-54291989/?ref=HREC1-1
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« Risposta #326 inserito:: Marzo 18, 2013, 04:42:58 pm »

Il partito autobus dei Cinque stelle


di ILVO DIAMANTI

CE L'HA fatta, il Pd, a far eleggere i propri candidati alle Camere. Era tutt'altro che scontato, soprattutto al Senato. C'è riuscito perché non li ha "imposti", ma "proposti". Ha scelto due figure credibili e di alto profilo. Esterne al partito. Laura Boldrini, già portavoce dell'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati. Eletta nelle liste di Sel. E poi Pietro Grasso. Una biografia esemplare e coerente, di lotta alle mafie. Al Senato, soprattutto, era difficile prevedere che l'elezione sarebbe avvenuta in tempi tanto rapidi. Senza negoziati né compromessi. È giunta grazie al voto di alcuni senatori del M5S, una decina almeno. Al ballottaggio fra Grasso e Schifani, non si sono sentiti di astenersi o di annullare il voto. E ciò ha suscitato sorpresa oltre a reazioni e commenti  -  a mio avviso  -  un po' azzardati.

In particolare, dopo il voto dei senatori, in contrasto con le indicazioni di Beppe Grillo, c'è chi ha pronosticato l'implosione del M5S. Incapace di assumere posizioni coerenti e unitarie. Perché vulnerabile alle logiche di corridoio e alle pressioni degli altri gruppi. Oppure, più semplicemente, perché impossibile da "governare", per un Capo esigente ma assente, in Parlamento. Beppe Grillo, in effetti, non l'ha presa bene. A coloro che, nel segreto dell'urna, avevano votato per Grasso, ha chiesto di "trarre le dovute conseguenze". Cioè, dimettersi. D'altronde, la concezione della rappresentanza e dei rappresentati proposta da Grillo prevede il "mandato imperativo". Cioè, la "dipendenza" diretta degli eletti dagli elettori. Interpretati dal Capo e Garante del Movimento (e dal suo intellettuale di riferimento, Roberto Casaleggio). In rapporto con i seguaci e i militanti attraverso la Rete.

Tuttavia, io credo che entrambe le "pretese" siano difficilmente realizzabili. La prima  -  che prevede la rapida dis-integrazione del Movimento, in Parlamento e, dunque, in ambito politico e sociale  -  considera il M5S un partito come gli altri. Una "organizzazione" di politici più o meno professionalizzati, tenuti insieme da un'identità e da interessi comuni, sempre più deboli. Vulnerabili di fronte alle tentazioni e ai privilegi del potere. Un po' come i leghisti, giunti in Parlamento "padani" e divenuti rapidamente "romani". Ma il M5S non è come gli altri partiti. Un partito come gli altri. È una Rete. Non solo perché si è sviluppato attraverso il web e i meetup. Perché, piuttosto, è cresciuto nel tessuto dei gruppi e dei comitati locali impegnati sui temi dei beni comuni, dell'ambiente, dell'etica pubblica. In altri termini, è una "rete" di esperienze e di attori "volontari". Perlopiù giovani, che operano su base locale. Da tempo. Certo, Roma e le aule del Parlamento sono grandi. Ma il legame con i mondi e le reti sociali di appartenenza lo è altrettanto. Per ora, molto di più. Chi pensa di "reclutarli"  -  con la promessa di ruoli e incarichi  -  sbaglia di grosso. Non avverrà.

Tuttavia, per la stessa ragione, mi pare difficile che possano rispondere al richiamo del Capo, in ogni occasione. Prima ancora: che possano accettare il modello della democrazia diretta e del mandato imperativo imposto da Beppe Grillo. Perché, anzitutto, presentandosi alle elezioni, hanno accettato le regole e i principi della democrazia rappresentativa. Perché, inoltre, non è facile individuare le domande degli elettori che li hanno eletti. Come abbiamo già rilevato, sul piano elettorale, il M5S è un "partito pigliatutti". Votato da componenti molto diverse, dal punto di vista socioeconomico e politico. Un terzo dei suoi elettori, infatti proviene da centrodestra. Altrettanti da centrosinistra. (Le analisi di Bordignon e Ceccarini, sull'ultimo numero della rivista "South European Society and Politics", sono molto chiare.) Inoltre, è la forza politica più votata dagli operai ma anche dagli imprenditori, dai lavoratori, dai disoccupati, dai lavoratori autonomi, dai liberi professionisti e dagli studenti. Difficile rivolgersi e riferirsi, direttamente, a un elettorato tanto eterogeneo.

Anche la "fedeltà" al Capo appare una pretesa difficile da esigere. Perché, come abbiamo detto, il M5S non è un partito coeso, strutturato. Che possa venire controllato dall'alto e dal centro. E non è un partito "personale", come Forza Italia, il Pdl, ma anche l'Idv. Gli eletti, gli attivisti, non rispondono solo o direttamente al Capo. Perché non sono stati scelti da lui. Ma dagli altri attivisti e seguaci, con cui avevano un rapporto stretto e diretto, anche prima. Con loro  -  e non con Grillo  -  si instaura il legame di fiducia alla base del loro impegno e della loro azione (come emerge dalle interviste ai militanti analizzate nel volume "Il partito di Grillo", curato da Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini e pubblicata dal Mulino). Insomma, il M5S non è un partito "tradizionale" ma nemmeno un partito "personale". Senza Grillo non esisterebbe. Grillo, però, è il proprietario del marchio, ma non il "padrone" di un'azienda-partito, di cui gli eletti sono i dipendenti.

In effetti, come ho già avuto modo di sostenere, il M5S, mi rammenta un autobus. Sul quale sono saliti passeggeri diversi, con destinazioni diverse. Uniti, in questa fase del percorso, da una comune destinazione intermedia. Destrutturare il sistema dei partiti della Seconda Repubblica. Incapaci di cambiare le logiche della Prima. Grillo li ha raccolti e accolti. Insieme agli altri, saliti in precedenza. Interessati ad arrivare altrove e più lontano. Nella Terra dei Beni Comuni. Grillo, per questo, è un Altoparlante. Un Autista. In grado di scagliare il suo "Mezzo" contro il muro del Vecchio che Resta. Ma, appunto, un Mezzo. Usato, in parte, da elettori e militanti, per i loro "fini" specifici. Non per il Fine generale.

Per questo i suoi elettori, ma anche i suoi eletti, gli attivisti e i militanti, non si sentono vincolati al mandato imposto dal Capo. E scelgono liberamente, "secondo coscienza". Votano insieme ai parlamentari del Pd, quando si tratta di sostenere un candidato come Grasso. Avverrà lo stesso in altre occasioni analoghe. Né la minaccia del conducente di abbandonare la guida dell'autobus farà loro cambiare opinione. Senza che ciò significhi, in alcun modo, confluire nel Pd o in un altro gruppo e partito. La seconda Repubblica è finita. I passeggeri dell'autobus di Grillo lo hanno dimostrato in modo inequivocabile. Ma dove andranno, dove scenderanno. E dove arriverà e si fermerà l'Autobus: non è possibile stabilirlo. Non lo sa nessuno. Di certo, neppure Grillo.

(18 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/18/news/diamanti_cinque_stelle-54795281/?ref=HRER1-1
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« Risposta #327 inserito:: Marzo 25, 2013, 07:13:44 pm »

Perché Grillo dice no

MAPPE.

Sondaggio LaPolis Università di Urbino. La base dei 5Stelle si divide a metà sul sostegno al governo Pd.

Un elettorato che proviene in parti quasi uguali dai due schieramenti classici della politica

di ILVO DIAMANTI


PIERLUIGI Bersani prosegue nelle consultazioni. Per verificare, come ha chiesto il Presidente Napolitano, se vi siano le condizioni per un governo che disponga di una maggioranza effettiva. E stabile. Non è una "missione impossibile", ha avvertito il segretario del Pd. Ma sicuramente molto improbabile. Soprattutto se Bersani mira a un'intesa fra il centrosinistra e il M5S, come ha fatto intendere fin qui.

Perché i margini, in tal senso, sono davvero stretti. O meglio: non ci sono. Beppe Grillo l'ha ribadito anche ieri. E l'altro ieri. Ma lo farà, sicuramente, anche oggi - e domani. Perché Grillo non parla - solo e tanto - agli altri. Ma anzitutto ai suoi.

Ha bisogno di tenerli uniti. Fino a quando, almeno, le consultazioni di Bersani si saranno concluse. Senza il sostegno del M5S. Se un gruppo di parlamentari del suo gruppo votasse la fiducia - com'è avvenuto in occasione dell'elezione di Piero Grasso alla carica di Presidente del Senato - non sarebbe un problema. Si tratterebbe di un "tradimento". Allungherebbe ombre sul futuro del nuovo - eventuale - governo. E sulla maggioranza. Fondata, fin dall'avvio, sul sostegno di "transfughi", più o meno "responsabili".

Ma attendersi un sostegno aperto dal M5S mi sembra impossibile, più che improbabile. Non solo da parte di Grillo. Anche del gruppo dirigente del MoVimento. Una eventuale consultazione, al proposito, non è plausibile. Né in Parlamento, fra gli eletti. Né in rete, fra gli aderenti e gli elettori. Perché, se ciò avvenisse, diverrebbe evidente quel che Grillo, per primo, sa. Cioè: che sull'argomento la base del M5S è divisa. Anzi, spezzata. Visto che il suo elettorato è equamente ripartito, in base alla provenienza politica ed elettorale (come mostrano le indagini sul tema. Da ultimo: il volume di Roberto Biorcio e Paolo Natale, "Politica a 5 Stelle", pubblicato da Feltrinelli). Tanto più e a maggior ragione di fronte a una possibile alleanza.

Lo conferma un sondaggio dell'Osservatorio elettorale del LaPolis (Università di Urbino), condotto nei giorni scorsi. I risultati, al proposito, appaiono eloquenti. Un accordo tra Pd e M5S a sostegno di un nuovo governo, infatti, otterrebbe il favore del 55% degli elettori. E di una quota molto più elevata fra quelli di centrosinistra, ma anche di centro. In particolare: appoggerebbero l'intesa quasi 8 su 10 fra gli elettori del Pd e del centrosinistra, ma anche il 65% degli elettori di Monti. Fra gli elettori del M5S, però, si osservano orientamenti molto diversi e, nell'insieme, divergenti. I favorevoli all'accordo, infatti, si riducono al 54%. I contrari al 45%. Cioè: circa metà e metà.

Questa s-composizione dipende, come si è detto, dalla provenienza dell'elettorato. Il consenso all'intesa, infatti, sale al 63% fra gli elettori che nel 2008 avevano votato per il centrosinistra. Ma tra gli elettori provenienti dal centrodestra, quasi, si dimezza: 36%.

In altri termini, la partecipazione a un governo guidato da Bersani spaccherebbe in due l'elettorato del M5S. Ma anche la base più "fedele". Fra coloro che si definiscono "molto vicini" al MoVimento, infatti, i favorevoli all'intesa sono esattamente la metà: 50%. Per questo Grillo, oltre a esprimere il proprio dissenso, chiama "fuori" il M5S da ogni discussione. Al governo? Da soli o non se ne parla. Perché qualsiasi altra decisione rischierebbe di produrre lacerazioni e opposizioni. All'interno e alla base. L'accordo con Bersani: susciterebbe disagio, se non rifiuto, da parte di quasi metà dei suoi elettori. Soprattutto, di quelli che provengono dal centrodestra. Tuttavia, anche una rottura esplicita con il centrosinistra solleverebbe malessere. Perché il M5S nasce da una costola della Sinistra, ma l'altra è di Destra. E, per ora, il MoVimento non dispone di un'identità definita e precisa, che permetta agli elettori di distinguersi e di distanziarsi dagli altri. Certo, il M5S della prima fase è sorto e si è sviluppato sull'azione dei comitati e dei movimenti locali, impegnati sul tema dei "beni comuni". Ma il successo elettorale è avvenuto intorno alle rivendicazioni sulla trasparenza e sui costi della politica. Infine: contro la Casta e le oligarchie di partito. In definitiva: contro i partiti.

Da ciò la differenza rispetto alla Lega degli anni Novanta, che ha raccolto anch'essa il malessere contro il sistema dei partiti e contro il ceto politico, ormai al collasso. Ma disponeva di un'idea - meglio, di un'ideologia - forte. La Questione Settentrionale, poi: la Padania. Inoltre, si riconosceva in un leader carismatico ed era organizzata, come un partito di massa, radicato sul territorio. Il M5S, invece, non ha radici né organizzazione sociale e territoriale. È una rete. Esposta alle "incursioni", sul Web, dei dissidenti e dei "trolls", come li definisce Grillo. Inoltre, Grillo non è un leader carismatico. Il grado di identificazione personale nei suoi confronti, presso gli attivisti e gli elettori, è analogo, ma non superiore, rispetto a quello degli altri partiti (come mostra il recente saggio di Bordignon e Ceccarini pubblicato sulla rivista ComPol).

Il M5S non è, dunque, un partito tradizionale e neppure "personale". Semmai "personalizzato". Per riprendere la metafora che ho già usato una settimana fa: è come un Autobus. Sul quale sono saliti molti passeggeri. Alcuni diretti alla Terra dei Beni Comuni e della Democrazia Diretta. Altri, i più, "fuggiti" dalle loro case (politiche). Mossi da risentimenti - più che da sentimenti - verso i partiti maggiori. Per questo il Conducente, per ora, non si può fermare. E, anzi, accelera, sempre più veloce. Perché, se si fermasse a una stazione, molti passeggeri potrebbero scendere. Senza più risalire. Così continua a correre. In attesa che le case "politiche", vecchie e nuove, crollino definitivamente. E altri passeggeri, in fuga, salgano in corsa sull'Autobus 5 Stelle. Un'attesa che potrebbe essere breve, visto il clima politico ed economico generale. Ma, in un paesaggio ridotto in macerie: che farebbero Grillo e il suo Autobus?

(25 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/25/news/perche_grillo_dice_no-55292611/
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« Risposta #328 inserito:: Marzo 31, 2013, 07:44:04 pm »


Bussole
      
Lessico dei tempi feroci

Ilvo DIAMANTI

I politici della Prima Repubblica. Erano incomprensibili. Il linguaggio era fatto apposta per non essere compreso. Se non da loro. Al loro interno. Messaggi cifrati. Obliqui. Paralleli. I cittadini, d'altronde, non se ne occupavano troppo. I discorsi politici e dei politici: non li interessavano. Tuttavia, la società non era estranea al contesto politico. "Con-testo", appunto. Un "testo" condiviso. Perché la politica è rappresentanza e rappresentazione. I "rappresentanti" riflettono la società e la società vi si riflette. Almeno in parte. E il linguaggio ne era lo specchio. Così, le persone parlavano in modo "educato". In pubblico. Le parolacce non erano ammesse. Quando scappavano, il responsabile veniva guardato con un sorriso tirato, di riprovazione. Sui giornali e sui media, poi, guai. Quel "Cazzo!", pronunciato sapientemente da Zavattini, nel 1976, fece rumore. Anzi, fragore. Mentre quando Benigni in tv, ospite della Carrà, recitò tutti i sinonimi della "passerottina" (dalla chitarrina alla vulva...), sollevò grandi risate, ma molto meno clamore. Era il 1991. Il muro di Berlino era caduto. E stava travolgendo anche il sistema politico italiano. Seppellendo, insieme alla Prima Repubblica, una civiltà formalista e un po' ipocrita. Dove il distacco tra società e politica era riprodotto dall'impossibilità di comprendere quel che avveniva "in alto". I politici non erano apprezzati né, tanto meno, stimati. Anche prima di Tangentopoli. Venivano considerati disonesti. Inattendibili. Disinteressati ai problemi della "gente comune". Eppure non ci si faceva troppo caso. Tutti votavano sempre. Allo stesso modo.

Certo, negli anni Settanta i movimenti sociali portarono in piazza slogan violenti. Ma si trattava di metodi di lotta. Il linguaggio era usato come strumento "politico". Non "antipolitico". Perché, comunque, la "politica" e la "classe politica" contavano. Il loro "potere" era riconosciuto.

Oggi, anzi, da almeno vent'anni: la scena è cambiata. I politici sono impopolari come prima, più di prima. Ma nessuno si fa scrupolo a dirlo. Neppure i politici. I quali si fanno schifo e se lo dichiarano reciprocamente. Non c'è nessuno, d'altronde, che sia disposto ad ammetterlo. Di essere un politico. Neppure i dirigenti di partito, i parlamentari, i senatori. Tutti im-politici. Il vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici: si è rotto. Certamente, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio. L'alto e il basso. Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli "eletti" fingono di essere come il "popolo". Per imitare il "volgo" cercano di essere "volgari". E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio.

Fra i rappresentanti e i rappresentati, è un gioco di specchi infinito. Così l'esibizione di chi "ce l'ha duro" si alterna al grido di "Forza gnocca". Mentre si sviluppano relazioni internazionali tra "Cavalieri arrapati" e "Culone inchiavabili". Di recente, infine, nelle piazze, nei palazzi e sui media echeggiano i "vaffanculo", ripetuti all'infinito. Da chi rifiuta di dialogare con i "morti-che-parlano-e-camminano". Con i "padri puttanieri della Patria". Che sono già morti. E, comunque, "devono morire". Il più presto possibile. Per cambiare davvero il Paese.
È il clima del tempo. Il linguaggio del tempo. (Ben riassunto nel Dizionario della Seconda Repubblica, scritto da Lorenzo Pregliasco e di prossima pubblicazione per gli Editori Riuniti). Contamina tutto e tutti. Anche gli artisti più gentili. Perfino lui, l'Artista a cui mi rivolgevo nei momenti più concitati. Quando vivevo "strani giorni". Mi rassicurava, sussurrando: "avrò cura di te". Anche lui, divenuto "politico", descrive il Parlamento come un luogo affollato di "troie disposte a tutto".

E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D'altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti.

Perché mai, allora, io - proprio io - dovrei essere l'ultimo "coglione" rimasto in circolazione? L'unico a trattare tutti, ma proprio tutti, con rispetto? Anche coloro che non rispetto?

Così mi arrendo. Al clima e al linguaggio del tempo. E, per chiudere, rilancio un elegante adagio raccolto al Bar da Braun: "Andate tutti a-fare-inculo. Voi e la vostra politica del cazzo".


Appunto a margine.

Ho svolto il filo del discorso sul rapporto - degenerato - fra linguaggio, politica e società cercando di essere coerente. Fino in fondo. Eppure, questo linguaggio mi dà fastidio. Scrivere così, a maggior ragione, mi dà (e io mi do) fastidio. Non lo farò mai più. E se le parole servono a "rappresentare" la realtà, se il linguaggio è rappresentanza, io, oggi, non mi sento rappresentato. In questa "Repubblica a parole" (o meglio: "a parolacce"), mi dichiaro prigioniero politico. In questi tempi cattivi, sempre più feroci, mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

(30 marzo 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #329 inserito:: Aprile 02, 2013, 12:31:36 pm »

Questo Paese indeciso a tutto

di ILVO DIAMANTI

NON E' PIACIUTA la scelta del Presidente Napolitano, dopo il tentativo di Bersani  -  senza esito  -  di formare un governo. L'istituzione di due commissioni di Saggi. Non è piaciuta. Ai principali partiti. (Non solo e non tanto per ragioni di "pari opportunità). Come la ri-legittimazione del governo Monti. Così, per la prima volta dopo il voto, fra le tre principali formazioni presenti in Parlamento, c'è accordo. Nel disaccordo. Contro la decisione del Presidente. Che, effettivamente, allunga questa fase "eccezionale", per qualsiasi democrazia. Visto che l'Italia, da quasi un anno e mezzo, è governata da un gruppo di "tecnici", non eletti, ma nominati dal Presidente. Sostenuti, fino a sei mesi fa, da una maggioranza eterogenea. Per necessità. E per emergenza. Per l'impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare intorno a un governo. Per la necessità di affrontare l'emergenza economica e politica, interna e globale. E di rispondere agli impegni, di fronte alle autorità finanziarie e alle istituzioni internazionali.

Oggi, però, abbiamo un Parlamento rinnovato. Profondamente. Per l'ingresso di nuovi parlamentari. E di una nuova forza politica: il M5S. Che ha occupato uno spazio molto ampio. Nei consensi e nei seggi. Nel dibattito politico e presso l'opinione pubblica. Tuttavia, le condizioni che avevano determinato  -  quasi imposto  -  l'incarico al governo tecnico non sembrano cambiate.
La crisi economica nazionale e internazionale: si è fatta più seria. Grave. Dopo le elezioni, il clima sociale interno è avvelenato. Mentre all'esterno, si respira un sentimento di scetticismo diffuso nei confronti dei nuovi e vecchi attori della scena politica italiana. Monti, l'unico di cui si fidassero i "mercati" e i leader internazionali, dopo l'avventura elettorale, è divenuto, anch'egli, poco credibile. Anzi: in-credibile. Peraltro, nessuna fra le possibili soluzioni proposte dalle maggiori forze politiche rappresentate in Parlamento, oggi, appare effettivamente praticabile.

Il Centrosinistra, guidato da Bersani,  -  o meglio: Bersani, alla guida del Centrosinistra  -  avrebbe voluto, comunque, verificare l'esistenza di una maggioranza parlamentare, intorno alle sue proposte. Contava, cioè, di conquistare il sostegno di una parte dei senatori del M5S, in dissenso con le indicazioni di Grillo. Com'è avvenuto in occasione dell'elezione di Pietro Grasso a Presidente. Operazione rischiosa. Perché, se anche avesse funzionato, avrebbe restituito una maggioranza precaria, sempre in bilico. Marchiata dal "tradimento", come non esiterebbe a gridare Grillo. Affiancato da Berlusconi e dal PdL.

Il Centrosinistra, d'altronde, non ha alcuna intenzione di intraprendere, nuovamente, la Grande Coalizione. Che, invece, piacerebbe al PdL. Soprattutto a Berlusconi. Per uscire dall'angolo e condizionare l'agenda futura. Ma piacerebbe, ancor più, a Grillo e al M5S. Che potrebbero rilanciare la loro strategia di successo, in questa fase. La rivolta contro la partitocrazia e la classe politica. Contro il PdL e il PdLmenoL.

Elezioni a breve termine  -  inevitabili in un clima di confusione politica e parlamentare  -  avrebbero un esito imprevedibile. Ma piacciono molto al M5S. Favorito da questo clima impolitico, amplificato dalla crisi della politica. Piacciono anche al PdL. Perché la "mancata vittoria" e l'incapacità di formare un governo farebbero del Pd il principale capro espiatorio, in caso di elezioni immediate. Come se, paradossalmente, avesse governato - male  -  senza neppure governare. E gli altri avessero fatto opposizione  -  anche in assenza di un governo.
Con questa legge elettorale, tuttavia, difficilmente  -  e parlo in modo prudenziale  -  qualcuno riuscirebbe a conquistare la maggioranza dei seggi al Parlamento.

D'altra parte, perché mai questo Parlamento  -  appena eletto  -  dovrebbe varare una nuova legge elettorale, in fretta e furia, senza aver quasi cominciato la legislatura, se non vi è riuscito il precedente, con cinque anni a disposizione? Infine, come potrebbe, come avrebbe potuto, il Presidente Napolitano, assumere una decisione vincolante per il prossimo futuro, proprio ora che è in uscita? Nominando  -  e imponendo al successore  -  un solo Saggio? Cioè, un altro Tecnico, super partes, a capo di un "governo di scopo"? Di durata comunque non breve?

Per questo, a mio avviso, la scelta di nominare le Commissioni di Saggi è risultata inevitabile. Perché è una non-decisione. Una in-decisione. Che riflette e sottolinea l'im-potenza di questo Parlamento, caratterizzato dall'irruzione di un non-partito. Di questo Paese. Privo di Autorità riconosciute e legittimate. Per prima, quella "paterna", come ha suggerito Eugenio Scalfari, una settimana fa. Un Paese, dove, per utilizzare un'efficace metafora di Barbara Spinelli, il "trono è vuoto". Ovvero: "il posto di comando è vacante". Ed è questa la Questione. Che fatichiamo ad accettare. Noi, italiani, siamo diventati, ormai, un Paese di minoranze. Politiche. Irriducibili. Ciascuna incapace di imporsi sulle altre. Ciascuna gelosa del proprio potere di veto. Sugli altri. Indisponibile, per questo, ad accettare leggi che consentano a qualcuno di governare sugli altri. Per questo è tanto difficile modificare la legge elettorale, il Porcellum. E ci teniamo, quasi unici al mondo, un sistema bicamerale perfetto, che pone sullo stesso piano le due Camere, peraltro elette con leggi elettorali diverse. Rendendo complicata ogni scelta. Ogni maggioranza.

Così, Napolitano ha applicato l'unica soluzione possibile in un Paese eternamente in-deciso, come il nostro. Ha fatto ricorso a quella che il filosofo John Perry ha definito la "procrastinazione strutturata". Cioè, l'arte di rinviare a domani ciò che "dovremmo" fare oggi stesso. Ma in modo, appunto, "strutturato". Programmando "altre" cose utili. Ma meno importanti. Per prendere tempo. Perché più tempo "potrebbe" favorire il dialogo, far emergere soluzioni. Oggi non ancora visibili. Potrebbe. Ma potrebbe anche avvenire il contrario. Nuove divisioni e fratture. Più profonde e drammatiche. Fino a rendere inequivocabile quel che ancora non è abbastanza chiaro. A tutti. Che un Paese im-potente e senza autorità, senza padri né governi: non può durare a lungo. Non è uno Stato, ma uno "stato". Un participio passato.

Rendersene conto, prenderne atto, costituirebbe la premessa di un cambiamento reale. Se i Saggi sono davvero tali, possono provare a spiegarlo. Al Parlamento e ai cittadini. In un modo esemplare. Per non concedere alibi a nessuno: lascino al più presto il Parlamento, i partiti  -  e i cittadini  -  da soli. Di fronte alle loro responsabilità.

(02 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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