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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277882 volte)
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« Risposta #300 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:37:44 pm »


IL CASO

L'Ue è diventata un male necessario ma il partito anti-euro sale al 25%

Dal 2000 la fiducia nelle istituzioni comunitarie è crollata dal 56 per cento al 36 per cento.

Forte scetticismo nel centro-destra, critici anche gli elettori di Sel e M5S, Pd unica eccezione

di ILVO DIAMANTI

BEPPE Grillo, due giorni fa, a Parma, ha lanciato un referendum. Per uscire dall'Europa dell'euro. Un'iniziativa già annunciata dalla Lega. Ma condivisa, nella sostanza, da altri attori politici assai diversi. I partiti della sinistra radicale, per primi, da sempre ostili all'Europa delle banche e dei mercati. Riserve verso l'euro, d'altronde, sono state espresse, di recente, anche da Tremonti. Mentre Berlusconi non ha mai esitato a esprimere diffidenza, al proposito. Il nostro non è il solo Paese dove sia diffuso l'euroscetticismo. Un orientamento in rapida espansione dovunque.

LE TABELLE 1 (su repubblica.it)

Tuttavia, fino a dieci anni fa, l'Italia è stato il Paese più europeista d'Europa. Fin dal referendum consultivo del 1989, quando l'88% dei votanti approvarono il mandato costituente al Parlamento europeo. Ma ancora nel 2004, nonostante i malumori suscitati dagli effetti dell'Euro (introdotto nel 2001), gli italiani confermavano il loro sostegno all'Europa in misura molto superiore agli altri Paesi (indagine Fondazione Nord Est, 2004). Un atteggiamento giustificato, in primo luogo, dalla sfiducia nello Stato e nella classe politica nazionale. Gli italiani: preferivano farsi commissariare da Bruxelles - o da Strasburgo - piuttosto che farsi governare da Roma. Oggi non è più così. L'indice di fiducia nella Ue, infatti, in Italia è fra i più bassi d'Europa (Eurobarometro, maggio 2012). Si tratta dell'esito
di una discesa costante (sondaggi Demos). Dal 57% nel 2000, vigilia dell'avvio dell'euro, il sentimento europeista ripiega, negli anni seguenti. Nel 2006 è già sceso al 52%. Ma crolla, letteralmente, negli ultimi due anni, in seguito alla crisi finanziaria globale. Fino ad attestarsi al 36% attuale. La scelta di voto influenza questo orientamento più ancora della posizione dei partiti sull'Europa. Il maggior grado di euroscetticismo, infatti, si rileva nella "vecchia" maggioranza di centrodestra. Fra gli elettori della Lega, anzitutto, ma anche fra quelli del Pdl e del Fli. Affiancati, peraltro, dagli elettori dell'IdV. Il livello più elevato, invece, è espresso dagli elettori del Pd (unico partito davvero europeista) e dell'Udc. Ma anche da quelli di Sel. Mentre l'orientamento della base del M5S non si discosta molto da quello della popolazione.

Naturalmente, il calo del consenso verso la Ue è ampiamente comprensibile. E giustificato. Come nei confronti dell'euro. Una moneta senza Stato. In un contesto, l'Unione europea, che appare, sempre meno, "unione". E, sempre più, "tavolo di concertazione" tra governi. Alcuni dei quali contano molto più degli altri. Più che euroscettici, gli italiani oggi appaiono euro-delusi. Avevano nutrito tante - fin troppe - attese. E oggi si ritrovano con risultati molto inferiori alle previsioni più pessimistiche. Così l'Europa ha cessato di presentarsi come la "casa comune" a cui pensavano i padri fondatori. Ma non appare neppure un "mercato comune", associato a un sistema di mutuo soccorso. La prospettiva che, realisticamente, aveva alimentato il consenso dei cittadini. Così l'europeismo degli italiani si è raffreddato. Fino a divenire gelido. Per alcuni attori politici si è, anzi, trasformato in un "campo di battaglia". Sul quale sfidare il governo e gli altri partiti. Per allargare il proprio consenso, in parallelo al dissenso verso la Ue.

Il fatto è che il declino del sentimento europeo ed europeista non procede in parallelo con il recupero di credibilità della classe politica. Al contrario. Anzi, visto che la fiducia verso i partiti è scesa intorno al 4% e verso il Parlamento al 10%, quel 36% di italiani che dichiara confidenza verso la Ue appare altissimo. Così si spiega perché, nonostante tutto, la maggioranza degli italiani continui a considerare l'Unione e la moneta europea con favore. O almeno: con minore sfavore rispetto alle altre istituzioni politiche ed economiche - "nazionali".

In particolare, circa il 39% degli elettori (intervistati da Demos, settembre 2012) ritiene che l'euro abbia comportato solo complicazioni alla propria vita. Solo il 13%, invece, che l'abbia migliorata. Ma la maggioranza, il 47%, pensa che si tratti, comunque, di un "male necessario". Il "male minore". Lo stesso atteggiamento si osserva di fronte all'Unione europea. Circa un elettore su quattro pensa che uscirne sarebbe "meglio". Una porzione rilevante, ma comunque nettamente minoritaria. Meno della metà di quanti pensano il contrario. Cioè, che le cose andrebbero "peggio" (quasi il 50%). Si delinea così un paradosso apparente. La Ue e l'euro non piacciono. Sono considerati con crescente disincanto. Tuttavia, la maggioranza degli italiani non intende farne a meno. Perfino tra gli elettori della Lega, d'altronde, prevalgono quanti ritengono che uscire dalla Ue sarebbe peggio. Mentre fra gli elettori dell'Idv quelli che temono la defezione dall'Europa sono quasi il doppio rispetto agli altri. Una spiegazione "politica" di questo orientamento emerge osservando come la fiducia nella Ue cresca in parallelo con quella nei confronti del presidente Napolitano e del governo Monti.

Ciò è coerente con il programma del premier. Definito in stretto accordo con la Commissione e con la Banca europea. Tuttavia, l'atteggiamento degli elettori verso la Ue e l'euro, al fondo, rammenta quello verso il governo tecnico. Gli italiani, infatti, sostengono - in maggioranza - il governo Monti anche se non ne apprezzano le scelte. Perché lo considerano, comunque, una medicina amara ma necessaria. Per non andare incontro a mali peggiori. Lo stesso avviene per la Ue e l'euro. Realtà sgradite ma accettate, al tempo stesso. Perché farne a meno appare, ai più, un rischio ancor più grande. Monti e la Ue, nella percezione degli italiani, risultano, così, uniti da un comune sentimento. L'euromontismo. Che spinge ad accettare l'euro, l'Europa e, insieme, Monti, anche se non piacciono. Per necessità. Con rassegnazione. Convinti che "con loro" si stia male. Ma "senza" sarebbe molto peggio.

(24 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/24/news/mappe_euro_diamanti-43137808/?ref=HRER2-1
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« Risposta #301 inserito:: Settembre 29, 2012, 11:01:29 am »

L'amnesia geografica che affligge la scuola

Il ministro Profumo non ha parlato solo di ora di religione.

Cronaca di un ritardo nell'Istruzione che facciamo finta di non vedere

Da oggi sino al 5 ottobre 2012 si terrà a Macerata il 55° Convegno Nazionale dell'AIIG (Associazione Italiana Insegnanti di Geografia) che ha come tema "Le Marche nella macroregione Adriatico-Ionica".


Pubblichiamo l'intervento di Ilvo Diamanti


Francesco Profumo, ministro dell'Istruzione e dell'Università, ha suscitato grandi polemiche 1, nei giorni scorsi. Oltre le proprie intenzioni, ritengo. In effetti, si è limitato a sollecitare  -  e prefigurare - il "cambiamento" della programmazione scolastica in relazione al "cambiamento" sociale. In particolare: al cambiamento demografico. Visto che l'immigrazione ha mutato la popolazione scolastica in modo rapido e profondo. E oggi vi sono zone dove oltre metà degli studenti delle scuole elementari e medie proviene da paesi stranieri. Per cui  -  ha detto (ragionevolmente) il ministro - occorre modificare il modo di insegnare. In particolar modo la religione e la geografia. La religione. In Italia, significa, semplicemente, religione "cattolica". Il ministro ha annunciato di volerla adeguare, facendone un'ora di "storia delle religioni" oppure di "etica". Il ministro ha, inoltre,  sottolineato la necessità di modificare anche l'insegnamento della Geografia. Che, secondo Profumo, si dovrebbe studiare ascoltando le testimonianze di chi proviene da altri Paesi. Visto che già oggi gli studenti apprendono la disciplina "Non dai libri ma dai compagni che raccontano le loro città e i loro costumi''. A differenza di quel che è avvenuto per la Religione, nessuno ha sollevato polemiche a questo proposito.

Non perché il tempo previsto per la Geografia, nella scuola, oggi, sia sprecato. Ma perché, semplicemente, è pressoché sparito. Visto che la riforma Gelmini del 2010 ne ha ridotto sostanziosamente le ore di Geografia,  nel biennio dei Licei e, ancor più, negli Istituti Tecnici. Mentre l'ha fatta scomparire da quelli Professionali. Senza grande scandalo negli ambienti politici ma neppure tra gli intellettuali. Se ne sono accorti solo gli addetti ai lavori - coinvolti. Cioè: i professori e gli insegnanti della disciplina. Le parole del ministro sull'insegnamento della Geografia, dunque, non hanno provocato alcuna reazione semplicemente perché, ai più, era sfuggito che questa materia esistesse ancora, nei programmi scolastici. D'altronde, il territorio stesso sta scomparendo ai nostri occhi. Inghiottito dalla metastasi immobiliare di cui soffre il nostro mondo. Ma, prima ancora, è scomparso il senso delle distanze e dei confini. Dei percorsi e degli itinerari. Ormai, chi organizza più i propri viaggi e i propri spostamenti su mappe e carte? Ci pensa il GPS a guidare e a guidarci. Un passo dopo l'altro. Basta avere un navigatore satellitare oppure uno smartphone.

Magari non è aggiornato e ci spinge su percorsi vietati o inesistenti. Oppure ci fa fare più strada del necessario. O ancora, ci conduce in luoghi immaginari. Però, vuoi mettere il piacere di non pensare? Di non avere il problema di cercare? di organizzare e comprendere lo spazio? D'altronde, lo spazio è ormai privo di territorio. Tutto è qui, accanto a me. Con me. Il "dove" è "dovunque" e "nello stesso luogo". Al tempo stesso. E Nello stesso tempo. Basta utilizzare un cellulare, uno smartphone un tablet. E parli con chiunque - dovunque esso si trovi. Migliaia di kilometri o pochi centimetri: fa lo stesso. Con Skype, l'altro  è davanti a te. Lo puoi guardare, parlargli. Anche se è al di là dell'oceano. I media, poi, ti informano a flusso continuo. Su tutto ciò che capita. Dappertutto. In luoghi e in Paesi di cui non supponevi l'esistenza. (Senza che ciò ti impedisse di vivere...) Così tutto avviene e tu sai tutto. O forse no. Perché se perdi il senso delle distanze e dei luoghi, allora tutto diventa, al tempo stesso, vicino e lontano. Lontano e vicino. Aleppo e Bengasi. La Cina e la Tunisia. Il Sud Sudan e l'Emilia. È lo stesso. Così la Libia. A un passo dalle nostre coste. Da noi. Appare lontanissima. Le sue vicende: come non ci riguardassero.

Avanza così uno strano "individuo". Sempre più "solo". Perché senza luogo né spazio si indebolisce la possibilità di "con-dividere". Di incontrarsi con gli altri. Un uomo senza tempo. Perché senza una mappa, dove delineare i confini. Dove seguire e riprodurre i cambiamenti, rapidi e profondi, del limes e del finis. I Confini. In nome dei quali si coltivano identità antiche e nuove, radicate e immaginarie. Si combattono guerre e si compiono attentati. Come puoi orientarti, metterti in rapporto con gli altri? Come puoi ricostruire il passato e immaginare il futuro? Perché non c'è storia senza geografia. E viceversa. D'altronde, anche la Storia non se la passa molto bene, nella Scuola italiana. Associata alla Geografia, nei programmi. Eppure distinta da essa.  Come altri "terreni" disciplinari. Perché nella nostra scuola si ignorano  la  Geo-politica e la Geo-economia. Ma anche, a maggior ragione, la Geo-storia.

L'amnesia geografica della nostra scuola e della nostra società ci priva, necessariamente, anche della storia. Perché non può esserci storia  -  né economia né politica - in una società senza memoria. Senza mappe. Senza confini. Senza territorio. Così, in questo Paese, dove si polemizza perché "non c'è più religione", avanza, nel silenzio, un "uomo sospeso". Senza spazio e senza tempo. Senza dove e senza quando. A-polide e a-storico.

Per questo ha ragione il ministro Profumo, sulla geografia nella Scuola. Oggi gli studenti apprendono la disciplina non dai libri ma dai compagni (di diversa provenienza) che raccontano le loro città e i loro costumi. Ma occorre che gli anche studenti di origine e provenienza atraniera sappiano da dove vengono e dove vivono oggi. Che comprendano perché essi, i loro genitori, se ne sono andati dai paesi di origine. Come i nostri nonni e bisnonni, tanti decenni fa. Emigrati lontano. Spinti dalla necessità economica, dalle guerre. O dal desiderio di migliorare la condizione propria e dei propri figli. Senza una storia e una geografia di "lunga durata": educare i giovani e  integrare i "nuovi italiani", non mi sembra possibile.

(27 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/09/27/news/l_amnesia_geografica_che_affligge_la_scuola-43386995/?ref=HREC1-11
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« Risposta #302 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:07:58 am »

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L'incognita primarie per il partito liquido

di ILVO DIAMANTI


Il Pd. Un partito in cerca di Leader, programma, identità, alleanze... Tanto più dopo l'uscita dal campo di gioco di Berlusconi e la scomposizione del Pdl. Che hanno dissolto la principale frattura del sistema partitico della Seconda Repubblica.

Il dibattito sulle primarie ha risentito e risente di questo senso di precarietà. Perché le primarie, per il Pd, non costituiscono solo un metodo di scelta del candidato alle cariche più importanti, a livello nazionale e locale. Sono il "mito fondativo" (come l'ha definito Arturo Parisi) del Partito Unico di Centrosinistra. Istituzionalizzato e sperimentato, nel 2005, dall'Ulivo. L'Unione di Centrosinistra. Più che competizione, l'investitura quasi plebiscitaria riservata a Romano Prodi, in vista delle elezioni del 2006. In seguito le primarie sono state utilizzate in diverse occasioni. In ambito nazionale: nel 2007 e nel 2009. In entrambi i casi: non per eleggere il candidato premier, ma il segretario nazionale. Veltroni, nel 2007 e Bersani nel 2009. Usate, cioè, come un equivalente del congresso. Nel 2009, in particolare, attraverso un percorso complesso. Prima, mediante il voto dell'Assemblea dei delegati eletti dagli iscritti, a livello di circolo. Poi, con il ballottaggio fra i primi tre. Attraverso primarie aperte agli elettori. Combinando, quindi, il "partito di iscritti" (fondato sull'appartenenza) e quello "americano" (presidenziale, a identità leggera). In effetti, nel Pd  -  e prima nell'Ulivo  -  la distanza fra questi due modelli è sempre stata limitata. Perché il Pd è un partito di ex e di post. Democristiani e comunisti. Che, del passato, ha conservato la memoria e la nostalgia della partecipazione di massa. Oltre alla cerchia dei gruppi dirigenti.

Per questo, fino ad oggi, le primarie non sono state un agone, competitivo e incerto. Ma, piuttosto, una procedura dall'esito  -  più o meno  -  scontato. Hanno, invece, funzionato come metodo di mobilitazione sociale. Al di là e oltre gli iscritti. Per risvegliare la domanda di coinvolgimento e di partecipazione  -  sempre elevata  -  fra gli elettori di centrosinistra. In alternativa all'identificazione personale, promossa da Berlusconi, attraverso la televisione e il marketing. Con successo. Visto che milioni di elettori hanno partecipato alle primarie. Nonostante la delusione crescente, prodotta dal sistema partitico, in generale, ma anche dal Pd. A sua volta implicato nella "politica come marketing", imposta dal Berlusconismo. E nelle crescenti spinte oligarchiche, che hanno coinvolto, in diversa misura, i partiti. Anche nel novembre 2009, quando è stato eletto segretario Bersani, quasi tre milioni di persone si sono recate ai seggi e ai gazebo allestiti dal Pd, in tutto il territorio nazionale. Prima di tutto: per rispondere al bisogno di "partecipare". Di esserci. Non è detto che il "miracolo" si ripeta anche questa volta. Nonostante che la domanda si confermi elevata. Metà degli elettori, senza distinzione di parte e di partito, si dice "disponibile a partecipare alle primarie per eleggere il candidato premier" (Sondaggio Demos, settembre 2012). Un orientamento che raggiunge i valori più elevati, non a caso, a centrosinistra. Fra gli elettori del Pd e di Sel. Ma anche del M5S. Anche nella base dell'Idv, della Lega e del Pdl la voglia di primarie appare ampia. Ma, appunto, molto meno che nella Sinistra e nel Pd. Dove, ormai, le primarie sono un rito assimilato. Fonte e fattore di identità. Tuttavia, per votare occorre sapere perché. A che fine, in che modo e in che campo. Fra quali candidati e programmi. Il che, francamente, non è chiaro.

In primo luogo, perché non si sa con che legge elettorale si voterà. Ove venisse approvata una legge di tipo proporzionale, le primarie perderebbero significato. Sicuramente, non avrebbe senso promuoverle a livello di coalizione. Mentre l'Assemblea del Pd, non a caso, ha fissato limiti e regole (in verità, molto flessibili) in base a cui il segretario, Bersani possa "negoziare" con gli altri partiti alleati. Ma quali? La Sinistra? Il Centro? L'Idv? Oppure tutti quanti insieme? Su questo punto, la struttura e i confini della coalizione, non c'è chiarezza né coerenza. Ciò, ovviamente, non dipende solo dal Pd. Perché le distanze fra Udc e Polo di Centro, Sel, Idv restano ampie. In alcuni casi, incolmabili. C'è, poi, il ruolo di Monti. Infatti, anche nel Pd, immaginano che dopo Monti debba governare ancora Monti. Ma se il candidato premier, fosse già pre-definito, "a prescindere", per citare Totò, le primarie: a che servono?

Per questo, dietro al dibattito di questi e dei prossimi mesi, c'è una questione di fondo, elusa e rimossa. Ad arte o per disattenzione. Precede e va oltre gli argomenti che animano il dibattito politico e mediatico. Per prima: l'alternativa fra Bersani e Renzi. Fra il "Rottamatore" e "l'Usato sicuro", come ha osservato, con efficacia, Adriano Sofri. In questione è il Pd. Non più Unione, non più Partito Unico della Sinistra. Diviso sugli obiettivi e sulle parole d'ordine. Ma anche sulle alleanze. Tra Vendola, Di Pietro e Casini. I suoi elettori: il 75% dei quali d'accordo con Monti e il 65% contrari alle sue politiche. Il Pd, senza Berlusconi alle porte, mentre affronta le primarie, appare disorientato e disancorato. Per echeggiare Bauman: un "partito liquido".
 

(08 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/08/news/incognita_primarie-44090243/?ref=HREC1-5
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« Risposta #303 inserito:: Ottobre 15, 2012, 06:06:24 pm »

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L'elogio del buon partito

di ILVO DIAMANTI

"FA STRANO" il percorso scelto da Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi per promuovere la propria candidatura alle primarie del Pd. Pier Luigi Bersani. Ieri è partito da Bettola, il paese natale. Più precisamente, dal distributore del padre. Matteo Renzi ha avviato il suo viaggio a Verona. E ha proseguito in camper. Attraverso la penisola. Bersani, già governatore dell'Emilia Romagna: ritorna alle origini, nei luoghi dove è nato e cresciuto. Renzi, presidente di Provincia e sindaco di Firenze: in viaggio per le strade e i borghi d'Italia. Renzi e Bersani. In questa campagna per la candidatura a premier del Pd, hanno entrambi inteso marcare il loro legame  -  biografico e politico  -  con l'Italia delle Città e delle Regioni.

Fa strano questa scelta comunicativa, proprio quando il territorio sembra affondare. Oscurato dalle politiche del governo. Perché Regioni, Province e Comuni sembrano divenuti centri  -  pardon, periferie  -  di spese utili solo al malaffare. Tanto più dopo gli scandali che hanno travolto il Lazio e la Lombardia, insieme al comune di Reggio Calabria. Così il governo Monti, alla disperata ricerca di risorse e di spese da tagliare, ha dimezzato le province; ha, inoltre, ridotto i poteri delle regioni. Con leggi  -  e per ragioni  -  di bilancio.
Senza bisogno di giustificare nulla.

Politicamente. A tal punto sono ormai squalificati i governi territoriali. Insieme alla politica,
i politici e i partiti. Ispirati alla logica degli affari (propri) piuttosto che dagli interessi dei cittadini. Non solo a livello centrale, ma ancor più nei contesti locali. Corrotti e inquinati dalle molteplici mafie che dal Sud si sono propagate nel Nord. Perché ormai tra mafia, politica e amministrazione locale è difficile discernere. Questo è il pensiero comune e dominante. Espresso non solo dalla gente comune, ma dagli stessi esponenti della classe dirigente. Politici compresi. Da ciò lo slogan di successo, in questa fase. La nemesi. La "tabula rasa".
Mentre nel Paese si respira un sentimento antipolitico "senza se e senza ma". Metà degli elettori non sa "per che" e "per chi" votare.
I partiti e lo stesso Parlamento sono delegittimati. Anzi peggio. Deprecati. Lo slogan che va per la maggiore è l'elegia del Nuovo contro il Vecchio. Che non ha lo stesso effetto di vent'anni fa. Soprattutto perché l'abbiamo già sentito risuonare. Vent'anni fa. Così non sorprende il successo di Monti. L'Impolitico. E non sorprende, a maggior ragione, il sostegno alle politiche del governo, che mirano a ridurre lo spazio e il peso dei governi locali.

Tuttavia, dai duellanti che si affrontano alle primarie vorremmo sentire parole chiare sul futuro della politica, del rapporto fra partiti, territorio e società. Walter Veltroni, a questo proposito, ha offerto un contributo importante. Al dibattito politico e delle primarie.
Si è tirato fuori. Non dal partito e dalla politica, ma dal parlamento. Ieri sera, nella trasmissione di Fabio Fazio, ha, infatti, annunciato che non si candiderà alle prossime politiche. Non per adesione alla "retorica della Rottamazione". Ma per continuare, in altro modo e su altri piani, "l'impegno civile, la battaglia di valori sulla legalità". In altri termini: la politica. Mi pare un buon esempio. (Che altri, ben prima di lui, avrebbero dovuto dare). Ma soprattutto, una buona indicazione per il dibattito del Pd. Per Renzi e Bersani. Al di là dell'elegia del Nuovo, oltre alla questione del dopo-Monti (: Monti). Occorre decidere sui luoghi e i modi per "innovare" la politica. E il Pd. Occorre sciogliere l'equivoco. Circa l'origine della delusione e della corruzione che ha coinvolto la politica e i governi locali. Se ciò avviene non è solo - né soprattutto - a causa dei politici, della politica e dei partiti.

È, semmai, vero il contrario. Che i partiti, i politici e la politica sono troppo deboli. La loro presenza nella società e sul territorio è troppo fragile. Quasi inesistente. Perché la società e il territorio hanno perduto il contatto con gli eletti. I quali raramente, quasi mai, seguono l'esempio di Veltroni. Anzi, perlopiù smettono di frequentare il territorio e la società. E se le organizzazioni illegali condizionano il voto, a livello locale, è perché la società civile e i partiti non sono capaci di contrastarle. Perché la 'ndrina e le altre mafie, nel Sud e ora anche al Nord, riescono a raccogliere più voti e preferenze delle organizzazioni politiche, sociali e professionali. Perché non ci sono più partiti di massa, dotati di identità e valori, radicati nel territorio e nella società. Perché lo stesso associazionismo e il volontariato: si sono anch'essi istituzionalizzati. Divenuti, in numerosi casi, servizi pubblici, supplenti e dipendenti rispetto agli enti locali.
Come suggeriscono i bilanci delle associazioni, costituiti, in misura rilevante, da contributi pubblici e spese di personale (i "volontari di professione"). Quanto alle fondazioni "culturali" e "politiche", sono spesso canali per drenare soldi a fini non sempre "politici" e "culturali".

A mio avviso, oggi il problema non è l'eccesso di politica e di governo locale. Ma l'esatto opposto. La debolezza della politica, espressa da partiti personalizzati e mediatizzati. Sradicati dalla società e dal territorio. Dove l'associazionismo e il volontariato appaiono sempre più istituzionalizzati.
Per questo, io vorrei più politica e più società. Più politica e partiti nella società. Più società nella politica e nei partiti.
Senza professionisti della politica - del sindacato, dell'associazionismo professionale e volontario - "a vita". Vorrei più volontari veri - in politica e nei partiti. Ma anche nella società e nelle associazioni. Più volontariato nello Stato. E meno Stato nel volontariato.
Senza rinunciare al ruolo assunto dalle autonomie territoriali.

In un Paese come il nostro, arricchito e unificato dalle differenze locali, dissolvere le autonomie significherebbe semplicemente dissolvere lo Stato. I suoi elementi e i suoi fondamenti. Senza il territorio, i partiti e il Pd per primo: diventano "liquidi". Bersani e Renzi vengono entrambi dal "cuore rosso" dell'Italia (come lo ha definito Francesco Ramella), dove il rapporto fra politica e società era particolarmente forte. Mi aspetto che ci dicano "qualcosa di politico". La loro idea. Per andare oltre il Berlusconismo. Che è, anzitutto, politica senza territorio. E senza società.

(15 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/15/news/mappe_diamanti_partito-44544388/?ref=HREC1-4
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« Risposta #304 inserito:: Ottobre 19, 2012, 06:10:54 pm »

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Perché votare: un dilemma italiano

di ILVO DIAMANTI

Votare per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma. Amplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti 1, che ha confermato l'intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l'ipotesi di "dare una mano, se fosse richiesto". Per proseguire nell'impegno avviato da quasi un anno.

Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato 2, infine, la sua "discesa in campo". A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto 3 un "cartello elettorale". Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire  -  come premier al di sopra delle parti e dei partiti. Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale. Investito dalla volontà di un'ampia maggioranza del Parlamento.

L'idea, d'altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la "disponibilità" annunciata da Monti si traduca in decisione.
Ma il fatto stesso che l'ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D'altronde, l'unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell'elettorato (dati Ipsos).

Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.

Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto "non serve" a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che "serve" votare? E com'è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?

Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale  -  e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra "anomalia".

In fondo, per quasi cinquant'anni il sistema politico italiano è apparso "bloccato". Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un "bipartitismo imperfetto", per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l'opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte.

Questa "anomalia" è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant'anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire.

Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l'80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali. Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.

Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l'anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi.

Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I Partiti, nell'insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).

Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l'anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell'anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la "fede" ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.

Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa  -  partecipazione e governo  -  possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento "antipartitico" e sostiene, in alternativa all'attuale sistema, la democrazia diretta  -  attraverso rete.

Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell'area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i "canali" della rappresentanza democratica.

Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione  -  elettorale   -  e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica "in un cerchio chiuso in se stesso", come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso,  "la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio".  E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.

(01 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/01/news/perch_votare_un_dilemma_italiano-43611853/?ref=HREC1-2
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« Risposta #305 inserito:: Ottobre 22, 2012, 05:55:58 pm »

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Addio Seconda Repubblica ma la Terza ancora non c'è

di ILVO DIAMANTI

È FINITA. La Seconda Repubblica. Già superata da tempo, secondo alcuni. Eppure mai è stato evidente come in questi giorni. Basta scorrere i sondaggi delle ultime settimane. Da cui emerge la rapida devoluzione dei partiti e degli attori politici che l'hanno "fondata". E su cui si è fondata. La Lega e il Pdl. La Lega: galleggia intorno al 5%. Un dato, in effetti, non lontano da quello ottenuto dal 1999 al 2006. Ma in grande calo dopo il 2008. Il Pdl è ormai difficile da stimare, tanto appare fluido il suo peso elettorale.

Estensione di Forza Italia, il "partito personale" di Silvio Berlusconi è in costante discesa. Oggi, tra il 17% e il 15%. Secondo alcuni istituti: anche meno. La stessa Idv, il partito personale di Antonio di Pietro, simbolo di Mani Pulite, l'Anti-Berlusconi per definizione: è in difficoltà. Perde consensi. Come gli altri partiti della destra e del polo di centro. Tutti, ormai, al di sotto del 7%.
Gli unici soggetti politici che oggi mostrino una spinta propulsiva sono il Pd e il M5S. Per ragioni diverse e opposte. Perché rappresentano, rispettivamente, il prima e il dopo - la Seconda Repubblica.
Il Pd. Nato dalla fusione - difficile e ancora non risolta - dei principali soggetti politici della Prima Repubblica, Pci e Dc. Dopo essere sceso poco sopra il 20%, a inizio anno, è risalito progressivamente e, nell'ultimo mese, sensibilmente. Oggi è vicino al 29%. Il M5S. Difficile da definire, dal punto di vista del "modello di partito".
Perché è un non-partito che ruota intorno a Beppe Grillo. Inventore e detentore del marchio. Una "rete" di esperienze e liste locali, che corre sulla "rete". È un soggetto politico contro i partiti. Per la "forma" che ha assunto. E per i contenuti del suo messaggio. Il M5S, oggi, è stimato oltre il 18%. Secondo alcuni, il 20%.
L'altro "fenomeno" politico di questa fase è l'area grigia. Composta di elettori che non dicono e non sanno per chi votare. Provengono, soprattutto, ma non solo, da centrodestra. Dal Pdl e dalla Lega. Misura intorno al 45%.
Per questo è difficile negare che la Seconda Repubblica sia finita. Declinata, insieme ai soci fondatori. Insieme ai temi che l'hanno generata. La frattura centro-periferia e la questione settentrionale. Alla base della crisi dei partiti "nazionali" della Prima Repubblica. Soprattutto di quelli di governo. La Lega. Partito anti-romano, insediato nella provincia produttiva del Nord. Dal Veneto al Piemonte, passando attraverso il nord della Lombardia. Un soggetto politico pedemontano, più che padano. Silvio Berlusconi. Esterno ed estraneo alla grande e piccola impresa industriale. Alternativo, rispetto alla Fiat e agli Agnelli. Imprenditore e Uomo "nuovo". Portabandiera della "produzione dei beni immateriali" (come la definisce Arnaldo Bagnasco). Comunicazione, finanza, credito, assicurazioni. E mercato immobiliare - a sua volta connesso alla finanza e al credito. Un capitalismo che ha la sua capitale a Milano e nella Lombardia. Berlusconi e Bossi, Berlusconi e la Lega: hanno portato il Nord a Roma. Hanno conquistato la Capitale. Non solo il Parlamento. Ma anche dal punto di vista amministrativo. Visto che nel 2008 il centrodestra ha eletto il sindaco di Roma - Gianni Alemanno - e nel 2010 il governatore del Lazio - Renata Polverini. Esponenti di An (la Polverini, per la precisione, segretaria nazionale dell'Ugl). La Casa dei post-fascisti, sdoganati e legittimati da Berlusconi. Integrati nel Pdl. Il Partito che, oltre al Nord, ha conquistato Roma e il Sud. Ebbene, quella stagione è finita. La Seconda Repubblica è finita. il Berlusconismo è finito. Al di là dei sondaggi, lo dimostra la geopolitica del Paese e, in particolare, del centrodestra. Oggi, infatti, è impossibile evocare l'immagine di "Milano a Roma" (che ho utilizzato per commentare le elezioni del 1994 in un libro curato insieme a Renato Mannheimer, pubblicato da Donzelli). Banalmente: in quei luoghi il centrodestra si è perduto. Talora, dissolto. A Milano: governano il centrosinistra e il sindaco Pisapia. In Lombardia: la maggioranza guidata da Formigoni è implosa, travolta dagli scandali. Come la giunta del Lazio. Mentre l'amministrazione romana appare, anch'essa, in seria difficoltà.
Quanto alla Lega, che esprime i governatori di Veneto e Piemonte, oltre a numerosi sindaci e presidenti (pardon: commissari) di Provincia del Nord (e non solo): arranca. Sfiancata, anch'essa, dagli scandali che hanno minato la credibilità del suo leader carismatico - Umberto Bossi. Assai più della malattia.
La crisi della Seconda Repubblica, dunque, riflette la crisi politica e geopolitica dei soggetti che l'hanno inventata e imposta. E, insieme, riproduce l'indebolirsi delle fratture che l'hanno generata. Per prima, quella territoriale. Che oppone la periferia al centro, il Nord produttivo alla Capitale dell'Italia assistita e sprecona. Milano e il Nordest a Roma. Oggi quella Repubblica è cambiata profondamente. La questione settentrionale è scivolata in penombra. Insieme al federalismo e all'allargamento dei poteri locali. Mentre è ri-emersa, prepotente, la frattura vecchio/nuovo. Che incrocia quella fra politica (partiti)/società (civile). All'origine della Seconda Repubblica. Oggi quella frattura ritorna. Ma investe coloro che l'avevano rappresentata - e intercettata - vent'anni fa. Trainata, come allora, dagli scandali sulla corruzione politica. Quasi una nemesi. Ne beneficia, per primo, il M5S. Un soggetto politico personalizzato e reticolare. Estraneo alla "frattura territoriale". Mentre il Pd risale, anzitutto, perché le sue tradizioni geopolitiche affondano nelle regioni rosse dell'Emilia Romagna e dell'Italia centrale. Oltre i confini della Seconda Repubblica. Tuttavia, il Pd beneficia anche del fatto che la questione vecchio/nuovo lo coinvolge direttamente. In quanto caratterizza e attraversa le primarie. Imposta da Renzi, rilanciata da Veltroni, raccolta da D'Alema e dagli altri leader del partito. Per primo: Bersani. (È probabile, semmai, che "dopo le primarie" questa congiuntura favorevole del Pd cessi.)
Così assistiamo alla conclusione della Seconda Repubblica. Ma la Terza non è ancora cominciata. Il Nuovo ordine politico e geo-politico: è tutto da tracciare. Per ora (echeggiando Berselli), siamo ancora un "Paese provvisorio". Privo di confini e di riferimenti - sociali, ideologici e religiosi - che diano orientamento e stabilità. Penso, per questo, che la consultazione del 2013 segnerà un'elezione di svolta. Come nel 1994. Imprimerà, cioè, un mutamento profondo. Del sistema partitico e delle logiche che orientano le scelte di voto. Sarebbe opportuno, dunque, che fossero anche elezioni "costituenti". Per evitare che la Terza Repubblica finisca come la Seconda.


(22 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/22/news/addio_seconda_repubblica_ma_la_terza_ancora_non_c_-45039294/?ref=HRER2-1
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« Risposta #306 inserito:: Ottobre 29, 2012, 10:42:55 pm »

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Un uomo rimasto solo

di ILVO DIAMANTI


È difficile uscire di scena. Quando per quasi vent'anni si è stati al centro - non dello spazio politico - ma di ogni dibattito, valutazione, polemica. È difficile.

Quando si è, ancora, alla guida del più grande gruppo televisivo privato. Quando si è abituati a misurare il proprio potere - non solo economico e finanziario - in base al controllo personale dei media. Visto che il sistema politico e il modello di partito imposti da Berlusconi ruotano intorno alla sua persona e alla comunicazione. È difficile farsi da parte. Perché si rischia la devoluzione rapida e devastante della propria posizione politica ed economica "personale". Ma, soprattutto, si rischia l'isolamento. La solitudine. Sta qui l'origine degli interventi di Silvio Berlusconi, negli ultimi giorni. "Estremisti", nei toni. L'Uomo-Solo-al-Comando, all'improvviso, si sente solamente Solo.
E ha paura del silenzio intorno sé. Reagisce con estrema violenza - verbale. Così grida. E usa, non a caso, linguaggio e stile di comunicazione sperimentati, con successo, da Beppe Grillo. Il quale, a sua volta, ha intercettato una parte degli elettori di Berlusconi, orfani di rappresentanza e di rappresentazione.

Il Cavaliere: un uomo solo. Il giorno dopo aver annunciato la rinuncia a candidarsi come premier 1, a capo del centrodestra, la condanna 2 del Tribunale di Milano, l'ha fatto sentire vulnerabile. Gli ha fatto percepire la debolezza di chi non ha più il potere. Perché è e sarà fuori dalla scena politica. Comunque, non più al centro. E dunque esposto ai nemici di sempre: i magistrati. Il suo stesso "conflitto di interessi" da fattore di forza minaccia di ritorcersi contro di lui. Visto che la sua debolezza politica rischia di indebolire la posizione di Mediaset. Sul mercato dell'informazione e, in generale, sui "mercati finanziari".

Ma, soprattutto, Berlusconi non si è sentito sostenuto, ma, anzi, quasi abbandonato, dai leader del Pdl. O di quel che ne resta. Poche voci a suo favore, da centrodestra.
Nessuna dal Centro. Neppure un sussurro dagli uomini del governo. Che egli aveva "accettato" e poi sostenuto.
Al punto di candidare Monti a leader della "sua" parte. Berlusconi. Si è sentito solo e vulnerabile. Come quel 23 ottobre 2011, a Bruxelles, quando la Merkel e Sarkozy, interpellati sulla credibilità dell'allora premier italiano, si guardarono e sorrisero, suscitando l'ilarità di tutta la sala stampa. Berlusconi. La sua esperienza di governo si chiuse in quel momento. Sepolta dal ridicolo. Dall'in-credulità europea. Intollerabile per chi era abituato a recitare la parte dell'Uomo Solo al comando.

Così, quando, nei giorni scorsi, ha percepito il proprio isolamento, nella Casa e nel Popolo che egli stesso aveva creato: in quello stesso momento ha reagito. Ha inveito. Con rabbia e risentimento. Non contro i "nemici" di sempre - magistrati e comunisti. Ma contro gli "amici" che lo lasciavano solo. E stavano negoziando, alle sue spalle, con i democristiani di Casini e con il salotto buono degli imprenditori, rappresentato da Montezemolo. Silvio Berlusconi ha minacciato di far saltare il tavolo 4. Non solo del governo tecnico, ma, anzitutto, del centrodestra. Del Pdl. Degli amici fidati che stavano preparando la sua successione. Senza di lui. Non solo. Ma "contro" di lui. Il Padrone - di ieri. Oggi: un Signore imbarazzante. Un'eredità sgradevole, perché è difficile assumere la guida di una forza politica all'ombra, ingombrante, del Fondatore - e unico leader, fino a ieri - del Partito Personale.

Per questo, più che un "ritorno in campo", l'iniziativa di Berlusconi, in effetti, appare una minaccia di invasione. Espressa in modo perentorio. Un modo per dire, anzi, gridare, che lui, il Cavaliere, non se n'è mai andato. Che il muro di Arcore esiste ancora. Berlusconi.
Ha rivendicato la propria capacità di esercitare il potere media-politico. Da solo contro tutti. Perché tutti l'hanno lasciato solo.
A costo di ricostruire un nuovo "partito personale". Una lista di "uomini nuovi", da opporre ai "vecchi politici" presenti negli altri partiti. Compreso quello che egli, almeno fino a ieri, guidava.

Tuttavia, il tono e i contenuti dell'intervento di Berlusconi - la sua stessa presenza fisica - confermano l'impressione di una storia conclusa. Difficile raccogliere la denuncia della politica e delle politiche dell'ultima stagione espressa da chi ne è stato non "un", ma "il" protagonista. Difficile immaginare che vi sia spazio per un altro soggetto anti-montista e anti-europeo, in Italia. Oltre a quelli che già agiscono sul mercato politico. Dalla Sinistra alla Lega al M5S. Difficile anche concepire che la maschera esibita dal Cavaliere nella conferenza stampa - artefatta, affaticata: sempre più vecchia - possa "rappresentare" un "nuovo" soggetto politico, composto di persone giovani - e nuove. Nella parabola di Berlusconi, "i due corpi del leader" (per echeggiare la metafora di Mauro Calise) sono indissolubili. Il declino "fisico" si riflette in quello del "corpo politico".

Le invettive di Berlusconi risuonano, così, come "grida nel vuoto". Che, per questo, echeggiano più forti. Perché, davvero, intorno a lui, c'è il "vuoto". Il centrodestra e il Pdl, che egli ha creato a propria immagine e somiglianza, oggi appaiono in seria difficoltà nel tentativo di ri-crearsi. Di costruire una nuova immagine e una nuova identità. Non sarà facile, per chi è vissuto e cresciuto alla sua ombra.
Ma l'esternazione di Berlusconi rende evidente anche il "vuoto" prodotto dal crollo del Muro di Arcore, costruito sulle macerie del Muro di Berlino. Oggi quel muro non c'è più e Berlusconi resta sulla scena politica non per guidarla. Né per organizzarla. Al più, per condizionarne le scelte e gli indirizzi. Ma, soprattutto, per difendersi. E per farsi intendere deve gridare forte. In prima persona. Visto che sono in tanti a gridare, in questo cambio d'epoca. La Seconda Repubblica è finita. Ora occorre costruirne una nuova. Senza muri e senza nemici.
E, tanto per iniziare, senza inseguire Berlusconi.

(29 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #307 inserito:: Ottobre 30, 2012, 05:43:12 pm »

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La maggioranza dei non elettori

di ILVO DIAMANTI


Fa una certa impressione vedere la partecipazione elettorale scendere sotto il 50%. Anche in una Regione, come la Sicilia, dove l'affluenza non è mai stata molto elevata, neppure in passato: 5-10 punti percentuali in meno rispetto alla media nazionale (e a volte anche oltre), a seconda del tipo di consultazione.

Però neppure in Sicilia, in passato, l'astensione era stata così alta. Da ciò la tentazione di decretare, in modo sommario, la crisi della democrazia e il distacco dei cittadini dalla politica. Valutazioni, peraltro, non del tutto ingiustificate. A condizione di chiarire il significato di questo comportamento. Perché l'astensione può avere ragioni diverse e perfino opposte. Alle elezioni presidenziali americane, ad esempio, l'affluenza alle urne, da oltre quarant'anni, non raggiunge il 60%. Ma è, anzi, più vicina al 50%. Senza che nessuno si sogni di parlare di democrazia in crisi e di crisi della democrazia. Al contrario. Un basso livello di partecipazione (non solo elettorale), secondo alcuni studiosi influenti (per tutti: Samuel Huntington), può venire letto come un atto di "fiducia" verso il sistema. Disponibilità ad "affidarsi" a chi è scelto dai cittadini. Mentre una partecipazione "troppo" elevata e accesa potrebbe complicare la "governabilità".

Non è lo stesso in Italia, ovviamente. Tanto meno in Sicilia e in molte aree del Mezzogiorno (ma non solo). Dove il voto viene, di frequente, espresso in base a logiche clientelari e particolaristiche. E il non-voto riflette indifferenza politica. Tuttavia, mai come in questa occasione, a mio avviso, l'astensione ha assunto un significato "politico". Esplicito e preciso. Perché raccoglie, certamente, una componente "patologica" di disaffezione. Ma questa volta si associa alla  -  e sottolinea la  -  delegittimazione dei principali partiti, a livello regionale e nazionale. Per capirci: Pd, Pdl e Udc, insieme, superano di poco il 36% dei voti. Validi. Cioè: "rappresentano" meno di un elettore su cinque. (Pur tenendo conto del voto e di liste "personali" ai candidati presidenti).

Quel 52% di elettori che non si sono recati alle urne assume, per questo, un significato politico. Non va considerato, cioè, un non-voto. Ma un "voto". È "il voto di chi non vota" (per citare il titolo di un volume del 1983, pubblicato dalle Ed. Comunità, a cura di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino). Segnala la frattura nei confronti del sistema partitico della Seconda Repubblica. Questo voto (in) espresso, in particolare, sottolinea il big bang del centrodestra e, in particolare, del Pdl. Di cui la Sicilia ha, da sempre, costituito una roccaforte. Fin dal 1994, quando Berlusconi scese in campo, ottenendo larghissimi consensi nella regione. Dove, non a caso, nel 2001, la Casa delle libertà fece cappotto, conquistando tutti e 61 i collegi. Oggi quel 13% (dei voti validi) raccolto dal Pdl  -  seguita alla débâcle subita alle recenti amministrative siciliane  -  appare, a maggior ragione, una condanna per Alfano. Leader di un partito abbandonato dal fondatore  -  Berlusconi  -  e dagli elettori. Ma il voto di quel 52% di elettori che non hanno votato rimbalza anche sui vincitori. Il centrosinistra, il Pd e il loro candidato: Rosario Crocetta. Eletto governatore con poco più del 30% dei consensi espressi. Cioè: meno del 15% degli elettori siciliani. Una base sicuramente ridotta. Rischia di produrre un grado di legittimazione altrettanto ridotto.

L'ampiezza dell'astensione, peraltro, si associa e si aggiunge al risultato ottenuto dal M5s ispirato da Beppe Grillo. Primo partito in Sicilia, con circa il 15% dei voti di chi ha votato. Il cui candidato, Giancarlo Cancelleri, ha raggiunto il 18% (dei voti validi). Dunque meno del 9% fra gli elettori. A conferma della frammentazione del sistema partitico, vecchio e nuovo. Un risultato comunque rilevante, tanto più perché dimostra la capacità del M5s di superare i confini del Centro-Nord, dove aveva ottenuto i maggiori successi fino a qualche tempo fa. (Lo segnala anche un saggio di Bordignon e Ceccarini nell'ultimo numero del Mulino). Peraltro, soprattutto in questa occasione, sarebbe improprio considerarlo fenomeno meramente "anti-politico". Il peso dell'astensione, infatti, carica il voto al M5s di significato "politico". Perché si tratta, comunque, di un'alternativa al non-voto. Un voto "per", oltre che "contro". Attribuito a una lista e a candidati che saranno chiamati a rappresentare le domande degli elettori e della società locale. Fornendo risposte e rispondendone, in seguito, ai cittadini.

Per questo il livello raggiunto dall'astensione in queste elezioni regionali non va considerato, necessariamente, una fuga dalla democrazia. Ma, semmai, un messaggio. Un indice che misura  -  e al tempo stesso denuncia  -  la riduzione del consenso di cui dispongono gli attori politici della Seconda Repubblica. Soprattutto, ma non solo, quelli che l'hanno "generata". Per iniziativa e su ispirazione di Silvio Berlusconi. Il voto di chi non vota, per questo, va preso sul serio. Potrebbe superare i confini della Sicilia. In fondo, attualmente oltre 4 elettori su 10, a livello nazionale, non sanno per chi votare. Gli attori politici  -  i partiti e i loro leader  -  debbono offrire loro delle buone ragioni. Anzitutto: per votare.

(30 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #308 inserito:: Novembre 06, 2012, 04:56:05 pm »

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La politica e la nemesi tv

di ILVO DIAMANTI

PAREVA concluso il tempo della media-politica. E soprattutto quello della tele-politica. Oscurata o almeno eclissata dalla crisi del berlusconismo e dalla parallela ascesa del montismo.
Ma anche dalla ripresa del clima anti-politico. Lo suggeriva il calo  -  sensibile  -  degli ascolti delle trasmissioni e dei talk politici, registrato nei primi mesi dell'anno.
È come se il cittadino si fosse stancato di essere spettatore. "Homo videns", come lo ha definito Giovanni Sartori. Un po' per noia e un po' per disgusto. Un po' perché la nuova classe di governo - Monti in testa  -  appariva poco spettacolare. E, piuttosto, grigia. Invece, da qualche tempo, il vento sembra di nuovo cambiato. Gli ascolti dei programmi tele-politici sono in ripresa. Ma, soprattutto, la tivù sembra tornata ai fasti e ai nefasti di vent'anni fa.

Nella stagione di Tangentopoli, mentre Berlusconi si apprestava a scendere in campo. Quando la televisione divenne "teatro della rivoluzione". Dove Gad Lerner metteva il scena il Profondo Nord, direttamente "nella tana della Lega". Dove Gianfranco Funari dava volto e voce  -  con assoluta naturalezza  -  alla gente con tre ggg, indignata contro i politici.
Vent'anni dopo, la tivù torna a contare. Ma a pagarne il prezzo sono, per primi, i protagonisti di vent'anni fa. E degli ultimi vent'anni. La Lega: sfinita dalla saga familiare di Bossi. Dagli scandali che non le vengono perdonati  -  e fanno notizia  -  proprio perché in passato Bossi e la Lega hanno interpretato il ruolo dei Grandi Censori.

Ma la tv, in questi giorni, ha sanzionato il declino dei protagonisti della Seconda Repubblica. Per primo, Silvio Berlusconi. Che ha dettato le regole e i format della politica e dei suoi attori. Per quasi vent'anni. Il Cavaliere. Ha cominciato la sua avventura il 26 gennaio 1994, con un video nel quale annunciava la sua "discesa in campo". Ma dopo la conferenza stampa del 27 novembre è difficile non considerare il suo tempo scaduto. Anche se annunciava il contrario. La sua ri-discesa in campo. Pochi giorni dopo avere annunciato l'intenzione di "tirarsi indietro". Più delle parole, è l'immagine a tradire Berlusconi. Sugli schermi tutti hanno visto un vecchio. Incapace di invecchiare. Di accettare i segni dell'età. Di affrontare il declino  -  fisico  -  con dignità.

Una nemesi che ha colpito anche il suo "nemico" di sempre. Antonio Di Pietro. Protagonista delle inchieste e dei processi di Mani Pulite. Una sorta di rito purificatore, celebrato di fronte al popolo riunito. Davanti alla televisione. Impossibile immaginare Tangentopoli senza le immagini in diretta dei processi ai politici della Prima Repubblica.
Antonio Di Pietro e i magistrati divennero, allora, gli eroi popolari del cambio d'epoca e di sistema. Dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico.
Di cui Silvio Berlusconi diviene presto il regista e il protagonista assoluto.

La carriera di Antonio Di Pietro, però, oggi appare in crisi. Compromessa dall'inchiesta di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli, che una settimana fa ha scavato nei conti del suo partito, descrivendolo come una sorta di azienda familiare. Di Pietro. Colpito dalla satira di Maurizio Crozza, nel programma trasmesso su La 7. Con effetti ancor più deleteri.
Perché oggi, per la carriera di un politico, Crozza conta più di Vespa, Floris e Santoro. Non a caso Di Pietro ha reagito soprattutto dopo il ritratto velenoso di Crozza.
Ha parlato di killeraggio. Fornendo una versione dei fatti in contrasto con quella di Report. Con scarsi risultati, visto che, nelle stime elettorali, l'Idv è scesa al di sotto del 5%. Mentre, per livello di impopolarità, Di Pietro affianca Silvio Berlusconi. I nemici di sempre sono finiti in fondo alla scala. Dell'opinione pubblica.

L'importanza della tivù, nella politica attuale, è confermata dalle strategie di comunicazione di Beppe Grillo. Anche se di segno contrario. Egli è, infatti, implacabile nel sanzionare ogni apparizione televisiva degli esponenti del M5S. Da ultima, la partecipazione a Ballarò di Federica Salsi, consigliera comunale di Bologna. Per Grillo, la presenza nei talk show televisivi è "il punto G". Che genera piacere a chi vi appare. Ma, al tempo stesso, ne logora l'immagine. E, insieme, mina la credibilità delle forze politiche a cui fanno riferimento gli ospiti televisivi.

Le valutazioni  -  e le imposizioni  -  di Grillo, sono significative. Perché Grillo è un esperto di media. Ha frequentato la tv per quasi vent'anni. Ne è stato un personaggio di successo. Poi ha calcato le arene e i teatri-tenda. Infine, ha sperimentato il potere dei new media. Ne ha fatto un modello alternativo di partecipazione politica. Alla base del suo MoVimento.
La rete, il blog, i Meet up: hanno permesso al M5S di sottrarsi ai condizionamenti  -  politici ed economici  -  dei media tradizionali. E permettono a Grillo di controllare, a sua volta, gli eletti del MoVimento. Di cui "possiede" il marchio. Nel M5S, d'altronde, la consegna del silenzio è accuratamente rispettata. Nessun militante si reca nei Talk dei media nazionali. Salvo eccezioni, prontamente sanzionate dal leader. Che è l'unico ad apparire  -  nei video ripresi dal suo blog o registrati nelle sue tournées "politiche".
D'altronde, ci pensano i talk e i tg (per primo, quello di Mentana su La 7) a inseguire Grillo e il M5S, garantendogli grande visibilità (come mostrano i dati dell'Osservatorio di Pavia).
Tuttavia, l'indicazione di Grillo circa gli effetti politici della televisione è significativa e fondata. Apparire in tv, nei talk show, in tempi di delegittimazione dei partiti e dei loro leader, significa venire associati ad essi. Assimilati nello stesso clima antipolitico del tempo. Come, vent'anni fa, la Lega. Esclusa dai media. Eppure aveva successo. Proprio per questo. Perché i media e la tv erano identificati con i partiti tradizionali.

Il che suggerisce l'analogia di questa fase con il cambio d'epoca di vent'anni fa. Ora, come allora, andare in tv delegittima, invece di legittimare. Rende impopolari, piuttosto che popolari. Con la differenza, decisiva, che oggi la televisione conta molto più di allora. Vent'anni di democrazia del pubblico guidata da Berlusconi non sono passati invano.
Così, oggi la televisione fa molto più male alla politica e ai politici. Anche perché, in tempi di antipolitica, li ha inseriti in format di infotainment e politainment.
Naturaliter anti-politici.

E perché i politici e i partiti, negli ultimi vent'anni, hanno abbandonato la società e il territorio per trasferirsi lì. Nei salotti e nei talk show. A recitar la parte dei cattivi.
In alternativa e, più spesso, insieme ai casi turpi di giornata. Tra un delitto irrisolto, un'aggressione e uno scandalo sessuale.

(05 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/11/05/news/mappe_tv_diamanti-45923704/?ref=HRER2-1
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« Risposta #309 inserito:: Novembre 12, 2012, 04:05:29 pm »

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I princìpi del Montismo

Un anno di vita del governo dei tecnici, che si differenzia dal Berlusconismo ma ne è anche la prosecuzione, con altri mezzi ed esiti.
Soprattutto nel campo economico. Una ricetta che mantiene alta la popolarità tra i cittadini

di ILVO DIAMANTI


È PASSATO un anno. Il premier Monti e il suo governo non sono più una novità e neppure un dilemma. Hanno assunto un profilo preciso: dal punto di vista del programma, dello stile di comunicazione, del disegno politico e istituzionale. Lo possiamo riassumere in una parola, ormai usata con una certa familiarità. Il Montismo. Per analogia e differenza - anzi: distacco - rispetto al Berlusconismo. Travolto dalla crisi, ma anche dalla sfiducia. Delle istituzioni internazionali e dei cittadini.

Il Montismo ne costituisce il controcanto. Ne sancisce la fine. Anche se, per alcuni versi, ne è la prosecuzione con altri mezzi e con altri esiti. Sul piano del programma economico, in particolare. Il governo Monti ha, infatti, realizzato i principali punti delle politiche (solo) annunciate dal governo Berlusconi. Su indicazione (imposizione?) della Ue e della Bce.

Monti le ha tradotte in leggi, riforme e decreti. Con i limiti posti dalla maggioranza, ampia e variegata, che lo sostiene. E con una differenza sostanziale, da chi lo ha preceduto. Berlusconi quel programma l'aveva subìto. E ne aveva promesso l'attuazione, a malincuore  -  fra i risolini degli altri leader europei. Mentre Monti ne è un garante. Visto che a scrivere a dettare quel programma sono ambienti finanziari e istituzionali di cui egli fa parte.

Ma il Montismo è diverso e alternativo rispetto al Berlusconismo anche per altri, importanti motivi. Anzitutto, interpreta un diverso modello di governo. Non la Democrazia del Pubblico,
ma l'Aristocrazia democratica. Monti. Non è il leader eletto dal popolo che si presenta al popolo come uno del popolo. "Uno come voi". Che potete imitare, perché anche voi potete diventare come me. Visto che anch'io imito  -  e interpreto  -  i vizi e le virtù degli italiani. Anzi, i vizi più delle virtù. E voi mi votate proprio per questo. Perché sono l'italiano medio ( - basso). Dal punto di vista dell'etica pubblica e privata.

Monti, invece, è il Tecnico. Distante dalla "gente comune". Non finge nemmeno di assomigliare agli elettori. Non gli dà del tu. D'altronde non è stato eletto, ma scelto e incaricato dal Presidente. E ha ottenuto la fiducia del Parlamento proprio perché non è un politico (del nostro tempo). Perché è diverso e lontano rispetto ai cittadini. Migliore. Un Aristocratico. Competente e accreditato negli ambienti che contano. In Italia. Ma soprattutto in Europa e nel Mondo. Nessuno si azzarderebbe a ridere alle sue spalle. Il Montismo, per questo, segna il ritorno del governo di "quelli che si distinguono dal popolo". E dai politici. Gli esperti.

Il Montismo, per questo, riflette il clima del tempo. E, per quanto aristocratico, accarezza l'antipolitica. Non perché i tecnici al governo  -  per primo Monti  -  siano estranei alla politica e ai partiti. Molti di essi  -  Monti stesso  -  hanno ricoperto per anni ruoli di responsabilità negli organismi economici e istituzionali  -  italiani ed europei. E hanno confidenza con i diversi livelli di governo, ma anche con gli attori politici. Monti e i suoi ministri: fanno politica, ci mancherebbe. I temi affrontati in questi mesi sono al centro dei principali conflitti politici, economici e sociali della nostra epoca. Tuttavia, Monti è stato designato in quanto "Tecnico". Cioè, "Non-Politico". Perché non eletto. Perché non deve rispondere ai cittadini delle sue scelte. (Napolitano l'ha nominato senatore a vita).

Peraltro, Monti stesso non manca mai di ribadire quanto sia alto il suo credito "politico" rispetto a quello dei partiti e dei politici.

Il Montismo è stile di comunicazione. Coerente con la forma di governo che esprime. Cioè: l'Aristocrazia Democratica. Anzi: l'Aristocrazia pop. Mario Monti è consapevole dell'importanza del consenso, per il governo. E dell'importanza dei media, per il consenso. Per questo, non rinuncia a frequentare i media. Lui e i suoi ministri: affollano le reti e i talk politici con maggiore audience. Ma, appunto, con distacco. Aristocratico. Soprattutto Monti. Determinato a marcare la differenza rispetto a quelli che lo hanno preceduto  -  e che ancora strepitano, intorno a lui.

Il Montismo: decreta e declama la fine del Berlusconismo. Ma echeggia, in qualche misura, la nostalgia della Prima Repubblica. Acuita dai ne-fasti della Seconda Repubblica. Perché, dopo quasi vent'anni di bipolarismo antagonista e intollerante, ripropone un governo di larghe intese. Come, in fondo, erano i governi guidati dalla Dc. Il Centro che teneva dentro tutto e tutti. Destra e sinistra. E che assorbiva e aggregava tutti. Socialisti e laici. La Dc. Riusciva a convivere  -  e a condividere le scelte sostanziali  -  anche con il Pci.

Il Montismo è governo condiviso, non diviso. Fondato su larghissime intese. Perché, la marginalizzazione di Berlusconi  -  insieme al suo doppio genetico: Di Pietro  -  ha reso possibile la coabitazione fra i nemici di ieri. In nome del vincolo esterno: dei mercati, delle autorità monetarie e delle istituzioni internazionali. Ma anche sulla spinta della sfiducia dei cittadini. Stanchi di piazzate e di piazzisti al governo.

Per questo il consenso di Monti continua ad essere alto, malgrado che le sue politiche piacciano sempre di meno. Dopo un anno di governo, resiste intorno al 50%. Nonostante la crisi morda sempre più a fondo.

Per questo si fanno largo progetti di legge elettorale con l'obiettivo di impedire a qualcuno di vincere davvero. Per costringere le principali forze politiche al compromesso. Come nella Prima Repubblica. Per riproporre Monti al governo. L'aristocrazia democratica. Il Tecnico al governo con il voto dei politici.

Per questo, e non a caso, la principale opposizione, oggi, è quella, per ora, extra-parlamentare del M5S. Ispirato, anzi, inventato da Beppe Grillo. Che gli dà volto e voce. Oltre al marchio, di cui è proprietario. Grillo è profondamente diverso, quasi opposto, a Monti. Per stile di comunicazione, oltre che per proposta politica e istituzionale. Alternativo, eppure speculare.

Perché Grillo, come Monti, emerge dallo sfascio del Berlusconismo. Che ha prodotto la dissociazione della democrazia rappresentativa. Di cui Monti e Grillo interpretano le due facce. Monti: l'aristocrazia democratica. L'élite non elettiva. Il ceto degli Eletti non eletti. Grillo: attore e predicatore della democrazia diretta. Attraverso la Rete. Il Montismo e l'Anti-montismo. Il GrilloMontismo. Riassumono l'eredità difficile del Berlusconismo. La ricerca della fiducia nei rappresentanti e della partecipazione dei rappresentati. La difficile ricostruzione della democrazia rappresentativa. Logorata da vent'anni di democrazia im-mediata (mediata esclusivamente dei media). E da partiti ridotti a oligarchie senza fiducia.

(12 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #310 inserito:: Novembre 21, 2012, 04:02:35 pm »



Bussole
   
Ilvo Diamanti
   
Il paese dei giovani senza età

Viviamo tempi di cambiamento. "Tempi strani", perché non è facile coglierne il segno, l'orientamento. Tempi grigi, sicuramente, soprattutto per gli ultimi della classe. I gruppi sociali periferici e marginali. Ma anche per i più giovani.

A differenza dei genitori e ancor più dei nonni, i giovani, si dice, non hanno futuro. Meglio: non riescono a immaginarlo, tanto meno a prevederlo. Questa è un'epoca dal "Futuro interrotto", come suggerisce il webdocumentario curato da Riccardo Staglianò. Un collage di storie raccolte e sceneggiate dall'Academy di Repubblica, che ha messo a confronto 20 coppie di genitori e di figli, accomunati dalla professione e, talora, dal luogo di lavoro. Perfino dall'azienda, in alcuni casi. Per mostrare se e quanto sia vero che la generazione dei figli, oggi, sia la prima, nel corso del dopoguerra, ad attendersi un futuro peggiore di quello dei genitori. Una generazione interrotta, quindi. Perché interrompe la catena che ha accompagnato lo sviluppo del Paese da una generazione all'altra, facendo coincidere la crescita economica generale con quella delle persone e delle famiglie.

L'inchiesta condotta attraverso le storie raccontate da Staglianò e dall'Academy conferma questa idea. Ma solo in parte. E, comunque, aggiunge alcuni elementi importanti per comprendere alcune ragioni specifiche del nostro declino. E, insieme, della nostra tenuta sociale. Genitori e figli, intervistati nel webdocumentario, accreditano, infatti, l'immagine del ripiegamento. Della sospensione. Condividono la convinzione che oggi sia peggio di ieri. E domani sarà ancora peggio.

La condizione di lavoro e lo stile di vita dei figli appaiono, infatti, ridimensionate, rispetto a quelli dei genitori. Tanto più le aspettative. Non solo per sé. Ma per i giovani, nel complesso.

Tuttavia, a questo proposito, il giudizio non è unanime. Sono numerosi, quasi un terzo, coloro che la pensano diversamente. Tra i figli come fra i genitori. Pur aggiungendo, talora, che si tratta di un giudizio "personale". Per quel che riguarda loro, cioè, il futuro non è destinato a interrompersi. Anche se è sicuramente più incerto  -  e grigio - rispetto a quello che ispirava i loro genitori. Dunque, il pessimismo delle persone intervistate, genitori e figli, risulta temperato.  Tanto più se l'orizzonte si allarga dal "lavoro" alla propria condizione generale. Chiamati a dare un giudizio retrospettivo e di sintesi sulla propria vita, infatti, tutti i "personaggi" della web inchiesta si dicono "soddisfatti". Genitori e figli, senza eccezioni. Alcuni "molto", i più "abbastanza". Ma tutti, comunque, "felici".

Tuttavia, le valutazioni sono condizionate - in qualche misura dettate - dalle storie raccontate nel webdocumentario. O, per usare il linguaggio statistico, dalla specifica "composizione del campione".

Costruito, per ragioni narrative, su due criteri.
1) Anzitutto l'età. La generazione dei "figli": 30-40enni. Non si tratta dei "più giovani". Ma di quelli che la letteratura sull'argomento definisce i "giovani adulti". Perché ormai la giovinezza si è dilatata, allungata ben oltre i limiti tradizionali. Tanto da rendere difficile la distanza e il confine dall'età adulta. Soprattutto, per l'allungarsi degli studi e della dipendenza dai genitori. Come confermano i figli intervistati nel documentario. Alcuni dei quali vivono a casa con i genitori. Come Michela, infermiera di 31 anni, di Avezzano. Oppure risiedono in un'abitazione di proprietà della famiglia, come Mirko, carpentiere di 37 anni, di Milano.

Naturalmente, la dipendenza è reciproca. Perché la presenza dei figli e delle figlie è necessaria ai genitori, per proseguire nell'attività professionale e commerciale. Ma anche per avere sostegno e, talora, assistenza, mentre l'età avanza. E, soprattutto, per non sentirsi soli. Tuttavia, questi "giovani adulti" riflettono la sindrome della giovinezza infinita, che affligge una società incapace di invecchiare. O, meglio, di accettare e di ammettere la vecchiaia. Una società di persone "per sempre giovani" che faticano a dirsi vecchie.

Anche perché, in effetti, l'uscita dagli studi e l'ingresso sul mercato del lavoro si protraggono sempre più a lungo. Per questo i "giovani adulti" non riescono a testimoniare davvero la "generazione interrotta". In parte, ne sono fuori. Rappresentano e costituiscono ancora la "continuità".

2) Ben sottolineata dall'altro aspetto specifico del "campione".  Costituito dalla "condivisione del mestiere, della professione, dell'azienda". Da parte dei genitori e dei figli. Il web-documentario, infatti, ricostruisce e mette a confronto le biografie socio professionali di coppie di genitori e figli che svolgono la stessa attività professionale. Genitori e figli/figlie. Pastai, pastori, insegnanti (di applicazioni tecniche), psichiatri, ramai, fotografi, pescatori, macchinisti e musicisti... Da Nord a Sud, passando per il Centro. Da Vicenza a Caltanissetta, da Milano a Napoli, de Cecina a Gallipoli, da Bologna  a Campobasso.  A conferma, ulteriore, della continuità e della persistenza intergenerazionale, attraverso la mediazione, o meglio, della regolazione familiare.

L'Italia: un Paese fondato sulla famiglia, prima ancora che sul lavoro. Dove il lavoro  -  l'azienda, la professione, l'attività  -  si trasmette di padre  e di madre  in figlio/figlia e nipote.

Da ciò la capacità della nostra società  di superare, o almeno, di affrontare le crisi economiche, nel corso del dopoguerra. Grazie agli ammortizzatori sociali "tradizionali". Attraverso le reti sociali e comunitarie. Attraverso, anzitutto, la famiglia. Da ciò, tuttavia, anche la difficoltà della nostra società e del nostro sistema di "innovare" e di innovarsi. Perché irrigidito e strutturato da logiche particolariste: corporative, ma anche familiste. Che penalizzano il valore del merito e della competenza.

La generazione dei "giovani adulti" (30-40enni), raccontata dal webdocumentario di Staglianò, dunque, non è, ancora, costretta e oppressa da un "futuro interrotto". Perché è intrecciata, in modo quasi indissolubile, con le generazioni precedenti. Implicata e protetta da una rete di relazioni e di reciprocità, che garantisce  -  e magari condiziona  -  il presente e il futuro. Così da offrire a tutti un certo margine di tutela. E di "felicità".
La frattura, semmai, avviene dopo. E interessa, coinvolge, travolge i più giovani. Quelli che hanno meno di trent'anni. E a maggior ragione, i ventenni. La generazione dei "Neet". (Dall'inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. E non sono neppure impegnati in  attività di "formazione" e "apprendistato". Secondo l'Istat: oltre 2 milioni e 200 mila. Il 22% dei giovani fra 15 e 29 anni. Sono loro la "generazione sospesa", dal "futuro interrotto". Perché non è in grado di indovinarlo, tanto meno di progettarlo. Non una generazione flessibile, ma precaria. Perché è flessibile ma senza sbocchi. Sorretta, certo, a sua volta, dai genitori. Rappresentati, in parte, dai "figli" quarantenni intervistati nell'inchiesta dell'Academy di Repubblica. Ma, comunque, molto più esposta, che in passato, alle trasformazioni del lavoro - e non solo. In un clima di sfiducia generalizzata verso la politica, le istituzioni. E verso tutti i "principi" dell'autorità. Famiglia compresa.

È su questi giovani, sui giovani più giovani, che l'Academy di Repubblica deve proseguire la sua inchiesta. Con altri, nuovi webdocumentari. Per entrare dentro i confini della "generazione  del futuro interrotto".

 

(20 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #311 inserito:: Novembre 26, 2012, 05:33:05 pm »

Le primarie, un reality di successo

Ilvo DIAMANTI

Oggi si svolgono le Primarie del Centrosinistra. Ritornano alla loro finalità originaria: la scelta del candidato premier. Con qualche ambiguità. Perché, anzitutto, ancora non sono chiari i confini della coalizione. Ieri, ad esempio, Pierluigi Bersani, segretario del Pd e candidato alle Primarie, ha aperto all'IdV di Antonio Di Pietro. Fin qui, escluso da ogni possibile alleanza.

Inoltre, a differenza delle precedenti occasioni, questa volta la partecipazione alle Primarie è vincolata all'iscrizione a un albo degli elettori. Il che ha sollevato sospetti sull'intenzione di "scoraggiare" gli elettori meno fedeli (al centrosinistra e ai suoi leader nazionali). E ha suscitato il timore che l'affluenza ne possa venire danneggiata.

Tuttavia, al di là delle polemiche e prima ancora dell'esito del voto, queste Primarie hanno prodotto effetti indubbiamente positivi per i soggetti politici coinvolti. Soprattutto perché si presentano "aperte" e competitive. Mentre nelle precedenti occasioni erano apparse scontate e senza storia.

L'irruzione di Renzi  -  al di là di ogni valutazione specifica  -  ne ha fatto un terreno di confronto - e, talora, di scontro - aspro. Per logiche personali più che di programma. Per stile di comunicazione più che di contenuto.  L'alternativa vecchio/nuovo ha sovrastato ogni discorso politico.

Tuttavia, mai come questa volta le Primarie hanno suscitato l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica, oltre all'interesse dei militanti e dei simpatizzanti di centrosinistra.

Ne ha beneficiato, anzitutto, il partito di riferimento. Il Pd. Prima dell'estate, nei sondaggi, galleggiava poco sopra il 22%. Ora è cresciuto di 10 punti percentuali, superando il 32% (secondo IPSOS). E si è avvicinato al risultato del 2008. Il massimo della sua (breve) storia. Anche Sel, dopo essere scesa sotto il 5%, nelle ultime settimane è risalita oltre il 6%.

Ne hanno beneficiato i candidati. La fiducia verso Bersani, fra gli elettori (dati Demos), è passata dal 32%, nello scorso settembre, al 39%, nelle ultime settimane. Mentre il consenso nei confronti di Renzi si avvicina al 50% (grazie al sostegno che ottiene presso gli elettori esterni al centrosinistra). Lo stesso Vendola, la cui popolarità aveva subito un sensibile declino negli ultimi mesi, in questa fase ha ripreso credibilità. E ora il suo indice di fiducia ha raggiunto il 33%. Un livello ben superiore al peso elettorale del suo partito.

Fra gli altri candidati, infine, Bruno Tabacci ha conquistato una popolarità impensabile, fino a ieri. Lui, così sobrio e "moderato" (ma anche defilato) è divenuto, all'improvviso, un'icona pop. Leader di un movimento dadaista che scuote la rete. Attraendo una folla sempre più ampia di amici e seguaci. I "Marxisti per Tabacci".

In generale, le Primarie sono divenute un evento mediatico di primo piano. Hanno garantito visibilità al Pd, al Centrosinistra e ai loro leader. Che hanno occupato spazi dominanti sui giornali, non solo d'informazione,  e sulle emittenti radio-televisive. Nei notiziari e nei talk. Non solo: le Primarie e i suoi "personaggi" principali sono divenuti argomento di colloquio e discussione popolare, al di là della cerchia politicamente più attiva e informata. Al di fuori dei luoghi e degli spazi "istituzionali". Quasi come un reality. Il confronto fra i candidati promosso da Sky, non a caso, ha evocato il format di XFactor.

Per questi motivi, le Primarie  -  finalmente aperte e competitive - hanno fatto bene al Pd, al Centrosinistra e ai suoi leader  -  e non solo ai candidati. Per questi motivi penso che, nonostante le complicazioni imposte dall'iscrizione alle liste, otterranno una partecipazione molto ampia. Per questi stessi motivi, credo che il Pd e il Centrosinistra debbano guardare con attenzione al "dopo". Per evitare la successiva "smobilitazione". La successiva "sospensione" del dibattito. Per evitare che le Primarie divengano l'unico motivo di mobilitazione, l'unico luogo del dibattito. Per evitare che, dopo le Primarie, l'interesse e l'attenzione, intorno al Pd e al Centrosinistra, si spengano. E il dibattito si rinchiuda nella cerchia stretta dei gruppi dirigenti e dei militanti.

(25 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #312 inserito:: Novembre 27, 2012, 06:02:10 pm »

Il segnale che arriva dalle regioni rosse

di ILVO DIAMANTI


PIÙ DI TRE MILIONI di persone che vanno a votare il candidato premier del centrosinistra fanno sicuramente bene alla nostra democrazia. Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po' meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra.

Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch'esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì.

È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l'Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos).

Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell'attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte "a caldo".

1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l'interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo.

Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti "esterni" ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di "rottura" con il passato. Con le burocrazie di partito.

2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse  -  esclusa l'Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche.

Proprio lui, sospettato di "berlusconismo". Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L'elettorato orientato dagli apparati e dall'organizzazione sul territorio. B) L'elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone "rosse"). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.

3. L'alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della "rottamazione"). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l'estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.

4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all'opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).

Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi.

a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell'attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve "normalizzare" e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un'eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti.

b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i "duellanti" in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C'è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.

In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.
 

(27 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/11/27/news/il_segnale_che_arriva_dalle_regioni_rosse-47518922/?ref=HRER3-1
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« Risposta #313 inserito:: Dicembre 07, 2012, 04:29:13 pm »

Sondaggio: Pd al 38%, Grillo in calo.

Il potere delle primarie sui partiti

Sondaggio dell'Atlante Politico di Demos: la competizione del centrosinistra coinvolge in modo violento tutti i soggetti politici.

Calano drasticamente gli indecisi. E per la prima volta Renzi e Bersani superano Monti

di ILVO DIAMANTI


LE PRIMARIE si sono concluse domenica scorsa. Ma i loro effetti proseguono e si riproducono. Coinvolgono in modo diverso - ma egualmente violento - tutti i principali soggetti politici. Partiti, leader, lo stesso governo e il premier. Con effetti difficili da valutare. Come emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico, condotto da Demos negli ultimi giorni.

LE TABELLE su repubblica.it

1. Le primarie. Hanno accentuato tendenze già evidenti sul piano politico ed elettorale. Il PD, anzitutto, è rimbalzato ancor più in alto. Al punto che, nel sondaggio di Demos, avvicina il 38%. Il massimo raggiunto dalla fondazione, nel 2007. A livello elettorale ma anche nei sondaggi. Prima dell'estate era scivolato al 25%. Dopo l'estate è risalito in modo prepotente. Spinto, trainato dalle primarie. Non a caso i duellanti, Bersani e Renzi, oggi svettano, nella graduatoria dei leader. Entrambi cresciuti di circa 20 punti percentuali. Renzi, peraltro, è in testa, con oltre il 60%, in quanto intercetta consensi anche a centrodestra e soprattutto al centro. Ma Bersani, per la prima volta da quando è segretario del PD, supera il 50% dei consensi.

2. L'avanzata del PD, peraltro, avviene mentre gli altri partiti ripiegano. Nel centrosinistra,
infatti, si assiste al declino rapido dell'IdV, i cui consensi crollano, insieme a quelli di Di Pietro. Anche SEL arretra, seppure di poco. Mentre la fiducia in Vendola cresce di qualche punto. Anche così si spiega il largo sostegno espresso dagli elettori di centrosinistra all'alleanza con SEL. È come se SEL e Vendola apparissero, rispettivamente, la componente e il leader della sinistra PD. Soprattutto dopo le primarie.

3. Nel centrodestra, il PdL staziona, per inerzia, intorno al 18 %. Ma appare diviso, lacerato all'interno. Tra i "fedeli" a Berlusconi, che sognano una nuova Forza Italia. E quelli che, invece, vorrebbero andare oltre Berlusconi. Scegliere il leader attraverso le primarie, in-seguendo l'esempio del PD.

Oltre metà degli elettori del PdL, peraltro, vorrebbe riproporre l'alleanza con la Lega, ma anche con i partiti di Centro. Per non rischiare l'isolamento. Per non precipitare nello "sconfittismo". La condizione, psicologica, di chi si sente sconfitto prima del voto. E in questo modo prepara la propria sconfitta.

4. La Lega, d'altronde, non sembra in grado di "correre da sola". Continua, infatti, a galleggiare intorno al 4%. Come nel 2006, peraltro. Quando, però, insieme al PdL, aveva quasi pareggiato la sfida elettorale con l'Unione di Prodi.

5. Neppure i soggetti politici di centro sembrano in grado di allargare il loro spazio, che, anzi, si riduce. Assorbito, in parte, dal PD. In particolare da Renzi. I consensi di Casini, Fini, dello stesso Montezemolo non crescono. Anzi, si riducono, sul piano personale oltre che di partito.

6. Infine, il M5S, ispirato da Grillo, mantiene un peso elettorale notevole, intorno al 15%. Ma pare aver frenato la sua avanzata. Quasi che la mobilitazione politica degli ultimi mesi, prodotta dalle primarie, ne avesse circoscritto le ragioni, ma anche gli spazi di crescita.

7. È interessante - e significativo - osservare come l'area grigia degli elettori incerti se e per chi votare, in questa occasione, si sia ridotta sensibilmente. In due mesi, dal 45% è scesa al 30%. I "delusi" di centrosinistra se ne sono staccati. Coinvolti e sollecitati dalla mobilitazione di questa fase.

8. Il successo delle primarie, tuttavia, ha scosso anche le basi del governo. Secondo il sondaggio di Demos, infatti, il gradimento verso il suo operato, da settembre, è sceso di quasi 10 punti. Attualmente è intorno al 44%. Come nella scorsa primavera. Anche il giudizio su Monti appare meno positivo che in passato. Coloro che ne valutano positivamente l'operato sono il 47%: 8 punti meno dello scorso settembre. Per la prima volta da quando è divenuto premier, dunque, Monti si vede superato da due "politici": Renzi e Bersani. A scanso di equivoci, occorre chiarire: Monti e i tecnici dispongono, comunque, di un grado di considerazione fra i più elevati degli ultimi 10 anni. Tanto più se si pensa alle difficoltà del momento. Oltre al fatto che Monti e i tecnici sono stati chiamati a governare proprio per condurre politiche "impopolari". Tuttavia, non è un caso che il calo di fiducia nei confronti del governo avvenga proprio all'indomani delle primarie. D'altronde, secondo il 44% degli elettori (anche per la maggioranza di quelli del Pd), proprio le primarie avrebbero indebolito il governo Monti. Mentre solo il 23% ritiene, al contrario, che l'abbiano rafforzato.

9. Naturalmente, le primarie non hanno sanzionato Monti. Anche se il dibattito di questi mesi è stato scandito da critiche accese al suo operato. Tuttavia, le primarie hanno sicuramente "rafforzato" l'offerta politica del PD. Hanno garantito legittimità alla sua leadership. Rendendo, di conseguenza, più credibile il proposito espresso da Bersani - ma anche da Renzi  -  di fare il premier, dopo le prossime elezioni, in caso di vittoria. Senza tutele "tecniche" e presidenziali. Non è un caso che la quota di quanti auspicano un governo della coalizione che ha vinto le elezioni, nel sondaggio Demos, sia salita oltre il 55%. Quasi 20 punti più di coloro che continuano a preferire un governo tecnico, sostenuto da una "grossa" coalizione.

Le primarie hanno dunque scosso l'intero sistema politico italiano. Hanno dato evidenza e spazio alla domanda di politica diffusa, latente e frustrata in tanta parte della società. E hanno aperto direttamente, senza mediazioni, la campagna elettorale. Perché c'è una coalizione che dispone di un candidato eletto con la partecipazione e il voto di più di tre milioni di elettori. Ciò ha già prodotto sussulti evidenti, che hanno scosso alla base la maggioranza del governo Monti. Come si è visto ieri, al Parlamento. Per iniziativa del centrodestra, lacerato al suo interno.

Il fatto è che oggi, anzi, da domenica scorsa, la competizione elettorale si è aperta. Per il PdL, in crisi di consensi e di identità, vedersi "doppiato" dal PD nelle stime elettorali calcolate dai sondaggi, diviene traumatico. Insostenibile. Così "l'interesse nazionale" passa in secondo piano. Sovrastato dall'interesse di partito.

(07 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #314 inserito:: Dicembre 10, 2012, 07:38:12 pm »

Il Cavalier rieccolo e il muro del Professore

di ILVO DIAMANTI

ECCOLO di nuovo. Il Cavaliere. Ri-discende in campo. E sfida tutti. Il centrosinistra  -  che da qui tornerà ad essere riassunto nell'alveo dei "comunisti". Il Terzo Polo di centro  -  gli "utili idioti". E prima di tutto e di tutti: Monti. Il Professore. Il vero responsabile della crisi economica italiana. Che, ovviamente, quando c'era Lui, era molto meno pesante. Anche se i Nemici  -  i Comunisti Pessimisti  -  la agitavano ad arte, come argomento polemico contro di Lui.

Eccolo di nuovo. Berlusconi. Non poteva essere diversamente. Impensabile che uscisse di scena spontaneamente. Ammettendo, in questo modo, la propria sconfitta. La fine del Berlusconismo. D'altronde, i sondaggi d'opinione spiegano e giustificano la sua decisione. Anche al di là dei motivi personali che lo muovono. L'esigenza di tutelare i propri interessi e di difendersi dai molteplici procedimenti giudiziari che lo riguardano. Al di là di tutto ciò, l'ultimo anno ha dimostrato l'incapacità del centrodestra di re-inventarsi. Di trovare un'identità e una leadership alternative.

Senza Berlusconi. In meno di due anni, il PdL è sceso, nei sondaggi, dal 30% al 18%. Solo un anno fa era ancora al 25%. Il suo delfino, Angelino Alfano, si è dimostrato incapace di nuotare da solo. In un anno: il PdL si è diviso. Il 44% dei suoi elettori sceglierebbe Berlusconi come candidato premier. Dunque, meno di metà. In ogni modo, però,
quasi l'80% di essi preferirebbe che il candidato venisse scelto attraverso le primarie (Atlante Politico di Demos, dicembre 2012). Ma il PdL non è come il Pd. Come il centrosinistra. Non ha radici nel territorio. Solo An aveva legami di appartenenza con la società. Ma, dopo l'unificazione con il  -  o meglio, l'annessione al  -  PdL, è confluita anch'essa nel "partito personale" di Berlusconi. Dove i rapporti fra il leader e il suo popolo avvengono per identificazione personale e per via "mediale". Impossibile per altri interpretare lo stesso ruolo. Ma difficile anche selezionare il gruppo dirigente, tanto più il candidato premier, dal basso. Così il PdL, insieme al centrodestra, ha perso terreno. E lo ha, parallelamente, ceduto ai concorrenti. Al centrosinistra, al Pd. Allo stesso M5S. All'area grigia dell'incertezza. Per questo Berlusconi è ri-disceso in campo. Per opporsi alla scomparsa del PdL. Per ritardare, almeno, la fine della Seconda Repubblica. Fondata "da" e "su" Berlusconi. Sul "partito personale". Sulla "democrazia del pubblico".

Eccolo di nuovo. Il Cavaliere. Evoca la memoria del 2006 (come ha suggerito Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore). Quando tutti lo davano per sconfitto e lui, da solo, riuscì a rimontare. Fino, quasi, a pareggiare, contro il centrosinistra guidato da Prodi. Ma i tempi sono cambiati, da allora. Il PdL, oggi, pesa molto meno di FI, da sola. La Lega: è alla ricerca del terreno perduto. Fiaccata dagli scandali interni. Ma anche dalle divisioni. Non sarà facile tornare con Berlusconi, dopo un lungo periodo di opposizione. Contro il governo. Ma anche contro Berlusconi. Il quale, peraltro, oggi è molto debole, dal punto di vista del consenso personale. La fiducia nei suoi confronti si è ridotta al 20%. Alla fine del 2005 era intorno al 32% e nei primi mesi del 2006 era risalita oltre il 35% (dati dell'Atlante Politico di Demos). D'altronde la Tv, sua tradizionale alleata, oggi conta meno.

Peraltro, la posizione dei concorrenti appare molto più solida di allora. I consensi del Pd si aggirano intorno al 38%. Una misura, certamente, accentuata dalle primarie e dal declino dell'Idv. Tuttavia, il divario rispetto al PdL appare enorme. Difficilmente colmabile. Certo, la legge elettorale può complicare la conquista di maggioranze stabili al Senato. Ma, a differenza del 2006, Berlusconi e il Centrodestra non potranno contare sull'alleanza con i Centristi. L'Udc e le altre formazioni del Terzo Polo correranno da sole. Per se stesse e, soprattutto, contro Berlusconi. Perché il Cavaliere ha annunciato il suo ritorno "contro" Monti. Dunque, contro il Pd e, ancor più, contro il Terzo Polo di Centro. Che a Monti ha giurato fedeltà.

Eccolo di nuovo. Berlusconi. Nel 2006 si era presentato come l'Imprenditore contro i Nemici del Mercato. Fiducioso che non vi fossero "tanti coglioni che votano sinistra". Oggi, invece, è il leader dello schieramento "antipolitico". Farà campagna elettorale contro i comunisti del Pd, contro l'Euro e l'Europa. Contro Monti. Insieme alla Lega e in concorrenza con il M5S. Monti, da parte sua, ha annunciato le dimissioni, dopo la legge di stabilità. In questo modo, è divenuto l'attore protagonista. Della prossima campagna elettorale e, ancor più, della stagione dopo il voto. Anche se non è detto che "scenda in campo" direttamente. Che promuova una lista "personale". O che accetti di venire candidato (premier) da uno schieramento. Il Terzo Polo: rischia di essere un soggetto limitato, rispetto alle ambizioni del Professore. Il centrosinistra: come potrebbe proporre il suo nome, dopo aver mobilitato milioni di elettori per scegliere il candidato premier? (E poi, come la prenderebbe Sel?).

Annunciando le dimissionI da premier, Monti ha rifiutato di diventare bersaglio della campagna elettorale di Berlusconi. E di altri soggetti politici. Ma, in questo modo, costringerà tutti a esprimersi e a "schierarsi" sulla sua esperienza di governo. Sulle riforme fatte e su quelle non fatte. Sul suo ruolo. In politica interna, ma anche in politica estera. Nei rapporti con la Ue, la Bce, l'Fmi. Con gli altri governi internazionali. Presso i quali il Professore gode di largo credito.
Monti, d'altronde, dispone ancora di un ampio consenso personale anche in Italia, superiore al 47%. Mentre il suo governo ha la fiducia di circa il 44% degli elettori (Dati Demos, dicembre 2012). Un sostegno ampio rispetto ai governi che l'hanno preceduto, in tempi assai meno difficili. Ma anche in confronto ai governi e ai premier degli altri paesi europei  -  in condizioni economiche migliori del nostro.

Che si presenti come candidato premier (non come parlamentare, ovviamente, visto che è senatore a vita) oppure no, Monti è destinato ad essere il protagonista della prossima campagna elettorale. Il nuovo Muro che attraversa la politica italiana. E divide partiti ed elettori. Pro o contro.
Ciò rafforza l'idea che le prossime elezioni costituiscano una svolta. Perché offrono l'occasione per chiudere la Seconda Repubblica. Di andare oltre il Berlusconismo. Oltre Berlusconi. Definitivamente.

(10 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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