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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277939 volte)
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« Risposta #285 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:35:07 am »


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Il vento del cambiamento e la sordità delle oligarchie

I 5 Stelle promossi per guidare le città.

Ma 7 su 10 convinti che non saprebbero governare il Paese

di ILVO DIAMANTI

È UN Paese sospeso, quello che emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos. Un Paese spaesato, in cerca di prospettive politiche ancora incerte. E per ora, comunque, insoddisfacenti. Il governo, dopo il sensibile calo di fiducia subìto fra marzo e aprile (circa 20 punti in meno), sembra aver recuperato consenso, fra i cittadini. Oggi il 45 per cento degli italiani ne valuta positivamente l'operato. Una quota elevata, se si pensa alle difficoltà economiche e sociali del periodo. E al malessere suscitato dalle politiche fiscali, in particolare dall'Imu, giudicata negativamente dal 70 per cento degli intervistati. Se si pensa, inoltre, che quasi il 50% degli italiani giustifica le proteste - talora clamorose - contro Equitalia. Nonostante tutto ciò, una consistente maggioranza della popolazione (60%) continua a credere che, alla fine, il governo "ce la farà" a condurci fuori dalla crisi. E per questo, probabilmente, ne sopporta le scelte, per quanto con insofferenza.

D'altronde, Monti stesso, personalmente, è giudicato positivamente da oltre il 50% degli intervistati. E si conferma, quindi, il leader "politico" più affidabile, presso gli italiani. Molto più di qualunque altro leader di partito o aspirante tale. Da Bersani a Di Pietro, passando per Fini, Casini e Montezemolo. Mentre la popolarità
di coloro che avevano guidato la maggioranza di governo per circa un decennio, Berlusconi e Bossi, è scesa ai minimi storici. La perdita di credibilità personale - e familiare - di Bossi ha coinvolto tutta la Lega. Compreso Maroni. Da ciò la crisi che ha affondato il centrodestra, attualmente privo di leadership ma anche di riferimenti politici.

Gli orientamenti di voto riflettono questo senso di spaesamento, rivelato - e accentuato - dalle recenti amministrative. Segnalano, in particolare: a) lo sfaldamento del Pdl, ormai dimezzato, rispetto alle elezioni politiche del 2008; b) la frana della Lega scivolata poco sopra il 4%, come 10 anni fa; c) Mentre il Pd e l'Idv tengono bene, anche se non riescono a intercettare lo sfarinamento dei partiti di centrodestra. Il Pd, in particolare, si conferma primo partito in Italia. D'altronde, secondo gli intervistati, è la formazione politica che si è rafforzata maggiormente, in seguito alle elezioni amministrative. d) Insieme, ovviamente, al Movimento 5 Stelle (M5S), promosso e ispirato da Beppe Grillo. Il quale, dal punto di vista elettorale, è stimato oltre il 16%, poco al di sotto del Pdl. Il successo alle recenti amministrative ha contribuito ad allargare ulteriormente la sua base elettorale. Il M5S è divenuto, infatti, il collettore privilegiato dell'insoddisfazione sociale verso il sistema partitico. Un sentimento generalizzato, che non dà segni di rallentamento.

Oltre il 40% degli intervistati, infatti, vede nella "protesta contro i partiti" la principale ragione di successo del Movimento. Una valutazione condivisa anche dal 27% degli elettori del M5S, i quali, però, danno maggiore importanza ad altri argomenti: l'estraneità dei candidati alle logiche di potere e la concretezza dei programmi proposti ai cittadini. Resta, comunque, l'incognita sulla capacità del Movimento di "tenere" la scena politica, oltre a quella elettorale. Soprattutto, oltre i confini locali. Infatti, quasi metà degli italiani (la maggioranza) ritiene il M5S in grado di "amministrare" le città e il territorio. Ma quasi 7 persone (e 4 elettori del M5S) su 10 non lo considerano capace di governare, a livello nazionale.

Da ciò l'impressione di un Paese sospeso. In attesa di un cambiamento ancora incompiuto. A cui Grillo e il M5S hanno offerto una risposta, uno sbocco. Sfruttato da molti elettori che, in un primo tempo, non li avevano presi in considerazione. Non è un caso se, rispetto a un mese fa, l'elettorato del M5S ha modificato sensibilmente il profilo sociopolitico. In particolare, al suo interno sono aumentati: a) gli elettori dei comuni medio-piccoli; b) le persone di età medio-alta; c) le componenti di centro-destra; d) gli elettori provenienti dalla Lega e dal Pdl. In altri termini: il M5S ha intercettato il disagio diffuso fra gli elettori. L'ha canalizzato, dandogli visibilità. Ma senza risolverlo.

La domanda di cambiamento politico, infatti, resta molto estesa, al punto che circa un terzo degli elettori sostiene che, se si presentasse un partito "nuovo", guidato da un leader "nuovo" e "vicino alla gente": lo voterebbe "sicuramente". Si tratta di un orientamento trasversale. Particolarmente accentuato nella base elettorale dei soggetti politici che in precedenza detenevano il monopolio della rappresentanza del "nuovo", come la Lega. Ma anche l'Idv e Sel. Tuttavia, questo orientamento appare ampio anche fra gli elettori dell'Udc, alla ricerca, da tempo, di un modo - e di uno sbocco - per uscire dal "centro", che rischia di trasformarsi in un ghetto. Schiacciato da destra, sinistra e, ora, anche dal M5S.

Siamo, dunque, in una fase fluida. Il "mercato elettorale" è instabile, in cerca di un'offerta politica adeguata. Che stenta a delinearsi. Così cresce la voglia di "nuovo". Anche se per gran parte degli elettori (quasi sette su dieci) il "nuovo" è il "vecchio" rivisto e ri-qualificato. Per cui si traduce, anzitutto, nella domanda di "rinnovamento" degli attuali partiti. Ma il "rinnovamento", per la grande maggioranza degli elettori (il 61%), significa "ricambio e svecchiamento" della classe dirigente. D'altra parte, fra i motivi che hanno favorito il M5S alle recenti amministrative, un ruolo importante è stato sicuramente giocato dalla figura e dall'immagine dei candidati. Giovani e preparati. Estranei a lobby e interessi. In grado di esprimere opinioni competenti sulla realtà locale. Senza slogan e senza retorica. Ciò suggerisce che, per rispondere all'insofferenza verso i partiti, che si respira nell'aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche.
Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano.

Basterebbe che offrissero maggiore spazio e ruolo ai dirigenti e ai militanti giovani, presenti e impegnati sul territorio. (Ce ne sono molti, nonostante tutto, ma vengono puntualmente scoraggiati).
Basterebbe. Ma non ne sono capaci. Così, avanza la richiesta del Nuovo-a-ogni-costo. Ormai, un mito, più che una rivendicazione. Travolge tutto. E rende la "nostra" Democrazia: "provvisoria". La Politica e i partiti: inattuali.

(03 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/03/news/il_vento_del_cambiamento_e_la_sordit_delle_oligarchie-36446888/?ref=HREC1-6
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« Risposta #286 inserito:: Giugno 06, 2012, 05:00:31 pm »

Sulle macerie nascono i fior

Ilvo DIAMANTI


IL TERREMOTO in Emilia ha provocato danni immensi. E, soprattutto, molte vittime. Ma ha mobilitato, al tempo stesso, il sentimento altruista e solidale degli italiani. Che hanno risposto alle iniziative di sostegno alle popolazioni e ai paesi colpiti dal sisma in modo massiccio e generoso. D'altronde non c'è trasmissione in tv che non raccolga fondi, al proposito. In modo diretto, ma anche indiretto. Attraverso sms e telefonate a numeri dedicati. Mentre le manifestazioni di sostegno si moltiplicano e proseguiranno ancora a lungo. Con grande partecipazione popolare.

Gli italiani non si nascondono mai, in queste occasioni. Il dolore e l'altruismo si succedono, in stretta e sincera connessione. Le popolazioni, i paesi, i lavoratori delle aree colpite, d'altronde, hanno reagito, a loro volta. Per primi. Con prontezza. Hanno ripreso a vivere, lavorare, dopo aver scavato tra le macerie. E già ora hanno cominciato a ricostruire.

La solidarietà, in Italia, si manifesta di fronte a ogni disastro naturale. Di fronte a ogni terremoto, alluvione, inondazione, esondazione, frana, slavina, smottamento. Di fronte a ogni tragedia. In Friuli, in Irpinia, in Basilicata, nel Belice, a Firenze, a Messina, nelle Marche, in Umbria, a Sarno, nel Vicentino, a L'Aquila, a Genova, in Piemonte, nelle Cinque Terre. E poi - o prima? - il Vajont. Narrato da Marco Paolini.

Recito a memoria, ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo. Infinito. Perché siamo il Paese delle tragedie annunciate. E sempre inattese. D'altronde, il nostro territorio è instabile e precario. Ad alto rischio sismico e idrogeologico. Ma ce ne dimentichiamo spesso. Fra una tragedia e l'altra, riprendiamo le antiche abitudini. Anzi, non le smettiamo mai, visto come abbiamo ridotto questo povero paese. Cementificato. Una plaga di mostri immobiliari che si sono insinuati ovunque. Un pelago di non-luoghi anonimi.

Così ogni episodio "naturale" anomalo rischia di degenerare in tragedia. E ogni volta ci sorprendiamo, a disastro avvenuto. E ogni volta ri-scopriamo la nostra vulnerabilità. Denunciamo i nostri vizi. Per poi virare, rapidamente, sulle virtù sociali e umane.

Noi italiani. Così fragili e così generosi.

Tanto da far sorgere il dubbio che ci sia un nesso "non casuale" fra i due aspetti. La tragedia e la solidarietà. Che la nostra generosità sia, in parte, prodotta e riprodotta dalla fragilità del nostro mondo, del nostro ambiente. Che noi contribuiamo ad accentuare con i nostri comportamenti - spesso cinici, più che civici.

Varrebbe la pena, forse, di imprimere una svolta di segno inverso. Di cambiare (con)sequenza fra tragedia e solidarietà. Di esercitare, cioè, la generosità non come reazione e riparazione. Ma come pratica preventiva. Verso noi e gli altri. Verso l'ambiente e il territorio che abitiamo. Una generosità esigente e rigorosa. Intollerante verso gli usi impropri e gli abusi. Nostri e altrui. Perché c'è il rischio, altrimenti, che la generosità e la solidarietà, esercitate come riflesso dei disastri ambientali e naturali, tendano, progressivamente, a ridursi. Fino a esaurirsi. Logorate dalla routine. Insieme al non-territorio che abitiamo.
 

(06 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/06/06/news/sulle_macerie_nascono_i_fior-36625733/?ref=HREA-1
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« Risposta #287 inserito:: Giugno 11, 2012, 05:58:44 pm »

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I partiti e le sfide del Grillo-Montismo

di ILVO DIAMANTI

Il post-berlusconismo, oggi, ha due eredi, due volti, due modelli. Monti e Grillo. Diversi e anche di più. Quasi alternativi.
Eppure complementari, simmetrici. Interpretano le due principali risposte alla crisi della "democrazia del pubblico" all'italiana.
Dove il rapporto con la società è mediato dai media tradizionali, in primo luogo la televisione. Dove i partiti sono "personali", più che personalizzati. Prolungamenti del leader. Dove il leader si presenta ai cittadini, pardon: al pubblico e agli "spettatori", in modo "immediato", più che diretto. Imitandone i vizi assai più delle virtù. Dove, nella selezione della classe politica e dirigente, non importano le qualità etiche. Semmai quelle estetiche. Conta l'immagine. Contano i rapporti - professionali, di interesse, personali e di varia natura - con il "Capo". Conta la fedeltà al leader, ben più della competenza. Il PMM: il Partito Mediale di Massa, creato da Berlusconi. Ha rimpiazzato la partecipazione sociale con i sondaggi. I valori e l'identità con il marketing politico.

Questo modello non funziona più. Perché la distanza fra la realtà mediale e quella reale è divenuta insostenibile. La narrazione della vita ha perso il contatto con la vita. E, alla fine, i cittadini si sono stancati dello spettacolo della politica. Non sopportano più di essere spettatori e attori, al tempo stesso, di un irreality show frustrante. Così è finito il Berlusconismo.

Abbandonato dai fan. Ma dal suo declino non ha tratto grande vantaggio l'opposizione. I partiti di centrosinistra. Troppo invischiati nel passato e nel presente. Come nel 1992, dopo Tangentopoli.

Sono emersi, invece, due soggetti (in parte) nuovi. Monti, anzitutto. Una risposta politica "dall'alto". Perché interpreta la domanda di competenza e di autorevolezza delle classi dirigenti. È il governo degli esperti, voluto dal Presidente e legittimato dal Parlamento a causa dell'impotenza dei partiti. Monti. Non imita la "gente comune". Non ne sarebbe capace. Anche se cerca la complicità dei talk tivù Pop-olari, non è facile assumere un profilo Pop annunciando misure imPop-olari. Monti: interpreta la Politica senza - in qualche misura "contro" - i partiti.

E senza i Media. Non a caso a capo della tv pubblica ha posto tecnici. Con poche esperienze televisive. (Sollevando il risentimento del PMM, per cui la tv è tutto). Monti. Il suo potere è legittimato dalle competenze e dalla fiducia di cui dispone presso i mercati. Internazionali. Che pesano anche sul consenso popolare.

Grillo e il Movimento 5 Stelle (M5S) costituiscono la risposta "dal basso". Alla crisi politica del Berlusconismo, ma anche ai limiti del Montismo. Dal Basso, perché il M5S veicola la domanda di partecipazione espressa dai movimenti e dai comitati, sorti intorno a rivendicazioni locali e sociali legate ai beni comuni. Perché promuove nuovi leader, giovani, attivi nella società. Perché intercetta la contestazione e la protesta contro "l'Alto": i Partiti e i loro gruppi dirigenti. Contro le oligarchie dei partiti e contro i partiti ridotti a oligarchie.
Grillo e il M5S sono "alternativi" al Berlusconismo, anche se ne ereditano alcuni tratti. Anzitutto, la capacità di gestire la comunicazione e la personalizzazione. Grillo è un professionista, un attore della scena mediatica - e teatrale. Da molto più tempo di Berlusconi.
 
Ma ha abbandonato la televisione. Per necessità oltre che per scelta. È andato nelle piazze. E ha sperimentato la rete e i Social Network, che realizzano una comunicazione "orizzontale". Servendosi della consulenza di "esperti" e professionisti della Rete, come Casaleggio.
Il M5S è una sorta di nuovo modello di Network politico. Che mette in comunicazione molti, diversi luoghi - o meglio, "siti" - sociali e locali. Ma Grillo e il M5S sono l'antipartito - oltre che l'Anti-Berlusconi.

Alternativi al Montismo. A sua volta, espressione della Politica dall'Alto. In mano ai tecnici. Ai poteri economici e finanziari. Interni e internazionali. Mentre i giovani del M5S, come ha sostenuto Grillo, intervistato da Gian Antonio Stella: "Hanno dietro i più bravi consulenti della rete. Fiscalisti, urbanisti, geologi, esperti di bilanci. Tutta gente che si mette a disposizione gratuitamente. Con un entusiasmo che gli altri se lo sognano". Monti e Grillo: sono entrambi "dentro" e "fuori" la democrazia rappresentativa.

Dentro. Monti, ovviamente. Perché occupa ruoli istituzionali importanti, già da molti anni. Prima e dopo l'avvento del Berlusconismo.
E perché la sua azione, oggi, è legittimata dai partiti e dal Parlamento degli eletti (o, meglio, dei "nominati"). Grillo e il M5S: perché agiscono mercato politico. Competono alle elezioni - oggi amministrative e domani legislative - per eleggere i loro candidati.

Nelle istituzioni rappresentative. Perché danno visibilità e rappresentanza a domande politiche e a componenti sociali, altrimenti escluse, comunque ai margini. Fuori. Perché entrambi sono emersi "fuori" dai canali tradizionali della democrazia rappresentativa.

I partiti e la classe politica.
Fuori dai media che caratterizzano la "democrazia del pubblico". Di cui Monti sottolinea l'incapacità di governare.
Grillo e il M5S: l'incapacità di "rappresentare" - e di far partecipare direttamente - i cittadini.

È il Grillo-Montismo. Diagnosi e denuncia del male che oggi affligge la Politica e la "democrazia rappresentativa". Entrambi anti-partitici e post-berlusconiani. Due risposte, peraltro, anch'esse parziali. Perché le istanze partecipative espresse da Grillo devono dimostrare di essere in grado di "governare" e di aggregare le diverse componenti e i diversi interessi della società. Perché l'aristocrazia di governo espressa da Monti e dagli esperti deve, comunque, guadagnarsi il consenso dei cittadini, oltre a quello, incerto, dei mercati. E il consenso dell'opinione pubblica, misurata dai sondaggi, resta elevato. Ma è instabile e in sensibile calo, rispetto a due mesi fa. Mentre il consenso elettorale - l'unico che conti nelle democrazie rappresentative - dipende dalla disponibilità dei tecnici di "mettersi in gioco" alle prossime politiche.

In una lista - nuova o tradizionale. Così, ad oggi, Monti deve affidarsi al "consenso" del Parlamento dei - vecchi - partiti.

Il Grillo-Montismo annuncia, dunque, cambiamenti profondi. Come e forse più dei primi anni Novanta. Una stagione instabile, dove le fratture e le idee politiche tradizionali rischiano di essere fuori tempo. E all'alternativa fra destra, centro e sinistra o fra liberismo e laburismo si sostituisce quella, fluida e indefinita, fra vecchio e nuovo. Che non è certamente nuova, ma resta quanto mai attraente e dirompente.

(11 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/11/news/partiti_grillo_diamanti-36958842/
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« Risposta #288 inserito:: Giugno 15, 2012, 11:48:09 pm »

Gli esodanti
 
Ilvo DIAMANTI

E' L'EPOCA del tempo sospeso. Dove è facile scomparire, divenire invisibili. Uscire dal tempo. Finire nel nulla. Come i "neet", acronimo inglese che richiama i giovani che "non" lavorano e "non" studiano. Ma non sono neppure coinvolti in percorsi di "formazione" e "apprendistato". I giovani né / né. Scomparsi, per le statistiche. Loro, almeno sono giovani. E dispongono di un acronimo inglese. Contrariamente agli "esodati". Che giovani non sono più da molto tempo. Ma neppure abbastanza vecchi per "meritare" la pensione. E vengono (in)definiti con un termine inesistente sui dizionari della lingua italiana. Sono i lavoratori (meglio dire: ex) usciti dal mercato del lavoro prima dei tempi previsti dalla legislazione e dai contratti. In cambio di incentivi, si sono "dimessi", licenziati. In attesa di accedere alla pensione. Un'attesa che la riforma varata del governo ha, improvvisamente, allungato di anni, per molti di loro. Quanti, è oggetto di discussione, anzi, di conflitto aspro. Fra il governo e la ministra Fornero, da un lato, e il sindacato, dall'altro. Ma anche i dirigenti dell'INPS. Secondo i quali non si tratta di qualche decina di migliaia di (ex) lavoratori, come vorrebbe il ministro Fornero. Ma centinaia di migliaia. Oltre 350 mila. Esodati. Neologismo singolare e ruvido, all'orecchio. In un primo tempo ho pensato a una contrazione di "esondati". Da esondare. Straripare. Scavalcare gli argini. E quindi: spinti fuori dal bacino  -  del lavoro e della pensione.

Ma non è così. Gli "esodati" sono i participi passati di un verbo che non esiste nei dizionari. (Vi entrerà certamente, nelle prossime edizioni.) Esodare: deriva da "esodo". Migrazione di un popolo in fuga dalla persecuzione. In questo caso, si tratta di coloro che sono stati "spinti" fuori dal lavoro verso la pensione. E sono rimasti lì, sospesi. In attesa di un approdo che si è allontanato all'improvviso e in modo imprevisto. Insomma, sono Esodati, come recita una formula di incerta genesi e responsabilità. Coniata, pare, nei primi anni Novanta. Nei meandri che collegano i ministeri, il sindacato, gli uffici pubblici. Un lemma del lessico burocratese. Gli esodati sono un popolo dai contorni in-definiti. Come chi ne fa parte. D'altronde, non si riesce a stimarli con certezza. Perché sono "esodati" in tempi diversi, da luoghi e contesti diversi. Insomma, sono sparsi, spersi e dispersi. Non dispongono di uno statuto né di una condizione comune. Per cui non hanno uno specchio nel quale riflettersi  -  tutti insieme. Un amplificatore attraverso cui far sentire le loro voci con una voce sola. Perché "non-sono". Sono dei Non. Dei Non-lavoratori. Dei Non-pensionati. Oppure dei né/né. Confinati nella Terra di Nessuno, dove nessuno ti vede, nessuno ti chiama. Visto che non hai un nome. Ma un non-nome.

Sei il participio passato di un verbo che non esiste. È questo che rende la condizione degli Esodati difficile e significativa. Il disagio dell'attesa senza fine. Del viaggio senza mèta. Come  passeggeri di un treno finito in binario morto. E dimenticato lì. Come viandanti che si sono perduti, perché il paesaggio intorno a loro è improvvisamente cambiato. E le mappe, le bussole a cui si affidano sono sbagliate. Non li aiutano a orizzontarsi. Un po' come il nostro Paese. Anche noi: Esodati. O forse, meglio, Esodanti. Participio presente di un verbo che - per ora  -  non esiste. Coloro che affrontano un Esodo, senza una destinazione precisa.

(13 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/06/13/news/esodanti-37123863/?ref=HRER2-1
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« Risposta #289 inserito:: Giugno 17, 2012, 06:36:11 pm »

iL SONDAGGIO

Noi e l'Italia che verrà

La ricerca Demos per la "Repubblica delle idee" racconta come saremo. Gli italiani guardano al futuro con un prudente ottimismo.

La maggior parte pensa che le cose siano destinate a cambiare in fretta e nel profondo.

Da qui a dieci anni, oltre la metà si vede felice e scommette sui giovani e tre su quattro pensano che ci sarà un premier donna.

Su chi guiderà il cambiamento, però, i nomi sono quelli di oggi: Monti e Grillo su tutti

di ILVO DIAMANTI


Gli italiani faticano a immaginare il futuro. Sospesi tra la voglia di cambiare e la difficoltà di capire. Come e chi. "Come" cambierà il Paese. "Come" cambierà la società. E ancor più: "chi" sia in grado di produrre e guidare il cambiamento. Così il sondaggio CambItalia, condotto da Demos per la Repubblica delle Idee, offre indicazioni incerte. Come incerto, d'altronde, è il domani. Così gli italiani si dividono equamente, quasi a metà, fra chi pensa che il Paese tra cinque anni sarà cambiato profondamente (52%) e chi ritiene, invece, che non avverranno mutamenti di rilievo. La grande maggioranza di coloro che credono nel cambiamento (62%) immagina, peraltro, che il futuro ci riservi un Paese migliore. E poco meno di metà degli intervistati (49%) azzarda che, tra dieci anni, saremo più "felici".

In altri termini, gli italiani, nell'incertezza, preferiscono guardare il prossimo futuro con un atteggiamento di cauto ottimismo. Senza esagerare, visti i tempi.

Tra gli attori del cambiamento, gli italiani investono, soprattutto nei giovani (46%), fra i soggetti sociali. E credono nell'Unione Europea (24%), fra le istituzioni. Minore, ma comunque rilevante l'importanza attribuita alla scuola, agli imprenditori, alle donne. Inoltre, agli organismi finanziari - le banche, le borse. Ma anche allo Stato e agli attori politici.

Sorprende, invece, il limitato rilievo riconosciuto alla Chiesa. Che, secondo il 54% degli intervistati, in futuro è destinata a contare meno nelle vicende nazionali.

Peraltro, tre italiani su quattro scommettono che, fra dieci anni, l'euro ci sarà ancora. E che in Italia avremo un presidente della Repubblica o almeno un premier "donna". I giovani, le donne, l'Europa: i fattori e gli attori del cambiamento immaginato ma, soprattutto, auspicato. Perché non vi sono molte ragioni per credere che i giovani e le donne troveranno più spazio, rispetto a oggi, nei centri di governo. Mentre l'Unione europea e l'euro attraversano grandi difficoltà. Tuttavia, l'Europa e la sua moneta continuano ad essere percepite come riferimenti importanti, in tempi di crisi. Forse perché è diffusa la percezione della nostra fragilità sul piano internazionale, rispetto a Paesi vicini e lontani. Infatti, oltre 8 persone su 10 ritengono che fra dieci anni la Cina eserciterà sulla nostra economia e sulla nostra società un'influenza superiore rispetto a oggi.

La stessa opinione espressa dalla maggioranza degli intervistati (intorno al 60%) relativamente alla Germania, l'India, i Paesi Arabi, gli Stati Uniti. È un segno dell'importanza del "sentimento globale", accentuato dalla consapevolezza di quanto la nostra economia e la nostra stessa vita dipendano dalle scelte e dagli avvenimenti che si realizzano "altrove". Dove noi, personalmente, non riusciamo e non possiamo arrivare. Mentre gli "altri", le persone di Paesi "lontani", arrivano da noi, sempre più numerosi. Nei confronti degli immigrati, peraltro, non emergono "paure" eccessive.
Quasi 2 persone su 3 ritengono che gli stranieri si confermeranno una risorsa, più che un problema. Mentre quasi il 60% degli italiani non teme l'impatto futuro della religione islamica.
Ciò significa che, parallelamente, quasi 4 persone su 10 guardano gli stranieri e le altre religioni (le religioni degli altri) con inquietudine.

Ma, almeno per ora, la "paura del mondo" non pare aver prodotto la sindrome dell'invasione. E non ha, peraltro, alimentato le divisioni interne al Paese. Il localismo delle piccole patrie. Visto che quasi 9 persone su 10 si dicono certe che, fra dieci anni, l'Italia sarà ancora unita. Mentre solo il 16% pensa possibile l'indipendenza del Nord (che non necessariamente vuol dire secessione).

Il segno della globalizzazione: è marcato anche dall'importanza attribuita, come fattori di innovazione, alle nuove tecnologie della comunicazione. Alla rete, ai pc, ai social network.
Che promuovono e moltiplicano le relazioni a-territoriali. A distanza anche notevole. Il loro peso cresce sensibilmente fra i più giovani, con meno di trent'anni. Appare, invece, molto più limitato il ruolo attribuito, nel futuro, ai media tradizionali. Le tivù e i giornali (che non a caso hanno sviluppato connessioni sempre più strette con la Rete).

Insomma, gli italiani, descritti dal sondaggio CambItalia di Demos, guardano il futuro con prudenza e un po' di apprensione. Sanno che le cose sono destinate a cambiare in fretta e profondamente.
E che i cambiamenti dipenderanno dagli "altri" più che da noi. Da ciò che avverrà in altri Paesi, lontani. E vicini (come la Germania). Per questo continuano a scommettere sull'Europa e sull'euro.
E sull'unità del Paese. Perché divisi e soli è più difficile andare lontano. Peraltro, vorrebbero affidarsi ai soggetti che finora sono stati esclusi dai luoghi del governo e del potere.
I giovani e le donne. Perché è difficile cambiare con una classe dirigente sempre più vecchia.

Tuttavia, quando si tratta di indicare gli attori del cambiamento, tornano gli stessi nomi di oggi e di ieri. Per primi: Monti e Grillo. Il Grillo-Montismo, Giano bifronte del post-berlusconismo.
Seguono, a distanza, con un numero ridotto di segnalazioni: Napolitano, Berlusconi, papa Benedetto XVI e Bersani. Un'età media superiore a 70 anni. Protagonisti del presente e del passato.
La voglia di cambiamento è, dunque, tanta. Ma la ricerca di figure nuove non è ancora cominciata.

© Riproduzione riservata (14 giugno 2012)

da - http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/06/14/news/noi_e_l_italia_che_verr-37163341/
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« Risposta #290 inserito:: Giugno 17, 2012, 06:50:08 pm »

L'EVENTO

"Non c'è democrazia senza i partiti" la lezione di Zagrebelsky e Diamanti

Un'ora di dialogo in piazza tra il politologo e il presidente emerito della Consulta.

"La politica è mediazione e fatica, ma servono nuove proposte e nuove idee che restituiscano alle persone la fiducia negli altri e nel futuro"

di VALERIO GUALERZI


BOLOGNA - Oltre i partiti non c'è nulla. Inutile vagheggiare un'utopica democrazia diretta. La politica è mediazione e fatica quotidiana. Chi ha a cuore le sorti delle democrazia deve quindi darsi da fare affinché i partiti si riformino oppure ne emergano di nuovi. Partiti che devono essere in grado di offrire alternative, riconquistare fiducia, uscire dagli uffici e tornare a interpretare la vita e i bisogni delle persone. E' un appassionato tributo alla politica il dialogo tra Ilvo Diamanti e Gustavo Zagrebelsky. Un omaggio fatto di oltre un'ora di confronto serrato tra il politologo e il presidente emerito della Consulta che una piazza Santo Stefano gremita di gente ascolta attenta.

"La politica sotto/sopra" è quasi una lezione sulla bellezza e l'imprescindibilità della politica che conquista il pubblico della "Repubblica delle idee", smentendo ancora una volta chi confonde la crisi di rappresentatività degli attuali partiti con quella dell'impegno, del desiderio di partecipazione e di comprensione dei meccanismi che governano la nostra vita quotidiana.

Per definire il momento attuale, dominato da una fiducia ai minimi storici nei partiti e nel Parlamento (crollate rispettivamente al 4 e al 10%), Diamanti ha coniato il neologismo "grillomontismo", una parola che unisce due figure e due modi di fare politica apparentemente agli antipodi. Eppure - è questa la convinzione del politologo - solo saldando questi due opposti, l'aristocratica competenza di Monti con la fiducia che Grillo è ancora in grado di raccogliere tra la gente, che la politica può ripartire dopo averci abituato che la figura del politico deve impersonare "il peggio dell'uomo comune". "Devono essere meglio di noi, ma ci devono rappresentare", sintetizza Diamanti.

Una delega quindi è indispensabile, al di là degli slogan dei facili populisti, ma secondo Zagrebelsky è necessario che i partiti escano dagli uffici e ascoltino la società per poi elaborare nuove proposte, nuove politiche. "C'è bisogno di idee, di alternative, altrimenti se passa la convinzione che la politica è solo l'applicazione di meccanismi che non controlliamo - avverte l'animatore di Libertà e Giustizia - subentra l'apatia". "Non servono fondazioni - aggiunge - devono essere i partiti ad elaborare le politiche interpretando ciò che parte dal basso, smettendola di considerare tutti noi e i nostri bisogni come qualcosa che sta sotto di loro e che devono controllare". Detto in altre parole, quelle di Diamanti, "c'è bisogno di persone che ci dicano per cosa votare".

Ma mentre Zagrebelsky sembra avere ancora qualche speranza che gli attuali partiti, seppure in extremis, siano in grado di riformarsi ("se lo fanno vanno bene anche questi"), Diamanti si mostra molto più scettico e insiste sul concetto di fiducia, parola chiave della democrazia. "Nessuno di questi va più bene - spiega - perché non mi aiutano ad avere fiducia nel futuro e negli altri e senza fiducia non c'è democrazia e io alla democrazia ci tengo".

© Riproduzione riservata (15 giugno 2012)

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« Risposta #291 inserito:: Giugno 24, 2012, 09:05:17 am »


Bussole

Maturità

Ilvo DIAMANTI

Se gli adulti chiedono ai giovani di scrivere un tema sui giovani


STO SEGUENDO con attenzione  -  e partecipazione - gli esami di maturità. Quest'anno più dei precedenti. Per motivi personali e familiari, anzitutto. Visto che il più giovane dei miei figli vi è coinvolto. Poi, perché si tratta, comunque, di un rito di passaggio importante per la generazione dei giovani. Per quanto entrambe le definizioni: generazione e giovani, siano assai poco definite. Semmai, molto incerte.

Tuttavia, credo che gli esami di maturità segnino un confine indelebile nella memoria di quanti li abbiano affrontati. Sono "l'esame della vita". Dopo il quale nulla sarà più come prima. Sia che si proseguano gli studi  -  e allora gli esami si moltiplicheranno, fino a diventare una routine. Sia che si intraprenda il lavoro  -  intermittente, flessibile, assente.

E allora gli esami di maturità costituiranno uno spartiacque biografico. Per questo motivo, come altri opinionisti autorevoli, è parso anche a me significativo che, fra i temi proposti dal Ministero, uno riguardasse proprio il destino dei giovani dopo gli studi. Cioè: la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà. Quasi un avviso  -  l'ultimo  -  circa il futuro che li attende. Proprio per questo motivo, però, a differenza di altri opinionisti autorevoli, non ho apprezzato la scelta del tema e dei riferimenti.

Anzitutto, perché, vista la platea, mi è sembrata un po' scontata. Come se i giovani non sapessero di essere una generazione precaria. Come se avessero bisogno di essere avvertiti circa quel che li attende domani o dopodomani: senza lavoro, intermittenti o Neet? Oppure, ancora, "cervelli in fuga"? (Magari come Steve Jobs, che ha inseguito, viaggiando, il sogno che nella scuola americana non poteva realizzare).

Mi è parso un tema retorico. Utile, semmai, a rivelare il retropensiero  -  e il senso di colpa  -  di chi lo ha ideato e assegnato. Professori e burocrati. Persone della mia generazione. Adulte e anziane. Genitori, magari un po' attempati. Preoccupati di quel che attende i loro figli. Il destino di cui essi - la loro, la nostra generazione  -  sono responsabili. A cui essi - la loro, la nostra generazione  -  non sanno (in parte, non vogliono) dare risposta.

Tuttavia, non ho apprezzato il tema sui giovani anche per la chiave di lettura che suggerisce. Coerente con le ragioni che ne hanno ispirato la scelta. Perché il tema traccia, dei giovani, un profilo in penombra. Disegna, cioè, il ritratto di una generazione infelice e sfortunata. La cui salvezza, del tutto provvisoria, è affidata proprio a noi. Gli adulti. Che li mantengono a lungo. A casa propria. Offrono loro un appiglio, una stazione di passaggio. Tra un lavoro e l'altro. Nel corso  -  lungo e senza sbocco  -  degli studi.

Come prospettiva, tra le fonti proposte, echeggia la lezione di Jobs. Che, a Stanford, esortava i giovani: "Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo, loro sanno già cosa voi volete davvero diventare". Mentre solo il 23,4% dei "nostri" giovani  -  certifica il Censis -  risulta disponibile "a trasferirsi in altre regioni o all'estero per trovare lavoro". In altri termini: i giovani sono attesi da un destino triste. Anche perché non sono disposti a spostarsi lontano da casa per lavorare. E non hanno abbastanza fame, non sono abbastanza folli per cercare soddisfazione e successo...

In effetti, non è proprio così. Gli infelici, i pessimisti, i più infelici e pessimisti: siamo noi. Gli adulti. I genitori. Quelli che proiettano sui giovani le proprie paure. Quelli che immaginano un futuro senza sbocchi. Quelli che parlano di "fuga dei cervelli", quando i nostri laureati vanno a lavorare in altri Paesi. Loro, i giovani, i laureati, quelli che hanno studiato oppure stanno ancora studiando, ormai si sono abituati. Alla cosiddetta flessibilità. Al lavoro incerto e intermittente. Guardano Jobs con ammirazione. (Anche per quel che evoca il significato del cognome.)

Non sono disperati e neppure rassegnati. Costretti ad adattarsi, si adattano. E adattano le loro aspettative alla realtà. Per cui, se anche fosse vero che esprimono qualche resistenza a cercare lavoro lontano da casa, è altrettanto vero che  -  loro per primi -  si rendono conto di non avere alternativa. Infatti, tre su quattro, fra 15 e 24 anni, pensano che "per i giovani di oggi che vogliono fare carriera l'unica speranza è andare all'estero" (sondaggio Demos, aprile 2012).

Semmai, siamo noi, i genitori, gli adulti, cresciuti in un clima di garanzie e di certezze, fondate sul lavoro stabile e sicuro, i più spaventati di fronte all'immagine evocata dai giovani. Siamo noi che, di fronte all'esperienza dei giovani laureati e intellettuali "emigrati" all'estero, parliamo di "fuga dei cervelli". Come se i "cervelli", in una società libera e aperta, potessero essere imprigionati. Il problema è un altro.

I "cervelli in fuga" sono i nostri. Perché siamo prigionieri del passato, incapaci di disegnare il futuro e perfino di immaginarlo. Noi: continuiamo a  definire i giovani "motore del cambiamento". Ma, in effetti, neghiamo loro perfino il diritto di incazzarsi con noi. E li invitiamo ad avere compassione. Di se stessi. Con le parole di Paul Nizan, utilizzate per un altro tema della maturità: "Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita". Nizan, quando scrisse quella frase, aveva 26 anni. Proposta al commento dei giovani da noi adulti: suona ironica. E un poco ipocrita.
 

(22 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #292 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:32:45 am »

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Il fantasma d'autunno nel Paese del Vuoto

di ILVO DIAMANTI

SI PARLA troppo di elezioni anticipate, in autunno, per non prenderle sul serio. Anche e tanto più se  -  nell'attuale maggioranza  -  nessuno afferma di volerle davvero. Bersani, nei giorni scorsi, ha allontanato l'ipotesi come una iattura. Una prospettiva a cui penserebbe Berlusconi, per non venire emarginato dal suo stesso partito  -  che ormai non c'è più. Questa soluzione, però, non risolverebbe nulla. Anzi: aggraverebbe la crisi italiana, di fronte all'Europa, all'euro e ai mercati internazionali. Eppure se si parla di possibili elezioni in autunno il rischio c'è. Perché, comunque, nessuno è in grado di garantire la tenuta e la stabilità della maggioranza parlamentare che sostiene l'attuale governo.

1. L'attuale governo, anzitutto, designato dal Presidente nello scorso novembre e accolto con soddisfazione dai cittadini, da qualche mese ha perduto consensi. Il premier, Mario Monti, dispone ancora del sostegno di oltre il 45% dei cittadini (dati Ipsos). È il più accreditato fra i leader. Ma è in calo sensibile, rispetto agli scorsi mesi. In marzo superava il 60%. In aprile: al di là del 50%. D'altronde, è difficile governare con una maggioranza parlamentare di "emergenza". Che riassume forze e personalità politiche da sempre ostili, reciprocamente. È difficile fare riforme, assumere decisioni che la maggioranza precedente non era stata in grado di affrontare. Senza generare
insoddisfazione. Politica e sociale. Tanto più se la posizione italiana, in ambito europeo e internazionale, resta debole. Perché, allora, tanti sacrifici? Perché "morire per l'euro"? Sono le voci, insistenti, che agitano la scena politica. E trovano ascolto crescente anche fra i cittadini.

2. È difficile, d'altronde, affidare all'attuale maggioranza il compito di sostenere il governo e la legislatura fino in fondo. Perché, semplicemente, è una maggioranza fittizia, matematica, parlamentare. Politicamente divisa e, anzi, attraversata da fratture irresolubili, su molte questioni politiche essenziali. Giustizia, informazione, televisione. I partiti: condizionati dal malessere degli elettori sulle principali riforme: pensioni, lavoro, fisco.

3. Per contro, non si vede come potrebbe emergere una nuova, solida maggioranza, da nuove elezioni. Proviamo a fare un po' di conti, in base alle stime dei sondaggi condotti dai principali istituti demoscopici. Il centrodestra non c'è più. Pdl e Lega sono divisi. Ma anche se tornassero insieme non andrebbero oltre il 23-24%. Circa il 17-18% il Pdl e il 4-6% la Lega. Forza Italia, da sola, faceva di più. Il centrosinistra, però, non pare in grado di offrire un'alternativa valida. Perché fra il Pd e l'Idv (sempre più all'opposizione di Monti) il solco è divenuto un abisso, di mese in mese. Perché i tre volti di Vasto, Pd, Idv e Sel, insieme non raggiungerebbero il 40%. Mentre il Terzo polo appartiene al passato, liquidato da Casini. Ma l'Udc non va oltre il 7-8%. E i suoi elettori sembrano riluttanti ad allearsi con uno dei due poli.

4. Così è cresciuto e cresce ancora il quarto polo. Il partito di coloro che ce l'hanno con i partiti. Con il governo Monti, appoggiato dai partiti. Con le oligarchie dei partiti. Il partito di coloro che ce l'hanno con l'Europa dell'euro (marco). Interpretato, oggi, dal Movimento 5 stelle, ispirato da Beppe Grillo. Alle recenti amministrative ha ottenuto un grande successo, che ha diverse spiegazioni. Locali e no. Ma è cresciuto a dismisura, nel corso delle ultime settimane, trainato dall'insoddisfazione degli elettori. Di sinistra, ma anche e sempre più di centrodestra. In primo luogo, della Lega. Il M5s, attualmente, è accreditato di oltre il 20%. Secondo partito, dopo il Pd. In Veneto, tradizionale laboratorio del cambiamento politico nazionale, il M5s è divenuto il partito che dispone della maggior base di "fiducia" fra gli elettori il 26%. A causa della "sfiducia" nei confronti di tutti gli altri, in crollo di credibilità, negli ultimi mesi (Dati dell'Osservatorio Nordest per il Gazzettino, maggio 2012). D'altronde, un larga maggioranza degli elettori (il 43% in ambito nazionale, sondaggio Demos, maggio 2012), vedono nel M5s un mezzo per esprimere "la protesta contro tutti i partiti". Il problema del sistema politico italiano, dunque, è il "vuoto" che si è aperto al suo interno. Perché non ci sono partiti e tanto meno coalizioni in grado di aggregare una solida maggioranza di consensi. Tale da garantire non solo la vittoria alle elezioni, ma anche e soprattutto legittimazione, capacità di governare.

5. In questa fase, però, non ci sono neppure santi e protettori, in grado di offrire ai cittadini un riferimento, una luce, una sponda. O almeno un appiglio a cui aggrapparsi. Negli ultimi anni, questo ruolo è stato svolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che ha guidato il Paese, in tempi tanto duri, affidandone il governo a Monti e ai tecnici. Aristocrazia democratica di una democrazia rappresentativa sempre meno rappresentativa. Ora, però, neppure Monti riesce più a garantire il consenso popolare, intorno a sé. E Napolitano, il suo sponsor principale, ne risente, come mostrano gli indici di fiducia nei suoi, confronti. In calo significativo.

6. Il Vuoto. È la sensazione che provano i cittadini, in questa fase. Di fronte alle vicende dell'economia e dei Mercati. Difficili da comprendere e, quindi, da affrontare. Perché non è chiaro come difendersi  -  né chi ti può difendere  -  da minacce sconosciute. Fitch, Standard & Poors, Moody's e per primo il famigerato spread. L'euro e la Germania. Così tutto e tutti perdono fiducia. Tutte le istituzioni, non solo i partiti. L'Unione europea, lo Stato, il Parlamento. Ma anche la magistratura, la Chiesa, i sindacati. Così cresce il "Vuoto intorno a noi". La sensazione di essere soli. Contro tutti. E, insieme, cresce la tentazione di affidarsi a chi è in grado di gridare al mondo la nostra insofferenza e la nostra rabbia. Poi, si vedrà.

7. Per questo le elezioni in autunno sono possibili, se non probabili. E, comunque, le elezioni alla loro scadenza naturale, nella primavera del 2013, non sono una soluzione. Semmai, una deroga, una pausa ulteriore, prima della resa dei conti. Nell'attesa che qualcun altro, oltre a Grillo, si proponga e ci proponga di colmare il Vuoto politico intorno a noi. Perché, echeggiando Aristotele, in politica, ancor più che in natura, il vuoto non può esistere.

Per questo non dobbiamo chiederci se e quando si voterà. Ma per quali partiti  -  vecchi e nuovi  -  e per quali leader  -  vecchi e nuovi. Con quale legge elettorale. Chi ha qualcosa da dire, al proposito, è meglio che lo faccia subito... Se il Vuoto incombe, la colpa non è di Beppe Grillo.

(25 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #293 inserito:: Luglio 09, 2012, 11:22:12 pm »

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Il declino dei poteri locali

di ILVO DIAMANTI

IL TERRITORIO. Dopo vent'anni di successi, adesso sembra perdere importanza. Insieme agli attori politici che ne hanno fatto una bandiera. Il "trionfo del territorio" si era materializzato, in modo inequivocabile, alle elezioni politiche del 1992. Interpretato dall'avanzata della Lega Nord, che aveva segnato la crisi definitiva della Prima Repubblica. Spostando il baricentro politico del Paese dal centro alla periferia. Una tendenza rafforzata e istituzionalizzata l'anno seguente, dalla legge 81 del 1993. Che sancisce l'elezione diretta dei sindaci. E, insieme, dei presidenti di Provincia. Sette anni dopo, nel 2000, lo stesso avviene per i presidenti di Regione. Da allora, anch'essi eletti direttamente dai cittadini. Da vent'anni, dunque, l'Italia si è trasformata in uno Stato a presidenzialismo diffuso. Una Repubblica federalista, ma "preterintenzionale". Divenuta tale, cioè, senza un disegno preciso e condiviso. Quasi per caso. Nel segno del territorio. Esibito come una bandiera, oltre che dalla Lega, dagli amministratori eletti direttamente "dal popolo sovrano". I sindaci, appunto. Ma anche i presidenti. Di Regione. E di Provincia. Oltre metà delle Province, però, domani potrebbe "scomparire". O meglio, essere ridotta e "accorpata".

Le Province. Secondo le principali forze politiche, avrebbero dovuto essere "cancellate" ancora trent'anni fa. Quand'erano circa 70. Nel frattempo, però, sono divenute 107. Perché le province
non sono solo istituzioni, ma, come ha scritto Francesco Merlo, "la particella del Dio italiano". Un Dna che sancisce "una separatezza e una diversità che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali". Ed è difficile opporsi al nostro Dna. A contrastare il "provincialismo" italiano ha provveduto  -  o meglio, ci sta provando  -  il governo tecnico, guidato dal super-tecnico, Mario Monti. In base ai criteri tecnici che hanno orientato la spending review. In altri termini: la revisione della spesa. Meglio: degli sprechi. E le Province, in effetti, in gran parte erano e sono fonte di spreco. Peraltro, la spending review e, in generale, le politiche di bilancio del governo tecnico, pur senza cancellarli, hanno ridimensionato anche gli altri governi territoriali. E i loro sovrani. Regioni e Comuni. Governatori e sindaci.

Le Regioni. Pesantemente colpite dai tagli alla Sanità. Il che significa: la loro principale "missione". D'altronde, cosa sono le Regioni se non una grande Asl, visto che circa l'80% dei loro bilanci è "saturato" dai capitoli sociosanitari?

Così i Comuni. Costretti a fare gli esattori delle imposte immobiliari, per conto dello Stato. Aggiungendovi le loro sovrattasse. Indotti, per finanziarsi, a edificare il territorio. In altri termini: a degradarlo ulteriormente. Perché gli oneri di fabbricazione costituiscono, per i Comuni, la principale fonte di auto-finanziamento. I sindaci, così, sono divenuti "sovrani a parole". Hanno ottenuto competenze e visibilità. Generato aspettative. Senza, tuttavia, disporre di adeguati poteri. Oggi fanno i conti con risorse  -  sempre più  -  ridotte. Hanno tradotto  -  e pagato  -  la maggiore autonomia mediante una maggiore pressione impositiva. Certo, non è del governo Monti la responsabilità di questa tendenza. Avviata dai governi che l'hanno preceduto. In modo, peraltro, contraddittorio. Si pensi allo sciagurato "patto di stabilità" che, negli anni scorsi, ha "premiato" i governi locali che avevano speso  -  e dissipato  -  di più. Beffando i Comuni virtuosi.

Attraverso la spending review, il governo Monti, pur senza dichiararlo, ha, però, nei fatti, decretato la fine del federalismo all'italiana. Tradotto nella moltiplicazione infinita delle Province, nel trasferimento  -  mediante referendum  -  di centinaia di comuni da una regione all'altra, in base a calcoli di opportunità e di vantaggio. Un federalismo ir-responsabile, dove i governi locali non sono chiamati a rispondere delle loro scelte. Per cui i "patti territoriali", nel Sud, si sono spesso tradotti in meccanismi di spesa e burocratizzazione ulteriori. Questo federalismo, usato dalla Lega come una bandiera, oggi appare improduttivo e poco vantaggioso, ai cittadini. Non a caso solo una persona su cinque, oggi, ritiene che, fra dieci anni, "in Italia ci sarà un federalismo vero". Mentre due su tre pensano il contrario (Sondaggio Demos, giugno 2012).

Così, dopo anni di federalismo a parole e di parole sul federalismo, oggi assistiamo alla ri-centralizzazione delle scelte. Alla crescente debolezza dei governi e dei governatori locali. Alla difficoltà dei soggetti politici che si riferiscono alla questione territoriale. Per prima la Lega Padana. O Nord, non importa. Assistiamo, ancora, alla centralizzazione organizzativa dei partiti. Sempre più "romani". E alla marginalizzazione dei sindaci, un tempo, tanto tempo fa, attori politici di primo piano. Soggetti di cambiamento. (Soprattutto nel Centrosinistra).

Il declino del territorio, come base del governo, della rappresentanza e dell'identità politica, tuttavia, si sta consumando senza che emergano altre soluzioni. Altre strade. Altri riferimenti. Senza che lo Stato e la politica "nazionale" abbiano assunto maggiore autorevolezza. (Al contrario). Senza che l'opacità del progetto federalista sia compensata da un progetto abbozzato, se non definito, di riforma dello Stato e del governo. Il federalismo all'italiana, d'altronde, è avvenuto senza un'adeguata cessione di autorità e, soprattutto, risorse, dal centro alla periferia. Per cui ha prodotto e riprodotto conflitti infiniti fra Stato centrale ed enti locali.

Ma il declino del territorio, che erode l'autorità dei sindaci e dei presidenti di Regione  -  e di Provincia  -  non risolve i conflitti. Non restituisce lo scettro al sovrano. Allo Stato. Al potere centrale. Perché avviene per urgenza e necessità tecnica. Per iniziativa dei tecnici. Garanti e depositari di un potere che origina dall'esterno. Dall'emergenza imposta dalla crisi, i mercati, le autorità monetarie e finanziarie. Europee e internazionali. Qui sta il problema. Perché se lo Stato è l'istituzione che esercita la propria sovranità e il proprio potere sul territorio, allora la dissolvenza del territorio può avere esiti ed effetti imprevedibili. Ma, certamente, insidiosi. Insieme al territorio e ai suoi attori, rischia di coinvolgere anche lo Stato. Di delineare un Paese senza centri né periferie. Riassunto in una unica, grande periferia.

(09 luglio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #294 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:24:16 pm »

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"Peggio di Berlusconi nessuno mai" un italiano su due boccia il ritorno

Solo il 13% degli intervistati indica il fondatore di Forza Italia e del Pdl come uno dei personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. E ora il Cavaliere è costretto a inseguire le novità della politica: cercherà di essere sintesi tra Monti e Grillo.

Ma i partner europei ne temono la ricomparsa. E anche la sua capacità di comunicare appare retrò

di ILVO DIAMANTI

FRANCAMENTE, me l'aspettavo. Il ritorno di Silvio Berlusconi. E quando l'ho rivisto sulla scena, auto-ri-candidato, mi è giunta l'eco di Mogol e Battisti. "Ancora tu? Non dovevamo vederci più?". Citazione ironica, perché Berlusconi non se n'è mai andato. Abbandonare così: non gli è possibile. Non solo perché è "costretto" a difendersi. Dai magistrati, i nemici di sempre. E di fronte alle minacce contro i suoi interessi media-televisivi.

Non se ne poteva andare così, soprattutto perché non gli è possibile immaginare la politica italiana - oltre che il centrodestra - altrimenti. Senza di lui. D'altronde, è difficile per tutti concepire l'ultimo scorcio della nostra storia. Senza di lui. Basta scorrere i dati del sondaggio di Demos-Coop per "la Repubblica delle Idee". Tra gli avvenimenti che hanno segnato positivamente l'Italia, negli ultimi trent'anni, il 55% degli intervistati indica "la fine del governo Berlusconi". Il 25% "la discesa in campo del Cavaliere".

Secondo il 33% degli italiani, si tratta degli avvenimenti che - nel bene e nel male - hanno cambiato maggiormente la storia del Paese. In particolare, la (prima) discesa in campo. Berlusconi ha contribuito a scrivere la biografia della Nazione degli ultimi trent'anni, più di Tangentopoli, dell'immigrazione, della Padania. In misura minore, solamente, della crisi economica e dell'Euro. Certo, si tratta di opinioni espresse "oggi".

E, com'è noto, il presente orienta il nostro sguardo sul passato. Tuttavia nell'autobiografia collettiva del Paese Berlusconi occupa uno spazio importante. Basti considerare le classifiche dei personaggi che hanno cambiato l'Italia negli ultimi trent'anni. Realizzate in base alle opinioni espresse dagli italiani liberamente, senza liste di nomi preconfezionate. Nel bene come nel male, al primo posto c'è lui. Con misure ben diverse, certo.

Il 13% degli intervistati indica Berlusconi come uno dei due personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. (Un punto in più rispetto al Presidente Napolitano). Mentre sono molto più numerosi quanti lo considerano l'uomo che ha cambiato "in peggio" il Paese. Oltre una persona su due. Per la precisione: il 54%. Mentre Monti, Prodi, Di Pietro, Bossi, perfino Craxi - unico sopravvissuto della Prima Repubblica, nella memoria - sono al di sotto del 10%.

Berlusconi. Al tempo stesso, il più amato e il più odiato. Della Seconda Repubblica. Al punto da dilatarla nel tempo. Oltre la caduta del muro di Berlino. D'altronde, Berlusconi l'ha rimpiazzato con un nuovo muro. Il muro di Arcore. Tenendo vivo l'Anticomunismo senza il Comunismo. Oggi Berlusconi conta di risorgere di nuovo. Come dopo la sconfitta del 1996. Come nel 2006, quando tutti lo davano per finito, per primi i suoi alleati. E lui trasformò una sconfitta sicura in un quasi-pareggio. Cioè, viste le previsioni, in un grande successo. Conquistato, di larga misura, due anni dopo.

Come nelle precedenti resurrezioni, Berlusconi sottolinea la svolta cambiando il nome. Da Forza Italia alla Casa delle Libertà. E ancora, al Popolo delle Libertà. Domani si vedrà. Non Forza Italia. Significherebbe un "ritorno alle origini". Mentre Berlusconi intende annunciare un "ritorno al futuro". E poi, FI decreterebbe la fine senza appello di AN. Potrebbe sollevare ulteriori risentimenti, nel centrodestra. Berlusconi sceglierà un nome nuovo, che evochi il "suo" passato ma anche il cambiamento. Utilizzerà, come sempre, le tecniche del marketing - sondaggi, ricerche di mercato - per testare il marchio più efficiente. Lo slogan più efficace. Ma alla fine deciderà lui. Come sempre.

Anche per quel che riguarda la squadra. Sceglierà persone fedeli e "significative". Che "significhino" la nuova svolta. La fine del Cavaliere Gaudente. Per questo la Minetti se ne deve andare. Subito. Per spezzare l'anello di congiunzione con le Olgettine, i Bunga Bunga, Ruby, Noemi, le Feste di Arcore e Villa Certosa. Una stagione finita. Berlusconi cercherà di scrivere una nuova "Storia Italiana". Coerente con il sentimento del tempo. Sospeso fra paure economiche e insofferenza politica. Nonostante sia un'impresa impensabile, anche per lui, assumere un profilo misurato. Da "peccatore pentito".

Berlusconi: cercherà la sintesi del Grillo-Montismo. Tendenze di successo di questa fase. La domanda di competenza e di democrazia diretta. Il Tecnico e il Blogger Predicatore. Berlusconi proverà a mixarli, a intercettarne il segno. (Una novità che altri soggetti, e non lui, annuncino le novità. E che lui sia costretto a inseguire.) Una missione complicata. Conquistare la credibilità dei mercati, il rispetto dei leader internazionali. Per primi, quelli europei. Che ne temono il ritorno più di molti italiani. E ancora, andare oltre la sua professionalità. Oggi retrò. Perché lui è il leader della democrazia mediale. Non digitale. Lui: sa controllare la televisione. La Rete è estranea alla sua cultura. Perché perfino a Grillo risulta difficile governarla verticalmente. Personalizzarla. E poi è troppo diretta. Ve lo immaginate il Cavaliere comunicare in Rete e dunque "senza rete" con chiunque? Senza "mediazioni"?

Ci proverà, Berlusconi, a risorgere di nuovo. Intanto, ha esibito un sondaggio. Come nel 2006, quando si affidò all'agenzia americana PSB. Serve a dire che è ancora competitivo. E tanto più gli altri lo inseguiranno, con altri sondaggi di segno opposto, tanto più la profezia demoscopica rischia di avverarsi. Perché la stessa "smentita" del dato con altri dati appare una conferma (lo osservato Nando Pagnoncelli). E poi Berlusconi conta sui tradizionali alleati. La memoria corta degli italiani. La loro indulgenza. (Chi è senza peccato...) La vocazione del centrosinistra a farsi del male. (Ci sta provando il PD, proprio in questi giorni.) Dopo il 1996 e il 2006, d'altronde, non sono stati i leader e gli uomini del centrosinistra a metter fuori gioco Prodi?

Berlusconi ritorna perché non ha e non può avere eredi. Senza di lui questo centrodestra rischia la dissoluzione. Spolpato da altri soggetti. Più o meno nuovi. Comunque ostili al Cavaliere. Liste ispirate da Monti e da Montezemolo. Perfino da Grillo.

Berlusconi ritorna per auto-difesa. Ma soprattutto perché non riesce a uscire di scena. Perché la scena, senza di lui, gli pare impossibile. Perché immagina il futuro come il passato. Berlusconi, insomma, è prigioniero del proprio passato. Che però è passato. Il berlusconismo è una storia chiusa, su cui la crisi degli ultimi anni ha posto la parola fine. Le dimissioni della Minetti, le strategie di marketing creativo, la nostalgia diffusa in molti ambienti, perfino nel centrosinistra: non basteranno a riaprirla.

(16 luglio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #295 inserito:: Agosto 13, 2012, 05:00:40 pm »

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Se i partiti vivono in un mondo sparito

di ILVO DIAMANTI

DOPO Monti. Che ne sarà del sistema partitico italiano? Con quali alleanze e quali leader affronterà le prossime elezioni? Intorno alla legge elettorale: è difficile dire qualcosa. Le proposte dei diversi partiti sembrano fatte apposta per interdire quelle altrui. Mentre i contatti tra i leader e i partiti proseguono. Disegnano scenari futuri che riflettono quelli di un tempo.

Nel centrodestra, la Lega di Maroni non può ri-stabilire l'alleanza con il Pdl di Berlusconi. Per non smentire se stessa. Ma non può neppure prescinderne, come prospettiva. Soprattutto in caso di elezioni in Lombardia. Pena: l'isolamento. La marginalizzazione. Reciprocamente, il Pdl: non può escludere l'intesa con la Lega, su cui ha costruito la sua maggioranza da oltre dieci anni. Così entrambi i partiti si (contrad)dicono: nemici a parole, ma alleati in diverse occasioni. Come al Senato, di recente, nel voto a favore del semi-presidenzialismo. Pdl e Lega. Distanti, ma pronti a collaborare di nuovo. Dopo Monti.

Nel centrosinistra il progetto di Veltroni, del Pd partito unico e maggioritario, in grado di intercettare i voti dell'area di sinistra, è tramontato. Così si riapre la tradizionale questione. Quale coalizione? Centro-Sinistra o Centrosinistra senza trattino? Cioè, un'intesa fra Pd e Udc, aperta a Sinistra, cioè a Sel? Oppure un rapporto privilegiato fra Pd, Sel e Idv, raffigurato dalla cosiddetta "foto di Vasto"? (un'ipotesi difficile, dopo le critiche violente di Di Pietro contro Monti, Napolitano e, dunque, contro il Pd di Bersani). Le discussioni degli ultimi giorni non offrono risposte chiare, al proposito. D'altronde, nessuno dei principali attori politici, in questa fase, può permettersi di indicare un percorso rigido. Rinunciando ad altre soluzioni, ad altre intese e alleanze. Troppo fluido il campo politico. Troppo instabili e precari gli orientamenti dei mercati e, d'altro canto, i sentimenti dei cittadini. Così Casini annuncia che l'Udc correrà da sola, ma apre all'intesa con il Pd. Mentre Pd e Sel siglano un patto di solidarietà. E Bersani esprime interesse a un'intesa con l'Udc. Che Vendola non esclude. Di Pietro, invece, propone un cartello dei partiti antagonisti, che veda l'Idv insieme a Sel e al M5S. Subito rifiutato da Grillo e da Vendola. Insomma, dopo Monti: la confusione regna sovrana. Tutto è possibile e nulla è escluso. In questa transizione estiva. Parole e immagini: come dissociate. Asincrone. Come provenissero da un altro mondo. D'altronde, i mercati non vanno in ferie. Non si riposano. Anzi. E neppure la politica, quest'anno. I suoi protagonisti: impegnati a disegnare mappe e scenari per il prossimo futuro. Il dopo Monti. Seguendo gli stessi linguaggi e le stesse formule di ieri. Come se - dopo Monti - fosse possibile ripetere lo stesso copione. Con le stesse etichette, le stesse sigle, gli stessi calcoli. Di prima. Io penso che si tratti di ragionamenti in-fondati. Elaborati e proposti in modo inerziale.

Dopo Monti: non è possibile ripetere lo stesso schema di prima. Proviamo a fare qualche conto, sulla base dei sondaggi più recenti. Tendenzialmente, il Pd, insieme a Sel e l'Udc, può ottenere intorno al 35% dei voti. Mentre un'intesa fra il Pdl e la Lega raggiungerebbe a fatica il 25%. Il Pdl e lo stesso Pd, d'altronde, faticano a proporre e immaginare  -  nel senso di "raffigurare" - alternative future, che li vedano reciprocamente antagonisti, quando coabitano sotto lo stesso tetto. A sostegno del governo Monti. I partiti di opposizione - della prima e della seconda ora  -  non sembrano, peraltro, monetizzare la loro (op)posizione. L'Idv e Sel si aggirano intorno al 6-7%. Come, d'altronde, il più convinto sostenitore del governo: l'Udc. La Lega, infine, non riesce, per ora, a superare la soglia critica del 5%. Insomma, i principali partiti dell'era berlusconiana hanno subito un sensibile calo nel corso del governo Monti. Tutti, senza eccezione. Unico beneficiario: il M5S. Emerso, anzi, esploso negli ultimi mesi. In occasione delle amministrative dello scorso maggio. È, ancora, stimato un po' oltre il 20%. Poco sopra il Pdl. Non molto al di sotto del Pd. Intercetta il consenso di chi esprime dissenso verso il sistema partitico della Seconda Repubblica.

Non solo il Pdl e i suoi alleati, ma anche i partiti di opposizione di centrosinistra. Che hanno accettato le regole e i modelli del gioco imposto da Berlusconi. (Alcuni, come l'Idv di Di Pietro, sono sorti e si sono sviluppati insieme al Cavaliere). Senza riuscire a rinnovarsi davvero. Neppure negli ultimi anni, quando il vento dell'antipolitica ha soffiato più forte. E continua, in questa fase, a spirare violento. Lo dimostra l'attenzione suscitata dal referendum promosso dall'Unione Popolare contro la diaria dei parlamentari. Un referendum sconosciuto, come il soggetto politico che lo ha lanciato. Un'iniziativa, peraltro, di dubbia costituzionalità, in quanto non è possibile indire referendum l'anno prima delle elezioni legislative. Per quanto "silenziata" dai media e, ovviamente, dai partiti, sembra che abbia raccolto un'adesione molto ampia. A conferma del clima ostile che agita settori molto estesi della società contro il sistema partitico e i "politici".
Ebbene, dopo Monti  -  e dopo Grillo  -  non è possibile riproporre gli stessi schemi, le stesse etichette e gli stessi volti di prima. Perché - come ho già scritto  -  entrambi, per quanto diversi e perfino alternativi, segnalano la crisi della nostra democrazia rappresentativa, oltre che del Berlusconismo. Il grado di fiducia, ancora elevato, di cui dispone Monti: rivela la domanda di una classe politica migliore. Competente e di qualità.

Il risultato alle amministrative e il largo consenso riconosciuto dai sondaggi al M5S sono proporzionali al vuoto dell'offerta politica. Esprimono la critica "dal basso", verso una classe politica lontana dai cittadini. E non migliore di essi (anzi...).

Le ipotesi di cui discutono i partiti e i leader risultano, per questo, inattuali. Come le mappe storiche che colleziono, disegnano confini e Paesi che non esistono più. Comunque, irriconoscibili, rispetto al presente. Come l'Italia pre-unitaria. Oppure l'Europa prima della fine della Yugoslavia e dell'Urss. Ma, dopo Monti, sono cambiate le mappe e le bussole della politica del Paese. Siamo entrati in un'epoca geopolitica diversa. Nulla resterà come prima.

(06 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #296 inserito:: Agosto 20, 2012, 06:43:56 pm »

LE MAPPE

La dissociazione tra politica e democrazia rappresentativa

Una volta l'arena politica era occupata dai partiti e i politici erano, di conseguenza, gli eletti dai cittadini.

Ora i parlamentari si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari

di ILVO DIAMANTI

LA DISSOCIAZIONE fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare "come se". Tutto fosse come prima. Quando l'arena "politica" era occupata dai partiti e i "politici", di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini. Nelle liste promosse e proposte dai "partiti". Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito "politico" in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, "intercettato" durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell'inchiesta, dall'altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell'intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell'inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di "abusi" nell'ambito delle intercettazioni. E, ancora, l'Anm, intervenuta a sostegno dell'azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all'economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l'attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l'assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. "Eletti" in assemblee "elettive".
Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa.

Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri "costitutivi" della democrazia. Che concorrono a "garantire" e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell'Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa. A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al "campo politico" in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall'importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l'immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I "politici", cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari.

Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i "politici" si sono presentati come "antipolitici". Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti. Un'altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo "tecnologico". Questa, infatti, è l'epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L'economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull'andamento dei Mercati. Ed essa stessa, a sua volta, è un "mercato".

Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D'altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato. Conservato in archivi immateriali. Siamo nell'era dell'Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l'eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e WikiLeaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l'Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il "ridicolo" diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione "pop". Pardon: punk.

In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico  -  portata alle estreme conseguenze da quasi vent'anni di berlusconismo  -  hanno minimizzato il ruolo e l'importanza dei "politici di partito". E dei "partiti politici". Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all'inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro.

Personalmente, mi preoccupa l'eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla. Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa "senza" partiti. Ma neppure "con questi" partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.

(20 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #297 inserito:: Agosto 20, 2012, 06:44:46 pm »

Tifo dunque sono

Ilvo DIAMANTI

Ho quasi cinquant'anni, sono un impiegato pubblico. Vivo e lavoro a Padova. Mi chiamo Ludovico, ma, a parte il nome, non so più chi sono. Come definirmi. Il Lavoro? Meglio fingere indifferenza. Dipendente pubblico è sinonimo di "Fannullone". L'unica etichetta che rischio di portarmi dietro. Appiccicata da Brunetta. Che, a quel che ricordo, quando lavorava, faceva il professore universitario. Proprio qui: a Padova.  Dunque, era anche lui un dipendente pubblico. Il lavoro, però, non è più un marchio indelebile. Non dà identità. In parte perché oggi è una merce scarsa. In parte perché è diventato fluido. Incerto, frammentato, instabile.

D'altronde, oltre metà delle persone si pensa "in fondo" alla scala sociale. Le posizioni e le gerarchie sono, dunque, più confuse di un tempo. In questa società "liquida", (dis) orientata da un lavoro "liquido", per usare il linguaggio di Bauman. Sociologo trendy, capace di liquefare ogni cosa intorno a noi. Non senza ragione. Perché anch'io mi sento abbastanza anonimo. Senza nome. Senza luogo. Senza bandiera. Senza un "noi" in cui trovare rifugio. A cui ancorarsi. La Politica? Sicuramente no. Si è perduta e ha perduto anche me. Che ero di sinistra e riformista. Un laburista, avrei detto fino a qualche anno fa. Ma oggi come si fa a definirsi laburisti se il lavoro si è liquefatto? E poi, sinistra riformista... Ma che vuol dire? Se penso che la maggioranza di governo tiene insieme PD, PdL e UdC, mi dico, ma che vuol dire Sinistra riformista? Perché c'è bisogno di un avversario, se non di un nemico, per sentirsi "parte". In politica. Ma se i berlusconiani sono dalla "mia" parte, se il governo è Tecnico, senza bandiera e senza fede, se non quella del Bilancio e del Mercato, allora non c'è più religione. D'altronde, anche la Religione...  Sono tutti cattolici, siamo tutti cattolici. Io stesso lo sono. Almeno, se me lo chiedono, affermo (ammetto?) di esserlo. Ma in Chiesa non ci vado quasi mai. Al massimo a Pasqua e Natale. O quando si sposa una persona che conosco... (Anche se ormai non si sposa quasi più nessuno.) Così, dirsi cattolici, non costa molto. Ma non aiuta a "situarsi". A darsi un posto nel "nostro" mondo. A distinguersi dagli altri. E al tempo stesso a dire "da che parte" e "con chi" stai.

L'Età. Neanche quella contribuisce. Perché oggi sono, siamo tutti giovani. Ieri ho incontrato un "vecchio" amico. Qualche anno appena meno di me. Gli ho chiesto cosa facesse. Mi ha detto che è manager di una piccola impresa. E ha aggiunto che presiede il Comitato Regionale dei Giovani della sua Associazione di categoria. Con orgoglio evidente. Motivato non so se dal ruolo  -  Presidente  -  o dal settore, quindi dalla definizione sociale: Giovane. A più di quarant'anni. Perché nel nostro tempo e nella nostra società sono tutti giovani e non invecchiano mai. Fino a quando non vengono affidati a una badante. Oppure muoiono.

La Geografia? Come può darti un'identità? L'hanno praticamente abolita dagli insegnamenti: nella scuola dell'obbligo e in quella superiore. Per cui nessuno sa più neppure dove abita. Berlino, Dublino e Toblino. È lo stesso. Se devi muoverti, andare da qualche parte, c'è il GPS, il Satellitare. In auto, negli smartphone.  Ti guida lui. Non c'è bisogno di sapere dove sei. Non è importante. Basta ascoltare le indicazioni scandite da una voce metallica. Così il luogo non serve a darti una "posizione". Una direzione. Un senso. Io, che abito a Padova, me ne rendo conto. Appena qualche anno fa avevo solo l'imbarazzo della scelta. Potevo dirmi: Veneto, Nordestino, Nordista.  Ma anche Italiano. Senza contraddizione. In opposizione a "quelli che" si dicono Veneti, Nordisti, Padani "o" Italiani". In alternativa. In opposizione anche a "quelli che" si dichiarano Europei oppure Cittadini del Mondo.  Ma oggi la globalizzazione e la crisi finanziaria hanno vanificato o comunque ridotto il potere "distintivo" di queste etichette. Perché Nordisti e Nordestini sono, comunque, a Sud della BCE, del FMI, della Germania e del Marco. Quanto ai Padani, in questi tempi, se ne vedono pochi in giro. Mentre è difficile invocare la "patria europea". E non esiste ancora un passaporto che permetta ai Cosmopoliti di passare alle frontiere.

Per cui, fuori della mia cerchia stretta di amici e conoscenti, io non so chi sono, né come mi chiamo.
D'altronde, se mi guardo intorno, se guardo i media, vedo solo e sempre Monti. Emblema del nostro tempo. Un uomo che è difficile definire: dal punto di vista politico, geopolitico, religioso, dell'età. È un uomo senza etichette. Distaccato. Distante. Algido. Sicuramente, non mi ci riconosco. Ma neppure lo osteggio apertamente, come invece facevo con Berlusconi.

In quest'epoca senza passione, a risvegliare la mia passione  resta solo il calcio. Perché, come metà degli italiani, sono un tifoso. Anche se, salvo rare eccezioni, coltivo la mia "fede" davanti alla tivù, invece che negli stadi. Ma non mi perdo un rito. Una partita. Di campionato o di Coppa. Io sono juventino. Come dice il mio amico Eddy: anzitutto bianconero. Unica identità non negoziabile. Gli scandali di ieri e di oggi, le scommesse e ancor più "calciopoli":  non hanno raffreddato la mia passione. Anzi: l'hanno accesa e la accendono di più. Meglio lo scandalo dell'indifferenza. Noi contro tutti. Ogni scudetto in meno, ogni squalificato in più: alimentano il mio senso di appartenenza.

Così resto in attesa. Perché -quando i campionati tacciono e parlano solo i Mercati  -  oppure, quest'anno, le Commissioni d'inchiesta - io mi sento perduto. (Le Olimpiadi sono solo un "placebo".) Senza calcio, mi scopro senza nome, senza volto e senza bandiera. Senza parole. E mi nascondo nell'ombra. (In questa stagione torrida e afosa, è un sollievo.) Consapevole che l'attesa sarà breve. Poche settimane ancora e la mia vita (pubblica) ricomincerà. Insieme al campionato. Ritroverò me stesso. Il mio volto, il mio nome, la mia bandiera. Gli amici e i nemici di sempre.

(08 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #298 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:22:41 pm »

MAPPE

Quanto è rischioso scherzare con il voto

Il dibattito sulla riforma della legge elettorale non si ferma un secondo. Ma tra i partiti non c'è accordo sulle basi per un nuovo sistema. Così una nuova legge sarà approvata, forse, contando sul disinteresse e l'incomprensione della popolazione

di ILVO DIAMANTI

LA LEGGE ELETTORALE. Un mantra. Recitato ovunque. In commissioni e tavoli permanenti. In ambito parlamentare. Ma anche nella società civile e nel contesto politico. Dove i comitati referendari sono attivi da anni. Ancora un anno fa, vennero raccolte oltre un milione di firme per abrogare il Porcellum. Inutilizzate, perché la Corte costituzionale dichiarò il referendum inammissibile.

Da allora, il dibattito non si è fermato un secondo. Spinto dalle ripetute esortazioni del presidente della Repubblica Napolitano. Sin qui, senza esiti. Nonostante si sia, ormai, al limite dei tempi consentiti per votare con una nuova legge. Peraltro, non è facile capire di cosa si discuta. Perché i margini di incertezza, intorno al progetto, sono ancora ampi.

Visto che si parla di un premio di maggioranza, ma non si sa se attribuirlo alla coalizione o al partito che ottiene più voti. E non è chiaro come ripartire i seggi: in base a collegi uninominali oppure mediante il ritorno al proporzionale e alle preferenze. Oppure, ancora, attraverso collegi uninominali proporzionali. Combinando le preferenze con un listino a candidature "bloccate".

Insomma, si arriverà a un nuovo sistema elettorale. Forse. I cui risultati non sono prevedibili. Da nessuno. Neppure dai negoziatori e dalle forze politiche che essi rappresentano. Una riforma elettorale "preterintenzionale", come altre. Approvata contando sull'incomprensione e sul disinteresse dei cittadini. La cui attenzione è assorbita da problemi diversi, ben più urgenti. Il lavoro, il reddito, le pensioni, i risparmi, il fisco, i servizi...

Tuttavia, l'importanza della legge elettorale è fondamentale. Soprattutto per i cittadini. Perché riguarda il fondamento, non unico, non sufficiente, ma comunque necessario, della democrazia rappresentativa. Il voto. Anello di congiunzione fra elettori, partiti, Parlamento e governo. Attraverso il voto, nonostante l'autonomia relativa degli eletti, i cittadini possono sentirsi  -  o almeno "immaginare" di essere - coinvolti nella scelta di chi guida e gestisce lo Stato e le istituzioni.

Il sistema elettorale è, peraltro, un meccanismo chiave nel controllo e nella riproduzione del potere. A ogni livello. Modificare le regole e i criteri delle elezioni contribuisce, infatti, a orientare oppure a modificare i risultati e gli esiti. Com'è avvenuto nell'autunno 2005, quando la maggioranza di centrodestra  -  allargata, allora, all'Udc - introdusse il Porcellum. In fretta. Sulla base di una semplice valutazione: con il precedente sistema elettorale l'Unione di centrosinistra, guidata da Prodi, appariva destinata a una larga vittoria. Perché i sondaggi la vedevano largamente in vantaggio nella competizione maggioritaria, con cui si eleggevano i tre quarti dei candidati, in collegi uninominali. Il Porcellum azzerò questo procedimento. Lo sostituì con un sistema proporzionale che attribuisce la maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione vincente. In questo modo, i partiti sono indotti   -  meglio: costretti  -  a coalizzarsi "prima" del voto. Mentre le segreterie nazionali dei partiti hanno acquisito grande potere nella scelta dei candidati e, quindi, degli eletti. Visto che l'elezione avviene in base a liste bloccate e senza preferenze.

Il voto. Il legame più diretto fra cittadini e governo, fra elettori e partiti, nelle democrazie rappresentative. Per questo è sempre stato difficile riformare le leggi elettorali senza spargimento di sangue e senza colpi di mano. Non è un caso che la "fine" della Prima Repubblica coincida non con Tangentopoli, nel 1992, ma con il referendum elettorale del 1991, promosso, fra gli altri, da Mario Segni e dai Radicali. Avversato da molti leader politici, per primo Bettino Craxi, che invitò gli elettori ad "andare al mare". Inutilmente. Anzi, l'esortazione fornì agli elettori una "buona ragione" in più per votare. Contro i partiti.

È interessante rammentare come quel referendum prevedesse di ridurre a una sola le preferenze nell'elezione della Camera dei deputati. Perché allora le preferenze costituivano uno strumento  -  e un simbolo  -  del controllo dei partiti sulla società. Soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno. Il che, a distanza di tempo, può apparire curioso. Visto che oggi si parla di reintrodurre le preferenze per ragioni inverse. Cioè, proprio per restituire agli elettori un maggior controllo sui partiti. Una maggiore possibilità di scelta dei rappresentanti. Oltre che per ricostruire il rapporto fra gli eletti e il territorio.

Ciò sottolinea come le tecniche e le norme elettorali siano importanti, ma non sufficienti a garantire la qualità della democrazia. E il funzionamento della rappresentanza. Come, inoltre, possano produrre effetti diversi, in tempi e contesti diversi. Un'avvertenza che oggi appare utile almeno quanto vent'anni fa. Perché, quanto e forse più di allora, è in crisi il rapporto fra cittadini, partiti e Parlamento. Rammentiamo: la quota di persone che esprime Molta o Abbastanza fiducia verso i partiti è inferiore al 5%.

Nei confronti del Parlamento sale (si fa per dire) al 9% (Demos-la Repubblica, "Gli Italiani e lo Stato", dicembre 2011). In altri termini, circa nove italiani su dieci non hanno fiducia negli attori principali e nel luogo emblematico della democrazia rappresentativa. Cioè: non hanno fiducia nella democrazia rappresentativa, che si è tradotta in "democrazia del pubblico", negli ultimi vent'anni. Favorita dalla mediazione dei media e della televisione, dalla personalizzazione dei partiti e dai partiti personali. Dalla surrogazione e, in parte, dalla sostituzione delle elezioni con i sondaggi. Un plebiscito che si rinnova ogni giorno.

Questi metodi, imposti da Berlusconi con la complicità degli altri attori politici (anche di centrosinistra), hanno logorato la legittimazione dei principali soggetti politici. Fino a disegnare una scena dove campeggiano leader "non eletti", sfidati da attori (non solo) politici che usano nuovi canali (new media). In nome della democrazia diretta. E in alternativa alla democrazia rappresentativa e ai suoi soggetti.

Per questo sarebbe utile che la nuova legge elettorale venisse discussa e scritta non tanto  -  non solo  -  in base agli interessi di partiti e partigiani, preoccupati di riprodurre il proprio potere e la propria rendita di posizione. Ma avendo ben chiaro che è in gioco il fondamento normativo (e di valore) della "democrazia rappresentativa". Una questione critica e altamente rischiosa per tutti. Perché mai come oggi la democrazia rappresentativa è sembrata parola tanto svuotata di senso. E le sue istituzioni, i suoi attori: tanto svuotati.


(27 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/27/news/quanto_rischioso_scherzare_con_il_voto-41538282/?ref=HREC1-5
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« Risposta #299 inserito:: Settembre 10, 2012, 08:36:01 pm »

MAPPE

Il Paese è sempre più indeciso promosso Monti ma non i tecnici

La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione per le scelte effettuate dall'esecutivo, bensì rispecchia la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali.

Tre italiani su quattro si sentono più sicuri con l'euro.

L'unico vero orientamento di voto che cresce è l'area grigia del "disorientamento".

E Berlusconi tocca i livelli di fiducia più bassi degli ultimi 20 anni


di ILVO DIAMANTI


L'ESTATE sta finendo. Ma l'incertezza politica no. Il sondaggio dell'Atlante Politico, condotto da Demos, negli scorsi giorni, per la Repubblica, riproduce questo clima d'opinione uggioso. Da cui emerge un solo solido riferimento. Mario Monti. Il Presidente del Consiglio. Oltre metà dei cittadini (il 52%), infatti, valuta positivamente il governo. Una quota ancor più alta di elettori, il 55%, esprime fiducia personale nei suoi riguardi.

GUARDA Tutte le tabelle e i grafici 1 (su repubbica.it)

Si tratta di un orientamento in evidente crescita, dopo un periodo di raffreddamento. Gli altri personaggi politici lo seguono a grande distanza. Soprattutto i leader di partito. Di maggioranza e di opposizione. Superati, non a caso, dai "tecnici" del governo Monti (Passera e Fornero). E da coloro che, come Montezemolo, non sono ancora "scesi in campo", nonostante lo promettano - oppure lo "minaccino" - da anni. Unica eccezione (insieme alla Bonino): il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di cui parleremo più avanti.

La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione verso le politiche del governo. Al contrario. Gran parte dei cittadini si dicono, infatti, contrari alle principali riforme avviate. Pensioni, Imu e mercato del lavoro, soprattutto. Si tratta, dunque, di un sentimento espresso "nonostante". Rispecchia, cioè, la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali. Ma anche le preoccupazioni internazionali. Perché è convinzione diffusa che l'Unione Europea e l'Euro abbiano prodotto molti problemi. Ma solo il 23% degli italiani pensa che fuori della Ue le cose andrebbero meglio. Mentre una quota più ampia, ma comunque minoritaria, inferiore al 40%, ritiene che l'Euro comporti solo complicazioni.

L'Euro e la Ue, insomma, sollevano dubbi. Ma è largamente condivisa l'idea che "senza" l'Europa e la moneta europea i rischi per la tenuta del nostro sistema  -  economico e non solo  -  crescerebbero ancora. Monti appare il principale garante. Di fronte ai problemi europei. E alla debolezza della politica nazionale. La fiducia verso i partiti, d'altronde, resta al di sotto del 5%. Quella verso il Parlamento intorno al 10%.

Le stime di voto riflettono questo clima di incertezza  -  e di "dipendenza" da Monti. Così si assiste alla tenuta e perfino a una certa ripresa dei partiti "montiani": il Pdl, il Pd e l'Udc. Il partito più "montiano" di tutti. Mentre il M5s scivola sotto al 15%. Un dato molto elevato. Ma la grande spinta conosciuta dopo le elezioni amministrative di maggio, per ora, sembra esaurita. Non solo per le polemiche di Favia 2 (amplificate da Servizio Pubblico) contro la governance di Grillo e  Casaleggio,  che hanno avuto un impatto limitato sul sondaggio.

Il fatto è che in questa fase di stagnazione politica l'unico polo condiviso è Monti. Che nega di volersi ricandidare, in futuro. Per cui mancano i bersagli contro cui rivolgere l'insoddisfazione.  D'altronde, non frena solo il M5s: anche l'Idv, l'altra opposizione. Solo la Lega risale - di poco - la china, oltre il 5%. Così l'unico vero "orientamento" di voto che cresce veramente è, non a caso, il "dis-orientamento". Che allarga i confini dell'area grigia del non-voto e dell'indecisione. Sopra il 45%. Quasi un elettore su due. La misura più ampia da quando viene realizzato l'Atlante Politico. Cioè, da quasi 10 anni.

D'altronde, non è chiaro quando e come si voterà. Con quale legge elettorale, con quali alleanze, con quali candidati. Se si riproponesse lo schema tradizionale, il centrosinistra prevarrebbe largamente. E, come ha sostenuto ieri Bersani a Reggio Emilia, "Deciderà il voto, non i banchieri". Ma nel Pd, come mostra l'Atlante Politico, c'è incertezza sulla coalizione con cui "andare al voto". La maggioranza dei suoi elettori (51%) preferisce un'alleanza con le altre forze di Sinistra, a costo di sacrificare l'intesa con l'Udc. Al tempo stesso, però, (50%) rifiuta l'accordo con l'Idv. Le polemiche con Di Pietro, dunque, hanno lasciato un segno profondo.

L'incertezza, nel Pd, si estende alla leadership. Che gran parte degli elettori di centrosinistra  -  e ancor più del Pd  -  vorrebbe scegliere attraverso le primarie. Il favorito - secondo il sondaggio di Demos - è Pier Luigi Bersani. Lo voterebbe oltre il 43% degli elettori di centrosinistra. Tuttavia, Matteo Renzi dispone di una base ampia. Quasi il 28%. Ma, soprattutto, ha un sostegno trasversale. Non a caso, dopo Monti, è il politico che attrae il maggior grado di simpatie. I suoi consensi, in caso di primarie, potrebbero crescere ulteriormente se la partecipazione andasse oltre i confini tradizionali dell'elettorato più vicino e convinto.

Renzi, infatti, è particolarmente apprezzato dagli elettori "critici" e delusi del centrosinistra, oggi vicini al M5s, all'Idv oppure confluiti nell'area grigia dell'incertezza. A centrodestra c'è il problema opposto. Nel Pdl, inventato da Berlusconi, non possono fare a meno di lui. Ma, al tempo stesso, non gli credono più come prima.

Berlusconi. Oggi, fra gli italiani, ha toccato l'indice di fiducia più basso degli ultimi anni (meno del 20%). E solo 40 elettori del Pdl su 100 (che scendono a 20 fra quelli di centrodestra) pensano che dovrebbe essere Lui il candidato premier alle prossime elezioni. Con lui o senza di lui, insomma: il centrodestra appare sperduto.

Così gli italiani sembrano aver smarrito la fiducia nella politica. Ma anche nell'antipolitica. Tuttavia, non sono divenuti impolitici e indifferenti. Vorrebbero, anzi, che la politica riprendesse il ruolo che le spetta. Cioè: dare loro rappresentanza e governo. Esprimere una classe dirigente capace di guidarli - dentro e fuori il Paese. Non a caso la maggioranza degli italiani (52%) pensa che il prossimo governo dovrebbe essere espresso dalla "coalizione che ha vinto le elezioni" piuttosto che da "un nuovo governo tecnico" (39%) sostenuto dai principali partiti, come avviene ora.

Tuttavia, l'unico leader di cui gli italiani si fidino, oggi, è Monti. Comunque, diffidano molto più di Bersani e Berlusconi. Ma anche di Grillo e Di Pietro.

Così gli italiani  -  la maggioranza di essi, almeno -  vuole un governo "politico". A condizione che a guidarlo sia Monti. È come se la fiducia nella democrazia rappresentativa si scontrasse con la sfiducia nei confronti dei rappresentanti. Un corto circuito da cui sembra difficile uscire. A meno che Monti  -  contrariamente alle sue ripetute affermazioni  -  non decida, alla fine, di scendere in campo. 

(10 settembre 2012) © Riproduzione riservata

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