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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278658 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Marzo 18, 2011, 05:07:09 pm »

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Dal Nord al Sud fieri del tricolore così vince l'orgoglio nazionale

L'indagine condotta da Demos ritrae una popolazione coesa, non condizionata dalle polemiche leghiste.

Solo il 7 per cento dei cittadini ritiene che l'unificazione amministrativa sia stata un errore.

Anche tra gli elettori del Carroccio il secessionismo non sfonda: in sette su dieci prevale lo spirito unitario.

Rispetto a 10 anni fa ci sentiamo più divisi e infelici. Perfino meno solidali

Ma fiduciosi nel futuro del Paese

di ILVO DIAMANTI


DOPO 150 anni l'Unità dell'Italia pare acquisita. Riconosciuta dagli italiani, senza grandi problemi, insieme ai simboli e agli avvenimenti storici che la contrassegnano. Non era scontato, anzi: le polemiche sollevate dalla Lega e - per riflesso - dalle frazioni "neoborboniche" del Sud, sembravano allargare le distanze che attraversano il Paese. Trasformando le differenze in divisioni. Ma i dati del sondaggio condotto da Demos (per Intesa Sanpaolo) disegnano un ritratto molto diverso. Quasi il 90% degli italiani (intervistati nel corso dell'indagine) considera in modo positivo la conquista dell'Unità. Più specificamente, il 56% la giudica "positiva" e il 33% "molto positiva". Solo il 7% guarda l'Unità italiana con atteggiamento di segno negativo. È un sentimento condiviso dovunque. Le differenze territoriali sono minime. Per cui lo spirito unitario appare meno esteso nel Nord. Ma solo "un po'". Anche tra gli elettori della Lega, per quanto più circoscritto, raggiunge il 70%. La ragione di un orientamento così positivo, nonostante le polemiche, probabilmente, sta proprio nelle polemiche. Nel dibattito acceso - e continuo - suscitato negli ultimi mesi intorno all'Unità e ai suoi simboli. Nella catena di provocazioni piccole e medie - lanciate dalla Lega e dai suoi amministratori. "Va pensiero" cantato nelle cerimonie invece dell'Inno di Mameli. I vessilli regionali invece del - o accanto al - Tricolore. Poi l'accostamento continuo del federalismo all'indipendenza del Nord.
Insomma, una sequenza di sfide e di piccoli strappi che hanno prodotto l'esito, non si sa quanto voluto, di rafforzare il sentimento unitario, insieme ai simboli che lo evocano. Agendo da spot emozionali e promozionali, invece che da disincentivi.

...

Un fenomeno molto simile si era verificato agli inizi degli anni Novanta, quando la Lega lanciò la sua campagna indipendentista, che sfociò, nel 1996, nella marcia "secessionista" lungo il Po. Per marcare il confine padano rispetto all'Italia. Ebbene, mai come allora l'orgoglio e l'identità nazionale assunsero proporzioni così ampie. E il sostegno all'unità italiana apparve largo come mai prima di allora. Lo stesso orientamento che emerge in questa fase, in questi giorni. Tutti gli italiani, o quasi, convinti dell'importanza della conquista unitaria. Convinti che sia importante riconoscersi italiani. Anche tre elettori della Lega su quattro. Evidentemente, leghisti senza essere padani.

Allo stesso modo e allo stesso tempo, è significativo il valore attribuito a eventi e simboli "unitari". Altrimenti e altre volte sottovalutati. Se non criticati apertamente. La Costituzione, il Risorgimento, perfino la Resistenza. E ancora, l'Inno di Mameli, il Tricolore. Gli italiani guardano con ammirazione i Padri della Patria: Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e, per primo, Giuseppe Garibaldi. Spesso "deplorato" dai nordisti, dai sudisti, in qualche misura, anche dai papalini. Per aver "unificato" l'Italia. Il Nord e il Sud. Figura eroica, in camicia rossa. Ed è interessante osservare come l'ammirazione degli italiani si allarghi anche ad alcuni tra i "fondatori" e i leader politici della Prima Repubblica. Democristiani ma anche comunisti. Alcide De Gasperi ed Enrico Berlinguer, soprattutto. E, per primo, Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Br, anche (forse proprio) perché aveva perseguito - quasi raggiunto - lo "storico compromesso" fra i due partiti di massa che avevano fondato e accompagnato l'Italia repubblicana. Certo, non bisogna pensare che il disincanto nazionale, all'improvviso, sia scomparso. Rimpiazzato da un orgoglio inedito. Sarebbe troppo. Intanto, l'atteggiamento verso l'ultima fase della Prima Repubblica è molto più critico. Craxi, lo stesso Andreotti sono guardati con diffidenza. Associati a Tangentopoli. Percepita come una rivoluzione mancata, più che incompiuta.

La storia nazionale, per molti italiani, è come fosse finita allora. Da lì inizia il declino. Che riapre la frattura nei confronti delle istituzioni e della sfera pubblica. L'orgoglio nazionale, per questo, si indirizza, più ancora di un tempo, su aspetti che riguardano le tradizioni sociali e locali. La cultura e l'arte. Ci si dice orgogliosi del nostro patrimonio artistico, delle bellezze del nostro territorio, della nostra cucina, della moda, del cinema. Del nostro stile e del nostro modo di vita. Ma molto meno - anzi, quasi per nulla - della politica e dei politici. Insomma, gli italiani si sentono uniti dalla loro capacità di "fare" e inventare, di reagire alle difficoltà. Ma da soli. Senza lo Stato e senza le istituzioni. Di cui si apprezza la storia, non il presente. Da ciò il significato riconosciuto alla Costituzione, di cui si discute molto, oggi, ma che è stata scritta molto prima. Dopo la guerra. Da ciò, soprattutto, il grande valore riconosciuto alla ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Un periodo emblematico, quasi una bandiera. L'epoca in cui il Paese riuscì a risollevarsi dal baratro in cui l'aveva gettato la guerra. A "ricostruire", o meglio, a "costruire" un'economia che prima non esisteva. A conquistare lo sviluppo, prima, il benessere, poi. In altri termini: a inventare un futuro nuovo e diverso rispetto al passato. Oggi, invece, anche l'orgoglio suscitato dagli imprenditori e dall'economia appare timido. Conseguenza evidente di questa fase di crisi.

Insomma, echeggiando Spinoza, l'orgoglio nazionale appare una "passione triste". Rispetto a 10 anni fa, infatti, gli italiani, si sentono più divisi e infelici. Perfino meno solidali. Ammettono un ulteriore declino dello spirito civico. Eppure scommettono che fra 10 anni il Paese sarà ancora unito, in un'Europa ancora unita. Scommettono che si canterà ancora l'inno di Mameli. Che il Tricolore continuerà a sventolare. Nonostante lo Stato e le leggi. Nonostante la crisi economica. E se si sentono frustrati dal presente e dal passato recente. Se il futuro è fuggito. Allora si rifugiano nel privato e nella memoria. Nei miti della storia. Questo Paese disincantato e disilluso. E, nonostante tutto, unito. Questo Paese di "italiani nonostante". 

(17 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/03/17/news
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« Risposta #211 inserito:: Marzo 21, 2011, 11:31:01 am »

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Il Belpaese si scopre diplomatico

di ILVO DIAMANTI

La guerra è arrivata. A due passi da noi. Perché la Libia è proprio lì, appena al di là delle nostre coste. Lo sapevamo da tempo che il Nord Africa è in ebollizione. La Tunisia, l'Egitto, oltre all'Algeria. E poi la Libia. Ma fino a ieri avevamo immaginato  -  voluto immaginare  -  che si trattasse di "fatti loro". Movimenti, rivolte perfino rivoluzioni che esplodevano al loro interno. Ci sentivamo coinvolti anzitutto e soprattutto per le conseguenze sui flussi migratori. La prima  -  l'unica  -  preoccupazione espressa dal governo attraverso i suoi principali esponenti, all'inizio. Per gran parte degli italiani, però, si trattava  -  si è sempre trattato  -  di avvenimenti lontani, che interessano mondi lontani. Nel tempo e per cultura. Dunque: lontani e basta. Non importa che siano a un passo da noi. Noi li abbiamo sempre considerati "al di là del muro". Del nuovo muro che ci separa dai paesi più poveri. Di cui l'Africa costituisce il territorio più prossimo.

La comunicazione globale, paradossalmente, ha reso questi avvenimenti e questi luoghi più irreali. E più lontani. Perché le nuove tecnologie "hanno rotto il diaframma tra il tempo e lo spazio" (come ha osservato Innocenzo Cipolletta nel suggestivo, e quasi profetico, Banchieri, politici e militari, Laterza editore). Così le distanze e le differenze sfumano. Lo tsunami in Giappone, la rivoluzione che scuote la Tunisia e l'Egitto. Le ribellioni in Algeria e in Bahrain. E la rivolta in Libia. Tutto scorre sotto i nostri occhi, senza soluzione di continuità. È lo spettacolo della realtà. Che diviene per questo irreale, come un reality. Così abbiamo tardato a capire. A renderci conto che in Libia stava scoppiando una guerra. Che ci avrebbe coinvolti. Inevitabilmente.

La Libia. Un tempo "colonia d'oltremare". La quarta sponda. A noi appare la regione di un universo parallelo e irreale. Come il suo sultano, Gheddafi. Quello che è venuto in Italia, anche di recente, con al seguito una carovana di cammelli e centinaia di vergini da convertire. Quello che si è accampato nel centro di Roma, allestendo una tendopoli reale. Non può essere veramente reale. Anche se noi, ormai, non ci stupiamo più di nulla. Il "nostro" sovrano, d'altronde, ci ha abituati a uno stile di governo disinibito. Abolendo i confini tra comunicazione e realtà. Tra spettacolo e politica. E sui media la nostra politica estera  -  come, in parte, quella interna  -  è personalizzata e insegue Berlusconi, le sue relazioni private, i suoi affari.

La guerra. Fino all'ultimo, abbiamo preferito non crederci davvero. Ci siamo finiti in mezzo in modo quasi inconsapevole e involontario. Come spesso è avvenuto in passato. L'Italia: una portaerei, una base strategica, in posizione strategica. Fino alla caduta del Muro: avamposto lungo il confine orientale. Oggi: piattaforma nel cuore del Mediterraneo, zona critica del nuovo dis-ordine globale. Gli italiani non vogliono la guerra. Come la popolazione di tutti i paesi, d'altronde. Ma gli italiani in modo ancora più determinato. Senza rivisitare i luoghi comuni della nostra storia, a partire da Machiavelli, basta fare riferimento ai tempi recenti. L'atteggiamento nei confronti dell'intervento in Afghanistan, prima, e in Iraq, dopo. La schiacciante maggioranza dei cittadini contrari, senza se e senza ma. Pacifisti, per convinzione (anche per il peso della tradizione cattolica). Ma anche per sensibilità e timore. Personale e familiare. (I sondaggi hanno sempre sottolineato l'avversione significativa da parte delle donne e delle madri.) I nostri governi, anche per questo, hanno mostrato grande riluttanza nei confronti degli interventi armati. Senza, peraltro, evitare di parteciparvi. Costretti da ragioni geopolitiche e dai legami internazionali. Così, hanno seguito gli alleati nelle loro imprese, agendo "a supporto", in nome dell'impegno "umanitario" e a sostegno della pace. Tuttavia, è difficile affiancare eserciti in guerra in nome della pace. È difficile trattare in modo umanitario chi ti combatte, chi ti considera un esercito di occupazione. Così ci siamo trovati in guerra senza dirlo, senza deciderlo. Circa 8 mila militari impegnati nel mondo. Quasi metà in Afghanistan. E abbiamo celebrato e pianto, come eroi di pace, i nostri militari morti in zone di guerra. Con lo stesso atteggiamento ci siamo accostati al conflitto esploso in Libia. Contro il tiranno che abbiamo accolto come alleato e amico  -  non solo Berlusconi, anche i governi che l'hanno preceduto. Ma nessuno, prima, gli aveva baciato la mano con la stessa cordialità "guascona" del Cavaliere.

Oggi siamo l'avamposto strategico da cui partiranno gli attacchi al regime del Raìs. Decisi e guidati da Francia, Gran Bretagna e Usa, dopo la risoluzione 1973 dell'Onu. L'Italia si è adeguata. Fornisce le basi, è pronta a inviare i suoi aerei. Mentre gli italiani continuano a esprimere il loro dissenso verso l'intervento bellico. Anche in questa occasione. Come evidenzia un sondaggio svolto una settimana fa da Lapolis dell'Università di Urbino, nell'ambito di una ricerca sull'immagine della politica estera italiana, curata da Fabio Turato. Otto italiani su dieci (il 77,9%, per la precisione) ritengono che, per risolvere la crisi libica, converrebbe insistere con l'azione diplomatica. Ed evitare la via militare. Anche se l'Italia poco ha fatto in questo senso. Non ha imposto una soluzione diplomatica e, come altre volte  -  più di altre volte  -  si trova coinvolta in una guerra. Quasi per caso. In contrasto con la volontà di gran parte degli italiani. Una posizione che solo la Lega (insieme ai giornali di destra) ha sostenuto fino in fondo. D'altronde  -  come è solito ripetere il sociologo Paolo Segatti  -  la Lega è un partito radicalmente "italiano". Senza una specifica caratterizzazione geografica. Riproduce il "senso comune" nazionale, segnato dalla sfiducia nelle istituzioni, nelle regole pubbliche. Dalla tentazione di costruire piccole patrie, marcare i confini ed erigere muri. Vecchi e nuovi. Per difendersi dal mondo. Oggi: dal Maghreb e, soprattutto, dalla Libia. Ma il "localismo" nell'era della globalizzazione non allontanerà la Libia. Non ci allontanerà dalla guerra.

(21 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri
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« Risposta #212 inserito:: Marzo 23, 2011, 05:46:35 pm »

ILVO DIAMANTI «Votano Lega ma non vogliono la secessione: solo meno tasse»

17/03/2011

Ilvo Diamanti, politologo e docente di sociologia Più di otto persone su dieci nel Nordest esprimono il loro orgoglio di essere italiani: in sostanza la campagna leghista, che ha utilizzato le celebrazioni dell'Unità d'Italia per rivendicare il primato dell'identità padana e veneta, non ha sortito risultati considerevoli.

A sostenerlo, Ilvo Diamanti, vicentino, docente di sociologia dell'università di Urbino con cattedra anche all'università di Parigi 2 - Pantheon e da anni attento osservatore di movimenti politici e sociali

Professore i veneti non seguono la Lega: forse si vogliono riprendere il loro orgoglio nazionale?
Direi che ci sono due indicatori di segno opposto. Il primo riguarda il rapporto tra i leghisti e l'Italia e poi c'è una questione di fiducia, e quest'ultima dipende da chi ci governa.

Vuole dire che ci vergogniamo di essere italiani?
Diciamo che non siano nazionalisti allo stesso modo dei francesi o dei tedeschi, dove certi valori sono più radicati e condivisi dai cittadini. La nostra idea di nazione è timida e aperta. Tollerante, anche perché deve contenere e far convivere molte altre appartenenze territoriali, regionali, urbane. Peraltro, lo Stato è ritenuto da molti italiani, una proprietà di chi governa. Oggi della Lega e di Berlusconi. Ecco spiegato perchè gli elettori di centrosinistra hanno un atteggiamento tiepido nei confronti degli altri cittadini. Non sono particolarmente orgogliosi di essere italiani.

Diciamo che non ci sono motivi per essere orgogliosi?
Finchè Marine Le Pen viene applaudita a Lampedusa insieme a Borghezio e c'è chi propone di affondare i barconi dei disperati che fuggono dalla Libia, mi pare difficile parlare di orgoglio. La verità è che in questo Paese c'è spazio per ogni appartenenza, ogni localismo, ogni bandiera e atteggiamento

Quindi anche per la cultura secessionista e padana?
Mi pare che nessuno l'abbia messa fuori legge. È da vedere se avverrebbe lo stesso a parti invertite, se in una futura - per me improponibile e inaccettabile - patria padana sarebbe permesso a un sindaco di non esporre le bandiere verdi nelle celebrazioni ufficiali, oppure di far cantare l'inno di Mameli invece di "Va' Pensiero" nelle manifestazioni. Ho qualche dubbio, ma credo che gran parte degli elettori della Lega alla Padania non ci credano e non ci pensino proprio, visto che, in maggioranza diciamo i due terzi, considerano l'Unità d'Italia un fatto positivo.

Quindi non c'è molta convinzione?
Direi di no. Del resto anche i comunisti negli Anni Settanta non auspicavano certo il comunismo. Penso che, se si fosse realizzato visto l'esempio russo, sarebbero andati nelle colline e in montagna. Fuggiti per ingaggiare una nuova resistenza. Eppure hanno issato e sventolato le bandiere rosse. Alcuni lo fanno ancora oggi. Anche nei confronti della nazione fino a pochi anni fa prevaleva uno spirito cauto fra gli italiani, soprattutto, a sinistra. Perché, non lo dobbiamo dimenticare, la Repubblica emerge dopo l'esperienza di "costruzione" e di unificazione della nazione, in Italia, espressa dal fascismo.

Poi, abbiamo riscoperto lo spirito nazionale.
Certo, nei primi Anni Novanta, proprio grazie alla Lega, quando ha iniziato a mettere in discussione l'unità del Paese. La minaccia secessionista ci ha fatto valorizzare di nuovo il sentimento nazionale e abbiamo ripreso a sentirci italiani. Prima di allora il tricolore veniva usato per festeggiare l'Italia quando vinceva le partite dai mondiali di calcio. Quando la Lega, però, ha insistito con la mobilitazione secessionista, nel settembre 1996, lungo il fiume Po si sono ritrovati in quattro gatti e in due anni hanno perso quasi due terzi dei voti. E, dopo aver rivendicato la loro diversità e la loro solitudine, sono rientrati nell'alleanza accanto a Berlusconi. Il fatto è che gran pare degli elettori leghisti, ieri come oggi, votano per la Lega non perché vogliono la secessione, figuriamoci. Vogliono più autonomia locale: meno tasse, servizi migliori. Votano Lega perché hanno paura della globalizzazione, degli immigrati. Votano per protesta. D'altronde, la Lega padana governa in Veneto e in Piemonte, ma prima di tutto nel governo nazionale di Roma. E per questo sono orgogliosi. Più degli altri elettori.

Chiara Roverotto

da - ilgiornaledivicenza.it/stories
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« Risposta #213 inserito:: Marzo 30, 2011, 06:00:13 pm »

Ilvo DIAMANTI

Passeggiando con il cane, si arriva a scoprire un paesaggio che cambia. E con esso, le persone

Buongiorno? No, grazie

Da sempre ho l'abitudine di salutare, sempre, quando incontro qualcuno. L'ho appresa da bambino. Frutto di un'educazione tradizionale, si direbbe oggi. L'ho mantenuta fino ad oggi. Così,  nei miei percorsi quotidiani saluto tutte le persone che incrocio. Soprattutto, intorno a casa, a Caldogno, quando mi faccio guidare dal cane. (Lui  -  meglio: lei - sceglie l'tinerario mentre io leggo). Oppure a Vicenza, in centro. O ancora a Urbino o a Urbania. A volte anche altrove.

Quando incontro qualcuno, da solo, mi è difficile fingere di non vederlo. Distogliere lo sguardo. Ma poi perché? Allora saluto con un cenno, con un buongiorno. Un "ciao", quando si tratta di persona conosciuta. Serve a stabilire una relazione. Un legame. Nulla di vincolante. Ma la persona con cui hai "scambiato" il saluto  -  dopo - non è più un "altro". Diventa un "prossimo". Magari non troppo "prossimo". Perché il "prossimo" è qualcuno che ti sta vicino dal punto di vista della distanza non tanto (solo) fisica, ma emotiva e cognitiva. La persona che saluti diventa qualcuno che "ri-conosci" anche se non lo conosci. Qualcuno che, a sua volta, ti ri-conosce, per reciprocità. Un "quasi" prossimo. Un "non estraneo", Un cenno di saluto serve, dunque, a tracciare un perimetro dentro il quale ti senti maggiormente a tuo agio. Meno estraneo. Come avviene dovunque tu conosca o almeno riconosca qualcuno. Altrimenti, per quel che mi riguarda, mi sento spaesato. Fuori con-testo. Non dispongo, cioè, di un testo condiviso, di un linguaggio comune ad altri, anche se espresso senza parlare. Perché non c'è bisogno di parole per comunicare  con gli altri. Se non amici: non conoscenti. O, almeno, ri-conoscenti. Non è sempre facile, lo ammetto. Anzi, lo è sempre meno. Soprattutto da quando l'urbanizzazione ha stravolto i luoghi in cui vivo.
Dove abito. Da quando lo spazio intorno a casa si è condensato e al tempo stesso liquefatto. Sovraffollato. Si è trasformato in una plaga immobiliare, una non-città, dove sono affluite centinaia e centinaia di persone. Sconosciute. A me, ma anche tra loro. Non è facile salutare le persone (?) che incontro. D'altronde, è divenuto sempre più difficile trovare un po' di verde.

Guidato dal mio cane, allungo il percorso e mi sposto sempre più in là, sempre più lontano.  Anche se ormai gli spazi verdi sono quasi scomparsi. E i pochi rimasti sono destinati a scomparire presto. Inseguiti ed erosi da nuovi insediamenti residenziali, da nuove strade e da nuove rotonde. Così, mentre mi costeggio cantieri e prati residuali, case abitate e altre che verranno, incontro perlopiù altre persone che accompagnano i loro cani. O viceversa (come me). Ma è difficile rivolgere loro un saluto. Perché non mi vedono. Occupate, al cellulare, a parlare con altre persone lontane. Oppure isolate da tutti, soli con il loro iPod. Ed è difficile, altrettanto difficile, salutare gli altri ("altri"), quelli che escono di casa mentre passo. Non importa se a 100 metri o a un chilometro da casa mia. Tanto non conosco quasi nessuno, di questi nuovi arrivati (o magari è da parecchio tempo che abitano nel quartiere, ma è lo stesso, perché sono anonimi. Non hanno un  nome. Non li conosco e non si conoscono, neppure tra "vicini"). Quando li incontro e li saluto, con un buongiorno e (o) un cenno del capo, alcuni rispondono. Ri-cambiano. (Le donne, soprattutto). Altri si limitano a un gesto imbarazzato. Un po' sorpresi. Altri ancora non rispondono. Non dicono e non fanno nulla. Tirano dritto. Come non mi avessero visto. E forse è vero, è proprio così.

Abituati a stare e ad essere soli. Non si accorgono della mia presenza. O, comunque, preferiscono ignorarmi. (I più giovani, i ragazzi, in particolare.) Alcuni, infine, non rispondono ma mi guardano storto. Irritati più che stupiti. Percepiscono il mio saluto come un'intrusione. E si chiedono, mi chiedono, con lo sguardo, cosa io voglia da loro. E perché non me ne stia al mio posto. Cioè, lontano. Fuori dalla loro vista e dalla loro vita. Abitanti di questo mondo senza relazioni e senza società, guardano ma non vedono. E non ascoltano. Temono chi si avvicina troppo. (E non è un caso che gli "stranieri" suscitino imbarazzo e fastidio. Al di là di ogni altro problema: ci "avvicinano" e ci danno del tu).

Il prossimo, ha scritto Luigi Zoia, è morto da tempo. Sostituito da surrogati elettronici, che offrono mediazioni mediatiche infinite. Promuovono rapporti in-diretti e im-personali. Apatici invece che apatici.

Ma io non mi rassegno e continuo, continuerò a cercarlo. Il prossimo. A costruirlo, raffigurarlo. Intorno a me, almeno. Il prossimo. Anche se ridotto a un saluto, un cenno del capo. Non  rinuncerò a guardare gli "altri" in faccia. Per egoismo. Per non sentirmi circondato "solo" da "altri". Cioè, per sentirmi meno "solo".

(30 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #214 inserito:: Aprile 04, 2011, 11:04:01 am »

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Il Cavaliere ipercinetico

di ILVO DIAMANTI


È difficile star dietro agli eventi, ai messaggi, alle immagini che costellano la politica italiana. La quale, riflette, in parte, la turbolenza globale. In particolare, le rivoluzioni del Nord Africa, appena al di là delle nostre coste. Però da noi in Italia tutto assume un segno diverso. Per intensità, dinamica, sequenza. Basta concentrarsi sulle notizie degli ultimi giorni. "Leggendole tutte insieme... danno un senso di vertigine", ha commentato Corrado Augias, rispondendo a una lettrice nella sua rubrica. Già: un senso di vertigine.

Il capo del governo a Lampedusa promette che: in due giorni, non ci saranno più immigrati; candiderà Lampedusa al Nobel della Pace; si comprerà una villa proprio lì, davanti al mare. Lo stesso giorno, la Camera si trasforma in un Far West. Fra l'altro, il ministro La Russa. Il quale sfancula il presidente della Camera, Fini. Mentre una deputata disabile dell'opposizione viene insultata. In quanto disabile. Intanto, la rivolta popolare a Lampedusa non accenna a placarsi. Perché il flusso di disperati non cala. (Sarebbe bello che i "popoli oppressi" si ribellassero e liberassero da soli, senza poi pretendere aiuto da noi). Un'imbarcazione affonda davanti alle coste libiche, insieme a decine di persone (morte. Non daranno fastidio a nessuno). Il capo del governo parte per Tunisi, dove incontrerà le autorità tunisine. Obiettivo: controllare i flussi di migranti diretti verso le nostre coste; rimpatriare - parte - degli immigrati già
arrivati. Anche se le autorità tunisine non sembrano d'accordo. Intanto in Parlamento continuano - in modo, diciamo pure, convulso - i lavori per riformare la Giustizia. Cioè: per disinnescare i processi più critici, per il primo ministro. Soprattutto quelli a sfondo pruriginoso. Per neutralizzare l'alone sgradevole che produrrebbero (produrranno?). Tutto procede in modo nevrotico, sussultorio, intermittente, senza una direzione precisa.

Impossibile mettere in fila i fatti degli ultimi mesi, se ho già impiegato tanto tempo a raccontare quelli degli ultimi giorni. È difficile anche capire le forze in campo, in Parlamento: chi sta con chi. I sedicenti Responsabili: difficilmente possono garantire un consenso stabile. Come pretendere fedeltà e coerenza da chi è abituato a cambiare bandiera e partito (in cambio di privilegi)? D'altronde, a differenza di Fi e An, il Pdl è un non-partito. Scomposto da divisioni personali, locali e di gruppo. La debolezza dell'opposizione permette a questa maggioranza di proseguire. Senza sfaldarsi. Ma andare al voto, secondo i sondaggi, sarebbe molto rischioso per il Pdl. Per il centrodestra. Per Berlusconi.
Insomma: la vertigine.

Anche se viene il sospetto che vi sia un senso in questa rappresentazione apparentemente priva di senso. Dove tutto prosegue e si sussegue in modo asincrono. Come un "Blob" infinito e permanente. Rammenta l'idea di ipermodernità, tracciata da Gilles Lipovetsky. Un tempo dove tutto è iperbolico. Perché il tempo si snoda in una catena di istanti. Come un film che incatena una sequenza di istantanee. Dove tutti gridano, tutto è enfatizzato, tutto avviene in modo "estremo". Perché viviamo tempi estremi, dove la comunicazione mediale trasmette tutto in tempo reale. Ed esige spettacolo, messaggi forti. E, alla fine, nulla resta se non viene proposto in modo estremo e iperbolico. Viviamo nell'era della politica ipercinetica. Il cui signore indiscusso è Silvio Berlusconi. Iperbolico e cinetico come nessun altro. Sempre in movimento, sempre in viaggio, sempre sui media. Ogni giorno un evento, un messaggio, un proclama, un fatto (annunciato). Un luogo reale trasfigurato in metafora del cambiamento "concreto". Lui: l'uomo del fare. A Napoli. Dove le immondizie scompaiono e ricompaiono, per scomparire di nuovo. Dai media. All'Aquila. Dove le macerie sono scomparse e la ricostruzione procede bene. Lo garantisce la figurante che a Forum ha recitato la parte di una terremotata beneficiata dal governo. Oggi a Lampedusa. La popolazione - disperata - assediata dai disperati. Che alcuni autorevoli leader di governo invitano a ributtare in mare. (Con una iperbole forse involontaria). E Berlusconi. Un giorno a Milano, al processo, ad arringare la folla dal predellino. Il seguente, a Lampedusa, a consolare e galvanizzare i residenti. Di passaggio: a Palazzo Grazioli. Ad allietare i sindaci con barzellette osé. E poi: a Bruxelles, visibilmente defilato, perché a lui le chiacchiere non piacciono. In attesa di un vertice prossimo venturo con Sarkozy. Lui "fa".

In quest'era del vuoto (riprendendo Lipovetsky), lui satura ogni spazio, ogni angolo, ogni istante. (Volontariamente, come emerge dall'inchiesta di Alberto Ferrigolo sulla "Diabolica arma dei sondaggi", pubblicata sull'ultimo numero di Reset). Per cui diventa impossibile prescindere da lui. Nel vuoto di progetti e di idee. Nel vuoto dell'orizzonte politico vuoto. Lui "è". L'opposizione appare afona. Poco visibile. Certo alcuni lo imitano. Ma non c'è partita. In fondo è lui, Berlusconi, l'unico in grado di fare opposizione. A se stesso. Perché i messaggi iperbolici, gridati un giorno dopo l'altro e un istante dopo l'altro, possono dare un senso di movimento, anche se tutto resta fermo. Possono rimpiazzare le idee con spot a raffica. Possono generare assuefazione etica. Così che nulla, ma davvero nulla, riesce più a stupire - non si dice indignare. Ma a volte - qualche volta - le iperboli, ripetute senza soluzione di continuità, finiscono per cozzare l'una contro l'altra. Lui, indulgente e accogliente con Gheddafi. Come altri prima di lui, in Italia (e non solo). Ma unico a baciargli la mano. In modo iperbolicamente teatrale. E il giorno dopo schierato - a malincuore - con la coalizione che bombarda il raìs e ne vuole la testa. Lui, iperbolicamente, pronto a liberare Napoli dai rifiuti, l'Aquila dalle macerie, Lampedusa dagli immigrati. Gli italiani dalle tasse. Ieri, oggi. Ma anche domani. Perché i rifiuti, le macerie, gli immigrati - e le tasse - restano sempre lì. Lui, il leader ipercinetico di questa Destra ipercinetica. Costretto a correre. A cambiare scena e repertorio. Ogni giorno. Finché il fisico glielo permetterà. Finché l'iperbole riuscirà a colmare il vuoto della politica. Finché non ci stancheremo di rincorrere le iperboli.
Finché la cin-etica riuscirà a soddisfare l'eclissi etica.

(04 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/04/news
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« Risposta #215 inserito:: Aprile 07, 2011, 04:52:27 pm »

E il figlio lo chiameremo "Atipico"

Ilvo DIAMANTI

Per accorgersi della crisi del lavoro non è necessario  -  né sufficiente  -  scorrere i dati del mercato del lavoro. Pure, drammatici. Il tasso di disoccupazione è oltre l'8% (in valori assoluti: più di due milioni). Ma tra i giovani sfiora il 30%. Il più alto della Unione Europea. Nelle regioni del Sud supera il 40%. Il tasso di disoccupazione, peraltro, è sempre un indice relativo, perché non tiene conto dei cassintegrati cronici, che non rientreranno più in azienda. E poi, anzi: prima: per essere disoccupati occorre essere alla ricerca di lavoro. Ma chi non ha speranza di trovare un'occupazione, neppure ci prova. E si rassegna a fare lavori e lavoretti. Naturalmente non "regolari". Per cui "statisticamente" non esiste.

Questi dati, peraltro, non dicono tutto. In particolare, non spiegano la crisi del lavoro sul piano sociale. Che è una crisi di senso e di identità, oltre che "materiale". Non spaventatevi: non voglio filosofare intorno a una questione così concreta. Tuttavia, è indiscutibile che il lavoro ha dato senso e identità alla nostra società. Identità: prendete il documento di riconoscimento. La "carta di identità", appunto. Fra le poche informazioni essenziali c'è la professione, preceduta dal nome e dal cognome. Ma il cognome, che definisce la nostra appartenenza  -  e quindi la nostra identità  -  familiare, spesso riflette una tradizione "professionale". Se mi guardo intorno, io che abito in un territorio con una lunga storia economica, mi trovo "circondato" da identità professionali intrecciate alla biografia personale  -  e familiare.

Per rammentare le tradizioni tessili del vicentino basti pensare a quanti Lanaro e Tessaro si incontrino, nella vita quotidiana. Ma anche Bordignon - spiegano i siti specializzati (come Cognomix) - in origine significava "colui che fila la seta". E poi Favaro, Favero, Favaron, Favaretto, Fabris: richiamano l'attività del Fabbro (lo scrivo con la maiuscola, perché si tratta di un cognome anch'esso diffuso. Così si chiamano alcuni miei amici). Ancora, echeggiano storie professionali:  Marangon (falegname), Munari oppure Munaro (il "mugnaio", che gestiva il mulino, evocato esplicitamente, in alcuni casi: Dal Molin), Fornaro (il fornaio). E Sartori, Sartor (il sarto), Boscolo (il boscaiolo), Masiero (il "mezzadro").

Il lavoro come marchio indelebile, trasmesso di generazione in generazione. Anche se, un tempo, il lavoro mancava. Ancor più di oggi, in certe fasi. Ma contava. Il lavoro manuale quanto quello intellettuale. Un lavoro per la vita, per tutta la vita. Era la speranza e l'ambizione condivisa. Perché chi lavora c'è. Esiste. Ha un volto. Una identità. Appunto.

Oggi, però, il lavoro non solo manca, ma, soprattutto, è incerto. I lavori manuali, anche quelli artigiani, li svolgono perlopiù  -  sempre più - gli immigrati. E poi, da tempo, abbiamo imparato che puoi fare soldi anche senza un lavoro chiaro e definito. C'è un sacco di gente che ostenta stili di vita e consumi "vistosi" (per citare Thorstein Veblen), ma non sai cosa effettivamente faccia. D'altronde, da tempo, abbiamo imparato che si può vivere bene anche senza produrre. Come rammenta Mickey Rourke, in "Nove settimane e mezzo". Quando a Kim Basinger, che gli chiede quale mestiere faccia, risponde, ironicamente: "I make money by money". Cioè: faccio soldi con i soldi. "L'epitaffio sulla tomba dell'economia reale", chiosa Eddy Berselli ("L'economia giusta", Einaudi).

Per cui, come pretendere che il lavoro generi un'identità? Come pretendere di legare la nostra biografia "familiare" a una professione? I cognomi che ho citato prima, se mi guardo intorno, mi sembrano echi di un lontano passato. Passato per sempre. Per trovare una traccia del lavoro, nei cognomi di chi incontro, dovrei procedere a torsioni lessicali arbitrarie e ardite. Dovrei correggere Piva, ad esempio. Basterebbe un punto: P. Iva . Cocco (ne conosco più di uno) andrebbe almeno modificato come segue: Co. cco. co oppure Co. cco. pro . D'altronde, per coerenza con questo tempo "liquido", il figlio (perlopiù unico) lo dovremmo chiamare Precario, Call, Atipico.
 

(07 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #216 inserito:: Aprile 15, 2011, 11:53:37 pm »

VICENZA

Diamanti operato per un infarto

«E' fuori pericolo, ora dovrà riposare»

Il politologo si è sentito male prima di un convegno.

Il primario del San Bortolo: «Le sue condizioni sono buone»


VICENZA - Ilvo Diamanti, politologo e docente all’Università di Urbino, è ricoverato da sabato mattina all’ospedale San Bortolo di Vicenza, dove è stato operato per un infarto. Ora le sue condizioni sono buone, ma deve osservare dieci giorni di riposo totale. «Le condizioni di Diamanti sono buone, è fuori pericolo, anche se le patologie infartuali sono sempre impegnative e la situazione si definisce sempre critica – spiega il primario del pronto soccorso del San Bortolo Vincenzo Riboni - Diciamo che, come anche in situazioni di ictus, anche con l'infarto, il fattore temporale di intervento è fondamentale: si evitano complicazioni o il mancato ripristino di funzioni».

Sabato mattina Diamanti, che risiede a Caldogno, sarebbe dovuto intervenire ad un convegno al Patronato Leone XIII di Vicenza. Ma, avvertendo un malore, ha avvertito il primario e amico Vincenzo Riboni. «E’ stato importante che lo vedessi subito, dopo che mi ha raccontato i sintomi – racconta Riboni - Ora ha bisogno di riposo, almeno 10 giorni di massima tranquillità: non deve avere stress né fisici né mentali, e lo dico tenendo conto di tutta la gente che lo conosce, e lo vorrebbe già vedere. Almeno per un po', Diamanti non deve avere sollecitazioni forti dall'esterno».

Giulio Todescan

11 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #217 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:38:33 pm »

Quando il cuore si ferma

Ilvo DIAMANTI

L'ho sentito arrivare che stavo a casa mia, pronto a recarmi a un incontro, dove mi attendevano molte persone. A discutere di cambiamenti sociali, culturali, religiosi. Mi ha fermato un dolore muto. Più che un dolore, un senso di oppressione al di sotto della bocca dello stomaco. Tanto che ho pensato a un'indigestione  -  la sera prima, sul tardi, avevo mangiato la pizza con un amico. Non dovrei, perché la digerisco a fatica, ma mi piace. E a volte  -  poche - transigo. Sono rimasto lì ad ascoltare questo dolore muto, che non accennava a diluire, a perdere intensità, nonostante l'attesa. Nonostante qualche palliativo. Non l'avevo mai provato. Non richiamava il pericolo che tutti, alla mia età, temono. L'Incombente, che ti aspetta all'angolo della strada, in qualsiasi momento della tua vita. Ti aggredisce. All'improvviso. Non avevo dolori al torace, alle spalle. Solo questa pressione allo stomaco, che si allargava e si acuiva. Ma io sapevo, ne ero certo, che era lui. Stava arrivando. E non l'ho atteso.

Ho avvertito mia moglie: "Portami all'Ospedale subito. Sta arrivando". E lei, con il (suo) cuore in bocca, mi ha caricato in auto ed è partita. Mentre il senso di oppressione diventava più pesante e mi faceva male. Ha viaggiato di corsa, sempre più di corsa, azzardando sorpassi e manovre che mai aveva rischiato, nella sua vita. In un quarto d'ora siamo arrivati al Pronto Soccorso dell'Ospedale San Bortolo, dove il mio amico Vincenzo mi ha accompagnato dritto in sala operatoria. Pronta. Perché ne era appena uscito un'altra persona, un 40enne, colpito da infarto. Mi hanno operato subito, dopo che i test dedicati avevano confermato che avevo ragione.

L'Infarto: era arrivato. Appena arrivato. E io ero arrivato. Appena in tempo. Mentre la sonda risaliva l'arteria femorale destra, sul monitor ho visto, intuito il mio cuore trafitto. La coronaria sinistra chiusa. Riaperta. Ho visto il mio ventricolo sinistro, contrarsi. Ho sentito dolore. Un dolore non più muto, ma forte, violento. Come mai avevo provato. Un dolore senza un luogo, un punto specifico e definito. L'ho sentito defluire, insieme al sangue che attraversava di nuovo il mio cuore. Tutto finito, mi hanno detto. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto, mentre mi portavano all'Unità di Terapia Intensiva Coronarica. Dove sono rimasto sette giorni. Un altro intervento per liberare e cautelare la coronaria. Tre stent. Quasi un simbolo di status, mi hanno scritto molti amici. Il marchio di un club. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto. E continuano a dirmi, via via che le mie condizioni migliorano. Tutto passato. Ma il presente è diverso. Sette giorni con me stesso. Accanto a me solo i medici, gli infermieri, le infermiere. Mia moglie. Sette giorni a guardarmi dentro. Ad ascoltarmi. A entrare dentro il mio cuore. Che, per definizione, è un muscolo involontario. Funziona a prescindere dalla nostra volontà. Per vivere dovremmo vivere come se. Non ci fosse. Ma c'è. Lo so. Per giorni, attaccato a un contropulsatore, gli occhi fissi sul monitor che  esplorava il mio cuore senza sosta, l'ho guardato. Cioè: mi sono guardato e ascoltato dentro.

Protetto dal mondo, che non doveva interferire con il rapporto fra me e il mio cuore. Fra me e me. Gli echi di quel che succede fuori mi sono arrivati, attraverso i giornali, una radiolina. Sgradevoli. Più sgradevoli di sempre. La nostra indifferenza nei confronti degli altri che abitano davanti a noi. Mi è parsa oscena.  La pagheremo. E poi il rumore di fondo, con quell'immagine sempre in movimento, la stessa, lo stesso, che si agita, strepita, sempre lui, sempre fermo, nello stesso punto. E il rumore mediatico che lo amplifica. Insopportabile.

L'Infarto mi ha cambiato. Mi ha fatto sentire solo e, al tempo      stesso, meno solo. Perché in un mondo di relazioni disattente e multiple tutto sembra uguale, in-differente. Durante e dopo l'infarto ti guardi dentro e intorno. E senti. L'importanza dei tuoi. La moglie, i figli. Mio padre, le mie sorelle. I legami stretti. Ma anche la rete delle persone che contano. E non sono poche.

L'infarto è un'occasione, se hai la fortuna di incontrarlo senza danni irreparabili. È un'occasione che ti è data. D'altronde, non può essere per caso. Che io lo senta, quando ancora non è arrivato. E che mi raggiunga a casa, e non in viaggio oppure lontano, come mi capita spesso e sempre più spesso. Che, di sabato, io trovi una sala operatoria preparata e una dottoressa, esperta pronta a operarmi. Come fossero lì, ad attendermi. Che tutto avvenga in una Unità terapeutica di eccellenza. Non può essere un caso. Per caso.

L'infarto è un'occasione, se lo accogli senza fingere. Che nulla sia cambiato. Che tutto continuerà come prima. Se non ti fai prendere dal panico e dalla paura. Dalla paura della paura.

L'infarto è l'occasione per ri-cominciare. Se ne sei capace. Per guardarti dentro e intorno. Perché domani, certo, è un altro giorno. Ma anch'io, oggi, sono un altro. Diverso da prima. E non sarò più lo stesso.

È il motivo per cui ho scritto queste cose. Non me le sono tenute dentro, per pudore e con paura. Ho raccontato i fatti miei. Ho esibito me stesso. (Sfidando il fastidio di molti a cui, sicuramente, dei fatti miei non interessa molto). Ma l'ho fatto - anzitutto e soprattutto - per me. Per non dimenticare.
Per impedirmi di ritornare. Indietro.   

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« Risposta #218 inserito:: Maggio 01, 2011, 05:38:59 pm »

INDAGINE DEMOS

L'orgoglio di essere italiani

Nella crisi torna la coesione

Delusi dalla politica, pronti a riunirsi nelle emergenze.

Metà dei cittadini afferma di avere un legame forte con la propria nazione, oltre i localismi.

La famiglia e il patrimonio artistico sono i punti di riferimento più saldi

di LUIGI CECCARINI e ILVO DIAMANTI


ROMA - Solo la crisi e gli attacchi portano l'Italia, paese dai mille campanili, a riscoprire l'orgoglio dell'unità nazionale.  È quanto emerge da una ricerca condotta da Demos per Intesa San Paolo.  Sul futuro del Paese permane un profondo pessimismo anche se  aver conquistato 150 anni fa l'unità della nazione viene considerato:"Un fatto estremamente positivo". Patrimonio artistico e famiglia sono i due valori principali che attraversano l'intera società italiana.

Uniti e divisi al tempo stesso. Sembra essere il paradosso che vivono gli italiani. Una condizione non nuova per la verità, ma in forte accentuazione nell'ultima fase. Nonostante tutto ciò, l'unità nazionale non appare in discussione. Anzi, proprio nei momenti di tensione più intensi, quando le fratture si allargano, gli italiani sembrano rivalutare l'importanza di essere uniti. Riscoprono il valore e i valori della coesione. Insomma, si sentono italiani. Italiani nonostante e contro chi ne mette in discussione l'unità. Ma anche disattenti e poco appassionati, in tempi normali. Normalmente divisi per storia e tradizione, geografia e politica. Uniti per istinto, abitudini e pratiche sociali.

...

Mai come in questo momento il nesso tra unità e divisione è apparso visibile. Forse perché il 150enario ha costretto tutti ad interrogarsi sulla questione, senza eluderla. La società e la politica si sono trovate di fronte ad un evento che ha offerto uno spazio inedito sia alle polemiche sia alle espressioni di solidarietà e di sostegno intorno ad un tema tradizionalmente messo fra parentesi.
Lo stesso, acceso, dibattito sulla riforma federalista ha contribuito inevitabilmente a richiamare il nesso fra coesione e divisione. Fra appartenenza nazionale e sentimento localista. L'in-decisione che ha accompagnato la decisione di proclamare il 17 marzo scorso giorno di festa (nazionale) è la testimonianza di questo clima incerto sul riconoscimento dei valori connessi alla questione nazionale.
In questo scenario il territorio è diventato un fattore sempre più forte nelle dinamiche rivendicative. Ed è utilizzato ormai non solo dalla Lega Nord, ma anche da altre formazioni politiche che ne hanno fatto una bandiera per dare spessore a identità, interessi e istanze particolari. È come se unità e divisioni si tenessero insieme, nel "carattere nazionale". Tutto ciò è possibile osservarlo anche attraverso i sondaggi di opinione, che rilevano gli orientamenti dei cittadini, quindi i loro giudizi e pregiudizi. In questa numero di LiMes facciamo riferimento alla ricerca "Gli italiani e l'Italia" svolta recentemente da Demos per Intesa Sanpaolo.

Italiani e...
Quando si chiede agli italiani a quale area territoriale si sentano emotivamente più vicini gli orientamenti appaiono piuttosto sfrangiati. Il contesto sub-nazionale raccoglie quasi la metà delle indicazioni (47%) che si dividono tra la città dove vivono (17%), la regione (12%) o la macroarea (Nord, Centro, Sud: 18%). Il legame con il contesto nazionale, l'Italia, viene segnalato dal 28% degli intervistati. Un'identità sovranazionale e di tipo cosmopolita segna invece un cittadino su quattro. Ma se consideriamo il totale delle due risposte che gli intervistati potevano indicare, emerge in modo piuttosto chiaro che il riferimento nazionale, l'Italia, è quello più segnalato in assoluto. Metà dei cittadini (49%) afferma di provare un legame forte, al punto che se non lo indica come primo lo esplicita come secondo.
Il localismo non costituisce dunque un'identità oppositiva alla dimensione nazionale. Anzi, negli orientamenti dei cittadini è largamente diffusa la tendenza a riassumere l'identità locale nella cornice di quella nazionale. L'Italia diventa così il principale dei contenitori di significato.
Per cui in Italia non ci si dice romani, vicentini, urbinati, torinesi, veneti, siciliani, napoletani, lombardi, milanesi, toscani, fiorentini, pugliesi... o italiani. Ma e italiani. Milanesi e italiani. Napoletani e italiani. Bolognesi e italiani. Marchigiani e italiani. Oppure, viceversa, italiani e romani, ... e catanesi, ... e milanesi. Al tempo stesso. Senza contraddizione. Locale e nazionale, in un'unica composizione. Un popolo di ... e italiani oppure di italiani e...

I fondamenti della appartenenza.
Ma il sentimento di appartenenza è qualcosa di ben più complesso di una semplice identificazione di tipo territoriale. Il territorio assume significato perché è il luogo delle relazioni, delle tradizioni, della cultura. È l'ambito in cui operano le istituzioni dello Stato. Ma la dimensione politico-istituzionale continua, nel suo insieme, ad essere un riferimento debole per l'identità nazionale. Offre, cioè, solo agganci marginali all'idea del "noi".
Se osserviamo la graduatoria dei caratteri che secondo gli intervistati distinguono meglio gli italiani rispetto agli altri popoli emerge un profilo ormai noto. La famiglia (43%), il patrimonio artistico (35%), l'arte di arrangiarsi (28%), la tradizione cattolica (23%) e la creatività nel campo dell'arte e dell'economia (20%). Scivolano verso il basso della classifica quei riferimenti che costituiscono le basi di una comunità politica, come l'adesione ai principi della democrazia (10%), il civismo e la fiducia nello Stato (6%).
L'orgoglio nazionale si indirizza, oggi ancor più che in passato, su aspetti che riguardano le tradizioni sociali e locali. La cultura e l'arte. Infatti, gli italiani si sentono "molto" orgogliosi del patrimonio artistico (75%), delle bellezze del territorio o della cucina (71%). Anche dell'Inno e del Tricolore (67%). Molto meno - anzi, quasi per nulla - della politica e dei politici (3%).
Insomma, gli italiani si sentono uniti dalla loro capacità di "fare" e inventare, di reagire alle difficoltà. Ma da soli. Insieme ai loro familiari, al loro piccolo mondo locale. Una nazione fatta di città, di paesi e di famiglie. Lontana dallo Stato e senza le istituzioni. Di cui si apprezza la storia, non il presente. Il Risorgimento, ad esempio, per l'86% degli italiani ha lasciato un segno positivo nella storia del Paese. E poi, soprattutto, il grande valore assegnato alla Ricostruzione degli anni '50 e '60 (85%). Un periodo emblematico, quasi una bandiera. L'epoca in cui il Paese riuscì a risollevarsi dal baratro in cui l'aveva gettato la guerra. A "ricostruire", o meglio, a "costruire" un'economia che prima non esisteva. A conquistare lo sviluppo, prima, il benessere, poi. In altri termini: a inventare un futuro nuovo e diverso rispetto al passato.

Italiani, nonostante tutto.
L'indagine rileva come nove cittadini su dieci ritengono che l'unità d'Italia, avvenuta 150 anni fa, sia stata un avvenimento positivo. Così un popolo che ha sicuramente motivi di divisione ha però trovato anche gli spunti per alimentare il sentimento unitario. La ragione di un orientamento così positivo, nonostante le polemiche, probabilmente, sta proprio nelle polemiche. Nel dibattito acceso - e continuo - suscitato negli ultimi mesi intorno all'unità e ai suoi simboli. Ma è anche il risultato di un lavoro lungo, di riscoperta della memoria nazionale, dei suoi miti, dei suoi riti, dei suoi protagonisti, che normalmente non esiste. Detto altrimenti: gli italiani "diventano" più italiani quando si profila una minaccia all'orizzonte. Anche perché in tale situazione, per una volta, ricordano e valorizzano queste radici. E se si sentono frustrati dal presente e dal passato recente. Se il futuro è fuggito. Allora si rifugiano nel privato, nella famiglia. Nella memoria e nei miti della storia. Questo Paese disincantato e disilluso. E, nonostante tutto, unito. Questo Paese di "italiani nonostante". Malgrado tutto, italiani.

(01 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #219 inserito:: Maggio 03, 2011, 06:00:16 pm »

Ma si può uccidere un'icona?

Ilvo DIAMANTI

La notizia dell’uccisione di Bin Laden mi ha colto di sorpresa. Come quando scopro, dai notiziari, la morte di un personaggio pubblico del passato che, semplicemente, non sospettavo fosse ancora vivo. Perché scomparso dai media, da molto tempo. E, si sa, scomparire dai media, per un personaggio pubblico, significa morire. In questo caso si tratta del caso opposto. La morte di Bin Laden mi ha sorpreso perché non sospettavo che esistesse davvero. Perché in fondo non è importante. Lo percepivo e lo percepisco come una figura tenuta in vita per ragioni politiche e simboliche. (Come ad esempio, da qualche tempo, Fidel.) Ma in realtà, trasfigurato e trasferito in un’altra dimensione. Da tempo. Perché Osama Bin Laden è l’icona del terrorismo e della guerra al tempo della globalizzazione. Quando tutto è drammaticamente vero e drammaticamente fiction, al tempo stesso. Dove tutto accade sempre “qui”, in diretta. Le Torri Gemelle si sbriciolano sotto gli occhi di tutti, sotto i nostri occhi. Nel momento stesso in cui vengono colpite. Migliaia di vittime reali, esibite al mondo come trofei. Un videogame. Al Qaeda, d’altronde, è anch’essa, un’entità indefinita. Una rete informe e informale. Che agisce associando terrore reale e mediale. Dovunque colpisca, a Madrid, in Marocco oppure in India. Le vittime reali diventano gli attori e i comprimari nello spettacolo della guerra in diretta.

Parallelamente, la guerra lanciata dall’Occidente contro al Qaeda e il terrorismo globale ha bisogno di “luoghi” per rendere comprensibile e rappresentabile un “nemico” senza luogo. L’Afghanistan, l’Iraq. A loro volta spazi simbolici, come la guerra dei nostri tempi. Perché le “nuove” guerre globali corrono lungo il confine sottile tra visibile e invisibile. I missili lanciati da lontano e dall’alto. Da luoghi invisibili. Le bombe “intelligenti”, saranno anche intelligenti. Ma sono cieche. Uccidono alla cieca. E ci lasciano ciechi. Noi non vediamo. E se non vediamo non proviamo emozione. Dolore. Per questo sul terreno agiscono sempre più spesso i “droni”. Robot di guerra. Non provano sentimenti. Non distinguono. Le vittime delle nuove guerre e del terrorismo globale, d’altronde, sono soprattutto civili. Figure indistinte e senza volto. Comprimari. Per questo al Qaeda e i gruppi della sua rete “usano” gli ostaggi mediaticamente. La violenza simbolica deve essere esibita al mondo, per generare emozione.

Così, nell’era della violenza globale tutto si confonde. Vita, morte e fiction. Rappresentate e trasfigurate dalle tecnologie informatiche. Dalla comunicazione. Dalla rete. Dai social network.

Per questo mi ha sorpreso l’uccisione di Osama Bin Laden. Per me e per molti altri, in fondo, non era così “essenziale”, che fosse fisicamente “vivo”. Perché non è più un corpo, una persona, ma un’icona. Il guerriero con la lunga barba, il fucile brandito come una bandiera, accovacciato con le gambe intrecciate. La barba e il turbante. La voce metallica. Lancia, periodicamente, minacce all’Occidente. L’immagine e la voce che tornano, sui media, a ogni attentato, in Occidente. Un’icona. Come il mullah Omar, che fugge in motocicletta, in Afghanistan, inseguito dagli eserciti dell’Occidente. (È ancora vivo?). L’immagine del volto insanguinato di Bin Laden, trasmessa dalla tivù pachistana, d’altronde, è risultata falsa. E ogni altra foto, ogni altra immagina – del suo volto, del suo corpo - diffusa nei prossimi giorni, difficilmente potrà provare qualcosa. Perché anche le immagini “vere”, trasmesse sui media, assumono un significato – e un effetto - “mitico”. Metaforico. Così è difficile non leggere l’uccisione di Bin Laden come un “messaggio”. Il segnale della fine di un ciclo. “Un simbolo abbattuto”, come ha scritto Ezio Mauro.

Dieci anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle.

Simbolicamente: segna la fine della guerra condotta contro il terrorismo integralista islamico. E prelude all’abbandono, da parte dell’Occidente, dei teatri delle guerre globali nel Medio Oriente. Simbolicamente: annuncia la fine della parabola di al Qaeda. Le rivolte nei paesi arabi e islamici, d’altronde, oggi, usano parole d’ordine diverse. Evocano la domanda di democrazia, libertà, lavoro. Al Qaeda non compare in questo nuovo orizzonte.

Ma nell’era della violenza globale, la morte non è sufficiente per morire davvero. Osama Bin Laden, per morire davvero, dovrebbe scomparire davvero. Dai media e dalla rete. Essere dimenticato. Difficile che possa avvenire. Unica alternativa, per ucciderlo davvero e definitivamente: saturarne l’immagine. Svuotarne il significato. Trasformarlo in un consumo globale. Una statuetta, una figurina. Un’immagine impressa sulle magliette o sui posacenere. Sui poster. Un prodotto venduto e comprato sui mercatini di tutto il mondo.
Oppure su e-Bay. Tra il Che, Mussolini e Michael Jackson.

(03 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #220 inserito:: Maggio 09, 2011, 06:31:42 pm »

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Com'è invecchiata la capitale del Nord

A MIlano la sfida decisiva delle amministrative. Come dice Berlusconi, è un voto politico.

Perché lì è "scoppiata" la rivoluzione che ha affondato la Prima Repubblica

di ILVO DIAMANTI


HA ragione Berlusconi: il voto amministrativo di domenica prossima è un voto politico. Ma la sfida decisiva si svolge a Milano. Non perché le altre piazze non siano importanti. Torino, Napoli, Trieste, Cagliari, Bologna, solo per citarne alcune: sono città di primo piano. Però Milano ha un valore simbolico diverso, superiore alle altre. Lì è "scoppiata" la rivoluzione che ha affondato la Prima Repubblica e avviato la Seconda.

Della Seconda Repubblica Milano è, ancora oggi, la "capitale" reale. Il riassunto dei grandi "cambiamenti" economici, sociali, politici, territoriali degli ultimi vent'anni. A Milano, nel 1992, sono partite le inchieste della magistratura su Tangentopoli. D'altronde, Milano era la città di Craxi, il leader della Prima Repubblica nella fase del declino. Ha pagato per tutti: la sua caduta ha identificato la caduta dell'intero ceto politico tradizionale. Milano è la città dei magistrati, gli attori protagonisti del crollo della Prima Repubblica. La città dove echeggia, ancora, l'appello pronunciato nel 2001 dal procuratore generale Francesco Saverio Borrelli: "Resistere, resistere, resistere!". Come ripete, da qualche tempo, in modo ossessivo, anche Mister B: "Resistere!". Ai magistrati.

Milano è la città dove, alle elezioni amministrative del 1993, diventa sindaco il leghista Marco Formentini. Eletto direttamente dai cittadini, come prevedeva la nuova legge elettorale (L. 81 / 19 9 3 ). Milano: la città santa del Nord padano. Simbolo della rivoluzione che procede, rapida e inarrestabile, dalle province produttive del Veneto e della Brianza. Sfidante di Formentini, al ballottaggio, è Nando Dalla Chiesa. Candidato della Rete, un movimento che si logorerà in fretta. Insieme ai tentativi di innovazione politica a sinistra.

Milano è la città dove si è affermato Silvio Berlusconi. Prima, come imprenditore dei media e delle costruzioni. Poi come leader politico. Mister B è l'inventore del format che ha ispirato la Seconda Repubblica. Imitato da tutti e inimitabile. Mister B: ha imposto in Italia la "politica come marketing", che mixa personalizzazione e mediatizzazione. Insieme a Bossi e alla Lega, nel 1994 vince le elezioni politiche. Conduce Milano alla conquista di Roma. Berlusconi e, in parte, la Lega si impongono nel vuoto politico generato da Tangentopoli. Dalle inchieste dei magistrati di Milano. Grazie a Di Pietro e al pool di Mani pulite. Che diverranno, in seguito, i principali, se non unici, nemici di Mister B (e della Lega). Paradossalmente ma non troppo. Perché i magistrati, insieme a Berlusconi e alla Lega, sono i "costruttori" e i protagonisti della Seconda Repubblica, nata nel 1992. Indisponibili a farsi (mettere) da parte.

Prima dell'era della Lega e di Berlusconi, di Tangentopoli e della Seconda Repubblica, però, Milano era già "capitale". Al centro di un nuovo tipo di capitalismo, fondato sulla "produzione dei beni immateriali" (per dirla con Arnaldo Bagnasco). I servizi all'economia, alle persone, la finanza, la comunicazione, le nuove tecnologie. Il sistema immobiliare. Milano, capitale del Nord - e dell'Italia - alternativa alla metropoli dell'industria di massa. Torino, città della Fiat e degli Agnelli. Simbolo del compromesso con il sistema partitico romano. Negli anni Novanta, Torino e Roma: sono il "vecchio al governo". Milano alleata al Nordest e alla provincia del Nord, al "capitalismo di piccola impresa", interpretato dalla Lega: è il nuovo che avanza. La "nuova" capitale dell'Italia Nuova. Da quasi vent'anni.
Per questo è tanto importante ri-conquistarla. Vincere le elezioni amministrative. Soprattutto oggi che la parabola di Mister B appare in declino. Nonostante il Cavaliere resti un osso durissimo per tutti. Milano: è la capitale del suo regno. Non può permettersi di perdere. Per questo è sempre lì, un giorno sì e l'altro pure. Mister B ha trasformato la consultazione in un referendum pro o contro se stesso. Come, del resto, ha fatto in altre precedenti occasioni. Più di Pisapia e del centrosinistra, più di Manfredi Palmeri e del Terzo Polo, Berlusconi teme i pericoli che provengono dall'interno. Dalla sua maggioranza. Dal tessuto sociale ed economico della città.

Milano, infatti, è solcata da segni visibili di malessere. La maggioranza di centrodestra è plurale e incoerente. La Lega: vorrebbe guidare direttamente Milano. Perché non è possibile costruire la Padania senza governarne la capitale. C'è, poi, il governatore Roberto Formigoni, che rappresenta il sistema di valori e di interessi all'incrocio fra Cl e la Compagnia delle Opere. Un vero partito di massa, solido e radicato. La Lega e lo stesso Berlusconi hanno preferito tenerlo lontano da Roma. Ma ne temono il potere in Lombardia. E, soprattutto, a Milano.

Peraltro, la galassia fluida intorno a Mister B appare ancor più fluida da quando il Sovrano ha inventato il Pdl. Mister B oggi interpreta il sentimento "estremista di governo". Vorrebbe un partito di lotta - ai magistrati e ai comunisti: "Il cancro da estirpare". Vorrebbe, anch'egli, gridare: "Fuori le Br dalle procure", come Roberto Lassini.

Ma la vecchia borghesia milanese, che continua a sostenerlo, è sempre più a disagio di fronte a questa deriva. Per prima: Letizia Moratti, il sindaco uscente e ri-candidato. Figurarsi. Una Moratti. La stessa famiglia che "guida" l'Inter. Dunque, naturaliter, estranea al berlusconismo. Visto che il calcio - e il Milan - nella visione di Mister B non sono "altro" dalla politica. Ne sono, anzi, il modello. Tanto più oggi che il Milan è tornato a vincere.

Infine, Milano stessa, appare una capitale stanca. Le sue basi economiche - finanza e costruzioni su tutto - sono state scosse da crisi molto pesanti. Nella classifica della qualità della vita e del benessere calcolata da "il Sole 24 Ore", la provincia di Milano (di cui il capoluogo è gran parte) nel 2010 è scivolata intorno al 21° posto (nel 2005 era al 4° posto, insieme ad Aosta e Ravenna). Ma in quanto a tassi di insicurezza e di criminalità è praticamente in fondo. Il sindaco Letizia Moratti, nelle graduatorie definite da "il Sole 24 Ore" in base al gradimento dei cittadini, nel 2010 si è attestata al 73° posto in Italia. Una posizione di retroguardia.

Quando Mister B sostiene che il voto del prossimo 15 maggio è "politico" ha, dunque, ragione. Per questo lo teme. Per questo è sempre a Milano, ogni lunedì, davanti al Palazzo di Giustizia. Accompagnato dalla claque. Un'immagine vecchia e un po' consunta. Come il protagonista. Difficile riconoscere in essa "l'Italia che cambia". Al di là del risultato di domenica prossima - peraltro, importantissimo - evoca, invece, la fine di un ciclo. Di un'era.

(09 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #221 inserito:: Maggio 13, 2011, 12:21:11 am »

Io, estremista per disperazione

Ilvo DIAMANTI

Il problema è il dizionario. Le parole: hanno perduto il significato di un tempo. Per cui parliamo senza capire e senza capirci. Non ci è chiaro neppure quel che diciamo noi stessi. Fra noi e le nostre parole c'è un distacco profondo. L'abbiamo detto altre volte: dovremmo ri-scrivere il dizionario della discussione pubblica, ma anche quello della vita quotidiana. Catalogare le parole perdute e le parole ritrovate. A loro volta diverse perché hanno un senso diverso.

Moderato, per esempio. Un tempo non esisteva. Quand'ero giovane, fra gli anni Sessanta e Settanta, le categorie di uso comune erano altre. Il mondo si divideva fra conservatori e progressisti. Tradizionalisti, riformisti, rivoluzionari. La moderazione era un'attitudine, un orientamento sociale e personale, uno stile di vita. Definiva quelli che bevevano, mangiavano, magari tifavano. Indulgevano a qualche vizio. Con moderazione. Cioè: senza esagerare. Oggi invece i "moderati" sono divenuti una categoria politica e culturale. Una (presunta) cultura politica. Il "fronte moderato", in particolare, è quello guidato dal Cavaliere.

Lui, Mister B, lo ripete sempre. I "moderati" sono i militanti e gli elettori del (sedicente) Centrodestra. Al di là e oltre ci sono soltanto i comunisti, i Magistrati e i loro servi. Quelli che perseguitano il Campione dei Moderati e lo vorrebbero eliminare, a dispetto della volontà popolare. Quelli vogliono far pagare le tasse. Quelli che vogliono uno Stato onnipresente e centralizzatore. Quelli che stanno per il Pubblico e odiano il Privato. Quelli che vorrebbero fare invadere l'Italia dagli stranieri e dagli islamici. Quelli brutti, o meglio: quelle brutte. Vuoi mettere il lato B delle parlamentari "moderate"? Quelli che non si lavano. Quelli che si scandalizzano per le gesta erotiche del Cavaliere  -  vere o presunte. Ma anche se fossero vere: che male c'è? Siamo un popolo di maschi guasconi. Chi si scandalizza (i comunisti e i Magistrati), in effetti, finge. Per invidia. È una frattura profonda e invalicabile. Da una parte i Comunisti, dall'altra  -  appunto  -  i Moderati. Quelli che i tunisini, i libici e i marocchini meglio cacciarli fora dai ball (o come si dice, non sono un esperto di lingue padane). Quelli che le BR abitano nelle procure. Quelli che nel pubblico sono fannulloni e la scuola (pubblica) non funziona per colpa dei Professori. Quelle che, nei faccia a faccia, si dichiarano moderate e di famiglia moderata. E attendono l'ultima parola, quando l'avversario non ha più possibilità di replica, per dargli del ladro di automobili (e voi comprereste un'auto da chi le ruba?). Peggio: del complice di estremisti violenti. Quelle che denunciano l'avversario (quando non ha più possibilità di replica) per essere stato condannato e amnistiato. E se il fatto non sussiste, se è palesemente falso, chissenefrega: era amico dei terroristi. Quarant'anni fa. Altro che moderato. E i moderati, si sa, sono decisivi per l'esito del voto. Soprattutto i "terzisti". Quelli che non stanno né di qua né di là. In caso di ballottaggio: non voteranno mica per i comunisti o per gli amici dei terroristi?

Il moderato. Una parola nuova e vecchia. Perduta e ritrovata. Perché oggi è di moda, ma ha cambiato senso, rispetto a un tempo. Perché se questi sono i moderati, il fronte moderato, i segni e i significati della moderazione. Allora io che da giovane non sono mai stato comunista e neppure marxista (al massimo, aclista). Io che nel Sessantotto, quando i miei compagni di liceo erano rivoluzionari, ero un giovane democristiano (e, prima ancora, repubblicano). Io che voto a sinistra (centrosinistra?) perché mi tocca. Non ho alternativa. Anche se, effettivamente, l'alternativa non c'è.  Io che non alzavo e non alzo la voce  -  se non alle partite di calcio e, qualche volta, con i miei figli. Io che ho sempre preferito i mezzi toni e le mezze misure. I colori tenui e il jazz da camera (avete presente Uri Caine?). Se questi sono i moderati, per disperazione, non posso non dirmi estremista. (Comunista proprio no. Mi spiace: ma è troppo).
 

(12 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #222 inserito:: Maggio 16, 2011, 11:23:34 am »

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Quanto conta il voto nell'Italia delle città

di ILVO DIAMANTI

Queste elezioni amministrative non eleggeranno "solo" i sindaci di circa 1300 Comuni - tra cui 23 capoluoghi - e i presidenti di 11 Province. In Italia, ogni elezione, di qualsiasi tipo e livello, ha rilievo nazionale. Serve a regolare i conti fra coalizioni, partiti, fazioni, leader. Non farà eccezione neppure questa scadenza, a cui tutti i protagonisti - e per primo Berlusconi - hanno esplicitamente attribuito significato politico. D'altronde, la lista dei Comuni al voto presenta numerose città "esemplari" per la storia della Seconda Repubblica.

1. Di Milano abbiamo scritto la settimana scorsa. È la capitale del Nord e - secondo la Lega - della Padania. La città di Tangentopoli e di Mani pulite, di Berlusconi e del centrodestra. La metropoli dell'economia finanziaria, dei servizi e della comunicazione. Quel che avverrà a Milano avrà riflessi rilevanti in ambito nazionale. Soprattutto nel centrodestra. Lo confermano le polemiche e le tensioni degli ultimi giorni, violentissime.

Tuttavia, si vota anche in altre città. Alcune di esse molto importanti, ai fini della valutazione di questa tornata elettorale.

2. Per prima Torino. L'antica capitale del Nord e dell'Italia produttiva è rimasta senza territorio. Alle regionali di un anno fa è stato eletto governatore il candidato leghista Cota. Una rivincita della periferia sul centro. Della provincia satellite sulla metropoli (fino a ieri) identificata con la Fiat. Il sindaco uscente, Chiamparino, è molto apprezzato
fra i cittadini e tra i più popolari in ambito nazionale. Il candidato di centrosinistra, Piero Fassino, è conosciuto. A sua volta, conosce bene Torino. Ma è, da tempo, un esponente della classe politica nazionale. Non sarà senza significato, il risultato di Torino. Soprattutto per il centrosinistra.

3. Come il voto di Bologna. Città-simbolo dell'Emilia rossa. In crisi dal 1999. Quando Giorgio Guazzaloca, candidato del centrodestra, divenne Sindaco. Un trauma, non solo a livello locale. Il segno di un cambio d'epoca, per la città. Dove continua a essere difficile riassumere e rappresentare insieme tradizione comunista e cattolico-democratica. Mentre il "compromesso socialdemocratico" (come lo ha definito Berselli) della sinistra con la borghesia urbana non funziona più. Il caso di Bologna, peraltro, ha riproposto la debolezza del Pdl. Incapace di esprimere un candidato autorevole. Costretto ad accettare la candidatura di Manes Bernardini. Un leghista di "terza generazione" (così lo ha definito Moris Gasparri su Limes). Una cessione di sovranità del Pdl nell'Italia (un tempo) rossa. Dove la Lega, da qualche anno, sta ottenendo notevoli successi.

4. Napoli. Una "città rossa", fino a ieri. La più importante del Centrosud, dopo la sconfitta di Roma, nel 2008. Capitale del Rinascimento del Sud, negli anni Novanta. Guidata da Bassolino. Il centrosinistra l'ha governata dal 1993 fino ad oggi. Fino ad essere coinvolto e travolto, negli ultimi anni, dall'immagine dei rifiuti che si accatastavano sulle strade. Berlusconi ne ha fatto uno spot elettorale ossessivo, nel 2008, alla vigilia delle elezioni politiche. In seguito i rifiuti sono ricomparsi. Hanno invaso di nuovo la città. Ma sui media non hanno trovato la stessa visibilità di prima. D'altra parte, avevano esaurito il loro compito. Oggi, Napoli, è il teatro di una contesa difficile, non solo per il Centrosinistra, lacerato all'interno. Come, d'altra parte, il Centrodestra. La candidatura di De Magistris amplifica la chiave di lettura della nostra storia recente imposta da Berlusconi. La frattura, in-finita, del 1993. Tangentopoli: simbolo dello scontro, mai risolto, fra Magistrati e Politica. Dove la Politica, oggi, viene interpretata da lui. Mister B.

5. Conviene, inoltre, considerare due capitali (geopoliticamente) "laterali", come Trieste e Cagliari. In passato, riferimenti importanti  -  in qualche misura originali - per l'Ulivo. Trieste, dove ha governato, dal 1993 fino al 2001, Riccardo Illy. Eletto, in seguito, governatore del Friuli Venezia Giulia. Cagliari, capitale della Sardegna, dove Renato Soru ha, anch'esso, governato la Regione, dal 2004 al 2009. Illy e Soru. Entrambi imprenditori di successo. Entrambi federalisti. Entrambi estranei ai partiti. Esponenti di un centrosinistra non viziato dal prefisso "post". Entrambi sconfitti, insieme alla loro esperienza. Oggi si capirà se in modo definitivo.

6. C'è, infine, un gruppo di Comuni medi e piccoli, soprattutto - ma non solo - del Nord. Da Gallarate a Montevarchi, da Oderzo a Cento, da Pinerolo a Olbia, da Montebelluna a Rho: dove la Lega, in questa occasione, si presenta da sola. Lo ha fatto anche in passato, soprattutto negli anni Novanta, quanto la solitudine ne marcava la vocazione antagonista. Ma oggi è Lega di governo, a Roma e nel Nord. Correre da sola nel suo territorio privilegiato  -  cioè, le città medie e piccole di provincia  -  ha un significato molto diverso. Suggerisce la "tentazione" (come l'ha definita Gad Lerner) di tenersi aperte soluzioni diverse. Alleanze diverse. Con o senza il Pdl. Riflette, ancora, la tendenza a consolidarsi sul territorio. Occupando amministrazioni, ma anche enti e organismi locali. Un po' come i partiti di massa della Prima Repubblica.

7. Altri soggetti politici attendono risposte importanti, da queste elezioni. Anche se non hanno città esemplari in cui misurarsi. I centristi del Terzo Polo, da un lato. Il Movimento 5 Stelle, dall'altro. Opposti, per vocazione e collocazione. Il Terzo Polo: deve dimostrarsi capace di giocare una parte decisiva, dove si andrà ai ballottaggi. Spostando gli equilibri in una direzione piuttosto che nell'altra. Peraltro: quale? Il Movimento 5 Stelle, al contrario, mira a rendere visibile l'elettorato "intransigente" (e, secondo il nuovo dizionario: "irresponsabile"). Che sta soprattutto, ma non solo, nel centrosinistra e a sinistra. Potrebbe produrre effetti vistosi (come, di recente, in Piemonte e, prima, nella stessa Bologna). D'altronde, nelle città maggiori, alle elezioni precedenti ha superato, spesso, il 3% (a Bologna, l'anno scorso, l'8%). Difficilmente resterà al di sotto di questa soglia.

Tra questa sera e domani, dunque, sapremo se "l'Italia delle città" avrà cambiato ancora volto all'Italia. Com'è avvenuto spesso nella Seconda Repubblica. Nel 1993, nel 1995, nel 2000, nel 2005. Quando le elezioni amministrative e regionali hanno annunciato e accelerato i cambiamenti politici. Stasera capiremo, cioè, se lo stagno stagnante in cui stagniamo da troppo tempo si muoverà.

(16 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #223 inserito:: Maggio 30, 2011, 11:31:23 pm »

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Così è cambiato il clima d'opinione vacilla il mito del premier invincibile

La destra scopre la paura, la sinistra batte lo "sconfittismo".

La Lega ha mostrato segni di arretramento anche nella provincia padana.

Berlusconi aveva parlato di voto politico, ma dopo il primo turno ha cambiato slogan

di ILVO DIAMANTI


OGGI si rivota. Ed è diffusa la sensazione che queste elezioni amministrative non lasceranno le cose come prima. Non solo nelle città interessate. Anche a livello nazionale. Lo conferma il clima d'opinione (per usare il linguaggio di Elisabeth Noelle-Neumann), che appare in rapido e profondo mutamento. Lo ha colto, per primo, Silvio Berlusconi. Il quale, nelle ultime due settimane, ha cambiato "opinione" in modo rapido e profondo. Non a caso. Due settimane fa: il Cavaliere affermava che si sarebbe trattato di un voto "politico". Soprattutto a Milano. Arena del suo scontro "personale" contro tutti i nemici. In primo luogo: i Magistrati e la Sinistra. Per questo Berlusconi si era presentato come capolista del PdL. D'altronde, ripeteva, è impensabile che Milano cada in mano a un estremista. Alla sinistra senza cervello. Impensabile.

Due settimane dopo Silvio Berlusconi, ha cambiato opinione. Perché è cambiato il clima d'opinione. D'altronde, ogni turno elettorale è una nuova consultazione. Risente di quanto è avvenuto prima. E due settimane fa, nel primo turno, sono avvenute cose impreviste. Anche soprattutto da chi guida il governo da dieci anni (con una pausa di 18 mesi). Due settimane fa. Il Centrosinistra ha eletto il sindaco, al primo turno, in due città importanti del Nord. Torino e Bologna (dove non era scontato, visti i guai combinati dal Centrosinistra negli ultimi dieci anni). Due settimane fa. A Napoli, la capitale del Mezzogiorno, il candidato del Centrodestra, Lettieri,
ha ottenuto un risultato non esaltante. E rischia molto, nel ballottaggio che lo oppone a De Magistris. Magistrato. Leader dell'IdV. Specchio fedele dell'Italia di Berlusconi. (Il quale, non a caso, ha frequentato Napoli più di Milano, negli ultimi giorni).

 Due settimane fa. Il Centrodestra non ha chiuso la partita a proprio favore in alcune città importanti, dove era al governo. Cagliari e Trieste, in primo luogo. Due settimane fa: la Lega ha visto affievolirsi la spinta propulsiva degli ultimi anni. Rispetto alle elezioni regionali dell'anno prima, ha subito un declino elettorale significativo - in valori assoluti e percentuali. Si è ridimensionata in tutti i capoluoghi di provincia, ad eccezione di Bologna, dove però era trainata dal candidato - leghista - della coalizione.

Due settimane fa, infine e soprattutto, a Milano, Letizia Moratti, sindaco uscente, ri-candidata dal Centrodestra, veniva superata nettamente da Giuliano Pisapia, candidato del Centrosinistra. Silvio Berlusconi, capolista del PdL, dimezzava le preferenze rispetto a 5 anni prima. Ripeto in modo pedante e un po' noioso cose a tutti note non con intento didascalico. Mi interessa, invece, sottolineare la catena dei "cambiamenti" avvenuti due settimane fa. In modo ancora incompiuto. In grado, tutti insieme, di evocare un "cambiamento" più ampio. Due settimane fa: è cambiato il clima d'opinione, E, al tempo stesso, si sono incrinati i miti politici che lo hanno condizionato per molti anni.

A) Lo "sconfittismo" del Centrosinistra. "Sconfitto" dall'evidenza che buoni candidati, buone coalizioni - qualche buona idea - possono produrre buoni risultati. Che gli elettori non sono "naturaliter" destinati a votare per gli altri. Neppure a Milano.

B) Ma si è incrinato anche il mito del "Cavaliere invincibile". Capace di sollevarsi dalla palude dove stava affondando tirandosi su da solo per il codino, come il Barone di Munchausen.

Ora, mi guardo bene dall'affermare che, ai ballottaggi, i giochi siano già fatti. Sono troppo scaramantico e ne ho viste troppe, nella mia vita di analista politico ed elettorale. Mi limito a osservare quel che è evidente a tutti. Il clima d'opinione è cambiato. Nei discorsi pubblici e privati. Oggi nessuno dà per scontato che i candidati del Centrodestra abbiano già vinto e quelli di Centrosinistra, simmetricamente, perso. Semmai, si è fatta strada l'impressione contraria. Non è un caso che Silvio Berlusconi abbia cambiato "opinione".
Il risultato deludente del Centrodestra al primo turno, secondo il Cavaliere, è colpa della debolezza dei candidati del Centrodestra. Non sua, personale. A Milano sarebbe, dunque, colpa della Moratti. Che però è la stessa candidata di 5 anni fa, quando Berlusconi aveva ottenuto un numero doppio di preferenze personali.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, Silvio Berlusconi si dimostra pessimista. Non lo era stato neppure nel 2005, dopo l'esito disastroso delle Regionali. In vista delle Politiche dell'anno seguente, il Cavaliere aveva remato contro ogni previsione. Contro gli avversari e contro la sfiducia degli amici. Fino a rimontare quasi tutto lo svantaggio accumulato. Trasformando il risultato del 2006 in una quasi-vittoria. Preludio a un rapido ritorno al governo, avvenuto nel 2008.

Oggi non è così. La campagna elettorale del Centrodestra nelle ultime due settimane è apparsa fiacca. I soliti slogan. Le solite battute.
Le solite promesse. Le pernacchie Bossi. Gli insulti di Berlusconi ai Magistrati e alla Sinistra. E un'affermazione ribadita troppe volte, per non sollevare dubbi. Opposta a quella precedente al primo turno. Questo voto non avrà conseguenze politiche. Neppure se - azzarda Berlusconi - il Centrodestra dovesse perdere. A Milano e a Napoli. E magari anche in altre piazze importanti. È "solo" un voto amministrativo. Un giudizio sull'azione dei governi e dei candidati "locali". Evidentemente deboli. Ma non c'è alternativa a questo governo. A questa maggioranza. Che però oggi rischia di ritrovarsi tale - cioè: maggioranza - solo in Parlamento. Maggioranza di Palazzo, ma minoranza nel Paese. Sul territorio. Nella società. D'altronde, come mostrano i flussi elettorali calcolati dall'Istituto Cattaneo di Bologna, il PdL, nelle maggiori città, ha perso voti in tutte le direzioni. Mentre la Lega ha mostrato segni di arretramento anche nella provincia padana.
La sua enclave.

Ma se - e sottolineo se - i timori espressi da Berlusconi si avverassero. Se, in particolare, il Centrodestra perdesse Milano. Se Pisapia divenisse sindaco. Allora, il mutamento del clima d'opinione subirebbe un'accelerazione brusca. E difficilmente questa maggioranza e questo governo potrebbero proseguire il percorso senza conseguenze. Sul piano dei rapporti tra le forze politiche. Ma anche sul piano della leadership. È il destino dei partiti "personali". Le sconfitte - come le vittorie - sono anch'esse "personali".
 

(30 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #224 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:05:04 pm »

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Il nord "tradisce" il centrodestra il mito della Padania è al capolinea

I vecchi metodi di rassicurazione fondati sulla paura del mondo e degli stranieri non funzionano più.

E la figura dell'uomo che si è fatto da sé è insufficiente

di ILVO DIAMANTI


LE CONSULTAZIONI amministrative appena svolte hanno evocato un cambiamento profondo del clima d'opinione. Eppure, nel corso della Seconda Repubblica, il Centrosinistra aveva vinto e governato a lungo a livello locale. Non solo nelle tradizionali zone di forza - l'Emilia Romagna e le regioni del Centro. Ma anche altrove. In molte aree del Sud e del Nord. Solo che ce n'eravamo scordati. Perché dopo il 2006 - e ancor più dopo il 2008 - il centrosinistra è arretrato dovunque. Ma soprattutto nel Nord. "Espugnato" dalla Lega. Che alle Regionali del 2010 è penetrata anche nelle "zone rosse". Così si è imposto il mito del "Nord padano". Un concetto entrato nel linguaggio comune. E insieme si è affermata la convinzione che il centrosinistra sia troppo "romano" per essere accettato e creduto nel Nord. Un'idea, peraltro, non infondata. Che, però, indica una deriva. Non un destino.

Così, fra gli attori politici e gli elettori di centrosinistra, si è diffuso un inferiority complex nei confronti della Lega. Considerata come unica e ultima erede dei partiti di massa. In grado di "presidiare" il territorio. Il voto ha ridimensionato, in modo brusco, questi sentimenti. Soprattutto nel Nord. Dove i partiti di governo hanno subito le sconfitte più brucianti. Non che altrove le cose, per loro, siano andate meglio. A Napoli, in particolare. Dove però da quasi vent'anni governava il centrosinistra. Ma è nel Nord padano che sono avvenuti i mutamenti
più rilevanti. A partire da Milano, la capitale della Seconda Repubblica. Senza dimenticare Trieste, che solo Riccardo Illy, in passato, era riuscito a "sottrarre" alla destra. Oppure Novara, la capitale leghista, il feudo di Cota, governatore del Piemonte.

Ma il cambiamento del Nord sconfina ben oltre i luoghi simbolici del centrodestra e della Lega. Basti esaminare il bilancio dei comuni maggiori (con più di 15mila abitanti) dove si è votato: 133 a livello nazionale. In precedenza, 73 erano amministrati dal centrosinistra e 55 dal centrodestra. Gli altri da giunte di segno diverso. Ebbene, in queste elezioni il centrosinistra ne ha conquistate altre 10. Il centrodestra ne ha perse 17. Di cui 14 appartengono al Nord "padano" (con l'esclusione, cioè, dell'Emilia Romagna). Dove, tra le città al voto, il centrodestra ha fatto eleggere solo 8 sindaci, mentre prima ne aveva 22. Mentre il centrosinistra, parallelamente, è passato da 17 a 29.
Se analizziamo il risultato ottenuto dai partiti (al primo turno) questa impressione si rafforza ulteriormente. Nei comuni del Nord padano dove si è votato, infatti, il Pd ottiene il 27%. Come alle precedenti Comunali, ma con un incremento di 2 punti rispetto alle Regionali di un anno fa. Mentre i partiti di governo sono slittati vistosamente, rispetto al voto del 2010. La Lega di quasi 5 punti (si ferma al 10,9%). Il Pdl addirittura di 8. Oggi si è attestato sul 22,5%. Così, nelle città del Nord al voto, il Pd è divenuto il primo partito. Rispetto al passato recente, si tratta di una novità evidente.

Altro aspetto rilevante, il successo delle liste di sinistra - su tutte Sel. Non solo perché in grado di imporre il proprio candidato a Milano, ma perché, in generale, ha conseguito un risultato più che doppio rispetto alle Regionali (4,6%). Anche in termini assoluti. Inoltre, va segnalata la crescita elettorale del Movimento 5 Stelle, promosso da Beppe Grillo, che supera anch'esso il 4% dei voti validi. Questi dati certificano la pesante sconfitta del centrodestra e il parallelo successo del centrosinistra nel Nord. Ma, in assenza di analisi più approfondite, è difficile ricavarne significati chiari. Semmai, alcune ipotesi, che provo a tratteggiare di seguito.

1. Anzitutto, emerge il limite del "Nord padano". Definizione imposta dalla Lega per "unificare il Nord". Contro Roma e contro l'Italia. Torna, invece, a essere evidente come vi siano "diversi" Nord. Per retroterra sociale ed economico, ma anche per rappresentanza politica.

2. In particolare, si delinea l'orientamento specifico delle città maggiori. Hanno abbandonato il centrodestra. Tutte le capitali di regione (senza considerare Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta) oggi sono governate dal centrosinistra. Tutte. Compresa la capitale per eccellenza. Milano. E il centrodestra, in questa tornata elettorale, è arretrata anche nelle città medie e nei capoluoghi di provincia. Ma si può rappresentare e governare "un territorio" restando esclusi dalle capitali?

3. Il centrodestra soffre di una crisi di consenso per molti versi nuova. In passato, infatti, Lega e Pdl disponevano di un bacino elettorale comune. Edmondo Berselli lo aveva definito, con un neologismo efficace, "forzaleghismo". Così, le crisi della Lega corrispondevano alla ripresa di Forza Italia. E viceversa. Oggi non è più così. Quel bacino è esondato. E i due partiti hanno perduto entrambi.

4. Anche perché Forza Italia non c'è più. Al suo posto, il Pdl, che aggrega anche An. Ha una base elettorale in prevalenza centro-meridionale. La Lega, a sua volta, ha assunto un'identità governativa. Infatti, esprime i sindaci di centinaia di Comuni, i presidenti di 14 Province e 2 Regioni. E sta nel governo, a Roma. Insieme a Berlusconi. Usa un linguaggio da opposizione dura e comportamenti pragmatici e tradizionali. Anche a livello locale, dove, con i propri uomini, ha occupato enti amministrativi e finanziari. Ma la distanza fra comportamenti e parole è troppo stridente per non saltare agli occhi degli elettori.

5. Nel Nord è in atto una profonda trasformazione economica e sociale. Ha scosso alle fondamenta il sistema finanziario, la grande e la piccola impresa. Ha modificato le basi demografiche e gli stili di vita della società. Molte zone, che fino a poco tempo fa si consideravano al sicuro dalla crisi, oggi si sentono vulnerabili. I metodi di rassicurazione fondati sulla paura del mondo e degli stranieri non rassicurano più. E i miti della Padania e dell'Uomo-che-si-è-fatto-da-sé non bastano più a dare risposte e identità al Nord.

6. Anche per questo, dopo alcuni anni, il centrosinistra è tornato. Per limiti altrui, ma anche per meriti propri. Perché dispone ancora di leader locali credibili ed esperti. Perché ha legami con la società civile ed è stato in grado di mobilitare la realtà locale. Perché le sue parole in questa fase appaiono meno aliene di quelle del centrodestra. Altruismo, bene comune, solidarietà incontrano più attenzione, nel senso comune, rispetto a individualismo, paure, interessi. L'estremismo "moderato" e aggressivo di questi tempi, infine, ha stancato.

7. Circa l'eterogeneità delle coalizioni e il peso della cosiddetta sinistra radicale, conviene rammentare che raramente, in passato, queste differenze hanno provocato crisi locali. Perché sindaci e governatori sono eletti direttamente dai cittadini e dispongono di una legittimazione forte. E perché è più semplice trovare l'accordo sui temi concreti della società e del territorio che sui principi non negoziabili. La vita e la morte. La pace e la guerra.

8. Da questo passaggio elettorale, il centrosinistra esce rafforzato. Ma deve trarne le giuste indicazioni. In primo luogo: il Pd non può pretendere di essere partito dominante, né tanto meno unico. Ma è, indubbiamente, il riferimento obbligato di ogni coalizione. Non bisogna, poi, scambiare le consultazioni locali con quelle nazionali. Anche se l'Italia è un Paese di città e regioni.

E tutti i cambiamenti politici, sociali e culturali sono avviati e annunciati a livello territoriale. Infine: guai a rassegnarsi, al "complesso del reduce". Allo "sconfittismo". Se è possibile vincere a Milano e nel Nord, allora nulla è impossibile. Neppure a livello nazionale.

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