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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277806 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:41:37 pm »

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Il dopo-voto e la svolta mite di un paese stanco delle urla

Il dibattito su vincitori e sconfitti, l'insofferenza dei cittadini, il tramonto di un ciclo ventennale fondato su valori privati e mito dell'individuo: così è cambiato il clima d'opinione.

E ha favorito candidati normali

di ILVO DIAMANTI

È in pieno svolgimento il terzo turno di questa lunga stagione elettorale. Il dopo-voto. Coincide con la proclamazione dei vincitori e degli sconfitti. Il confronto politico, in questa fase, riguarda gli attori, ma anche le ragioni che hanno prodotto il risultato. Ebbene, sugli sconfitti, ci sono pochi dubbi. Berlusconi, il Pdl, la Lega. Mentre sui vincitori le interpretazioni appaiono meno convergenti. (Lo ha osservato anche Eugenio Scalfari, nel suo fondo di ieri).

In particolare, si è fatta largo una spiegazione extraparlamentare. Ben espressa, fra gli altri, da uno studioso autorevole come Luca Ricolfi, sulla Stampa. Il vero vincitore di queste elezioni, secondo questa lettura, sarebbe il "partito di Santoro". Dove militano gli ospiti eccellenti di "Annozero". Di Pietro e Vendola. Sullo sfondo: Beppe Grillo. Una spiegazione condivisa e rilanciata, immediatamente dallo stesso Berlusconi. Il quale ha attribuito la sconfitta ai media ostili. Che avrebbero silenziato il centrodestra (!). Se l'è presa, in particolare, con le trasmissioni faziose della Rai. Sopra tutte, "Annozero". Appunto.

Il risultato delle amministrative, in questo modo, viene ricondotto al paradigma dominante. Che tutto riassume nell'antagonismo tra il berlusconismo e il suo reciproco. L'anti-berlusconismo. Nell'onnipotenza dei media, del marketing. E della personalizzazione. Il solito film, insomma. Protagonisti, Berlusconi e Bossi contro Santoro accanto ai magistrati. Con il Pd e Bersani a far da portaborracce a Vendola e Di Pietro.
Perfino a Grillo.
Ammetto che questa narrazione non mi convince. Mi pare poco fondata. E inattuale. Nel teatro diretto da Santoro, negli ultimi mesi, hanno recitato in tanti. Con assiduità. La Russa e Gasparri, Castelli e Salvini. Stracquadanio e Cicchitto. E ancora: la Santanché, Belpietro e Sallusti. Cioè, gli sconfitti. "Annozero", inoltre, ha un pubblico molto ampio. Non solo di sinistra. Ma "fedele". E "politicizzato". Comunque consapevole. Sa già cosa e come votare. Santoro ne rafforza le convinzioni. E poi, se "Annozero" va in onda da anni, perché proprio oggi ha prodotto questi risultati?

Questa "spiegazione", insomma, non "spiega" le novità. Anzi, ne rifiuta l'esistenza. Mentre, a mio avviso, in questa occasione è andato in onda un film nuovo. Ispirato da un clima d'opinione profondamente diverso dal passato recente. Perché risente di una somma di atteggiamenti diffusi da tempo. Che, però, si sono cumulati, fino a giungere a un punto critico. Fino a produrre un brusco mutamento (come ha suggerito Francesco Ramella).

A) L'insoddisfazione sociale nei confronti del mercato e del lavoro. E di chi governa le politiche economiche da un decennio - con una breve pausa.

B) Il divario fra le preoccupazioni dei cittadini e le priorità del governo. Riassunte in una sola. I problemi di Berlusconi con (e contro) la legge.

C) Il fastidio verso il modo in cui vengono affrontate le crisi internazionali.

D) E verso le brillanti avventure di Berlusconi con le ragazze, più e meno giovani.

E) Mentre la crisi economica si acuisce.

All'indulgenza verso tutto ciò è subentrata una crescente insofferenza. E una crescente stanchezza. Verso la vita e la politica, sempre in diretta. Sui media.

Questo clima d'opinione è stato interpretato, quasi somatizzato, dai principali candidati di centrosinistra che si sono affermati. Pisapia: mite di aspetto e nelle parole. Definirlo estremista, agli elettori non viziati da pre-giudizi, è apparso ridicolo. E Fassino. Qualcuno si sentirebbe di definirlo un ultrà? Un gregario dei No Tav e della Fiom? Pare difficile perfino immaginare che sia stato comunista, in passato. Appare, invece, il giusto seguito di Chiamparino. Un sindaco apprezzato perché misurato. E realista. E Merola? Tanto poco pop da non sospettare che il Bologna calcio giocasse in serie A. Un amministratore sotto-traccia e quasi anonimo. Dopo l'esperienza di Cofferati e Delbono: un pregio. Roberto Cosolini, nuovo sindaco a Trieste. Proviene dall'associazionismo economico. È uno "normale". Non un super-imprenditore, come Riccardo Illy. Infine Massimo Zedda, nuovo sindaco di Cagliari. Un altro estremista (vendoliano), si è detto. Sarà. Ma a vederlo sembra Harry Potter. Tanto timido che da Santoro non aprirebbe bocca. Mentre da Floris, dove l'ho intravisto dopo l'elezione, la bocca non l'ha proprio aperta. (E anche per questo mi è piaciuto...)

Certo, c'è il caso De Magistris a Napoli. Ma Napoli è proprio un "caso". Un'iperbole. De Magistris: un leader senza partito. Certo, non è il gregario di Di Pietro, visto che i rapporti fra i due, per usare un eufemismo, non sono buoni. (Come quelli con Grillo, d'altronde.)

A me pare, insomma, che sia cambiato il clima d'opinione. Che si stia chiudendo un ciclo ventennale fondato, per evocare Albert Hirschman, sui valori privati. Sul mito dell'individuo, della competitività e del mercato. Su un linguaggio aggressivo, carico di paure. Dove parole come solidarietà e bene comune sono tabù. Sulla sfiducia e il distacco verso tutte le istituzioni e dallo Stato. Questo ciclo si sta chiudendo e forse si è chiuso. Per stanchezza e per fatica. In fondo, lo straordinario consenso di cui gode il presidente Giorgio Napolitano ne è prova. Testimonia una diffusa domanda di unità e di riconoscimento. Ma anche di dignità.

Non lo aveva capito il centrodestra. Ha gestito la campagna come uno scontro personale. Berlusconi contro tutti. Non lo ha capito la Moratti, a Milano. Lei, algida e blasée, nel faccia a faccia con Pisapia, si è berlusconizzata a sua volta. Così ha allontanato definitivamente i dubbiosi. E ha segnato la svolta, nella campagna elettorale. Non solo a Milano.

Quanto al presunto trionfo di Sel e dell'Idv, bisogna chiarire. Sel ha effettivamente ottenuto un risultato notevole (come le altre formazioni di Sinistra). Riportando al voto molti elettori delusi. Ma l'Idv ha subito un sensibile arretramento, rispetto alle Regionali dell'anno scorso. Nei comuni maggiori (oltre 15.000 abitanti) ha quasi dimezzato i voti: dal 7,5% al 3,8% (stime di Demos su dati Ministero Interni). A Bologna, Milano, Torino: non ha superato il 5%. Il Movimento 5 Stelle ha ottenuto un buon successo. Soprattutto nelle grandi città del Nord. Nel complesso, è salito dal 2,5% al 3,2%. I suoi elettori hanno votato "contro" tutti, nel primo turno. Non nel secondo. A dispetto dell'indicazione di Beppe Grillo, gran parte di essi ha sostenuto i candidati del centrosinistra. Il 93% a Napoli, il 75% a Milano (flussi elettorali calcolati dall'Istituto Cattaneo).

Infine il Pd. Mi pare francamente singolare il tentativo di ridimensionarne il risultato. In Italia e nel Nord, nei maggiori comuni al voto, oggi è il primo partito. Anche a Milano, fino a ieri capitale del Nord e del centrodestra, ha eguagliato il Pdl. Il capolista Stefano Boeri, sconfitto alle primarie, ha ottenuto un risultato personale importante. Il Pd oggi appare in grado di cementare la sinistra e di linkare con il Terzo polo. Il profilo basso, imputato a Bersani, la sua difficoltà di "fare il capo": è divenuta una risorsa. Anche la sua immagine mite. Certo, resta l'impressione di un partito incompiuto, che non ha risolto i suoi problemi, anzitutto interni. Ma in questa occasione il Pd ha dimostrato potenzialità indubbie - e perfino inattese. Ha promosso e sostenuto candidati propri ma anche quelli dei partiti alleati. Con successo. (Come sarebbe stata possibile la vittoria di Pisapia, Zedda e dello stesso De Magistris, altrimenti?) Senza rimetterci voti (salvo che a Napoli). Al contrario. A conferma della sua vocazione di asse "coalizionale".

Per queste ragioni, personalmente, penso che il risultato del voto amministrativo rifletta un cambiamento d'opinione. Maturato lontano da - e perfino "contro" - "Annozero", Santoro e le televisioni. Segno di una "svolta mite". Che ha reso inutili e perfino controproducenti i comportamenti "vistosi" che fino a ieri garantivano successo. Una "svolta mite". Riflette una domanda di normalità, interpretata da leader politici normali. Poco mediatici. Che non gridano e non urlano, non insultano e non minacciano. Una svolta mite. Confermarla non sarà facile né automatico. Tuttavia, per verificare se il clima d'opinione sia davvero cambiato, c'è un'occasione immediata. I referendum di domenica prossima. Il quarto turno di questa stagione elettorale di svolta.

(06 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/sondaggi/2011/06/06/news/
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« Risposta #226 inserito:: Giugno 20, 2011, 05:12:12 pm »

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Le due Leghe indecise a tutto

Il partito di lotta e il partito di governo si sono fronteggiati a Pontida, uniti sotto l'icona di Bossi.

Ma tra le richieste di "secessione" della piazza e i ragionamenti di governo dei leader è difficiole trovare una sintesi

di ILVO DIAMANTI


A Pontida, ieri, si sono affrontate e specchiate le due Leghe che coabitano sotto lo stesso tetto. Dentro lo stesso partito. Spesso, dentro le stesse persone. Se ne è avuta una rappresentazione esplicita, quasi teatrale, osservando la scena della manifestazione. Da una parte, la Lega di lotta e di protesta. I militanti ammassati sul prato. A gridare, senza sosta: "Secessione! Secessione!". Dall'altra, sul palco, la "Lega di governo".

I leader. Chiamati, a uno a uno, per nome e cognome. E "per carica". Ministri, viceministri, presidenti di Regione e dei gruppi parlamentari. Da ultimo, il Primo. Il Capo. Umberto Bossi. L'icona che tiene unite le due Leghe.

Movimento e istituzione insieme, per usare le categorie weberiane rilette da Francesco Alberoni. Il "movimento rivoluzionario" indipendentista e il "partito normale", istituzionalizzato. Sempre più difficili da riassumere. Soprattutto oggi. Ne ha risentito anche la comunicazione del Capo. Normalmente semplice, fino all'eccesso. Ma chiara e netta. Stavolta meno del solito. Ha espresso i contenuti cauti, della Lega di governo con il linguaggio esplicito della Lega di lotta. Alla congiunzione fra le due Leghe, l'idea del Sindacato del Nord. Che tutela gli interessi "padani".

Da ciò l'attenzione, ampia e appassionata, dedicata da Bossi agli allevatori e alla loro lotta. Ma anche ai contadini. Testimoni della "terra", il mito che ispira la Lega e la sua fede padana. Da ciò anche la minaccia, più
che l'invito, al governo e a "Giulio" (Tremonti). Affinché abbassino le tasse che colpiscono soprattutto i "ceti produttivi" del popolo padano. Artigiani, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. Anche la polemica di Bossi, rilanciata da Maroni, contro l'intervento armato in Libia, viene tradotta in questa chiave. Più delle ragioni umanitarie preoccupano le ragioni della sicurezza. Del Nord. Minacciato dall'invasione dei poveri cristi in fuga dai bombardamenti.

La Lega di lotta e di governo, tuttavia, faticano a stare insieme, a Pontida. Qualche volta stridono. Ai militanti di Pontida che gridavano "Secessione! Secessione!", Bossi ha risposto promettendo - più modestamente - di decentrare alcuni ministeri nel Nord. Più precisamente: a Monza. I dicasteri guidati da lui stesso e Calderoli, intanto. Invitando Maroni e lo stesso Tremonti ad aggregarsi. D'altronde, ha aggiunto, il ministero dell'Economia deve stare dove si produce. Non a Roma. Spostare i ministeri a Monza serve, infatti, a marcare il distacco dallo Stato Centrale. E a valorizzare, per contro, la Capitale del Nord. Che gravita intorno a Milano. D'altronde, dopo le elezioni amministrative, la Padania ha perduto la capitale. E la Lega è stata spinta ulteriormente in provincia.

Anche gli avvertimenti a Berlusconi - fischiato dai militanti ogni volta che ne veniva pronunciato il nome - rispondono al sentimento della "Lega di opposizione". Berlusconi - ha detto e ripetuto Bossi - non sarà necessariamente il candidato premier. D'altronde, i militanti, esibendo striscioni da stadio, inneggiavano a "Maroni premier".

Il messaggio è chiaro. Berlusconi, verrà sostenuto dalla Lega solo se rispetterà gli interessi e le rivendicazioni del Sindacato del Nord. Pensieri, parole - e parolacce - a cui, tuttavia, difficilmente seguiranno i fatti. Perché queste rivendicazioni del Sindacato del Nord, per quanto "moderate", appaiono poco praticabili.

Proporre di decentrare alcuni ministeri a Nord è ben diverso che minacciare la secessione. Ma si tratta, comunque, di un progetto difficile da realizzare. Significherebbe svuotare l'idea - e la realtà - di "Roma Capitale". Divenuta tale con un decreto votato dalla stessa Lega. Lo stesso discorso vale per la riforma fiscale e le altre iniziative volte ad alleggerire - o almeno controllare - il debito pubblico. Difficile immaginare che possano avvenire a spese, prevalentemente, dei ceti sociali e delle aree del Mezzogiorno. Roma Capitale e la Regione Lazio sono governate dal Pdl. Il Centrosud garantisce il bacino elettorale maggiore del Pdl. La Lega dovrebbe, a questo fine, rompere con Berlusconi e il suo partito, come nella seconda metà degli anni Novanta. Dovrebbe ascoltare il popolo di Pontida che grida: "Secessione! Secessione!". Impensabile. Perché incombe ancora la sindrome del '99. Quando la Lega secessionista, da sola, si ridusse a poco più del 3%. Abbandonata dai "forzaleghisti", come li definì Edmondo Berselli. Gli elettori che votano ora Lega ora Forza Italia (e ora Pdl) su basi tattiche.

Per questo Bossi lancia parole di lotta, ma poi usa argomenti di governo. Sorretti da ragioni ragionevoli. Guardate che non basta schiacciare un bottone per cambiare, ripete il Capo. Guardate che non possiamo fare cadere il governo e non possiamo neppure andare al voto. Oggi. Non conviene. Il "ciclo storico (ha detto proprio così) è cambiato. Ci è sfavorevole. Vincerebbe la Sinistra".

Ma poi, aggiungiamo noi, non sarebbe facile neppure a Bossi convincere il suo partito ad abbandonare il governo - e il sottogoverno. Per ragioni interne. Costringere alle dimissioni i suoi ministri e i suoi viceministri. E tutti i suoi uomini inseriti nelle istituzioni, nei centri di potere economico, finanziario, pubblico e radiotelevisivo. Sarebbe difficile perfino a lui, il Capo. Anche proclamare la secessione. Da Roma. Non solo perché la stragrande maggioranza degli elettori del Nord, compresi i suoi, non la accetterebbe. Ma perché la rottura della maggioranza a livello nazionale avrebbe rilevanti conseguenze locali. Visto che la Lega, nel Nord, governa in due Regioni, molte province e centinaia di comuni. Insieme al Pdl.

Difficile, infine, pensare che una Lega di governo, cresciuta tanto e tanto in fretta nel Nord, non sia attraversata da divisioni interne. Come avviene in tutti i partiti "normali". Che la proposta dei ministeri a Monza non abbia suscitato disagio nel Nordest e soprattutto in Veneto. Che le ovazioni a "Maroni premier" non abbiano messo di cattivo umore Calderoli. E magari anche qualcun altro.

Per questo le parole di Bossi e il rito di Pontida non hanno offerto indicazioni chiare sul futuro. La Lega di opposizione vorrebbe correre da sola. Contro tutti. La Lega di governo non ci pensa proprio. Il Sindacato del Nord pone alla maggioranza condizioni che il Pdl non può accettare. Nessuno è abbastanza forte per imporsi. Né per rompere. Così il governo - e il Paese - sono destinati a navigare a vista. Finché ci riusciranno.

(20 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/20/news/mappe_diamanti_lega-17940560/?ref=HRER1-1
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« Risposta #227 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:41:54 pm »

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Il movimento che rende visibile il cambiamento del Paese

di ILVO DIAMANTI


GRANDE è il disordine sotto il nostro cielo. Due mesi di consultazioni - elezioni amministrative e referendum - hanno rivelato un cambiamento profondo nel clima d'opinione. Ma non è ancora chiaro come e perché sia avvenuto. I dati dell'Atlante Politico, raccolti da Demos nel sondaggio condotto nei giorni scorsi, offrono al proposito molte indicazioni. Utili a decifrare i motori della svolta elettorale - e politica - di questa fase.

LE TABELLE 1

1. La prima causa è la delusione. Nei confronti del governo, di Berlusconi, ma anche della Lega. Il giudizio sul governo non è mai stato così negativo, da quando è in carica. Come, d'altronde, quello su Berlusconi. Apprezzato dal 26% degli elettori. Quasi 10 punti in meno rispetto a sei mesi fa. Perfino Bossi lo supera, seppur di poco. Tuttavia, i suoi elettori sono insoddisfatti. Tanto che, tra i motivi della partecipazione al referendum, i leghisti indicano la volontà di "punire il (loro) governo" in misura maggiore rispetto a tutti gli altri elettorati (43%; 10 punti in più della media generale). D'altronde, non è un caso che il leader più apprezzato sia Tremonti. Cioè: l'alternativa a Berlusconi.

2. La "delusione" verso il governo si riflette negli orientamenti elettorali. Il Pdl, infatti, è superato dal Pd. In generale, peraltro, il vantaggio dei partiti di centrosinistra su quelli della maggioranza supera ormai i 7 punti. D'altronde, Bossi l'ha detto chiaramente, a Pontida. Se si votasse oggi, la sinistra vincerebbe. Per cui conviene "resistere". Asserragliati nel Palazzo.

3. Tuttavia, il cambiamento del clima d'opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione, che ha spinto quasi il 60% degli elettori a votare, in occasione del referendum. Nonostante l'indifferenza o l'ostilità dei partiti di maggioranza. Nonostante il silenzio di MediaRai. O forse proprio per questo. D'altra parte, ha votato oltre un quarto degli elettori del Pdl, ma quasi metà (il 42%, per la precisione) di quelli della Lega. Un orientamento favorito dall'emergere di nuove domande e nuovi valori. Il quesito relativo al "legittimo impedimento" risulta, infatti, il meno importante, secondo l'opinione degli elettori. Scelto dal 13% dei votanti (intervistati da Demos). Molto più larga la componente di quanti attribuiscono maggiore significato ai quesiti sul "nucleare" e sulla "privatizzazione dell'acqua". Segno che la mobilitazione ha intercettato sentimenti che vanno ben oltre l'antiberlusconismo. C'era nell'aria una domanda di valori (e anche "timori") diversi da quelli propagati dal "pensiero unico" del nostro tempo. Il referendum ha fornito loro l'occasione di "rivelarsi" ed esprimersi.

4. Tuttavia, il clima d'opinione non cambia da solo. Non bastano la "delusione" e le "nuove paure" - relative all'ambiente, alla salute, al lavoro - a modificarlo. Ci vogliono nuovi "attori", in grado di ri-scrivere l'agenda pubblica. Imponendo all'attenzione dei cittadini nuovi temi. Ciò è avvenuto in occasione del referendum - e prima delle amministrative. In questo esatto momento è avvenuta la "scoperta del movimento". Formula semplice e un po' semplificatoria, attraverso cui si è cercato di definire la mobilitazione sociale - inattesa - alle amministrative e ai referendum. In effetti, non di "un" movimento, si tratta. Ma di una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate. Nella società e sul territorio. Hanno agito e scavato per - e da - molto tempo, in modo carsico. Oltrepassando l'area tradizionalmente "impegnata", prevalentemente composta da uomini, di età matura. I dati dell'Atlante politico di Demos tratteggiano, al proposito, una radiografia piuttosto precisa e chiara. Diversa dalla tradizione. Proviamo a ricostruirla, risalendo (o ri-scendendo), un ramo dopo l'altro, "l'albero della partecipazione".
a) Se il 57% degli elettori italiani ha votato al referendum, il 16% ha fatto campagna elettorale. Oltre un quarto dei votanti. Tanti, se si pensa agli stereotipi che vorrebbero la società amorfa e conformista.
b) In secondo luogo: quasi il 60% di chi ha partecipato alla campagna elettorale (il 9% dell'elettorato) non l'aveva mai fatto prima. Si tratta di una partecipazione "nuova", caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all'impegno politico. In primo luogo e in particolare, le donne e i giovani. Un terzo dei "nuovi" impegnati, infatti, ha meno di trent'anni. Una misura doppia rispetto a quel che si osserva nell'ambito degli impegnati di "lungo corso". Parallelamente, nell'area della "nuova" partecipazione appare molto ampio il contributo degli studenti - ma anche degli operai. La partecipazione "tradizionale", invece, è ancora animata da pensionati e impiegati pubblici.
c) Quanto alle modalità e ai canali di partecipazione, solo il 18% circa delle persone impegnate in campagna elettorale ha adottato modelli di "militanza" esclusivamente tradizionali. Partecipando a comizi, manifestazioni, distribuendo volantini, ecc.

Metà di coloro che si sono impegnati nel referendum, invece, ha praticato una sorta di "campagna leggera". Realizzata attraverso contatti personali. Con amici, genitori, nonni, zii, cugini. Parenti e conoscenti. Infine, la rimanente parte dei cittadini impegnati (circa un terzo) ha seguito un modello "reticolare". Ha, cioè, utilizzato le nuove tecnologie della comunicazione e in particolare la Rete. Si tratta di due modelli altrettanto importanti. Il primo perché penetra nelle pieghe della vita quotidiana. Plasma il senso comune. Coinvolge persone altrimenti escluse dai messaggi politici. L'altro modello, invece, sfida la - e si sottrae alla - comunicazione tradizionale. In particolare, al/la televisione e a/i suoi padroni. Pubblici e privati. Entrambe queste modalità di partecipazione, peraltro, sono poco visibili. E per questo non sono state colte per tempo. I "nuovi" protagonisti dell'impegno politico - donne, giovani e studenti - si sono caratterizzati per un elevatissimo utilizzo del modello "reticolare".

5. Quelli che hanno votato al referendum, quelli che si sono impegnati per militanza consolidata o per la prima volta. Hanno un orientamento politico trasversale. Prevalentemente di centrosinistra. Ma molti di essi sono di centro e di destra. Oppure incerti e disillusi. Canalizzarne il consenso: non sarà facile per nessuno. Non può venire dato per scontato da nessuno. Neppure nel centrosinistra. Dove si sono già accese le liti e le dispute - partigiane e personali. Per contendere il "nuovo" clima d'opinione. Per intercettare le molecole della "nuova" partecipazione. Largamente inattesa e invisibile. Anche al centrosinistra.

(27 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #228 inserito:: Giugno 29, 2011, 06:31:06 pm »


Di Pietro e il Cavaliere Due destini incrociati

Ilvo DIAMANTI


Antonio Di Pietro ha mostrato, di recente, un atteggiamento indulgente, nei confronti di Silvio Berlusconi. Lui, l'avversario irriducibile, il portabandiera della Magistratura, che insegue il Presidente del Consiglio dovunque, da quando è "sceso in campo". Negli ultimi giorni appare più "mite", come vuole il sentimento dei tempi. E si dice preoccupato della solitudine del Cavaliere, verso il quale ha espresso "umana pietà". Da parte sua, Berlusconi, da qualche tempo ha indubbiamente una brutta cera. Sempre scuro in volto. I restauri quotidiani cui si sottopone non ne migliorano l'aspetto. Anzi. D'altronde, non è facile fare quella vita, sopportare tutti quegli impegni, tutte quelle preoccupazioni, tutti quei bunga bunga. Alla sua età. Tanto più dopo i duri colpi - elettorali  -  subiti di recente. Uno dopo l'altro. Amministrative e referendum. Due sconfitte politiche pesanti. Per la sua maggioranza, per il suo partito. Due sconfitte difficili da riassorbire, sul piano personale. Di Pietro, al contrario, esce da questa fase rafforzato. Da vincitore. Il suo partito ha ottenuto una vittoria importante, alle amministrative. A Napoli. Nonostante i suoi rapporti con De Magistris non siano splendidi. Ma si sa: due magistrati, due prime donne, pardon, due primi uomini, in un "partito personale", è difficile possano convivere senza problemi. Di Pietro e l'IdV, però, hanno ottenuto slancio soprattutto dai referendum. L'IdV: accanto ai comitati, unico partito del nucleo dei promotori. Da ciò la sensibile crescita dei consensi personali a Di Pietro, registrata dall'Atlante politico di Demos, nei giorni scorsi. E la ripresa dell'IdV, che, nelle stime elettorali, ha rimontato SeL di Vendola. Per questo ha suscitato sorpresa la simpatia per Berlusconi espressa, proprio ora, da Di Pietro. Lui, che non ha mai smesso la toga, soprattutto quando si rivolge al Cavaliere e a suoi uomini. Li ha sempre trattati da inquisiti, anzi: da colpevoli impenitenti. Alla ricerca continua di leggi "ad personam" e di altri espedienti per sottrarsi al giudizio dei magistrati. Così, mentre Giuliano Ferrara elogia l'atteggiamento responsabile di Di Pietro, i suoi elettori, i suoi militanti, i suoi alleati osservano  -  perplessi. E critici. Mentre i commentatori si interrogano sui motivi di questa svolta. L'ipotesi più accreditata è che Di Pietro cerchi di difendere e allargare lo spazio del suo partito (semi) personale. Minacciato e stretto dal PD, da SEL, dalla FdS e dal Movimento 5 Stelle. Così sgomita, provoca, polemizza. Con gli alleati e con i leader più vicini al suo elettorato. Poco "fedele" e piuttosto "tattico", come mostrano le oscillazioni elettorali cui è soggetto. Sceglie in base a calcoli contingenti. Di elezione in elezione. Di occasione in occasione. Così, il "Di Pietro irriducibile", dopo aver rivendicato da sempre il suo antagonismo genetico, nei confronti del Cavaliere, ora cambia registro. Diventa "moderato" per intercettare gli elettori "moderati" di centrodestra. Insoddisfatti dalla politica del governo. Delusi da Berlusconi. In pratica, Di Pietro agirebbe su criteri di marketing, rivolgendosi ai settori del mercato elettorale più contendibili, in questa fase.
Tuttavia, c'è un altro modo di interpretare la "svolta mite" di Antonio  Di Pietro nei confronti di Silvio Berlusconi. Richiama l'origine politica dei due personaggi. Che è contestuale. Speculare. Sono entrambi artefici della fine della Prima Repubblica e dell'avvio della Seconda. Anzi, Di Pietro, figura simbolo dell'inchiesta di Mani Pulite, ne è il portabandiera. Mentre Berlusconi, insieme alla Lega e più della Lega, è colui che ha sfruttato il "vuoto" politico creato da Mani Pulite e dalla scomparsa dei partiti di governo della Prima Repubblica. Berlusconi e i Magistrati: i principali protagonisti e antagonisti della Seconda Repubblica. Nella propaganda del Cavaliere, per questo,  Di Pietro e i Magistrati rappresentano, più  ancora dei Comunisti, l'emblema del Nemico. Quelli che non ti lasciano lavorare, che ti spiano, che si fanno i fatti tuoi, che pretendono di rovesciare la volontà democraticamente espressa dal popolo. Di Pietro, a sua volta, è il principale protagonista dell'anti-berlusconismo. Ma riproduce, a sua volta, il rapporto fra politica e società inventato e imposto da Berlusconi. Non a caso è fondatore e leader di un partito personale, l'IdV, a lungo definito con il suo stesso nome (Lista Di Pietro).  Inoltre, è particolarmente abile nel gestire la propria immagine ed il rapporto con i media. Il suo stesso linguaggio ruspante: risulta uno stile di comunicazione diretto ed efficace.
Le biografie politiche di Berlusconi e Di Pietro sono, dunque, speculari. Delineano due destini incrociati. Berlusconi e Di Pietro. I Duellanti. Difficile immaginare l'uno senza l'altro. Difficile scacciare il dubbio che la fine del Cavaliere potrebbe danneggiare lo stesso Di Pietro. E perfino metterlo fuori gioco. Da ciò un sospetto. Che l'indulgenza espressa da Di Pietro verso Berlusconi, in questo momento, non nasca solo da "altruismo".  Ma anche dall'istinto di sopravvivenza.
 

(29 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/06/29/news/bussole_29_giugno-18375064/
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« Risposta #229 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:15:01 am »

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Da solidarietà a energia pulita il nuovo dizionario degli italiani

Sondaggio Demos-Coop: ecco le parole del nostro futuro.

Agli ultimi posti nella classifica di gradimento i partiti, la Padania e le Veline.

Berlusconi ormai ai margini, Napolitano diventa invece riferimento trasversale.

"Bene comune" era una formula fino a poco tempo fa indicibile: ora è tutto cambiato

di ILVO DIAMANTI


È CAMBIATO profondamente il linguaggio degli italiani. Anche se a uno sguardo distratto la mappa che raffigura il nostro Lessico potrebbe suscitare un senso di "dejà vu". Il successo attribuito a Internet, ma soprattutto al Bene comune, alla Solidarietà, all'Energia pulita, alla Partecipazione... Il trionfo dei buoni sentimenti.
Che tutti dichiarano e pochi praticano.

Una reazione comprensibile di fronte alla graduatoria delle parole elaborata da Demos-Coop 1 in base alle opinioni di un campione rappresentativo della popolazione. Tuttavia, i "buoni sentimenti" non hanno goduto di grande popolarità, fino a poco tempo fa. Al contrario. Basti pensare, per primo, al "bene comune", divenuto il manifesto del cambiamento sociale, annunciato dai referendum (anzitutto, sull'acqua pubblica).

NAVIGA Il grafico delle parole 2 (pdf) [su repubblica.it]

Ieri: era una formula indicibile per chi volesse avere successo. Il "bene" lo si faceva senza, però, dichiararlo. Tanto più se "comune". Attinente, cioè, alla sfera pubblica e comunitaria. Perché prevalevano altri riferimenti: l'individualismo, la furbizia, il cesarismo, il localismo. L'amorale pubblica e il cinismo, d'altra parte, sovrastavano largamente la morale e il civismo, tra i valori della società.
Dove l'anestetica - l'indifferenza - occupava un posto più importante dell'etica. Parola, quest'ultima, anch'essa impopolare.

Il Lessico degli italiani compilato nell'estate 2011 rivela che questo clima culturale è cambiato. Insieme al linguaggio.
E che il Bene comune, oggi, non occorre più farlo di nascosto. Come la Solidarietà. Pratiche diffuse, da tempo, nel nostro Paese, come dimostra la fitta rete di associazioni volontarie e la crescente propensione al consumo critico e consapevole. Oggi, invece, sono divenute parole di successo. Che "conviene" pronunciare - e vengono pronunciate - in pubblico e nella vita quotidiana.

Come, peraltro, Unità nazionale. Anch'essa elusa, fino all'anno scorso. Lasciando spazio alla retorica della "divisione".
Simboleggiata dalla Padania. Ebbene, oggi l'Unità nazionale - trascinata dalle celebrazioni del 150enario - è fra i termini In.
Mentre la Padania sta nel gruppo delle parole marginali. Considerate, dagli intervistati, scarsamente attraenti e, ancor più, senza futuro. Come i Partiti (una costante di lungo periodo, in Italia), le Veline. E Berlusconi.

Naturalmente, anche in questo caso occorre prudenza, nel valutare l'importanza delle Parole. È, infatti, probabile che molti italiani continuino a seguire le Veline - su Striscia e in altre trasmissioni televisive. Che continuino a guardare Berlusconi con indulgenza - e un po' di invidia. Sotto sotto. Senza confessarlo. Appunto. Mentre prima lo facevano apertamente. Senza vergogna né timidezza.

Nell'ultimo anno, dunque, è cambiata, la gerarchia delle "parole da dire" nel discorso pubblico e nei rapporti con gli altri. Berlusconi, in particolare, è sceso in fondo, ai margini del linguaggio. Ultima anche fra le parole "impopolari". Che conviene non pronunciare se non in contesti amici. Sorte comune ad altri termini di largo uso, fino a poco tempo fa. L'Apparire, l'Individualismo, la Furbizia. Perfino il Federalismo: l'anno scorso parola "emergente" e con un grande futuro davanti. Consumato in pochi mesi. Mentre il "Leader forte", simbolo della "democrazia del pubblico" (per citare Bernard Manin) è finito nel mucchio delle "parole comuni". Condivise e contese. Che non caratterizzano la nostra epoca.

Insomma, sta declinando il linguaggio dominante al tempo del berlusconismo e del leghismo. Con una sola "parola" (coniata da Edmondo Berselli, un virtuoso della disciplina): del forza-leghismo. Al contempo, si assiste alla diffusione di un lessico "mite", punteggiato di termini che evocano la qualità della vita e dell'ambiente, l'impegno per gli altri. Il riconoscimento delle competenze piuttosto che delle appartenenze di casta (Merito). Un lessico che rende palese la "domanda di cambiamento", espressa attraverso le generazioni (Giovani) e il genere (Quote rosa).

È interessante, peraltro, osservare come il linguaggio riproduca fedelmente le tendenze in atto nella comunicazione sociale. Per prima, l'ascesa irresistibile della Rete e il parallelo declino della Televisione. Ma il lessico degli italiani rende esplicita anche l'ambivalenza di alcuni sentimenti. L'atteggiamento verso l'economia, ad esempio, fa coesistere la Crescita e la Decrescita. Cioè, il sostegno allo sviluppo economico e finanziario. Ma anche la sobrietà nei consumi, il risparmio energetico e delle risorse (ambientali e territoriali).
La domanda, cioè, di allargare il PIL insieme al BIL (dove il Benessere sostituisce il Prodotto).

Anche l'alternativa fra Pubblico e Privato resta confusa. Perché il Privato ha deluso, ma il Pubblico continua a non soddisfare.
E l'Immigrazione resta sospesa. A metà fra l'oggettiva necessità di integrazione e le paure suscitate dai flussi che premono ai confini. Spinti da emergenze economiche e, ancor più, dalle rivolte e dalle guerre.

Tra gli attori istituzionali, spicca la posizione periferica della Chiesa. Soprattutto in rapporto al futuro. Segno di una certa perdita di rilievo, tra le bussole etiche e sociali della società. D'altro canto, si conferma l'importanza assunta dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Riferimento unitario e trasversale. Simmetrico rispetto alla posizione di Berlusconi. Marginale e di frattura.

Sono, peraltro, evidenti, alcune divisioni, marcate, soprattutto, dall'orientamento politico. Riguardano, in particolare, le parole e i temi della bioetica. Il Testamento biologico, ad esempio, suscita un atteggiamento positivo in larghi settori della popolazione. Ma specialmente fra gli elettori centrosinistra. I Matrimoni gay, invece, provocano un disagio "mediamente" ampio, ma ottengono un'adesione molto convinta nei settori di sinistra radicale.

Nel complesso, le principali parole in declino (Padania, Berlusconi, Veline...) si posizionano nello spazio politico di destra. Mentre quelle che hanno conquistato popolarità (Partecipazione, Bene comune, Partecipazione...) sono proiettate a sinistra e a centro-sinistra.

Ciò, tuttavia, non significa che gli attori politici di centrosinistra siano "destinati" ad affermarsi, "trainati" dal linguaggio e dai valori diffusi fra i loro elettori. Lo abbiamo detto altre volte e lo ripetiamo. Le parole hanno bisogno di attori capaci di "dirle", di tradurle in scelte e comportamenti. Coerenti e credibili. In modo nuovo e diverso dal passato.

Le parole, prive di contenuto, rischiano, altrimenti, di perdere significato. E di perdersi, a loro volta. Lasciandoci sperduti. Senza parole.

(18 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #230 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:18:56 pm »

Il male che si nasconde dentro di noi

Ilvo Diamanti

E' difficile descrivere il senso di vertigine che assale di fronte alla carneficina di Oslo. Di fronte al massacro avvenuto nell'isolotto di Utoya. Le scene dei ragazzi, sparsi lungo le spiagge, morti oppure agonizzanti. A decine. In fuga dalla violenza cieca. Generano un senso di vuoto. Disorientamento. Al di là delle misure della tragedia. Al di là dell'orrore. Per almeno due ragioni ulteriori.


La prima ragione è dettata dal profilo delle vittime. Giovani e giovanissimi. Impegnati in politica. Deve avere un significato tutto ciò, per l'assassino. Per il fanatico artefice di questa esecuzione di massa. Giovane anch'egli. Pochi anni più delle vittime. Al di là di altre spiegazioni - di episodi peraltro inesplicabili. Al di là del colore politico. La chiave di lettura del romanzo di orrore scritto con il sangue da questo fanatico è riconducibile all'età delle sue vittime. Giovani. Quasi che si volesse estirpare il seme della passione politica dalla società. Soprattutto là dove cresce, ancora incorrotta, animata di valori. Là, tra i giovani, che hanno scoperto la politica, e la praticano, in quest'epoca senza politica. In quest'epoca pervasa dall'antipolitica e dalla violenza. I giovani. Protagonisti della protesta e delle mobilitazioni: nel Nord Africa e in Medio Oriente, in Spagna e in Gran Bretagna. In Francia e in Italia. I giovani disposti a partecipare a una scuola di impegno e formazione "politica", in Norvegia. E' come se il "giovane" Anders Behring Breivik avesse voluto sopprimere tutto questo. Agendo da braccio armato - e malato - di una volontà oscura, che anela ad annullare il futuro. A riportarci indietro, ad ancorarci al passato orrendo - e all'orrore del passato - che non passa mai. Ma ritorna di continuo.

L'altra ragione che rende più tragica e dolorosa questa tragedia è l'irragionevole. Perché questo episodio orrendo contraddice e sovverte le "nostre" ragioni. Anzitutto, il luogo dove è avvenuto. Il contesto, tratteggiato con dolente cura da Adriano Sofri 1. La Norvegia. Che rispetta la natura e non fa affari con i dittatori. Dove i poliziotti girano disarmati. Un Paese mite. Nel quale nessuno potrebbe immaginare, "ragionevolmente", un'esplosione di violenza tanto cieca, covata al proprio interno. Già: al "proprio interno". Perché è difficile rassegnarsi a questa evidenza. Visto che il "riflesso condizionato" degli osservatori e dei commentatori, di fronte a tanto orrore, ha reagito, dapprima e a lungo, cercando una spiegazione coerente - e in fondo rassicurante - con le proprie ragioni, i propri giudizi - e pregiudizi... Richiamando il fantasma delle cellule Qaediste, la Jiad. In altri termini: il Terrore Islamico che aizza lo Scontro di Civiltà. Il Nemico evocato, subito, sulle cronache delle edizioni on-line (talora, anche cartacee) dei giornali. Alcuni, in particolare, particolarmente riluttanti - e renitenti - a rassegnarsi, anche di fronte all'evidenza. Invece no. L'assassino, il Mostro, è un giovane norvegese. Biondo, cristiano fondamentalista, anti-islamico.

E' difficile sopportare il disagio e la vertigine prodotti da questa vicenda. Troppo incoerente e irragionevole di fronte alle nostre ragioni - e alla nostra ragione. Noi: costretti ad ammettere che l'Odio può esplodere dove si coltiva il bene comune. In modo più violento che altrove. E si può esprimere, in modo in-descrivibile, nel "nostro" mondo, per mano dei "nostri". Non dell'Altro: il "nemico" islamico e terrorista. 

Il Male che si nasconde - e cresce - dentro di noi. Non sopporta il futuro. Né il bene comune. Soffre i giovani che si impegnano per gli altri. Talora esplode, deflagra. Un furia cieca e sanguinaria. Contro di loro. Il bene comune, i giovani, il futuro.

(24 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #231 inserito:: Agosto 01, 2011, 04:41:56 pm »

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La deriva del partito personale

Il modello 'Berlusconi' ha incarnato il modo di fare politica nella Seconda Repubblica: il leader crea il partito e gli fornisce un senso. Come hanno fatto anche in parte la Lega, l'Idv, Sel e il Terzo polo. Ma ora lo Stato, diventato di fatto presidenziale, si trova di fronte a un futuro senza leader e senza partiti

di ILVO DIAMANTI


LA SECONDA Repubblica è ormai alla fine. Vent'anni dopo l'avvio, arranca faticosamente. Insieme agli attori che hanno contribuito a fondarla e a plasmarla. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, per primi. In particolare, appare logoro il modello berlusconiano, imperniato sulla personalizzazione iperbolica del partito e del governo. Enfatizzata dall'uso dei media.

La Seconda Repubblica: ruota intorno al partito di Berlusconi. "Personale" e non personalizzato. Perché, a differenza di quel che avviene nelle altre democrazie occidentali, il partito non agisce come una macchina per selezionare e sostenere il leader. Viceversa, è il leader a creare il partito. A fornirgli regole e valori. Identità e organizzazione. Un "partito personale", riassunto nel corpo del Capo (come ha precisato Mauro Calise nella nuova edizione del suo saggio, edito da Laterza nel 2010).

Ne asseconda le scelte e gli interessi. Ne riflette il destino. Un modello vincente, riprodotto da tutti. In base alla diversa disponibilità di risorse - simboliche, mediali e, naturalmente, economiche e finanziarie. Per prima la Lega, l'altra "madre" della Seconda Repubblica. Partito dei ceti medi privati, della provincia produttiva del Nord. Anticentralista e antiromano. Ha ereditato il retroterra elettorale della Dc, assumendo una forma organizzativa simile al vecchio Pci.

Un partito carismatico e personale a basi di massa. Che ha bisogno di Bossi per "stare insieme". Perché Bossi ne incarna l'identità e la storia, l'immagine e il linguaggio. Anche dopo la malattia. Tanto più dopo la malattia. Bossi ha portato con sé la sofferenza fisica e l'ha esibita come un simbolo. L'icona della Padania promessa (per citare Biorcio).

La Seconda Repubblica fondata da - e su - Berlusconi, nel vuoto politico prodotto da Tangentopoli, è cresciuta a immagine e somiglianza del Cavaliere. Oggi, se ci guardiamo intorno, vediamo solamente imitazioni. Partiti personali, più o meno riusciti. Più o meno realizzati. Non solo la Lega di Bossi. Ma anche l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, cofondatore della Seconda Repubblica, in quanto figura simbolo di Mani Pulite. E Sel. Cosa era e cosa sarebbe senza l'affermazione di Nichi Vendola? D'altronde, la Federazione della Sinistra, la stessa Rc, dopo il "ritiro" di Bertinotti, sono divenute invisibili. Scivolando verso il Terzo Polo: come scindere l'Udc da Casini? Tanto meno l'Api da Rutelli, anche perché è rimasto ormai quasi solo (Tabacci fa storia a sé. Figura di valore, all'inseguimento ostinato della Prima Repubblica proporzionale). Anche Fli: è la Lista Fini. I Radicali, d'altra parte, per primi, hanno importato il modello americano, presentandosi negli anni Ottanta come lista personale, incarnata da Pannella e, poi, dalla Bonino.

Resta il Partito democratico, ultima stazione del viaggio del centrosinistra all'inseguimento di Berlusconi. Condotto, prima, attraverso l'Ulivo di Prodi e Parisi, sostenitori dell'Unione tra diverse culture politiche. Una sorta di Nuova Dc spostata a sinistra. Fino al Pd di Veltroni. Partito "esclusivo" e maggioritario. Fondato sulle primarie, usate non solo per selezionare i candidati alle cariche istituzionali - nazionali e locali. Ma per eleggere le cariche del partito. Una sorta di riproduzione dei vecchi congressi. Necessaria a regalare un'investitura popolare e di massa a "un" leader.

Ebbene, tutti questi esperimenti, realizzati con maggiore o minore successo, oggi appaiono gusci svuotati di senso e consistenza. Per la de-composizione del modello, che segue la crisi del fondatore. D'altronde, se l'identità e la coerenza del partito dipendono dalla figura e dal "corpo" del Capo, come pensare che il partito possa sopravvivere al suo declino? Ciò appare evidente nel caso del Pdl, un non-partito-personale. La scomparsa di Berlusconi - praticamente introvabile da settimane, mentre infuria la crisi interna e globale - ha s-travolto il Pdl. Non basterà l'investitura di Angelino Alfano a salvarlo. Perché è impensabile un partito personale senza l'unica persona che gli dia senso e risorse.

Diverso il discorso della Lega, che dispone di un'organizzazione diffusa sul territorio e di una classe politica sperimentata, a livello centrale e locale. Tuttavia, è attraversata da differenze interne profonde. A livello territoriale, ma anche di identità e cultura. E ancora: personali. È, probabilmente, questo il principale motivo per cui la leadership di Bossi - per quanto vissuta con crescente insofferenza all'interno - non viene ancora contestata apertamente e in modo diretto. Per timore del big bang. Tuttavia, se Berlusconi uscisse di scena, anche Bossi ne seguirebbe la sorte. Non solo, ma in questo caso, l'intero sistema dei partiti personali verrebbe centrifugato. Perderebbe il baricentro.

In fondo, è per questa ragione che il Pd ha dimostrato capacità di ripresa e di reazione, negli ultimi mesi. Perché resta un partito incompiuto e im-personale. Privo di un'organizzazione solida - leggera o pesante, non importa - e di una leadership condivisa. Semmai, divisa. Un partito in-definito, anche dal punto di vista della prospettiva. I recenti scandali, peraltro, ne hanno logorato la legittimazione morale. La pretesa "diversità", rivendicata, trent'anni fa da Berlinguer, come ha rammentato nei giorni scorsi Eugenio Scalfari.

Da ciò la crisi profonda che scuote e disorienta il sistema politico e le istituzioni di questa Repubblica, modellata da Silvio Berlusconi a propria immagine e somiglianza. Ora che il motore è inceppato, l'intero universo appare disassato. Perché il declino dei leader avviene dopo che la personalizzazione ha logorato i partiti. Così ci avviamo a un futuro-prossimo-già-iniziato: senza leader e senza partiti. Ciò spiega il ruolo assunto dal presidente Napolitano. L'unico leader che goda di fiducia - in questo sistema privo di leader e di partiti. Per propri meriti "personali", ma anche perché non ha partito.

Da ciò il paradosso della nostra Repubblica - fondata dai partiti e ridisegnata dai partiti "personali". Oggi è divenuta una Repubblica presidenziale. Di fatto.

Non dobbiamo pensare, tuttavia, a una deriva inevitabile. La crisi dei partiti personali ha, infatti, sollecitato la reazione di molte "persone", che agiscono nella società civile e sul territorio, ma anche alla periferia dei partiti. Ne abbiamo avuto esempio in occasione delle amministrative e dei referendum. Da ciò la speranza - e qualcosa di più. Che le persone di buona volontà e i mille segmenti del movimento invisibile cresciuto in questi mesi non si rassegnino.   

(01 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #232 inserito:: Agosto 08, 2011, 07:47:11 am »

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L'arte di arrangiarsi non ci salverà

di ILVO DIAMANTI

TEMO che il piano del governo per rispondere alla bufera dei mercati non produrrà gli effetti sperati. Non solo per i limiti relativi alle politiche annunciate, né per le turbolenze globali. Oltre a tutto ciò, c'è un altro problema: noi. Gli italiani. E lui. Berlusconi.
Insieme al governo "eletto dal popolo". In definitiva: il rapporto fra gli italiani e chi li governa. In parte, si tratta di una novità.

Gli italiani, infatti, nel dopoguerra, hanno sempre reagito alle emergenze, interne ed esterne. Basti pensare alla Ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando l'Italia divenne uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Gli italiani conquistarono il benessere, l'accesso all'istruzione di massa e ai diritti di cittadinanza sociale. Anche in seguito il Paese continuò a crescere. Soprattutto negli anni Novanta, grazie alle aree e ai settori in precedenza considerati "periferici". Le piccole imprese, il lavoro autonomo, le province del Nord, il Nordest. In quegli stessi anni, gli italiani reagirono alla crisi - economica e politica - affidandosi ai governi guidati da Amato e Ciampi, all'intesa tra il governo e le parti sociali. Gli italiani, allora, affrontarono manovre finanziarie il cui costo complessivo superò largamente i centomila miliardi di lire. E pagarono molto anche tra il 1996 e il 1998, quando al governo erano Prodi e (ancora) Ciampi. Per entrare nell'Europa dell'Euro. Per non restare esclusi dall'Unione - peraltro ancora incompiuta. Pagarono caro, tra molte proteste, comprensibili. Ma pagarono. Perché compresero che non c'era alternativa, se volevano mantenere il benessere e lo sviluppo conquistati con tanti sacrifici. Oggi - lo ripeto - dubito seriamente che riusciremmo nella stessa impresa. Che saremmo - saremo - in grado di affrontare gli stessi costi e gli stessi sacrifici. Con gli stessi risultati.

Ci ostacola, anzitutto, la nostra identità sociale. Il nostro "costume nazionale". Gli italiani, infatti, si sentono uniti dalle differenze, locali e sociali. Sono - siamo - un Paese di paesi: città, villaggi, regioni. L'Italia è, al tempo stesso, un collage, una "casa comune", dove coabitano molte famiglie. Appunto. Perché gli italiani si vedono diversi e distinti da ogni altro popolo proprio dall'attaccamento alla famiglia. E ancora, dall'arte di arrangiarsi. Cioè, dalla capacità di adattarsi ai cambiamenti e di rispondere alle difficoltà. E, ancora, dalla creatività e dall'innovazione. Un popolo di creativi, flessibili, attaccati alla propria famiglia, al proprio contesto locale. E, puntualmente, lontano dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica, dal governo. Una società familista, in grado di affrontare le difficoltà "esterne" di ogni genere. In grado di crescere "nonostante" lo Stato e la Politica. Si tratta di una cornice condivisa, come ha dimostrato il consenso ottenuto dalle celebrazioni del 150enario. Ma è ancora in grado di "funzionare" come in passato? Penso di no.

Il localismo, la struttura familiare e quasi "clanica" della nostra società: sono limiti alla costruzione di una società aperta, equa, fondata sul merito. Ostacoli a ogni tentativo di liberalizzare. Gran parte degli italiani, d'altronde, sono d'accordo sulle liberalizzazioni. Ma tutti, o quasi, pensano di trasmettere ai figli non solo la casa e il patrimonio, ma anche la professione, l'impresa e la bottega. E molti (soprattutto quelli che non hanno un lavoro dipendente) vedono nell'elusione e nell'evasione fiscale una legittima difesa dallo Stato inefficiente, esoso e iniquo. Il quale, da parte sua, non fa molto per allontanare da sé questo ri-sentimento.

Difficile, in queste condizioni, rilanciare la crescita, abbassare il debito pubblico, imporre il pareggio di bilancio. Anche se venisse imposto per legge. Anzi: con norma costituzionale.
Eppure - si potrebbe eccepire, legittimamente - in passato questo modello ha funzionato. Già: in passato. Quando eravamo (più) poveri. Quando dovevamo conquistare il benessere e un posto di riguardo, nella società. Per noi e i nostri figli. Quando la nostra economia e il nostro Paese dovevano guadagnare peso e credibilità, sui mercati e nelle relazioni internazionali. A dispetto dei sospetti e dei pregiudizi nei nostri confronti. Ma oggi non è più così. Non abbiamo più la rabbia di un tempo. Semmai: la esprimiamo nei confronti dello Stato e degli altri. Gli stranieri. E in generale: verso gli altri italiani. Sempre più stranieri ai nostri occhi.

Poi, soprattutto, è da vent'anni che il localismo, il familismo e il bricolage sono andati al potere. Interpretati dal partito delle piccole patrie locali: Nord, Nordest, regioni, città e quant'altro. E dal Partito Personale dell'Imprenditore-che-si è-fatto-da-sé. È da 10 anni almeno che lo Stato è stato conquistato da chi considera lo Stato un potere da neutralizzare. Da chi ritiene le Tasse e le Leggi degli abusi. È da 10 anni almeno che il pessimismo economico è considerato un atteggiamento antinazionale, un sentimento esecrabile che produce crisi. È da 10 anni almeno che "tutto va bene", l'economia nazionale funziona, la disoccupazione è più bassa che altrove (non importa se è sommersa nell'informalità). E se oggi la nostra borsa e la nostra economia arrancano affannosamente - certo, insieme alle altre, ma molto, molto più di ogni altra - la colpa non è nostra, figurarsi. Ma degli altri: i mercati e gli speculatori - cioè, lo stesso. Perché non ci capiscono. Non tengono conto dei nostri "fondamentali", solidi e forti.

Così dubito che gli italiani siano davvero in grado di affrontare la sfida di questo momento critico. Al di là delle colpe altrui, anche per propri limiti. Perché non hanno - non abbiamo - più il fisico e lo spirito di una volta. Perché oggi essere familisti, localisti, individualisti - e furbi - non costituisce una risorsa, ma un limite. Perché la sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, oltre che nella politica e nei partiti: è un limite. (E non basta la fiducia nel Presidente della Repubblica a compensarlo.) Perché l'abbondanza di senso cinico e la povertà di senso civico: è un limite. Perché se a chiederti di cambiare è un governo fatto di partiti personali e di persone che riproducono i tuoi vizi antichi: come fai a credergli?

Perché, in fondo, questo Presidente Imprenditore - e viceversa - in campagna elettorale permanente, quando chiede sacrifici, rigore, equità, non ci crede neppure lui.
Strizza l'occhio, come a dire: sacrifici sì, ma domani... Basta che paghino gli altri. Peccato che domani - anzi: oggi - sia già troppo tardi.
E gli altri siamo noi. L'arte di arrangiarsi stavolta non ci salverà. Tanto meno Berlusconi.

(08 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #233 inserito:: Agosto 18, 2011, 05:41:15 pm »

La democrazia e la Piazza (Affari)

Ilvo DIAMANTI

"No Taxation without Representation", recita un detto diffuso nelle democrazie liberali. (Dal tempo della Rivoluzione americana, nel XVIII secolo, contro il colonialismo inglese.) Se così fosse, se così è, come dubitare del sostegno popolare alle pesanti manovre imposte dai governi ai cittadini delle democrazie colpite dalla lunga e reiterata crisi dei mercati globali? Come dubitare che i cittadini ne possano, potranno capire i motivi? I cittadini globali: si sentono naturalmente rappresentati  -  e anzitutto informati. Sanno bene che il PIL il termometro che misura la salute delle nostre economie. La "nostra" salute. Il PIL. Guai se non cresce abbastanza. Se stagna o peggio: declina. E i listini delle Borse (iniziale maiuscola), come possono ignorarli, i cittadini? Tutti, naturalmente, edotti sul significato del Nasdaq, sull'importanza del Ftse Mib, del Ftse All Share, per non parlare del Ftse Star. Quando ci si incrocia per strada, la prima domanda è: come va Dow Jones? E poi è scontato: la "gente comune" è sempre lì, davanti al computer e alle reti satellitari, a seguire l'andamento dei listini. Dovunque nel mondo. Perché le Borse non chiudono mai. C'è sempre una borsa che opera, nel mondo, mentre un'altra chiude. Taiwan, Seul, Sidney, Tokio, Kuala Lumpur Bangkok. Wall Street. Le piazze europee. Una Borsa tira  -  e trascina  -  l'altra.

La "gente comune", a cui si chiede di coprire il debito e il deficit nazionale - e di mantenere la speculazione globale - pagando le tasse, è sempre lì. Per essere sempre informata, per andare sul sicuro, si danno i turni, in famiglia. Davanti alle reti satellitari e ai pc. La "gente comune" si sente rappresentata: dalla classe politica, ma, più ancora, dagli agenti di borsa, dagli operatori di mercato. Dagli speculatori.

I cittadini, naturalmente, "sanno": che il problema è originato dalla solvibilità degli Stati. O meglio, dalla in-solvibilità del debito accumulato da "alcuni" Stati. Tutti conoscono il significato di "insolvibilità". Figurarsi. Provate a chiederlo al nonno, alla zia, al vostro anziano  -  ma anche giovane -  genitore. Al vicino di casa che lavora in fabbrica. Al compagno di ufficio e di scuola.  Vi risponderanno con prontezza e competenza. Sul debito della Grecia, dell'Irlanda e del Portogallo. Su quello della Spagna. A maggior ragione, su quello dell'Italia. D'altronde, tutti, ma proprio tutti, ormai, conoscono Trichet. Quello che, per conto della BCE, annuncia l'acquisto di BTP e BOT. Con effetti espansivi per le mitiche Borse. La BCE. Lo sanno tutti cosa sia e quanto conti per la nostra vita. Trichet: uno di casa. Come Draghi, d'altronde. Tanto più Strauss-Kahn. Proprio lui, Direttore del FMI, fino a poche settimane fa. Personaggio del Jet set, ne hanno parlato tutti i rotocalchi, tutti i TG, perfino il TG 1. Dominique Strauss-Kahn, confidenzialmente DSK, come lo chiamano normalmente mia suocera, mio padre e i miei vicini di casa. Proprio lui. Quello che, tra una crisi finanziaria e l'altra, inseguiva le cameriere degli hotel, perché, come dice un importante Uomo di Stato italiano, bisognerà pure far fronte agli stress continui, in questo mondo eternamente in crisi...  DSK. Uno di famiglia. Come altri stranieri di cui, invece, abbiamo imparato a diffidare un po'. Morgan Stanley, ma soprattutto Standard & Poor's. Per gli amici: S&P. Fratelli coltelli. Che si divertono a terrorizzare le nostre Borse, minacciando di togliere la tripla A. Peggiorando il Rating ora di questo, ora di quello. Ogni mattina, in effetti, noi ci alziamo, ci guardiamo allo specchio e, prima di lavarci il viso, ci stropicciamo gli occhi e ci chiediamo: come sarà il mio Rating, oggi? E il mio Spread? Perderò la tripla A? Di che umore saranno i fratelli S&P?  E quel vecchio marpione di Morgan Stanley?

Per cui, bando ai dubbi e alle preoccupazioni sullo stato del nostro Stato e della nostra Democrazia. Ciò che avviene sui mercati globali è comprensibile e compreso da tutti i cittadini. I quali si sentono pienamente rappresentati da chi li governa. Altrimenti non pagherebbero i costi di questa crisi globale. Che in alcuni Paesi risultano particolarmente pesanti. Per fare un esempio a caso: nel nostro. Sempre il peggiore, secondo il PIL e gli indici di Borsa. Anche se fino a ieri si era detto  -  lo aveva garantito il nostro governo  -  che non abbiamo nulla da temere. Perché la nostra economia, la nostra credibilità sui mercati, lo stato dell'Italia, il PIL, il MIB, la BCE, il FMI: tutto ok. Per cui bisogna aver fiducia, essere ottimisti. Certo: c'è il problema dello Spread tra il Bund tedesco e il Btp decennale italiano, che non smette di crescere. Ma ci metteremo una pezza. Ce l'abbiamo sempre fatta. Ce la faremo anche stavolta, di fronte a questa crisi. Im-prevedibile (per il saggio Tremonti).
 Intanto cerchiamo di affrontare la sfida della Tobin Tax, che, appena annunciata da Sarkò e la Merkel, ha generato tanta inquietudine fra gli operatori di Borsa e spinto gli indici al ribasso.

Insomma, tutto è chiaro e trasparente in questa economia globale. Possiamo stare tranquilli. Le democrazie non corrono rischi. E possono continuare ancora a lungo a colpi di taxation, senza problemi di representation. Come si sa, la credibilità del ceto politico e delle classi dirigenti, oggi, è saldissima. Le proteste "indignate", le esplosioni violente dei giovani, il crescente peso dei populismi: un raffreddore  per l'organismo sano della nostra Democrazia. Dove i cittadini, come nell'Atene di Pericle, si incontrano e discutono del presente, ma soprattutto del futuro, pardon: dei futures. Insieme, riuniti nell'Agorà. Cioè, nella Piazza.
Affari.

(18 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #234 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:21:51 pm »


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Alla ricerca dell'autorità perduta

di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO un passaggio d'epoca. Questa crisi, infatti, non scuote solo le Borse, l'economia, la condizione di vita della gente. Ha aggredito, con violenza, anche il principio di autorità. Il Potere stesso, che a differenza dell'Autorità, non ha bisogno di legittimità e di consenso. Dovunque, si assiste alla rapida e diffusa caduta di ogni autorità. E di gran parte dei "poteri" che regola(va)no il nostro mondo. Anzi, il mondo, in generale. Lasciamo per ultimo il nostro Paese. È sempre stato una "periferia", che oggi, però, appare priva di "centri".

A partire dall'Europa dell'euro, una moneta senza Stato. E senza politica. Mentre l'Unione europea è un tavolo dove i governi nazionali si confrontano. In un gioco a somma negativa, perché nessuno, appunto, ha sufficiente potere per imporsi agli altri. Neppure i più forti. Si veda l'esito del vertice tra Sarkozy e la Merkel. Meno di nulla. D'altronde, Sarkozy e la Merkel, a casa loro, sono in profonda "crisi" di popolarità. Come i principali capi di governo europei. Senza parlare di noi, basti pensare a Zapatero, che ha indetto le elezioni per il prossimo autunno, annunciando che non si ripresenterà. Lo stesso Cameron, da un anno premier inglese, sta attraversando più di un problema. Per sedare le violenze esplose due settimane fa, a Londra e in altre città, ha dovuto mobilitare 16mila agenti. Lo stesso numero, più o meno, dei "tumultuosi". Cameron: ha usato la forza (pubblica), ma i tagli alla spesa ridurranno gli organici della polizia. E, per questo, è in polemica aperta con Scotland Yard. Esempio significativo del conflitto fra i poteri  -  e dunque dell'autorità  -  dello Stato (e che Stato!). Lo stesso Cameron, d'altra parte, ha accusato le famiglie di aver ceduto, se non perduto, la propria "autorità" rispetto ai figli. Per l'incapacità di dettare regole e valori. Ma per dettare valori e ancor più regole occorre Autorità. O almeno, potere. Meglio entrambi, insieme. Oggi chi è in grado di esercitarli? Allargando lo sguardo al mondo, chi comanda? Gli Usa? Certamente non più. Viviamo in un mondo multipolare. E gli Usa, oggi, sono coinvolti nella crisi finanziaria "globale", esattamente come gli altri Paesi dell'area di mercato.

Anzi, la loro stessa debolezza ne è una causa. Un moltiplicatore. Il che ha eroso, rapidamente, la popolarità, dunque il "consenso" e la legittimità del presidente Obama, appena un anno fa, considerato il portabandiera di una stagione di rinnovamento globale. Oggi in difficoltà, quasi im-potente, dentro e fuori gli Usa. Nonostante sia investito di "poteri" ben più rilevanti rispetto ad altre democrazie, come la nostra. Dove in molti vagheggiano il modello presidenzialista (all'americana).

I "nuovi" potenti del mondo, per prima la Cina, agiscono, anch'essi, attraverso i "mercati" e le Borse. Controllano il debito pubblico americano. Ma ne sono, per questo, vincolati. La Cina, però, sconta un deficit di autorità. Perché non può costituire un "modello" internazionale, dal punto di vista dei diritti e dei valori che ne orientano il regime, sul piano interno.

La crisi finanziaria che scuote l'economia globale, d'altronde, riflette un'evidente incertezza di "poteri" e di regole condivise. Nessuno che sia in grado, davvero, di prevedere e di orientare il corso dei mercati  -  e delle Borse. La relazione tra finanza ed economia è debole (per usare un eufemismo). La politica ancor di più. Si dice, anzi, che la debolezza della politica e degli Stati sia causa della crisi delle Borse. Prive, a loro volta, di metri e, soprattutto, "autorità" in grado di regolarle. Le agenzie di Rating, con i loro "voti", possono produrre (e hanno prodotto) effetti pesanti. Ma sono, a loro volta, poco credibili, dopo la pessima prova offerta nel 2008, al tempo della crisi dei subprimes. Il Nobel dell'Economia, Paul Krugman, sul New York Times le ha definite, impietosamente, "clown". E ha riproposto, come prima causa della crisi finanziaria, la debolezza della politica e degli Stati (Uniti). Una crisi di autorità, insomma.

D'altronde, dal punto di vista geopolitico, è da mesi che poteri senza autorità, come quelli espressi dai regimi del Nord Africa e del Medio Oriente, sono stati investiti da potenti contestazioni - protagonisti soprattutto i giovani. Fino ad essere rovesciati. Dove, però, come in Tunisia e in Egitto ha contribuito l'esercito a rovesciare il "potere" precedente. Altrove, invece, (Libia e Siria, in particolare) si assiste a rivoluzioni ancora incompiute. Guerre civili. Rivolte represse nel sangue. Eppure irriducibili.

La crisi del Potere e - soprattutto - dell'Autorità, infine, è particolarmente visibile in Italia. Dove la Politica è debole, più ancora della Finanza e dell'Economia. Dove i leader di governo cercano di non dar nell'occhio. Si affidano alla supplenza di altri poteri (relativamente) più autorevoli, come la Bce. Mentre l'opposizione stenta a trasformare l'impotenza della maggioranza in potere. A guadagnare autorità. Il nuovo moto di insofferenza contro la casta non deriva solo dal riprodursi di un sistema di privilegi  -  e di corruzione  -  che, in effetti, non è mai cessato. Ma dall'assoluta perdita di autorità della classe dirigente. Soprattutto dei leader che governano il Paese da 10 anni, in modo quasi ininterrotto. Quelli che, fino a un anno fa, avevano trasformato Villa Certosa nella rutilante capitale estiva del Paese. Affollata di veline e velinari. Quelli che parlano di politica con un linguaggio antipolitico. Usano il turpiloquio come linguaggio pubblico. E alzano il dito non per mostrare la luna ...

Come immaginare che possano riscuotere "prestigio" e deferenza tra i cittadini? Se riproducono i vizi e le debolezze del popolo, perché dovrebbero ottenere privilegi e riconoscimento da parte del popolo? Oggi che la crisi minaccia la condizione economica e sociale, la vita quotidiana di tutti?
Questa fase mi pare particolarmente insidiosa. Difficile da superare. È frustrata da un grande deficit di autorità  -  e di potere. Da una grande povertà di riferimenti etici e di comportamento. Un problema aggravato, (non solo) in Italia, dalla scarsità di attori e persone credibili. In grado di "dire" le parole necessarie a esprimere il sentimento del tempo. (Ne abbiamo tracciato una "Mappa", un mese fa, su Repubblica). Ma, soprattutto, di tradurle in pratiche coerenti. Di dare il buon esempio.

Eddy Berselli, prima di lasciarci, ha rammentato, profeticamente, (L'economia giusta, Einaudi) che "dovremo abituarci ad essere più poveri". Ma, a maggior ragione, diventa importante chi e come ce lo propone. Insomma: è una questione di autorità.

(22 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #235 inserito:: Settembre 01, 2011, 08:40:55 am »

Non studiate!

di Ilvo DIAMANTI

CARI RAGAZZI, cari giovani: non studiate! Soprattutto, non nella scuola pubblica. Ve lo dice uno che ha sempre studiato e studia da sempre. Che senza studiare non saprebbe che fare. Che a scuola si sente a casa propria.
 
Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? Difficile.

Qualsiasi libero professionista, commerciante, artigiano, non dico imprenditore, guadagna più di loro. E poi vi pare che godano di considerazione sociale? I ministri li definiscono fannulloni. Il governo una categoria da “tagliare”. Ed effettivamente “tagliata”, dal punto di vista degli organici, degli stipendi, dei fondi per l’attività ordinaria e per la ricerca.

E, poi, che cosa hanno da insegnare ancora? Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. A proposito dei quali, voi, ragazzi, ne sapete molto più di loro. Perché voi siete, in larga parte e in larga misura, “nativi digitali”, mentre loro (noi), gli insegnanti, i professori, di “digitali”, spesso, hanno solo le impronte. E poi quanti di voi e dei vostri genitori ne accettano i giudizi? Quanti di voi e dei vostri genitori, quando si tratta di giudizi – e di voti – negativi, non li considerano pre-giudizi, viziati da malanimo?

Per cui, cari ragazzi, non studiate! Non andate a scuola. In quella pubblica almeno. Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato. Sul Pubblico. Sui privilegi della Casta. (Cioè: degli altri). L’Istruzione, la Cultura, a questo fine, non servono.

Non studiate, ragazzi. Non andate a scuola. Tanto meno in quella pubblica. Anni buttati. Non vi serviranno neppure a maturare anzianità di servizio, in vista della pensione. Che, d’altronde, non riuscirete mai ad avere. Perché la vostra generazione è destinata a un presente lavorativo incerto e a un futuro certamente senza pensione. Gli anni passati a studiare all’università. Scordateveli. Non riuscirete a utilizzarli per la vostra anzianità. Il governo li considera, comunque, “inutili”. Tanto più come incentivo. A studiare.

Per cui, cari ragazzi, non studiate. Se necessario, fingete, visto che, comunque, è meglio studiare che andare a lavorare, quando il lavoro non c’è. E se c’è, è intermittente, temporaneo. Precario. Ma, se potete, guardate i maestri e i professori con indulgenza. Sono una categoria residua (e “protetta”). Una specie in via d’estinzione, mal sopportata. Sopravvissuta a un’era ormai passata. Quando la scuola e la cultura servivano. Erano fattori di prestigio.

Oggi non è più così. I Professori: verranno aboliti per legge, insieme alla Scuola. D’altronde, studiare non serve. E la cultura vi creerà più guai che vantaggi. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Ma oggi non conviene. Si tratta di vizi insopportabili. Cari ragazzi, ascoltatemi: meglio furbi che colti!

(01 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #236 inserito:: Settembre 02, 2011, 09:51:21 am »

Quei giovani fuori dal bar

Ilvo DIAMANTI


FATICO a capire i giovani, nonostante che io me ne occupi da quand'ero giovane. Cioè da molto, troppo tempo. Certo, ho la fortuna di frequentarli spesso e con regolarità, da genitore e professore. Tuttavia, mai come in questa fase stento a riconoscerli, perché mi è, comunque, difficile misurarmi con essi. Certo, i tempi sono cambiati da quand'ero giovane anch'io. Secoli, millenni. Non c'è bisogno di rammentare le distanze cosmiche dal punto di vista delle tecnologie e dei metodi di comunicazione a livello personale e sociale. Però alcuni riferimenti, alcuni luoghi del paesaggio che compone la nostra vita quotidiana sono rimasti gli stessi. Anche se nella pratica non sono più gli stessi. Sono divenuti "altro".

I bar, ad esempio. Ci sono ancora, come quando io ero giovane. A volte sono negli stessi luoghi, con gli stessi nomi. Però è cambiato l'uso che se ne fa. Il posto che hanno nella giornata e nella vita dei giovani. Ai miei tempi (che impressione usare questa formula. Segno che sono davvero invecchiato) i bar erano luoghi e centri sociali. Ci passavi le sere. Le domeniche. Uscivi di casa e andavi là, dove incontravi gli amici. Il barista era una figura leader della formazione giovanile. Veniva dopo i genitori, gli insegnanti e gli amici stretti. Andavi al bar. Poi decidevi dove recarti. Al cinema, a una manifestazione, a una festa, a zonzo. E ci tornavi più tardi. Peró potevi anche scegliere di rimanere lì. Di passarci la sera a giocare a biliardo, a calcetto, a carte. A bere, chiaccherare, tirare tardi. E, comunque e soprattutto, la vita del bar si svolgeva inevitabilmente dentro. Dentro. Il bar, come ho detto, era un luogo e un centro sociale in sè. E, in particolare, "un" bar. Dove si trascorreva gran parte del tempo libero.

Ora non è più così. Basta girare per le città per vedere che i giovani si ammassano "fuori". Davanti e intorno al bar. Occupano uno spazio ampio, variabile. Il marciapiede, l'intera strada. In piedi, appoggiati ai muri, seduti sull'asfalto... Sono tanti, tantissimi. Alle ore più diverse. Prima di cena, per lo spritz. O a cena, per il kebab, il piatto pronto. Dopo cena o comunque a tarda sera (e notte). A volte, anzi, spesso, sono avvolti da musica tecno a volume variabile. Dipende dall'ora, dalle ordinanze e dai regolamenti comunali, dal grado di sopportazione dei residenti. Ma si tratta sempre di un brulichio, una folla mobile. Gli addensamenti giovanili non sono stabili, ma in costante evoluzione. Perché loro, i giovani, si spostano di continuo. Individualmente o in gruppo. Arrivano, parlano, mangiano, bevono, fumano. E se ne vanno. Con alcuni amici, in gruppo oppure da soli. Vanno altrove. Incontrano altri amici, ascoltano altra musica, beccheggiano altri spuntini. Cambiano bar e dunque compagnia oppure attività. Poi magari ri-passano. Ma restano sempre "fuori". Raramente entrano.

Ovviamente, di conseguenza, sono cambiati anche i bar, che si sono adattati a fare altre cose. E a volte hanno innovato, promuovendo nuove abitudini. Si pensi all'happy hour, che ha rimpiazzato, talora, la cena, tante sono le proposte alimentari che i diversi locali associano al drink (i noti spuntini ipercalorici). Ma i bar qui mi interessano soprattutto in relazione ai giovani e ai loro stili di vita. Le loro abitudini. I bar. Sono divenuti stazioni di passaggio di una vita itinerante. Di una generazione itinerante, sempre in movimento, sempre in viaggio. Perché costretta - o meglio, indotta - a vivere un eterno presente. Precario. Una generazione di passaggio. Alla ricerca di un luogo dove fermarsi, finalmente. Tra un bar e l'altro.

(29 agosto 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #237 inserito:: Settembre 05, 2011, 11:08:18 am »

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di ILVO DIAMANTI

UN PAESE senza governo e senza guida. Nel mezzo di una crisi di sfiducia politica e istituzionale, che evoca quella dei primi anni Novanta. Con l'aggravante che non si vedono sbocchi e scarseggia la speranza. È l'immagine senza luce che emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos condotto nei giorni scorsi su un campione rappresentativo della popolazione nazionale.

1. Un Paese senza governo. Le stime elettorali confermano il declino dei partiti di maggioranza. Il PdL scende al 25,5%. Ma, rispetto a giugno, cala anche la Lega (sotto il 10%), che non riesce più a fare l'opposizione di governo. Insieme, PdL e Lega, secondo le stime di Demos, raggiungerebbero poco più del 35%. Meno di quanto ottenne da solo il PdL nel 2008. Nove punti percentuali meno dell'asse di Centrosinistra: PD-IdV-SEL. D'altra parte, circa metà degli elettori prevede che una coalizione di Centrosinistra guidata dal PD di Bersani vincerebbe le elezioni. Quasi il doppio di chi, invece, scommette sul successo del Centrodestra guidato da Berlusconi. Il declino del berlusconismo sembra ormai di "senso comune".

2. Un Paese senza guida. E senza "guide". La Seconda Repubblica, ispirata da Berlusconi, è fondata sui "partiti personali" - e comunque, personalizzati. Ma le "persone" che "guidano" i partiti di governo - e il governo - dimostrano un serio deficit di consenso. Anzitutto i Capi. Berlusconi e Bossi, entrambi in fondo alla graduatoria dei leader, compilata in base al giudizio degli elettori.
Poco più del 20% degli italiani (compresi nel campione) attribuisce loro la sufficienza. Alfano, segretario del PdL per volontà di Berlusconi, raggiunge il 30%, ma cala di tre punti e mezzo rispetto a due mesi fa. Resta Tremonti, cardine del governo e guida dell'economia nazionale, ma anche il vero "oppositore" interno di Berlusconi. Oggi ottiene la fiducia di circa il 38% degli elettori, cioè: circa 17 punti meno di due mesi fa. Un vero crollo. Prodotto dal disorientamento suscitato dalla manovra finanziaria, non solo dolorosa, ma soprattutto confusa - riveduta e corretta di giorno in giorno. Un crollo. Accentuato dal discredito sollevato dallo scandalo che ha coinvolto il suo sottosegretario Milanese. Di cui era "inquilino" (in nero). Da ciò la perdita di legittimazione "personale" sui mercati e presso le istituzioni internazionali. Ma anche nell'opinione pubblica nazionale. Maggioranza e governo appaiono, così, senza guide e riferimenti.

3. Oggi, d'altronde, quasi otto italiani su dieci affermano che il governo non ha mantenuto le promesse. Lo pensa anche la maggioranza dei leghisti e quasi metà degli elettori del PdL. Sette elettori su dieci, inoltre, considerano la manovra finanziaria negativamente. Iniqua, a spese soprattutto dei pensionati e dei dipendenti pubblici. Mentre metà degli italiani la giudica un ostacolo all'attuazione del federalismo.

4. Un Paese senza governo e senza guida. Che, tuttavia, non sembra disporre di alternative credibili. Certo, se si votasse oggi, secondo le stime di Demos, il Centrosinistra prevarrebbe nettamente. Ma il giudizio degli elettori sull'operato dell'opposizione risulta anche peggiore di quello verso il governo. Quanto ai leader, il consenso nei confronti di Bersani e Vendola appare in calo, negli ultimi mesi. Il segretario del PD è danneggiato dalle inchieste sulla corruzione che hanno coinvolto Penati, ma anche Tedesco. Figure importanti nell'ambito del partito. Non solo a livello locale.

5. L'opposizione sociale, interpretata dallo sciopero generale di domani promosso dalla CGIL, in effetti, divide il Paese. Circa metà degli italiani non è d'accordo. Ma il 45% si dice a favore. Nel centrosinistra, comunque, il consenso appare ampio. Sei italiani su dieci, peraltro, sostengono che non parteciperebbero a una manifestazione contro le politiche economiche del governo. Nonostante non le condividano. Per timore, presumibilmente, di drammatizzare la situazione del Paese. Il che conferma la difficoltà di fare opposizione senza un governo di fronte, in questi tempi di crisi.

6. Non è un caso che il solo leader che abbia visto crescere la fiducia personale, negli ultimi mesi, sia Antonio Di Pietro. Oggi risulta il più "stimato" dagli elettori e il suo partito sembra averne beneficiato notevolmente. Due le ragioni principali del favore per Di Pietro. A) È ritenuto fra i protagonisti del successo del Centrosinistra alle amministrative dello scorso maggio e del grande risultato ottenuto dai referendum di giugno. B) La sua identità richiama la stagione di Tangentopoli, di cui è stato e resta la "figura simbolo".

7. L'analogia con gli anni di Tangentopoli appare, infatti, molto stretta agli occhi degli italiani. Quasi metà degli intervistati ritiene che oggi la corruzione politica sia altrettanto diffusa rispetto ad allora. Un ulteriore 36% la considera perfino cresciuta. Due italiani su tre, peraltro, ritengono che nessuno, da destra a sinistra, possa rivendicare una "diversità" etica.

Da ciò la profonda differenza rispetto alla stagione di Tangentopoli. Allora, mentre crollava il Muro, insieme alla Prima Repubblica, era diffusa la convinzione che ci attendeva un futuro migliore. Che il cambiamento avrebbe fatto bene al nostro sistema politico malato e alle nostre istituzioni, inadeguate. Inoltre, in quegli anni erano presenti soggetti e riferimenti importanti - nuovi e meno nuovi. La Lega, Berlusconi, i magistrati. In seguito l'Ulivo di Prodi. Oggi non è così. Dietro alla crisi si stenta a vedere la luce. Il Movimento invisibile e reticolare, emerso nei mesi scorsi, ha espresso una domanda di cambiamento, fin qui ancora in attesa di rappresentanza. Mi pare difficile che possa venire soddisfatta dai nomi che circolano in questi tempi. Largamente esterni alla società civile. Banchieri, finanzieri e capitani di industria. Lo stesso Montezemolo, molto presente nelle cronache politiche di questa fase, secondo i dati dell'Osservatorio Politico di Demos è fermo al 38% dei consensi. Tre punti in meno di giugno, ma oltre dieci in meno rispetto a febbraio. Il fatto è che viviamo un'epoca di sfide speciali. Richiedono persone e soggetti politici speciali. Sarà la mia miopia, ma, echeggiando Machiavelli e Pareto, in giro io non vedo né volpi né leoni.

(05 settembre 2011) © Riproduzione riservatA

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« Risposta #238 inserito:: Settembre 12, 2011, 03:55:21 pm »

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Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma

L'intento è di sfidare la paura dell'altro come tema per conquistare il consenso e l'audience televisiva.

Ma il divario tra l'agenda mediatica e le preoccupazioni dei cittadini resta elevatissimo

di ILVO DIAMANTI

Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma Una foto di scena del film di Crialese "Terraferma"
Al Festival di Venezia, quest'anno, il Cinema italiano, dopo tanti anni, è stato protagonista. Il Premio della Giuria, assegnato a "Terraferma" di Emanuele Crialese. Migliore Opera prima: "Là-bas", di Guido Lombardi. I due film hanno un soggetto comune: gli immigrati. Il film di Crialese: l'esodo dei disperati in fuga dal Nord Africa, visto con gli occhi dei pescatori siciliani.

Il film di Lombardi: le drammatiche storie degli immigrati in rivolta a Castelvolturno, nel 2008. Ma le opere presentate a Venezia da registi italiani, sull'argomento, sono molto numerose. In tutte le sezioni. Oltre una decina. Ne citiamo solo alcune. "Cose dell'altro mondo" di Francesco Patierno, che ipotizza la (disastrosa) scomparsa degli immigrati in una zona del Nordest. E ancora: "Storie di schiavitù" di Barbara Cupisti, "Io sono Li", di Andrea Segre (fra gli interpreti: Marco Paolini), "Villaggio di Cartone", scritto e diretto da un maestro: Ermanno Olmi. Fino a "L'ultimo terrestre", di Gipi, che narra dell'arrivo degli alieni fra noi. Dove gli alieni sono "gli altri, che evidenziano la nostra vulnerabilità. Il nostro sentimento di perifericità".

Gli inviati di Le Monde (Jacques Mandelbaun e Philippe Ridet), al proposito, hanno osservato che l'immigrazione, per il Cinema italiano, è divenuto "un genere in sé". E hanno realizzato, al proposito, un commento molto ampio, dal titolo, assolutamente esplicito: "L'immigrato, vedette americana della Mostra di Venezia". D'altronde, è difficile, impossibile, trovare, in Europa - e altrove  -  un'attenzione tanto acuta  -  quasi ossessiva  -  come quella espressa verso gli stranieri dal Cinema italiano. Per quanto animato da sentimenti "civili" e solidali, non riesce a dissimulare il disagio diffuso, in un Paese di emigranti dove l'immigrazione è giunta all'improvviso. Ed è cresciuta, in poco più di dieci anni, del 1000%. Oggi si aggira, infatti, intorno al 7% (in valori assoluti: circa 5 milioni, secondo Caritas-Migrantes), ma tocca anche il 20% nelle zone più industrializzate del Centro e del Nord (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Nordest). Eppure le "misure" reali del fenomeno non bastano a spiegare tanta sensibilità da parte dei registi e degli autori del cinema. Intellettuali e specialisti  -  talora artisti - della comunicazione. La cui attenzione è dettata, sicuramente, dal "materiale" offerto dal problema. Le biografie e le "storie" degli immigrati, l'incontro con le comunità locali, con gli "italiani".

Ma conta, altrettanto e forse di più, l'intento di "sfidare" il Pensiero Unico veicolato dai media e propagandato dal populismo di destra - influente nella maggioranza di governo. La Paura dell'Altro come tema per conquistare il consenso  -  e l'audience. Basta scorrere i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis). Nei telegiornali pubblici di prima serata di alcuni importanti Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), nel corso dei primi quattro mesi del 2011, le notizie relative all'immigrazione hanno occupato il 3% del totale. Più in particolare: su France 2 hanno rappresentato l'1,6%, su ARD (rete pubblica tedesca) lo 0,6%, sulle altre perfino di meno. Nel Tg1, invece, il 13,9%. (La stessa percentuale si ottiene, peraltro, considerando anche gli altri principali tg italiani, pubblici e privati). Naturalmente, l'Italia è il Paese dove le "rivoluzioni" nordafricane e, soprattutto, l'intervento in Libia hanno avuto maggiore impatto. Con la differenza che altrove, in Europa, questi avvenimenti sono stati trattati come fatti ed episodi di guerra. Mentre in Italia sono stati affrontati, in modo specifico, dal punto di vista dell'immigrazione. O meglio (forse: peggio), dell'invasione. Il primo e principale argomento utilizzato dalla Lega a sostegno della propria opposizione all'intervento in Libia.

Tuttavia, nonostante gli sbarchi e le guerre sull'altra sponda mediterranea, il divario fra l'agenda mediatica e le preoccupazione dei cittadini, infatti, resta elevatissimo. Basta consultare, di nuovo, i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, concentrandoci, in questo caso, sulla percezione sociale. L'immigrazione, infatti, è indicata come la preoccupazione principale dal 6% degli italiani (del campione rappresentativo intervistato da Demos nel giugno 2011). Le cui angosce sono, invece, attratte, in larghissima misura, dai temi legati all'economia, l'occupazione, il costo della vita (55%). Lo sguardo mediale sugli immigrati appare, dunque, asimmetrico rispetto a quello della popolazione. Lo stesso avviene riguardo alla criminalità, che resta al centro dell'informazione televisiva (55% delle informazioni di prima serata), mentre preoccupa una quota molto più ridotta della popolazione (10%). Si tratta di una conferma della "costruzione" politica e mediale dell'insicurezza, che induce a enfatizzare la "paura degli altri" e a ridimensionare l'incertezza per motivi economici e (dis)occupazionali. (D'altronde, il pessimismo economico è comunista e anti-italiano, ha ripetuto il Presidente del Consiglio, anche di recente).

Ma in questa fase mi pare che "gli altri" non si risolvano negli immigrati che giungono in Italia, spinti dalla necessità o dall'emergenza. In condizioni difficili, talora drammatiche. Oggi, in Italia, si sta diffondendo una sindrome dell'accerchiamento più estesa e indefinita. Ci sentiamo minacciati dall'esterno, da ogni fronte e da ogni direzione. Dalle rivolte e dalle guerre che avvampano nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Ma anche dall'Europa e, soprattutto, dalla Germania. Che non credono nella nostra economia, ma soprattutto, nel nostro sistema politico. E minacciano di non coprire il nostro debito pubblico, di non acquistare i nostri titoli di Stato. Ci sentiamo minacciati dalle Borse e dai Mercati, dallo Spread e da S&P. Noi, che abbiamo coltivato, a lungo, un'identità nazionale fondata sull'arte di arrangiarsi, sulla capacità di adattarsi e di reagire. Noi che ci siamo considerati una società "vitale" - nonostante il governo, nonostante lo Stato. Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione, almeno: una ragione importante, di tanti film italiani sugli immigrati quest'anno, a Venezia.

In realtà, parlano di noi. Sperduti e spaesati nel Paese di Terraferma.

(12 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #239 inserito:: Settembre 19, 2011, 12:03:48 pm »

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Piuttosto della crisi è meglio invocare la secessione

Bossi torna ad agitare lo spettro della separazione del Nord.

Per via democratica, attraverso un referendum. Ma dubitiamo che alle parole seguiranno fatti concreti.

Che davvero la Lega possa e voglia perseguire quell'obiettivo

di ILVO DIAMANTI


UMBERTO Bossi, ieri, a Venezia ha concluso la manifestazione che, da 15 anni, celebra la secessione padana. Il mito che mobilita e fornisce identità alla Lega e ai suoi militanti. L'ha fatto invocandola, puntualmente. La secessione. Unica via di uscita per una democrazia in pericolo. Dove, anzi, "il fascismo è tornato con altri nomi e altre facce". Parole sorprendenti, in bocca al ministro delle Riforme istituzionali per il Federalismo. Al leader di un partito che governa da 10 anni, salvo una breve pausa - meno di due anni. La "Lega di governo", ben insediata a Roma. Soggetto forte della maggioranza e alleato affidabile di Berlusconi, anche in tempi cupi come questi. Bossi torna ad agitare lo spettro della secessione, per via democratica. Attraverso un referendum. Ma abbiamo motivo di dubitare che alle parole seguiranno fatti concreti. Che davvero la Lega possa e voglia perseguire la secessione - seppure per via democratica.

In primo luogo, perché rischierebbe di trovarsi da sola, con poche persone al seguito. Come avvenne nel settembre del 1996, quando la marcia per l'indipendenza padana, promossa dalla Lega, andò largamente deserta. Poche decine di migliaia di militanti. Un po' pochi per marcare il "confine naturale" del Nord padano. D'altronde, basta ragionare sui dati
elettorali (come ha fatto ieri Francesco Jori su Il Piccolo e su altri quotidiani del Nord). Nel 1996, quando la Lega raggiunse il risultato più ampio fino ad oggi, nelle regioni del Nord padano si fermò, comunque, al 23%. Nel 2008 al 19%. Alle Regionali del 2010 nel Lombardo-Veneto, dove è più forte e radicata, si è attestata al 30% (dei voti validi. Cioè, molto meno se si considera la popolazione intera). In ogni caso: una "larga minoranza" dei cittadini del Nord  -  e pure del Lombardo-Veneto. Tuttavia, ricondurre "tutti" gli elettori leghisti al verbo secessionista è improprio e, anzi, largamente sbagliato. Basti pensare a quel che avvenne dopo il 1996, quando la Lega, da sola, proseguì nel progetto indipendentista. Riducendosi a poco più del 3% alle Europee del 1999. Ciò che la indusse a rientrare a casa. Meglio: nella Casa delle Libertà. Accanto a Berlusconi. D'altronde, ancora nel 2006, la Lega raggiungeva appena il 4% in Italia, ma restava di poco sotto al 10% nel Nord. Il fatto è che il successo della Lega dipende da ragioni che poco hanno a che fare con la secessione.

Come dimostrano numerosi sondaggi condotti sull'argomento. In un'indagine recente 3 (Atlante Politico di Demos, giugno 2011), la quota di elettori che si dice d'accordo con l'affermazione: "Il Nord e il Sud dovrebbero dividersi e andare ciascuno per conto suo" è del 12% in Italia, sale al 14% nel Nord Ovest e al 26% nelle regioni del Nord Est (esclusa l'Emilia Romagna, altrimenti il dato medio si abbasserebbe). Fra gli elettori leghisti risulta elevata: intorno al 40%. Cioè, di nuovo, una "larga minoranza". Che resta, però, minoranza. Per contro, l'85% degli elettori del Nord padano e oltre il 70% di quelli leghisti considerano l'Unità d'Italia una conquista "molto o abbastanza positiva" (Demos per Limes, marzo 2011). Mentre oltre l'80% degli elettori del Nord (padano) e della Lega si sentono "orgogliosi di essere italiani". Infine, più di otto persone su dieci, tra gli italiani ma anche fra gli elettori del Nord, ritengono che fra 10 anni l'Italia sarà ancora unita. E fra i leghisti questa convinzione appare solo un po' meno diffusa: 77%.

Insomma, la "via democratica alla secessione" non porterebbe lontano la Lega. Perché non piace al Nord ma neppure alla maggioranza degli elettori leghisti, che si sentono molto più italiani che padani. Allora perché Bossi continua a richiamarla, come un mantra? Anzitutto, per contrastare il malessere dei suoi elettori. I più fedeli e, a maggior ragione, quelli "tattici", molto numerosi nelle aree economicamente più dinamiche. I quali la votano per manifestare contro Roma e il Sud. Contro l'inefficienza dello Stato e la pressione fiscale, troppo alta. Contro i privilegi della casta e del sistema politico. "Romano". La usano, cioè, come una sorta di sindacalista del Nord. Che oggi, però, rischia di risultare inefficace. Altri dati di sondaggi recenti (Demos, settembre 2011 4) dicono, esplicitamente, che la manovra finanziaria del governo non piace né al Nord (circa 70% di giudizi negativi e 23% positivi) né ai leghisti (49% di giudizi negativi e 42% positivi). Agli elettori leghisti, in particolare, non piace Berlusconi, grande alleato della Lega e di Bossi. Solo un terzo di essi ne valuta l'operato con un voto "sufficiente".

Insomma, la "Lega di governo" è in difficoltà di fronte al suo elettorato, fedele e "tattico". Cerca, per questo, di riproporre le parole d'ordine della "Lega di protesta". E secessionista. Anche se fa specie che sia il Ministro delle Riforme istituzionali a presentarsi come portabandiera dell'opposizione. Ma il leader della Lega agita la minaccia secessionista anche per sopire le divisioni che attraversano i dirigenti del suo partito. Coinvolti, com'è stato osservato, assai più che dalla "secessione", dal tema della "successione". Che vede in Roberto Maroni il candidato più accreditato. Ma anche il più osteggiato. Esempio più evidente e recente di queste tensioni: il servizio appena pubblicato da Panorama, dove si accusa la moglie di Bossi di "guidare" il partito insieme a un "cerchio" ristretto di uomini fedeli al Senatur. Raccoglie voci note da tempo. Con la differenza - e la novità - che a rilanciarle è un periodico della galassia editoriale di Berlusconi. Il che suggerisce quanto le tensioni siano, ormai, ineludibili. Indifferibili. Nella Lega e nel Centrodestra.

Da ciò, l'ultima spiegazione. La Secessione, come la Padania, è un mito fondativo, una sorta di orizzonte proiettato lontano nel tempo. Mentre la manovra finanziaria, che appare a 8 italiani su 10 inaccettabile, è reale. Attuale. Come il crollo di consensi che ha travolto il governo e, anzitutto, il Presidente del Consiglio. La Lega e Bossi, in primo luogo, potrebbero staccare la spina. Se volessero fare Lega d'opposizione. Proporre altri candidati premier. Oppure nuove elezioni (com'è avvenuto in Spagna). In questo caso, però, dovrebbero rinunciare alla posizione dominante che il Carroccio occupa nel governo e in molte amministrazioni. Rischiare l'emarginazione, come dopo il 1996. Ma, soprattutto, se Berlusconi uscisse di scena, Bossi potrebbe seguirne la sorte. E senza Bossi nella Lega si aprirebbe una guerra di successione. Dall'esito incerto. Anche per la Lega, di cui Bossi costituisce tuttora l'Icona Unificante. Per cui sempre meglio minacciare e poi rinviare. La crisi di governo, le elezioni. Meglio, tanto meglio, invocare la Secessione. La Padania. Ma più in là. Domani è un altro giorno. Si vedrà.

(19 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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