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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278486 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:17:49 am »

ECONOMIA      MAPPE

La rivincita di Gran Torino

di ILVO DIAMANTI
 

Nell'Italia dove le città hanno perduto la capacità di offrire significato e identità alle persone - e prima ancora allo stesso paese - si assiste a un evento inatteso. Il ritorno di Torino. Per motivi diversi e non necessariamente felici. Pensiamo all'incidente sanguinoso avvenuto alla ThyssenKrupp nel dicembre 2007. Una tragedia esemplare. Ha rammentato che le fabbriche industriali esistono ancora. Che gli operai esistono ancora. E muoiono ancora. Sul lavoro. Perché la sicurezza non riguarda solo la criminalità e l'incolumità personale.

Più di recente, Torino è tornata al centro dell'attenzione pubblica come piazza del conflitto sociale. In seguito all'aggressione dei Cobas contro il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, nel corso della manifestazione sindacale per chiedere chiarezza sul piano di ristrutturazione internazionale avviato dalla Fiat. E ancora: nei giorni scorsi Torino è stata teatro delle proteste dell'Onda studentesca contro il vertice internazionale delle Università (il cosiddetto G 8 dei rettori). Certo, magari la città avrebbe fatto a meno di queste occasioni di pubblicità. Tuttavia, anche l'assenza di "cattive notizie" è segno del male che, da tempo, affligge Torino. L'invisibilità è un riflesso dell'irrilevanza. (Lo specchio pubblico non può riflettere quel che non c'è). La città della Fiat e della famiglia Agnelli aveva, infatti, seguito il destino della Fiat e degli Agnelli, dopo gli anni Settanta. Insieme alla grande impresa, al capitalismo familiare. Il declino dell'Italia fordista, fiat-ista. Baricentro a Nordovest. Nel triangolo industriale. Vertice a Torino. L'ascesa dell'economia post-fordista e del capitalismo dei beni immateriali (i servizi, la comunicazione, la finanza) aveva spostato i centri del potere altrove (Come ha ben rilevato, per tempo, Arnaldo Bagnasco). Nel Nordest e a Milano. Dove era avvenuta l'irruzione (o forse l'eruzione) della Lega e di Berlusconi. Mentre l'Italia laica e di sinistra aveva trasferito altrove i suoi centri. Lungo l'asse fra Bologna e Firenze, tracciato da Prodi e Ciampi. E nella Roma di Rutelli e Veltroni.
Torino era, così, divenuta provincia. Periferia di Milano e del Nordest. Oltre che di Roma. Ai margini di Berlusconi e della Lega. Risucchiata nella provincia piemontese. Un tempo satellite. Poi, sempre più autonoma. Ora non è più così. E non sono solo le tragedie e i conflitti a rammentarlo.

Torino oggi è di nuovo la città della Fiat. Non di Agnelli. Ma di Marchionne. E di Montezemolo (anche perché la Ferrari gira intorno alla Fiat). Un'azienda che si è rilanciata e sta cercando di rafforzarsi nel mercato globale. Oggi, è al centro di discussioni e tensioni, per i costi e le prospettive previste da un piano ambizioso e complesso. Che coinvolge Chrysler e Opel. Usa e Germania. Ma, appunto, è al "centro". Non più ai margini, com'era fino a pochi anni fa. Come echeggia, per una singolare coincidenza, un magnifico film di Clint Eastwood. Intitolato, appunto, Gran Torino. Modello mitico di un'auto... Ford.

D'altronde, Torino non è solo Fiat. Negli ultimi anni, mesi, la sua immagine è stata promossa da altri eventi. Eccezionali o ricorrenti. E' la città delle Olimpiadi invernali. È la città della buona cucina, del cibo biologico, dell'agricoltura equa e solidale. Sede del Salone internazionale del gusto e di Terra madre. È la capitale dell'editoria. Dove ogni anno si svolge la Fiera del libro. Per numero di visitatori, la prima in Europa.
Perché il ritorno di Torino rammenta che cambiare è possibile, anche in Italia. Dove pare impossibile cambiare. Soprattutto il territorio e le città. E il cambiamento risulta evidente anzitutto ai cittadini. Come sottolinea il sondaggio condotto da Demos per la Repubblica nei giorni scorsi. In particolare, la maggioranza assoluta dei torinesi (quasi il 55%) ritiene che il ruolo della loro città, in Italia, sia divenuto più importante negli ultimi anni. Nel 2002 era solo il 22% a pensarlo. La stagione opaca pare, dunque, finita, secondo l'opinione pubblica torinese. Al tempo stesso, si è consolidata l'idea che a Torino si viva meglio che nelle altre metropoli italiane. Non solo rispetto a Napoli. Ma anche a Milano e a Roma. Anche l'immagine del potere in città si è complicata. In testa, davanti a tutti, i torinesi oggi pongono il sindaco Sergio Chiamparino. Accanto a lui: Sergio Marchionne. A distanza: Luca di Montezemolo e Mercedes Bresso. Nell'ordine: il potere amministrativo e politico; poi la Fiat. Non era così trent'anni fa, ovviamente, quando il potere - reale e percepito - aveva un solo volto. Coincideva con il ritratto della famiglia Agnelli. Ma neppure 5 o 6 anni fa quando ogni potere pareva dissolto.

Questa mutazione ha, dunque, ridefinito l'immagine e l'identità di Torino. Oggi appare una città poliarchica e polisemica. Dove l'industria dei beni immateriali - i prodotti e gli eventi della cultura e del tempo libero - conta quanto e più di quella dei beni materiali. La stessa Fiat sembra avviata in tal senso. Riferimento di un network progettuale e creativo globale. Delocalizzato e de-urbanizzato.

Naturalmente, ciò non immunizza Torino dai problemi e dalle tensioni, a cui abbiamo fatto riferimento all'inizio dell'articolo. Torino è, peraltro, afflitta anche da altri mali, che riflettono il degrado delle metropoli. Dove il sentimento di insicurezza dei cittadini continua a crescere. Soprattutto nelle zone e tra le componenti sociali più periferiche: gli anziani, i ceti popolari e la classe operaia. Si sentono minacciati dalla criminalità, "assediati" dall'immigrazione. Oppressi dal rischio e dal peso della disoccupazione. Come nelle altre metropoli. Perché tornare al centro della scena, ritrovare identità e visibilità non significa risolvere i problemi. Semmai, per alcuni versi, il contrario: amplificarli. Infine, il ritorno sulla scena pubblica, nazionale e internazionale, non significa, per Torino, tornare capitale. Perché l'Italia oggi non ha una capitale. Ma molte città. Nessuna abbastanza forte da imporsi - ma tutte in grado di opporsi - alle altre.

(25 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #106 inserito:: Maggio 31, 2009, 10:57:39 pm »

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La nazione degli elusi

di ILVO DIAMANTI



A una settimana dal voto europeo l'incertezza elettorale rimane alta. Non solo: aumenta. Secondo alcuni sondaggi, la quota degli indecisi nelle ultime settimane si è, infatti, allargata sensibilmente. Era inferiore a un quarto degli elettori, un mese fa. Oggi è quasi un terzo.

È singolare, perché l'avvicinarsi della scadenza, normalmente, produce l'effetto opposto. Il passaggio dall'indecisione alla decisione. Occorre, certo, considerare la particolarità di questa consultazione. La partecipazione alle europee, infatti, è sempre più limitata rispetto alle altre elezioni. In Italia, nel 2004, ha votato il 73% degli aventi diritto. Una percentuale, peraltro, molto superiore agli altri paesi della Ue (la cui media complessiva fu del 45%). Il fatto è che le elezioni europee hanno un significato diverso delle altre, per gli elettori. In Italia, il paese più eurofilo, in questa campagna non si è mai parlato di Europa. Manco per sbaglio. Ciò che interessa ai partiti e ai media sono gli effetti del voto "interni" all'Italia. Sui rapporti tra maggioranza e opposizione. Sugli equilibri inter-partitici della maggioranza e dell'opposizione. Tuttavia, se si escludono i temi della sicurezza e dell'immigrazione, il dibattito ha trascurato anche le questioni nazionali. Si è, invece, concentrato intorno ai fatti personali e familiari del presidente del Consiglio. E ciò ha alimentato la tentazione di molti elettori di non partecipare al voto. "Usando" il voto, ma anche il "non voto", come un segnale. Come avvenne nel 2004, quando a pagare fu soprattutto Forza Italia. Abbandonata da un'ampia quota di elettori delusi. Fi ottenne, allora, 6 milioni e 800mila voti, il 21% sul totale dei voti validi. Cioè: 4 punti percentuali e 1 milione meno delle precedenti elezioni europee del 1999, ma 4 milioni e l'8% in meno rispetto alle politiche del 2001. Il recupero inatteso del centrodestra, e soprattutto di Fi, in occasione delle elezioni politiche del 2006, in effetti avvenne soprattutto mobilitando gli astenuti del 2004. Riportando alle urne i "delusi".

Per questo conviene fare attenzione al popolo degli incerti. Alla sua evoluzione, che in questa fase appare in controtendenza rispetto al consueto. Questo fenomeno ha diverse facce e diverse spiegazioni. Colpisce entrambi gli schieramenti elettorali. Da un lato, a sinistra, ci sono gli "esuli". Così abbiamo definito, tempo addietro, gli elettori del Pd del 2008 che, in seguito, avevano mostrato una crisi di rigetto. Allontanandosi dal Pd, considerato una opposizione debole e inefficace. Ma anche e soprattutto dalla politica. E dagli italiani. Estranei nel paese del Gf e degli Amici. Del Tg unico. Dell'intolleranza e dell'assuefazione a ogni vizio pubblico e privato. Esuli in patria. Lontani dal berlusconismo. Irriducibili a ogni dialogo con la maggioranza del paese. Dunque, con il paese. Da ciò il collasso dei consensi del Pd, stimato, a febbraio, circa 10 punti meno del 2008. Elettori confluiti solo in minima parte in altri partiti. La maggioranza di loro, invece, si era semplicemente dimessa dalla politica e dall'Italia. Un esodo riassorbito. Ma solo in qualche misura. Per cui il Pd ha ripreso a crescere, anche se il risultato di un anno fa resta lontano. Una parte dei suoi elettori è ancora esule. Un'altra parte, invece, si è accostata a Di Pietro. Un'altra ancora ai partiti della sinistra. Da cui proviene e che aveva abbandonato nel 2008, in nome del "voto utile". Un richiamo, in questa occasione, molto meno significativo.

Tuttavia, l'aumento degli indecisi in questa fase avviene, anzitutto, insieme al calo del Pdl. Di proporzioni ridotte. Una slavina, non un'alluvione. Ma costante nelle ultime settimane. Anche il peso degli elettori fedeli, nel Pdl, si è ridotto sensibilmente.
Una tendenza parallela e coerente alla fiducia nel presidente del Consiglio. Il cui consenso personale è declinato in modo sensibile nelle ultime settimane. Nonostante gli indicatori del clima d'opinione, dal punto di vista economico, e il giudizio nei confronti del governo non siano peggiorati.

Si assiste, cioè, a una sorta di sconcerto, fra gli elettori del Pdl, partito personalizzato e personale. Le faccende personali e familiari del premier hanno infastidito anche un pubblico come quello italiano. Ormai quasi incapace di stupirsi, se non di indignarsi. Anche l'elettorato medio, a cui si rivolge il Pdl, ne è disturbato. Non tanto per il clamore sollevato dai giornali "nemici" (che ovviamente non legge). Ma semmai per le prudenti critiche del clero.
Così, c'è una quota di elettori che da qualche settimana si pone in stand-by. In attesa. E stenta a dichiarare il proprio voto per il Pdl nei sondaggi. Per disagio, come ha osservato nei giorni scorsi Nando Pagnoncelli. Anche se ciò non significa che, fra una settimana, non lo voterà. Oggi però non lo dichiara. Sono elettori clandestini: invisibili e reticenti. Evitano di esprimersi e di apparire. Più che per "delusione", come in passato, per "elusione". Per disorientamento e imbarazzo. Atteggiamenti che, fra una settimana, potrebbero venir messi da parte. O forse no. In fondo si tratta di elezioni europee: se non dai un segnale in questa occasione, quando mai?

Tuttavia, l'indecisione che cresce fra gli elettori in prossimità del voto descrive bene il sentimento di questo paese spaesato. Affollato di "esuli" e di "elusi". Che cercano soluzione nella dissoluzione. O meglio, nella dissolvenza intermittente. Vorrebbero scomparire per riapparire in tempi migliori.

(31 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #107 inserito:: Giugno 07, 2009, 11:54:01 am »

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I territori scomparsi nelle elezioni pop

di ILVO DIAMANTI


SI TRATTA, forse, delle prime "elezioni pop" della storia della Repubblica. Settimane di inchieste, richieste, interviste, minacce, denunce intorno alle amicizie e alle frequentazioni del leader. E, ancora, di sua moglie.

Fatti privati che diventano pubblici, perché la "democrazia del pubblico", fondata sulla personalizzazione, sui media e sull'opinione, si concentra sul privato. Perché oggi il "personale è politico". Assai più che negli anni Settanta, ai tempi delle rivendicazioni femministe. Anche se i contenuti e i motivi che alimentano questa evoluzione (?) della democrazia sono ben diversi da allora. Le "elezioni pop", peraltro, tendono inevitabilmente a riassumersi in un referendum. Pro o contro Berlusconi. Non diversamente dal passato, d'altra parte. Tuttavia, mai come in questa occasione Berlusconi rappresenta non tanto un modo di intendere l'economia, il lavoro, lo Stato. Ma uno stile di vita, un'ideologia, una morale. Per questo, una volta di più e forse più di tutte le altre volte, il territorio e i confini sono scomparsi.

L'Europa: nessuno ne ha parlato. Gran parte degli elettori manco sanno dove abbia sede il Parlamento della Ue. D'altronde, il voto europeo è sempre stato usato per altri scopi. Come occasione per misurare i rapporti di forza tra e dentro le coalizioni. In questo caso: tra destra e sinistra. (E il centro). Fra Pd e Idv. Fra Pdl e Lega. Fra Berlusconi e tutti gli altri. Un sondaggio d'opinione pesante, che fa scomparire l'Europa, ma anche il territorio. Perché in questi due giorni quasi metà degli italiani votano per rinnovare la loro amministrazione: comunale o provinciale. Ma non ne parla nessuno, se non nei luoghi interessati. Come se l'esito riguardasse soltanto loro.

Eppure questa Repubblica, la seconda Repubblica, non è stata fondata da Berlusconi. La prima Repubblica non è stata "affondata" dai magistrati. Dietro ai magistrati, a Berlusconi e al movimento referendario guidato da Segni c'era il territorio. Bandiera della rivolta anticentralista del Nord, guidata dalla Lega. Delle rivendicazioni dei sindaci e dei presidenti provinciali e regionali, eletti direttamente dai cittadini. Non a caso, verso la metà degli anni Novanta, si parlò di un "partito dei sindaci". Perlopiù di centrosinistra, ma non solo. Perlopiù del Nord e del Nordest. Ma non solo. Mirava a riformare lo Stato centrale e i partiti nazionali.

Le elezioni amministrative, d'altra parte, hanno contribuito a segnare i cicli politici della seconda Repubblica forse più di quelle europee, a cui erano affiancate. Si pensi al 1999, quando il successo di Forza Italia e di Berlusconi, alle europee si associa alla conquista di Bologna. Capitale - e "città esemplare" - della zona rossa, espugnata da Giorgio Guazzaloca, sostenuto da una civica di centrodestra. Evento simbolico della fine di un'epoca. Così, cinque anni fa, più che dal riequilibrio tra le coalizioni alle europee, il marchio della consultazione è stato impresso dalle elezioni amministrative. Dalla riconquista di Bologna, con un risultato schiacciante. E da un successo generalizzato.

Infatti, le liste di centrosinistra, nel 2004, hanno vinto in 52 province, delle 63 in cui si votava; 8 in più rispetto alla situazione precedente. Il successo di Penati, a Milano, costituisce, sicuramente, il risultato più importante e appariscente, per motivi simbolici. Ma non l'unico. Si pensi a Bergamo, cuore della pedemontana leghista. A Padova, cuore del Nordest. Ma il centrosinistra si afferma ovunque. Anche alle elezioni municipali, dove elegge il proprio candidato sindaco in 171 comuni oltre i 15mila abitanti, sui 231 in cui si votava. Il che sottolinea un elemento importante del rapporto fra politica e società, nella seconda Repubblica.

Almeno fino ad oggi. La maggiore capacità competitiva della sinistra - e del centrosinistra - a livello locale, sul territorio. Perché più organizzato e radicato. In grado di esprimere una classe dirigente più esperta e legittimata.

Si delinea così una sorta di bilanciamento dei poteri. Berlusconi al governo dello stato e dei media. Il centrosinistra insediato nel territorio, al governo delle città e delle altre entità territoriali. A contrastarlo: la Lega nel Nord. Dove si presenta, spesso, da sola. Indebolendo, così, gli alleati del centrodestra. Ancora oggi, il centrosinistra governa nel 60% dei comuni capoluogo, nel 70% delle province e nei due terzi delle regioni. Una via - fin qui l'unica - per uscire dalla roccaforte - e dalla prigione - della zona rossa del centro. Ma l'impressione è che possa trattarsi di una geografia inattuale. Peraltro, pesantemente incrinata dalla sconfitta di una anno fa, al comune di Roma.

Anche in quel caso: decisiva, più ancora del voto alle politiche, nel sancire il successo del centrodestra guidato da Berlusconi. E la parallela sconfitta del Pd di Veltroni. Più in generale, i sindaci e governatori non sembrano più un contropotere democratico, testimoni e garanti dell'autonomia del territorio. La loro voce in ambito nazionale è debole. La loro scelta avviene, sempre più, in base a calcoli di partito e di coalizione, a livello centrale. (Come nel caso del Veneto, conteso fra Lega e Pdl). La Lega, peraltro, più della bandiera del territorio, oggi agita il fantasma dell'insicurezza. La paura dell'altro. Per superare i confini del Nord.

La scomparsa del territorio da questa campagna elettorale, dunque, non è casuale. E dovrebbe inquietare. Soprattutto il centrosinistra, la cui storia e la cui forza dipendono in modo determinante dal rapporto con la società locale. Ma dovrebbe preoccupare tutti i cittadini. Perché il risultato di Bologna, Milano, Torino, Padova, Bergamo, Firenze, Bari e in migliaia di comuni medi e piccoli avrà conseguenze politiche importanti, in ambito nazionale. E determinerà effetti duraturi sulla vita quotidiana delle persone. Sull'ambiente. Sulla formazione del ceto politico e di governo a livello locale. Mentre il voto europeo, fra qualche giorno, apparirà un semplice episodio del romanzo pop che ispira la politica italiana del nostro tempo.


(7 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #108 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:36:43 pm »

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Il Pd esule in casa

di ILVO DIAMANTI

 Come avviene puntualmente da 15 anni, anche queste elezioni sono state affrontate come un referendum. L'unico ammissibile, in Italia, oggi. Pro o contro Berlusconi.
Il quale, a differenza delle ultime occasioni, questa volta ha perduto. E ha condizionato, in questo modo, la lettura del voto. Tuttavia, dalla consultazione esce sconfitto lui, ma non il centrodestra. Non certo la Lega. Ma lo stesso Pdl, per una volta, se l'è cavata meglio del suo leader. Come hanno confermato le elezioni amministrative.

Nell'insieme, questa consultazione conferma un profondo mutamento dei rapporti fra politica, società e territorio, che investe entrambi gli schieramenti. Ne forniscono una raffigurazione plastica ed esemplare la Lega e l'Idv. I vincitori di queste elezioni. Non solo perché hanno guadagnato peso elettorale, in valori assoluti e percentuali, rispetto alle precedenti elezioni politiche ed europee. Ma perché, inoltre, si sono rafforzati rispetto agli alleati. Si tratta di partiti molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Anzitutto, i temi che hanno imposto all'agenda politica, in campagna elettorale.

In primo luogo: la sicurezza. Anche se la interpretano in modo alternativo. La Lega: come reazione alla "paura degli altri e del mondo", all'inquietudine prodotta dal cambiamento. È la "Lega degli uomini spaventati", che organizza le ronde: la comunità locale in divisa per difendersi dagli immigrati e dalla criminalità comune. L'Idv, invece, punta sulla domanda di legalità. Rivendica l'eredità della stagione di Tangentopoli, impersonata da Antonio Di Pietro. Sostiene i magistrati. Esercita un'opposizione intransigente. A Berlusconi. A ogni mediazione sui temi della giustizia. Per questo motivo nel 2006 si oppose - unica, non a caso, con la Lega - all'indulto.
Entrambi i partiti usano, in diverso modo e in diverso grado, uno stile populista: per linguaggio e comunicazione. Esprimono, tuttavia, valori molto diversi. E seguono modelli opposti: dal punto di vista organizzativo e nel rapporto con la società e il territorio. La Lega è un partito "territoriale". Nordista per geografia e identità. Impiantato su una base di volontari e militanti diffusa e persistente. L'Idv è, invece, un "partito senza territorio", orientato su questioni "nazionali". Con un elettorato proiettato, semmai, nel Centro-Sud. Dal punto di vista organizzativo, è ancora largamente fluido e sradicato. D'altronde, ha conosciuto un successo rapido e recente. Fino a oggi, la sua identità si è confusa con quella del leader.

I diversi modelli espressi dai due partiti riflettono uno slittamento del rapporto fra politica e territorio, già segnalato. La sinistra utopica sta diventando atopica. Non solo l'Idv. Anche il Pd vede il proprio terreno sfaldarsi. Erede dei partiti di massa, il Pci e le correnti democristiane di sinistra, fino a ieri non era riuscito a scavalcare i confini delle zone rosse, dove però era saldamente insediato. Oggi, non più. Anche le zone rosse stanno diventando rosa. Segnate, qui e là, da alcune macchie di verde. Il Pd è il partito più forte solo in Emilia Romagna e in Toscana. Nelle Marche e perfino in Umbria è superato dal Pdl. Città e province tradizionalmente di sinistra scricchiolano. A Firenze e Bologna il Pd non è riuscito a imporre il suo candidato al primo turno. Delle 50 province dove governava, fino a pochi giorni fa, fin qui ne ha riconquistate solo 14 e 15 le ha già perdute. Delle 27 città capoluogo che amministrava fino a pochi giorni, il centrosinistra, al primo turno, ne ha mantenute sette mentre sei le ha cedute al centrodestra. Il quale sta piantando radici diffuse e profonde. Non solo la Lega. Nonostante l'insuccesso personale di Berlusconi, anche il Pdl ha dimostrato un buon grado di resistenza elettorale. Soprattutto nel Nord, dove ha sopportato lo scontro con la Lega. Per la prima volta, infatti, i due alleati non si sono cannibalizzati reciprocamente. Ha, inoltre, tenuto anche nelle regioni del Centro mentre ha perduto largamente nel Sud. Soprattutto in Sicilia, sua roccaforte. Dove ha pagato lo scontro con la Lega Sud di Lombardo. Suo alleato, fino a ieri. E forse di nuovo domani. Perché il Pdl, come prima Forza Italia, è un partito network. Aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati. Ciò lo rende forte e al tempo stesso vulnerabile. Esposto alle tensioni tra gli alleati, ai conflitti tra le diverse componenti locali. Il problema vero del centrodestra è che questa molteplicità di radici ha un solo, unico ceppo a cui attaccarsi. Una sola antenna, un solo volto attraverso cui comunicare insieme. Berlusconi. Risorsa. Ma anche limite. Come in questa occasione.

Il centrosinistra però, asserragliato nei suoi confini, oggi deve affrontare la minaccia che viene da Nord. La Lega (centro) Nord in questa elezione si è sviluppata soprattutto nelle regioni rosse. In Emilia Romagna e nelle Marche. Che hanno una struttura sociale ed economica molto simile a quella del Nordest e della provincia del Nord. Territorio di piccole imprese globalizzate, investito da flussi migratori estesi. La Lega Nord è riuscita a entrare nel territorio della sinistra usando il linguaggio della paura e del localismo. Un linguaggio che non ha confini, ma serve a crearli. Fra le province dove è cresciuta maggiormente, rispetto alle politiche, ci sono Reggio Emilia, Modena, Forlì, Prato, Parma, Pesaro-Urbino. Ciò solleva una questione che va oltre il voto europeo e amministrativo. Riguarda il Pd. Angosciato da una sorta di "sindrome della scomparsa", ha accolto il risultato delle europee con sollievo. Quasi come un successo. L'esito del primo turno delle amministrative, tuttavia, ne ha ribadito il disagio. Perché il Pd fatica a riconoscersi nella terra dei suoi padri. D'altra parte, per questo è sorto: per superare i confini della propria identità. Al di là delle regioni di cui si sente prigioniero. Ma ora è disorientato. Insidiato dall'Idv, in ambito nazionale, fra gli elettori di opinione che chiedono "opposizione" e parole chiare. Minacciato nelle proprie roccaforti dalla Lega. Che usa il territorio come arma e come bandiera. Anche il Pd, come molti dei suoi elettori, si sente un po' esule a casa propria.

(10 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #109 inserito:: Giugno 15, 2009, 11:41:17 am »

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Idv-Pd, l'opposizione senza speranza

di ILVO DIAMANTI


Per ragionare intorno al futuro del centrosinistra oggi bisogna fare i conti con Di Pietro e l'Italia dei Valori. Artefice di una crescita elettorale inarrestabile negli ultimi anni. Raddoppiato di consultazione in consultazione: 2,1% alle europee del 2004; 4,4% alle politiche del 2008 fino all'8% alle europee di una settimana fa.
Una progressione altrettanto clamorosa misurata in termini assoluti: circa 700 mila voti nel 2004, quasi 1 milione e 600 mila nel 2008, 2 milioni e 400 mila il 6-7 giugno scorsi. Quarto partito in Italia, in ordine di grandezza. Due punti sotto all'altro vincitore delle recenti europee: la Lega Nord. Rispetto a cui l'Idv è per molti versi simmetrica.

Anzitutto per geografia (rinviamo al dossier "L'Italia a colori": www.demos.it). Infatti, è particolarmente forte nel Centrosud, dove supera largamente il 9%. Inoltre, fra le 15 province dove raccoglie più consensi, una sola è del Nord: Torino (10,7%). Le altre, invece, sono nel Centrosud. Nel Molise, enclave del leader Antonio Di Pietro. Ma anche in Basilicata e in Calabria, dove operava l'ex procuratore De Magistris. E a Palermo, la città di Leoluca Orlando. Ciò chiarisce che la geografia dell'Idv dipende, in qualche misura, da motivi "personali". Una ulteriore specificità emerge in chiave storica. Le zone di forza dell'Idv hanno una tradizione di destra. Nelle 26 province dove il partito alle europee ha ottenuto le percentuali più elevate, il MSI nella prima Repubblica e successivamente AN conseguivano risultati molto superiori alla media nazionale.
L'Idv, tuttavia, non è figlia della destra. Ma ne condivide, in parte, il retroterra. E dunque alcune ragioni. Fra cui la domanda di sicurezza.

In terzo luogo, l'Idv ha un impianto urbano e metropolitano. È più forte nei comuni oltre i 20 mila abitanti e soprattutto nelle città oltre i 100 mila. Secondo una analisi dell'Ipsos, inoltre, gli elettori dell'Idv superano largamente la media tra i giovani, tra le persone con titolo di studio più elevato (diplomati e laureati).
E quindi fra gli studenti, i funzionari, gli impiegati "intellettuali", i dirigenti pubblici ma anche privati.

Gli atteggiamenti degli elettori dell'Idv (attraverso i sondaggi condotti da Demos nell'ultimo anno) sottolineano 3 orientamenti specifici, molto marcati.
1) L'importanza attribuita al ruolo "moralizzatore" e al tempo stesso "rivoluzionario" della giustizia. In particolare dei magistrati, verso i quali gli elettori dell'Idv manifestano un grado di fiducia molto più elevato della media. D'altra parte, i leader dell'Idv sono due magistrati-simbolo. Il fondatore, Antonio Di Pietro, icona di Tangentopoli. E Luigi De Magistris, che ha superato perfino Di Pietro, per numero di preferenze. Emblema del contrasto con il potere politico in tempi recenti.
Leoluca Orlando, l'altra figura rappresentativa del partito, evoca la stagione del cambiamento (mancato) del Mezzogiorno negli anni Novanta. Oltre alla lotta antimafia.
2) La sfiducia nei partiti, nelle istituzioni. In altri termini: il sentimento antipolitico contro la "casta" che comanda il paese. Sottolineato dal larghissimo seguito riconosciuto a Beppe Grillo.
3) Per ultimo, la totale, incondizionata, irriducibile avversione verso il premier e leader del Pdl, Silvio Berlusconi.

L'Idv canalizza, dunque, l'insoddisfazione di molti e diversi settori. La frustrazione dei contesti del Centrosud che si sentono trascurati dallo Stato. Coloro che recriminano sulla rivoluzione mancata del 1992. Il popolo di Grillo e quanti contestano il ceto politico, i partiti, l'informazione. Componenti e gruppi della sinistra radicale. Ma anche una quota di esuli del Pd e dell'Italia post-democratica che li circonda.
L'Idv è come un autobus dei malesseri socio-politici e, al tempo stesso, un "cane da guardia" della democrazia, contro tutti quelli che la minacciano. Anzitutto, Silvio Berlusconi. Ma anche le forze di opposizione che non fanno opposizione: il Pd. E le istituzioni che dovrebbero vigilare ma non lo fanno. Presidente della Repubblica compreso. Più che il partito dei magistrati, un "partito-magistrato". Che ha riferimenti precisi: riviste (MicroMega), giornalisti e trasmissioni (Santoro, Travaglio e AnnoZero su tutti), comici e dissacratori (Grillo ma anche la Guzzanti).
Più che un'alternativa politica tende ad essere un'alternativa "alla" politica. Almeno: a "questa" politica.

Un network che si compone e scompone a seconda del momento e del contesto. Come si è visto in alcune importanti città dove si è votato una settimana fa per il Comune, la Provincia e l'Europa, contemporaneamente. A Bologna: l'Idv ha ottenuto circa il 9% alle europee, l'8% alle provinciali e solo il 4,4% alle municipali. A Firenze: l'8% alle europee, il 7% alle provinciali e meno del 3% alle comunali. In entrambi i casi l'Idv è nella coalizione a sostegno del candidato sindaco del Pd. In entrambe le città oltre metà degli elettori dell'Idv hanno preferito votare per altre liste di sinistra (oppure vicine a Grillo) piuttosto che per il candidato del Pd. Anzi: hanno votato contro di esso. Impedendone l'elezione al primo turno. L'Idv. Appare, quindi, efficace come soggetto e strumento di opposizione. Ma non di progetto, né di governo. E neppure di aggregazione. Il suo successo, invece, rende più evidenti i limiti del Pd. Franceschini ne ha evitato la scomparsa, ma non il declino sostanzioso. Ci riesce difficile vederlo come il leader in grado di dare speranza agli elettori del Pd, che non si rassegnano a una vita da antiberlusconiani. Ma vorrebbero diventare maggioranza di governo. Domani, non fra cinquant'anni. Tuttavia, gli sfidanti annunciati - Bersani, lo stesso D'Alema - hanno avuto, e in parte sprecato, molte altre occasioni, in altri tempi. Non le hanno sapute sfruttare allora. Perché dovrebbero riuscirci adesso? Da ciò il problema del centrosinistra, sottolineato da queste elezioni. Nelle quali si è affermato un soggetto nato per fare opposizione, l'Idv. Mentre il Pd è nato per unificare il centrosinistra e portarlo al governo. Ma oggi appare debole, nella testa e nei piedi. È ridotto al 26%: 7 milioni e 800mila voti. Alle europee del 1984, 25 anni fa, quando morì Enrico Berlinguer, il Pci - da solo - ottenne 11 milioni e 600 mila voti: il 33%. Divenne per la prima - e unica - volta primo partito in Italia, davanti alla Dc. Alle elezioni politiche del 1987 scese al 26,7%: 10 milioni e 250 mila voti. Decise, allora, prima della caduta del muro, di rompere con la propria tradizione e la propria organizzazione. Con il proprio passato. Per non restare all'opposizione in eterno. Il Pd attuale, molto più debole del Pci del 1987, non può evitare di porsi lo stesso quesito.

(15 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #110 inserito:: Giugno 24, 2009, 10:41:33 pm »

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Alla fine del bipartitismo l'astensione è nel Pdl

di ILVO DIAMANTI


La geografia politica italiana, dopo le elezioni amministrative di questo mese, si è riequilibrata. Cinque anni fa si era spostata a sinistra, in modo più accentuato che nel passato. Oggi il divario si è riassorbito. Le province. Erano 50 di centrosinistra e 9 di centrodestra.

Oggi il centrosinistra governa in 28 e il centrodestra in 34. Quanto ai Comuni capoluogo in cui si è votato, il centrosinistra ne amministrava 27 ed è sceso a 18, mentre, parallelamente, il centrodestra ha eletto 14 sindaci quando prima ne aveva solo 5. L'impianto urbano del centrosinistra, dunque, per quanto indebolito, resta solido. Tanto più se allarghiamo lo sguardo fino a comprendere le città medie (superiori a 15mila abitanti). Dove il centrosinistra ha eletto il candidato sindaco in 122 dei 220 al voto. Peraltro se si ragiona distintamente sui due turni, risulta evidente che le perdite le ha subite, perlopiù, al primo turno. Mentre ai ballottaggi ha riconquistato gran parte delle province e delle città rimaste in lizza.

Poi, contano i segnali. Dopo il primo turno il centrosinistra temeva di veder franare la terra sotto ai propri piedi. In altri termini: di perdere le regioni rosse. Non è avvenuto. Ha, inoltre, tenuto nel Mezzogiorno. Soprattutto nelle città. Mentre ha sofferto nel Nord. Il secondo turno ha fatto emergere anche un diverso grado di mobilitazione degli elettorati. La "ripresa" del centrosinistra al secondo turno coincide, infatti, con il "ritiro" di una parte degli elettori del centrodestra. Nelle capitali di regione è evidente. A Firenze e Bologna: il calo della partecipazione elettorale (oltre 14 punti percentuale in entrambi i casi) si è tradotto in un allargamento delle distanze a favore dei candidati del centrosinistra. Rispettivamente: Renzi (da 16 a 20 punti percentuali) e Delbono (da 20 a 21).

Più clamoroso il caso di Bari, dove la partecipazione fra i due turni è calata (anche qui) di circa 14 punti percentuali (pari a 40.000 votanti). Punendo il candidato del centrodestra, Di Cagno, che perso 25mila voti rispetto al primo turno. Il suo distacco da Vittorio Emiliano è, così, salito da 3 a 20 punti.

Un'evoluzione simile si osserva anche a Potenza e ad Ancona. Ma soprattutto nelle province metropolitane del Nord. A Milano, dove la partecipazione elettorale fra i due turni cala di 24 punti percentuali e di quasi 600mila voti, il distacco di Podestà nei confronti di Penati viene quasi annullato. Da 10 a 0,4 punti percentuali. Podestà ottiene 250 mila voti in meno (Penati 90 mila).

Infine a Torino, dove votano 500 mila elettori in meno del primo turno, il presidente uscente e candidato del centrosinistra, Saitta, perde circa 90 mila voti. Ma la sua avversaria, Porchietto, vede ridursi il risultato del primo turno di 166 mila voti e il distacco da Saitta dilatarsi: da tre a quasi 15 punti percentuali. Per cui se l'astensione cresce dovunque, al secondo turno, per ragioni diverse e in parte fisiologiche, tende però a colpire, in modo patologico, soprattutto i candidati del centrodestra. Che vincano o perdano, non importa.

Da questa rappresentazione geopolitica si ricavano alcune indicazioni, a nostro avviso, chiare.

1. Anzitutto, l'elettorato è meno stabile di quanto le mie stesse mappe lo rappresentino. Certo: il centrosinistra è ancorato al Centro e il centrodestra al Nord. Tuttavia, il Mezzogiorno era e resta fluido. Il Centro è meno stabile del passato. E nel Nord neppure Milano pare predestinata. Insomma: il paese è diviso. E il gioco elettorale, per molti versi, aperto.

2. Il risultato delle amministrative e, anzitutto, delle europee suggerisce la crescente difficoltà di far coincidere bipolarismo e bipartitismo. Il peso elettorale del Pd e del PdL, infatti, si è ridimensionato sensibilmente, a favore dell'Idv e della Lega. I cui elettori rappresentano quasi un quarto delle rispettive coalizioni. Inoltre, il risultato delle amministrative, in molti casi, è dipeso dalle coalizioni "locali" più che dal rendimento dei partiti maggiori. Il successo del centrodestra nel Nord deriva dall'intesa fra PdL e Lega. Cinque anni fa, invece, la CdL si era alleata prevalentemente con l'Udc, mentre la Lega aveva corso perlopiù da sola. L'Udc, d'altronde, si è alleata o apparentata con il centrosinistra in 6 province. Contribuendo al successo in 5 di queste.

3. Da ciò una conseguenza. In Italia non ci sono più partiti dominanti. Con questo sistema elettorale: non ci saranno mai più. E l'esito del referendum suggerisce che difficilmente riusciremo a cambiare modo di scrutinio con la spinta popolare.

Il Pd e il PdL sono, dunque, destinati a costituire i riferimenti principali dei poli. Ma non autosufficienti. Il Pd, con il 26% non può aspirare all'autosufficienza. Dovrà costruire alleanze intorno a programmi, progetti. Con l'Idv, l'Udc, una parte della sinistra. Lo stesso vale, però, per il centrodestra. Fin dall'origine: un network con un solo, unico frame, un solo unico gancio. Silvio Berlusconi e il suo partito personale. In pochi mesi, in poche settimane, quel gancio è divenuto molto più traballante. Quel puzzle molto più dada. Senza la Lega: non riesce a controllare il Nord. Ma neppure la Sicilia, senza Lombardo. E l'immagine del leader più che una risorsa è divenuta un limite.

4. Da ciò l'importanza crescente dei "partiti di mezzo". Per dimensione. Ormai centrali anche per importanza politica. La Lega, l'Idv e oggi l'Udc. Casini è riuscito a rafforzarla pur tenendola "fuori". Non era facile. Oggi dovrà decidere come e con chi giocare. Non sarà facile. Anche se riesce arduo immaginarlo alleato al centrodestra. Per motivi di ostilità personali fra leader. E per l'alternativa irriducibile - storica, geopolitica, culturale - con la Lega.

5. Infine, gli elettori. Usano, in modo e in misura crescente, il non voto come un voto. Di volta in volta, a seconda dell'elezione, del candidato, del momento. Occorre, dunque, dare loro buone ragioni: non solo "per chi" votare, ma anche "per" votare. D'altra parte l'astensione in questa occasione è cresciuta, infatti, in modo anomalo, rispetto al passato. Ha interessato gli "esuli" del Pd, alle europee; ma, soprattutto gli "elusi" del PdL. Gli elettori di centrodestra. In molti, hanno preferito fuggire. Nascondersi. Non solo per ragioni locali, immaginiamo.

Da ciò la conclusione obbligata, per quanto banale: il gioco è aperto. Il paese è politicamente contendibile. Dipende dalla qualità dei contendenti. Che, da oggi, non sono e non saranno solamente due.

(24 giugno 2009)
da repubblica.it
 
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« Risposta #111 inserito:: Giugno 30, 2009, 03:34:15 pm »

MAPPE

L'astensione senza opposizione


di ILVO DIAMANTI

- Concluso il turno elettorale di giugno, il Pd si è tuffato in una nuova sfida. Questa volta interna. Il congresso d'autunno per eleggere il segretario.

Per mettere fine alla "supplenza" di Franceschini (non necessariamente alla sua carriera di leader). Nulla da eccepire sulle scelte autonome del principale partito di opposizione. Salvo che questo sarebbe, anzitutto, il momento di fare, appunto, l'opposizione. Non solo all'interno, come avviene da anni, segnati da conflitti e agguati (fatto un segretario, altri leader appaiono pronti a rimpiazzarlo). Dovrebbe invece fare opposizione al governo, ma soprattutto al premier e al suo partito. Che per la prima volta, dopo il voto del 2008, appaiono in difficoltà.

A modo suo, lo ha ammesso anche Silvio Berlusconi, quando, accennando alle vicende che gli stanno creando disagio, ha concluso: "Agli italiani piaccio così". Aggiungendo: "Il 61% degli italiani ha fiducia in me". Senza ulteriori chiarimenti circa la titolarità e la responsabilità dei sondaggi, il campione, il quesito impiegato, ecc.... Il premier, d'altronde, non si è mai preoccupato delle regole e dei vincoli circa l'uso e le fonti dei dati che distribuisce con tanta generosità.

Nessun garante e nessuna authority, d'altronde, gliene hai mai chiesto conto, a quanto ci risulta. Tuttavia, il 61% significa, comunque, 15 punti in meno del grado di fiducia che Berlusconi si attribuiva un paio di mesi fa. Quando, peraltro, affermava che il Pdl avrebbe sfondato il muro del 40% dei voti. Anzi: si sarebbe avvicinato al 45%. Anche in questo caso: 10 punti più di quelli effettivamente ottenuti alle elezioni europee.

D'altra parte, al di là della misura effettiva (al Cavaliere piace molto apparire più alto di quel che è), dalla fine di aprile gli indici di fiducia nei suoi riguardi hanno cominciato effettivamente a scendere. Molto più di quelli nei confronti del governo. Al tempo stesso, hanno iniziato a flettere, nei sondaggi, anche le intenzioni di voto per il Pdl. Senza che, peraltro, ne beneficiasse l'opposizione. Salvo l'Idv di Antonio Di Pietro. Insieme alla Lega: opposizione "nella" maggioranza. Principale dato effettivamente in aumento: l'incertezza.

Come abbiamo rilevato in diverse occasioni, la quota di elettori indecisi (cfr. fra gli altri, i sondaggi di Ipsos) in poche settimane si è allargata: dal 20% a un terzo degli elettori. Spinta, soprattutto, da coloro che nel 2008 avevano votato per il Pdl. Senza che, nel frattempo, nulla fosse cambiato sostanzialmente: nell'economia, nei consumi, nella sicurezza. D'altronde, un solo argomento, da due mesi, occupa le prime pagine dei giornali (ma non dei telegiornali): Berlusconi e le donne (per dirla in modo generico e allusivo). Non si è parlato d'altro in campagna elettorale. E ciò ha indebolito non tanto l'immagine del governo, ma direttamente quella del premier.

Tuttavia, l'immagine personale del premier, assai più di quella del governo, coincide con l'identità della maggioranza. O meglio: del partito di maggioranza. Da ciò il fastidio e il disamore di molti elettori del Pdl che si è tradotto nel voto e, in particolare, nel non-voto. Incoraggiati - o scoraggiati - dallo specifico tipo di competizione, le europee. Usate, spesso, per lanciare messaggi ai partiti e soprattutto al governo. In questo caso: al premier. Da ciò l'astensione, che è cresciuta pesantemente rispetto all'anno scorso, ma anche rispetto alle precedenti europee del 2004. Ai danni soprattutto del Pdl. Come conferma l'analisi statistica dei flussi elettorali condotta dall'Istituto Cattaneo di Bologna (con il modello di Goodman) partendo dai risultati delle sezioni elettorali nelle principali città.

Tra coloro che avevano votato per il Pdl alle politiche del 2008, alle recenti europee si è astenuto: l'8,4% (sul totale degli elettori) a Torino, il 9% a Milano, circa il 7% a Brescia e a Verona. E ancora: intorno al 5-6% a Padova, Reggio Emilia e Firenze; ma l'11% a Napoli, il 14% a Roma e addirittura il 18% a Reggio Calabria e il 22% a Catania. L'astensione ha colpito di nuovo e in modo pesante il centrodestra anche ai ballottaggi delle amministrative. Soprattutto i candidati del Pdl: a Milano, Torino, Firenze, Bari, Padova. Il profilo di coloro che hanno abbandonato il Pdl in questa occasione (sondaggio LaPolis, Università di Urbino, 15-20 giugno, campione nazionale, 1400 casi) segnala che si tratta dell'elettorato "moderato", che nello spazio politico si posiziona intorno al "centro".

Dal punto di vista sociale, la figura "tipica" dell'astensionismo nel Pdl è costituita dalla casalinga che risiede nel Sud. L'astensione massiccia che ha investito il Pdl, tuttavia, non segnala solo il disagio della base elettorale di centrodestra verso il partito di riferimento e il suo leader. Sottolinea, al tempo stesso, la debolezza del principale partito di opposizione.
Il Pd, infatti, si dimostra incapace di sfruttare il disagio degli elettori moderati di centrodestra. Non solo, ma, a sua volta, ha perso voti un po' in tutte le direzioni. Dovunque. A Nord, nel Centro e nel Mezzogiorno.

Verso l'astensione (anche se in misura molto più ridotta del Pdl). Ma soprattutto: verso l'Idv e l'Udc. Poi: verso i partiti di sinistra. E ancora, nelle città "rosse": verso la Lega. In alcuni casi, per quanto in misura ridotta: anche verso il Pdl. Il Partito democratico non riesce ad attrarre a sé una parte almeno degli elettori delusi ed elusi dal Pdl perché è afasico, abulico e un poco anonimo. Gli mancano un volto e le parole. In tema di sicurezza, immigrazione, ma perfino sui costi della politica e sull'economia: gli elettori ritengono il centrodestra più credibile e attrezzato del centrosinistra (sondaggio LaPolis Università di Urbino, 15-20 giugno 2009).

Il Pd: fatica a tenere i piedi per terra. A tenere rapporti solidi con il territorio e con la società. Per cui non riesce a incalzare Berlusconi. A "sfruttarne" il disagio e gli imbarazzi. Come ai tempi della campagna elettorale del 2008. Quando Berlusconi era l'Innominato. Mai nominato per timore di fare antiberlusconismo. Con grande beneficio per l'Innominato.

In effetti, da allora il filo dell'opposizione è stato afferrato dall'Idv e perfino dalla Lega, alleata inquieta ma fedele di Berlusconi. Il problema del Pd, prima e oltre il congresso, è di "fare" opposizione. Non al proprio interno, riaprendo personalismi vecchi (magari in nome del "nuovo"). Ma a Berlusconi e al centrodestra. Dicendo tre-quattro parole chiare e condivise su altrettante questioni: lavoro, sicurezza, economia, Welfare. (Al momento non ne viene in mente nessuna). Senza inseguire la Lega e la Destra sul loro terreno (non c'è partita). E scegliendo un leader capace di sfidare e contrastare apertamente Berlusconi. Senza timore di fare dell'antiberlusconismo. Un modello di valori pubblici e privati e, al tempo stesso, uno stile di vita. A cui Berlusconi dà volto, voce e biografia. Occorre qualcuno in grado di fare altrettanto. In modo evidentemente - ed efficacemente - alternativo. Perché il paese, questo paese, è politicamente contendibile. Lo si è visto in questo turno elettorale. Ma ci vuole qualcuno che lo contenda veramente. Un contendente. Noi soffriamo da sempre di miopia (politica e non solo), ma per ora non ne vediamo.

(28 giugno 2009)

da repubblica.it
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« Risposta #112 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:41:54 pm »

Rubriche » Bussole     

Ilvo Diamanti

Se questo è un partito
 

Due considerazioni a margine del congresso del Partito Democratico prima che avvii il suo percorso.

La prima riguarda le regole, le procedure. Non sono soltanto complicate. Ma incomprensibilmente affastellate. Ammucchiano idee, tradizioni e visioni contrastanti e incoerenti. Riassumendo in breve (in base a quel che, personalmente, abbiamo compreso; non necessariamente in modo corretto). In prima battuta votano coloro che risulteranno iscritti al PD alla data del 21 luglio. A livello di circolo e di provincia, eleggeranno i delegati alla Convenzione nazionale (altro neologismo costruito per affinità alle Convention dei partiti americani, dove però si scelgono i candidati alle presidenziali). Una mega-assemblea di oltre 1000 persone che, l'11 ottobre esprimerà l'Assemblea Nazionale. Un organo più o meno della stessa misura, e quindi, possiamo immaginare, largamente coincidente con la Convenzione. La quale, inoltre, designerà i tre candidati segretari più votati. Se non dovessero esserci novità, dunque, tutti quelli che si sono fatti avanti finora. Franceschini, Bersani e Marino. I quali verranno sottoposti, a quel punto, al voto di una base diversa: le primarie. Che si dovrebbero svolgere il 25 ottobre.

Alle primarie, però, voteranno non gli iscritti ma tutti coloro che si definiranno elettori (possibili) del PD. A questo punto, il candidato che otterrà più voti, o meglio più "delegati alle liste ad esso collegate", verrà confermato anche dall'Assemblea. A condizione che abbia ottenuto la maggioranza "assoluta" dei voti e quindi dei delegati. Altrimenti sarà l'Assemblea stessa a scegliere, mediante un ballottaggio fra i due candidati più votati.

In questo caso, non mi interessa entrare nel merito del tracciato contorto disegnato dal PD per individuare il suo segretario. Piuttosto, mi sorprende, a dir poco, il mostro che disegna. Un collage - un po' sgangherato - che pretende di assemblare modelli di partito e principi di legittimità diversi. Eterogenei. Contrastanti.
I congressi di sezione e di provincia, aperti agli iscritti. Richiamano il tradizionale partito di membership. Fondato, cioè, sull'appartenenza, sull'identità, sugli apparati. In qualche misura: i tradizionali partiti di massa o comunque di integrazione sociale. Comunità politiche e non solo.

La Convenzione e le successive primarie allargate agli elettori (possibili) evocano, invece, apertamente, il modello americano. Anche se in modo rovesciato. Visto che negli Usa la "convention" avviene a conclusione delle primarie. E viceversa.

Il ritorno all'Assemblea (subentrata alla Convenzione) nel caso che nessuno ottenga la maggioranza assoluta dei voti (e dei delegati) restituisce, infine, il ruolo decisivo agli iscritti. O meglio: ai gruppi dirigenti da loro espressi. E dunque: al partito d'apparato. Dove i gruppi dirigenti prevalgono sugli iscritti oltre che sulla società. Tanto che possono mettersi d'accordo fino a rovesciare, se necessario, anche il responso degli elettori. (Come avverrebbe se i due candidati meno votati alle primarie facessero convergere i voti su uno di loro). Una collezione di pezzi incoerenti che non possono produrre un collage. (Una specie di Frankenstein, verrebbe da dire, se il paragone non fosse estremo). Perché provengono da tradizioni politiche, storiche, culturali reciprocamente estranee e alternative.

La seconda considerazione si riferisce direttamente ai candidati leader. Anche qui, non m'interessa entrare nel merito (qui, almeno). Ma è difficile immaginare un partito dove si confrontano prospettive così diverse. Prendiamo i due candidati più accreditati (sulla carta): Franceschini e Bersani. Il primo ha in mente un modello di partito "esclusivo", post-veltroniano. In grado di attrarre gli elettori dentro i suoi confini. In una prospettiva bipartitica. L'altro ha in mente l'Unione. Alleanza tra partiti profondamente distinti. Una prospettiva non tanto post-prodiana. Perché Prodi, e Parisi, vedevano, comunque, nell'Unione un passaggio verso l'Ulivo. (Una DC di centrosinistra). Parte di un orizzonte maggioritario. Invece, si tratta della riproposizione dell'idea dalemiana ( e cossighiana) del centro-sinistra. Intesa tra forze diverse, distinte, che mantengono ciascuna la propria specificità.

Chiunque fra i candidati prevalga, definirà non un'alternativa rispetto al progetto dell'avversario. Ma un altro partito.

Poi, c'è l'intorno. Le tensioni e le polemiche fra i leader del PD. Più o meno i soliti. D'Alema, Veltroni, Marini, Rutelli, Parisi, Fassino. Quelli che stanno dentro al partito - parlamentari e dirigenti centrali e locali - parlano di tensioni violente. Di pressioni molto forti. Che riguardano, però, non i valori, i progetti, le idee, le parole della politica. La costruzione di un Alfabeto Democratico. Ma, appunto, i modelli organizzativi, le alleanze, le aggregazioni centrali e locali.

Da ciò il dubbio, il "mio" dubbio: se sia possibile costruire, in questo modo, un partito. Oppure se, dopo 15 anni di percorso unitario, dopo due anni appena dall'avvio del Partito Democratico, non ci si troverà di nuovo di fronte a un soggetto politico incoerente, disorganico, senza identità. Senza appigli comuni. E senza leader in grado di riassumerlo. Perché chiunque vinca ci sarà subito qualcuno - molti - al lavoro per sostituirlo e prima delegittimarlo, sputtanarlo, indebolirlo. D'altra parte, nessun congresso può costruire una leadership se non c'è la volontà e la disponibilità dei diversi leader ad accettarla. Oppure, se nessun leader è in grado di imporsi agli altri. Per autorevolezza, carisma, diplomazia, ricchezza, potere personale, sostegno lobbistico, retorica, immagine. Gli altri partiti, dal PdL alla Lega all'Italia dei Valori, non hanno avuto bisogno di congressi per creare un leader. Semmai, è vero il contrario.

Il PD, però, nasce da una tradizione democratica e partecipativa. E la sua leadership è destinata a nascere allo stesso modo (anche se fino ad oggi si è sempre seguito un percorso plebiscitario). Ma la democrazia e la partecipazione da sole non sono in grado di creare un leader e neppure un partito. Perché la democrazia è competizione: aperta, libera e partecipata. Fra leader e partiti. Il male del PD è che, per ora, non è un partito e non ha un leader. Ma questo congresso, per come si annuncia, più che una terapia sembra una diagnosi.

Il PD ha davanti a sé tre mesi e mezzo per rimediare. Dopo, riteniamo, sarà troppo tardi. Anche per tornare indietro.

(10 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #113 inserito:: Luglio 13, 2009, 11:21:07 pm »

LA LETTERA

Uno Statuto che garantisce il Pd

O forse è meglio il congresso Pdl?


di SALVATORE VASSALLO*
 

Ho letto con il consueto interesse la stroncatura di Ilvo Diamanti al partito democratico e alle sue regole interne. Sono d'accordo con l'argomento di fondo. Nel Pd non è mai veramente maturata una convinzione univoca sul modello di partito da adottare, tanto che dopo qualche (documentabile) ipocrisia, chi era contrario al "modello delle primarie" torna a dirlo apertamente. Non sono invece d'accordo sulla conclusione tranciante che Diamanti trae in merito allo specifico contenuto dello Statuto attualmente in vigore. Credo che, in questo, si accodi ad una vulgata fuorviante.

Chi non sopporta le primarie dice che il processo congressuale disegnato dallo statuto è interminabile, che lo Statuto del PD è complicato, macchinoso, da cambiare se non da cancellare. Non che non siano necessari aggiustamenti. Ma tanti, proprio tanti, lo dicono senza averlo nemmeno letto, lo Statuto, e per un'unica ragione. A controprova, mi capita spesso di fare da un paio di mesi questo esperimento, con dirigenti nazionali o locali di partito. Chiedo innanzitutto se i congressi dei Ds o della Margherita prendevano meno tempo dei due mesi e mezzo (al netto di agosto) che impiegheremo a iniziare e chiudere la procedura congressuale 2009. Non ho mai ricevuto, come è ovvio, una risposta diversa. I congressi dei vecchi partiti duravano di più.

Procedendo nel test, chiedo allora di indicare tre degli aspetti che secondo loro vanno cambiati, per rendere il processo più semplice. Fino ad oggi non sono riuscito a ottenere nessuna risposta precisa. In un terzo dei casi mi vengono indicate come modifiche assolutamente necessarie cose che nello statuto sono già esattamente come si dice dovrebbero essere. In un altro terzo ottengo risposte generiche. In un altro terzo si ricade nella vera questione: se a determinare la scelta del segretario e gli equilibri interni deve essere il voto dei soli iscritti (purtroppo sempre di meno, sempre più anziani, sempre più coincidenti con chi fa o vuole fare politica) o anche di tutte le persone che dichiarano d'essere elettori del PD e sono disposte a versare un contributo minimo; se sia giusto che il gruppo dirigente del Pd si faccia giudicare dall'intera platea dei suoi elettori oppure se i cittadini che votano alle primarie siano degli "invasori".
 
Proprio così, invasori, li ha chiamati D'Alema alla festa del PD a Roma: "le primarie per l'elezione del segretario sono una regola assurda, figlia di una concezione che ha portato la società civile a invadere, occupare il partito" (ANSA, Roma 5 luglio). Bersani aveva già espresso un'opinione simile e ora a catena i dirigenti territoriali che lo sostengono hanno perso ogni residua reticenza.

La contrarietà verso le primarie di D'Alema e della dorsale organizzativa pro-Bersani non mi stupisce. Registro purtroppo che anche nella Bussola di Diamanti acquista ingiustamente credito (a mio avviso) all'idea che il meccanismo congressuale sia contorto o insensato, che sia frutto di una costruzione contraddittoria e sgangerata. Cerco di dire perché secondo me non è vero.

In base allo statuto le (cosiddette) primarie, che si terranno il 25 ottobre 2009 per eleggere gli organismi nazionali e regionali, saranno precedute da una consultazione tra i soli iscritti. Nel mese di settembre i circoli si riuniranno per discutere le candidature a segretario e le connesse mozioni. Votando per una o l'altra mozione, gli iscritti nomineranno anche i loro delegati alla Convenzione nazionale che si terrà l'11 ottobre e i delegati per le Convenzioni regionali che si terranno qualche giorno prima.

Questa prima fase ha tre funzioni: a) verificare che le potenziali candidature a segretario (nazionale e regionali) siano dotate di un minimo consenso tra gli iscritti, scremando le candidature credibili da quelle fittizie o inadeguate; b) consentire ai candidati a segretario e ai sostenitori delle diverse mozioni di presentare le loro proposte e confrontarle di fronte a una platea qualificata di delegati (la "convention" nazionale dell'11 ottobre e quelle regionali); c) dare modo ai sostenitori delle diverse mozioni di coordinarsi e formare le liste per le assemblee nazionale e regionali in maniera meno verticistica di quanto accadde, per forza di cose, in assenza di una base organizzativa comune, nel 2007.

Alla elezione vera e propria, quella che si svolge il 25 ottobre, saranno ammessi tutti i candidati che hanno ottenuto almeno il 15% dei voti tra gli iscritti e comunque i primi tre, purché abbiano ottenuto almeno il 5% nella consultazione preliminare interna. Esattamente come nel 2007, il 25 ottobre, su una prima scheda si vota per liste di candidati all'Assemblea nazionale collegate alle candidature a segretario nazionale.

Su una scheda distinta, si vota per le liste di candidati all'Assemblea regionale collegate alle candidature a segretario regionale.

È davvero così complicato? Non mi pare. Anche se, certo, è stato più semplice lo svolgimento del congresso fondativo del PdL! C'è tutttavia un aspetto che può legittimamente generare qualche dubbio, che Diamanti rimarca nella sua Bussola. Siccome potranno accedere alle "primarie" più di due candidati alla segreteria, è possibile che nessuno di loro ottenga la maggioranza asssoluta dei delegati nell'Assemblea (il discorso vale ovviamente sia per il livello regionale che per quello nazionale). In teoria, potrebbe succedere che tre candidati ottengano ciascuno circa un terzo dei seggi. Che si fa a quel punto? Non sarebbe meglio allora limitare l'accesso all'elezione finale solo ai primi due più votati dagli iscritti?

Sono dubbi che ci si è posti in fase di redazione dello Statuto. Limitando l'accesso alle "primarie" solo ai due più votati tra gli iscritti sarebbe stato escluso dalla competizione qualsiasi outsider, comprese personalità molto popolari. In ogni caso, in fase di elaborazione dello statuto i "bindiani" posero come condizione per loro irrinunciabile che fosse lasciata una chance di partecipare anche ad una terza candidatura di nicchia.

Avendo accolto questa richiesta, c'erano tre alternative per chiudere il cerchio, ciascuna con un suo difetto. Una prima, apparentemente semplice, sarebbe stata quella di considerare in ogni caso eletto il candidato più votato, con il rischio di avere un segretario sostenuto da poco più di un terzo dell'Assemblea o addirittura portatore di una linea invisa ad una larga maggioranza del "parlamento" del PD. Una seconda alternativa poteva consistere nel chiamare di nuovo a votare tutti i simpatizzanti per un secondo turno di ballottaggio, ma era troppo costosa organizzativamente. Si è previsto quindi che, in caso non emerga un chiaro vincitore, ci sia un ballottaggio tra i primi due in Assemblea. Naturalmente l'Assemblea chiamata eventualmente a scegliere tra i primi due non è la "convention" eletta dagli iscritti, ma quella eletta dai simpatizzanti il 25 ottobre, in collegamento con i candidati a segretario e alle relative mozioni.

Anche in caso di ballottaggio, quindi, il voto del 25 ottobre non verrà vanificato, soprattutto se i rappresentanti eletti in collegamento con il candidato arrivato terzo voteranno per quello tra i primi due con la "piattaforma" più simile alla loro.

Considerando la professione accademica che condivido con Diamanti, mi permetto una chiosa finale. Anche nell'eventuale passaggio tra l'elezione del 25 ottobre e l'eventuale ballottaggio in Assemblea, per le ragioni che ho esposto, non ci sono in realtà contraddizioni tra diversi principi rappresentativi così stridenti come a prima vista potrebbe sembrare.

Ad esempio in Bolivia si usa un metodo simile per l'elezione del Presidente: in assenza di un chiaro vincitore tra gli elettori (esito possibile perché al contrario che negli Usa lì non c'è un sistema bipartitico) è il "congresso" a scegliere tra i primi tre candidati più votati. Aggiungo che ci sarebbe stata una contraddizione più stridente tra principi rappresentativi se, come ad un certo punto è parso possibile nelle primarie democratiche americane, per scegliere tra Obama e la Clinton fossero risultati decisivi i superdelegati di diritto alla convention di Denver NON eletti attraverso le primarie.

Ciò detto, concordo pienamente, ripeto, sull'argomento di fondo. Nel Pd ci sono idee diverse in merito al modello di partito. Io confido che nel corso della fase congressuale si parli soprattutto di altri argomenti che interessano di più gli italiani, ma credo che il nodo debba essere sciolto. Del resto i principali candidati hanno già preso una posizione abbastanza chiara e distinta sul punto. La pratica ci dirà poi ancora meglio cosa può essere migliorato. Per quello che mi riguarda, spero che nel frattempo non vinca chi vuole tornare al partito introverso ... liberandosi degli "invasori".

* L'autore dell'articolo è deputato del Pd, presidente della commissione per lo Statuto e professore di Scienza Politica e Politica Comparata all'Università di Bologna.

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Salvatore Vassallo difende le procedure adottate dal PD per eleggere il segretario e gli organismi nazionali (e locali). Lo fa con passione e con argomenti tecnici ragionevoli. La sua tesi di fondo è che i diversi passaggi del percorso congressuale si tengano e possano, anzi, rispondere alla pluralità di componenti che si riferiscono al PD. Io, per quanto mi riguarda, resto dell'idea espressa nella Bussola pubblicata venerdì scorso. In modo forse aspro, ma non livoroso.

Nelle Bussole, destinate all'edizione on line, uso un linguaggio più diretto. Servono a discutere e far discutere, più che a definire e a spiegare. Però ribadisco: il tracciato congressuale mi pare la somma di modelli di partito difficilmente conciliabili.

Il risultato di compromessi - come riconosce lo stesso Vassallo - fra idee diverse e contrastanti di quel che il PD dovrebbe essere e diventare. Il partito di massa, neo-socialdemocratico, a cui ha sempre guardato D'Alema. Il modello americano, evocato da Veltroni. In mezzo, l'Ulivo di Prodi: anch'esso "americano", maggioritario e personalizzato. Ma "inclusivo", largo come la Dc di un tempo e l'Unione di ieri. Inoltre: non "esclusivo" come quello immaginato da Veltroni. L'insieme di questi modelli a me pare, francamente, inconciliabile. Come il confronto fra i due principali candidati, che hanno in mente modelli di partito e di strategie agli antipodi.

Tuttavia, la critica espressa nella mia Bussola di qualche giorno fa non è metodologica, ma politica. Riguarda il modo in cui pare svolgersi il confronto tra i leader. Nella scelta del segretario. Di nuovo: ho l'impressione di un conflitto senza contenuti. Centrato sulle persone. Non solo quelle scese in campo, ma ancor più fra gli altri leader, che stanno dietro. Poche idee, poche parole. Il nuovo-in-sé, la "questione morale" (evocata in riferimento a un presunto "stupratore democratico". Roba da matti).

Vorrei, insieme a molti altri, sentir parlare d'altro. Anzitutto: di come fare opposizione a una maggioranza di destra che ha un'identità chiara, centrata su valori e messaggi chiari. E non condivisi da molti cittadini (me compreso). Come affrontare il tema della sicurezza senza fare il verso alla Lega? (Sempre meglio l'originale). Come affrontare il tema della crisi economica senza fingere che non esista e senza usarla come uno spot? Come costruire un partito che non solo permetta, ma favorisca la selezione e il ricambio dei leader? Per gli altri, in effetti, il problema non esiste, perché sono talmente personalizzati da essere personali. Creati e riprodotti da una persona. Gruppi dirigenti compresi. Per il PD non è così. Per fortuna. Ma a condizione che riesca a porvi rimedio.

Questo congresso, per le ragioni che ho indicato, mi lascia molto dubbioso (e qui uso un linguaggio fin troppo prudente). Però - e sono convinto di quanto affermo - non ce ne sarà un altro se non produrrà almeno alcuni dei risultati che ho suggerito. In particolare: un leader legittimato e autorevole, gruppi dirigenti e militanti locali rappresentativi e ascoltati. Idee. Un linguaggio democratico. Non ce ne saranno altri di congressi di un partito che in 3 anni ha cambiato 3 leader, due nomi, tre quattro modalità di organizzazione ed elezione della leadership. E ha perso un bel po' di elezioni e di elettori. Questo mi interessava sottolineare. E ribadire oggi. Non per rispondere a Vassallo (io non sono un leader democratico). Ma perché anch'io, come lui, sono interessato a che in questo paese e in questa democrazia opaca si formi un'opposizione vera. Per ora non c'è.

Ilvo Diamanti

(13 luglio 2009)
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« Risposta #114 inserito:: Luglio 14, 2009, 11:42:53 pm »

LA LETTERA

Uno Statuto che garantisce il Pd

O forse è meglio il congresso Pdl?


di SALVATORE VASSALLO*
 

Ho letto con il consueto interesse la stroncatura di Ilvo Diamanti al partito democratico e alle sue regole interne. Sono d'accordo con l'argomento di fondo. Nel Pd non è mai veramente maturata una convinzione univoca sul modello di partito da adottare, tanto che dopo qualche (documentabile) ipocrisia, chi era contrario al "modello delle primarie" torna a dirlo apertamente. Non sono invece d'accordo sulla conclusione tranciante che Diamanti trae in merito allo specifico contenuto dello Statuto attualmente in vigore. Credo che, in questo, si accodi ad una vulgata fuorviante.

Chi non sopporta le primarie dice che il processo congressuale disegnato dallo statuto è interminabile, che lo Statuto del PD è complicato, macchinoso, da cambiare se non da cancellare. Non che non siano necessari aggiustamenti. Ma tanti, proprio tanti, lo dicono senza averlo nemmeno letto, lo Statuto, e per un'unica ragione. A controprova, mi capita spesso di fare da un paio di mesi questo esperimento, con dirigenti nazionali o locali di partito. Chiedo innanzitutto se i congressi dei Ds o della Margherita prendevano meno tempo dei due mesi e mezzo (al netto di agosto) che impiegheremo a iniziare e chiudere la procedura congressuale 2009. Non ho mai ricevuto, come è ovvio, una risposta diversa. I congressi dei vecchi partiti duravano di più.

Procedendo nel test, chiedo allora di indicare tre degli aspetti che secondo loro vanno cambiati, per rendere il processo più semplice. Fino ad oggi non sono riuscito a ottenere nessuna risposta precisa. In un terzo dei casi mi vengono indicate come modifiche assolutamente necessarie cose che nello statuto sono già esattamente come si dice dovrebbero essere. In un altro terzo ottengo risposte generiche. In un altro terzo si ricade nella vera questione: se a determinare la scelta del segretario e gli equilibri interni deve essere il voto dei soli iscritti (purtroppo sempre di meno, sempre più anziani, sempre più coincidenti con chi fa o vuole fare politica) o anche di tutte le persone che dichiarano d'essere elettori del PD e sono disposte a versare un contributo minimo; se sia giusto che il gruppo dirigente del Pd si faccia giudicare dall'intera platea dei suoi elettori oppure se i cittadini che votano alle primarie siano degli "invasori".
 
Proprio così, invasori, li ha chiamati D'Alema alla festa del PD a Roma: "le primarie per l'elezione del segretario sono una regola assurda, figlia di una concezione che ha portato la società civile a invadere, occupare il partito" (ANSA, Roma 5 luglio). Bersani aveva già espresso un'opinione simile e ora a catena i dirigenti territoriali che lo sostengono hanno perso ogni residua reticenza.

La contrarietà verso le primarie di D'Alema e della dorsale organizzativa pro-Bersani non mi stupisce. Registro purtroppo che anche nella Bussola di Diamanti acquista ingiustamente credito (a mio avviso) all'idea che il meccanismo congressuale sia contorto o insensato, che sia frutto di una costruzione contraddittoria e sgangerata. Cerco di dire perché secondo me non è vero.

In base allo statuto le (cosiddette) primarie, che si terranno il 25 ottobre 2009 per eleggere gli organismi nazionali e regionali, saranno precedute da una consultazione tra i soli iscritti. Nel mese di settembre i circoli si riuniranno per discutere le candidature a segretario e le connesse mozioni. Votando per una o l'altra mozione, gli iscritti nomineranno anche i loro delegati alla Convenzione nazionale che si terrà l'11 ottobre e i delegati per le Convenzioni regionali che si terranno qualche giorno prima.

Questa prima fase ha tre funzioni: a) verificare che le potenziali candidature a segretario (nazionale e regionali) siano dotate di un minimo consenso tra gli iscritti, scremando le candidature credibili da quelle fittizie o inadeguate; b) consentire ai candidati a segretario e ai sostenitori delle diverse mozioni di presentare le loro proposte e confrontarle di fronte a una platea qualificata di delegati (la "convention" nazionale dell'11 ottobre e quelle regionali); c) dare modo ai sostenitori delle diverse mozioni di coordinarsi e formare le liste per le assemblee nazionale e regionali in maniera meno verticistica di quanto accadde, per forza di cose, in assenza di una base organizzativa comune, nel 2007.

Alla elezione vera e propria, quella che si svolge il 25 ottobre, saranno ammessi tutti i candidati che hanno ottenuto almeno il 15% dei voti tra gli iscritti e comunque i primi tre, purché abbiano ottenuto almeno il 5% nella consultazione preliminare interna. Esattamente come nel 2007, il 25 ottobre, su una prima scheda si vota per liste di candidati all'Assemblea nazionale collegate alle candidature a segretario nazionale.

Su una scheda distinta, si vota per le liste di candidati all'Assemblea regionale collegate alle candidature a segretario regionale.

È davvero così complicato? Non mi pare. Anche se, certo, è stato più semplice lo svolgimento del congresso fondativo del PdL! C'è tutttavia un aspetto che può legittimamente generare qualche dubbio, che Diamanti rimarca nella sua Bussola. Siccome potranno accedere alle "primarie" più di due candidati alla segreteria, è possibile che nessuno di loro ottenga la maggioranza asssoluta dei delegati nell'Assemblea (il discorso vale ovviamente sia per il livello regionale che per quello nazionale). In teoria, potrebbe succedere che tre candidati ottengano ciascuno circa un terzo dei seggi. Che si fa a quel punto? Non sarebbe meglio allora limitare l'accesso all'elezione finale solo ai primi due più votati dagli iscritti?

Sono dubbi che ci si è posti in fase di redazione dello Statuto. Limitando l'accesso alle "primarie" solo ai due più votati tra gli iscritti sarebbe stato escluso dalla competizione qualsiasi outsider, comprese personalità molto popolari. In ogni caso, in fase di elaborazione dello statuto i "bindiani" posero come condizione per loro irrinunciabile che fosse lasciata una chance di partecipare anche ad una terza candidatura di nicchia.

Avendo accolto questa richiesta, c'erano tre alternative per chiudere il cerchio, ciascuna con un suo difetto. Una prima, apparentemente semplice, sarebbe stata quella di considerare in ogni caso eletto il candidato più votato, con il rischio di avere un segretario sostenuto da poco più di un terzo dell'Assemblea o addirittura portatore di una linea invisa ad una larga maggioranza del "parlamento" del PD. Una seconda alternativa poteva consistere nel chiamare di nuovo a votare tutti i simpatizzanti per un secondo turno di ballottaggio, ma era troppo costosa organizzativamente. Si è previsto quindi che, in caso non emerga un chiaro vincitore, ci sia un ballottaggio tra i primi due in Assemblea. Naturalmente l'Assemblea chiamata eventualmente a scegliere tra i primi due non è la "convention" eletta dagli iscritti, ma quella eletta dai simpatizzanti il 25 ottobre, in collegamento con i candidati a segretario e alle relative mozioni.

Anche in caso di ballottaggio, quindi, il voto del 25 ottobre non verrà vanificato, soprattutto se i rappresentanti eletti in collegamento con il candidato arrivato terzo voteranno per quello tra i primi due con la "piattaforma" più simile alla loro.

Considerando la professione accademica che condivido con Diamanti, mi permetto una chiosa finale. Anche nell'eventuale passaggio tra l'elezione del 25 ottobre e l'eventuale ballottaggio in Assemblea, per le ragioni che ho esposto, non ci sono in realtà contraddizioni tra diversi principi rappresentativi così stridenti come a prima vista potrebbe sembrare.

Ad esempio in Bolivia si usa un metodo simile per l'elezione del Presidente: in assenza di un chiaro vincitore tra gli elettori (esito possibile perché al contrario che negli Usa lì non c'è un sistema bipartitico) è il "congresso" a scegliere tra i primi tre candidati più votati. Aggiungo che ci sarebbe stata una contraddizione più stridente tra principi rappresentativi se, come ad un certo punto è parso possibile nelle primarie democratiche americane, per scegliere tra Obama e la Clinton fossero risultati decisivi i superdelegati di diritto alla convention di Denver NON eletti attraverso le primarie.

Ciò detto, concordo pienamente, ripeto, sull'argomento di fondo. Nel Pd ci sono idee diverse in merito al modello di partito. Io confido che nel corso della fase congressuale si parli soprattutto di altri argomenti che interessano di più gli italiani, ma credo che il nodo debba essere sciolto. Del resto i principali candidati hanno già preso una posizione abbastanza chiara e distinta sul punto. La pratica ci dirà poi ancora meglio cosa può essere migliorato. Per quello che mi riguarda, spero che nel frattempo non vinca chi vuole tornare al partito introverso ... liberandosi degli "invasori".

* L'autore dell'articolo è deputato del Pd, presidente della commissione per lo Statuto e professore di Scienza Politica e Politica Comparata all'Università di Bologna.

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Salvatore Vassallo difende le procedure adottate dal PD per eleggere il segretario e gli organismi nazionali (e locali). Lo fa con passione e con argomenti tecnici ragionevoli. La sua tesi di fondo è che i diversi passaggi del percorso congressuale si tengano e possano, anzi, rispondere alla pluralità di componenti che si riferiscono al PD. Io, per quanto mi riguarda, resto dell'idea espressa nella Bussola pubblicata venerdì scorso. In modo forse aspro, ma non livoroso.

Nelle Bussole, destinate all'edizione on line, uso un linguaggio più diretto. Servono a discutere e far discutere, più che a definire e a spiegare. Però ribadisco: il tracciato congressuale mi pare la somma di modelli di partito difficilmente conciliabili.

Il risultato di compromessi - come riconosce lo stesso Vassallo - fra idee diverse e contrastanti di quel che il PD dovrebbe essere e diventare. Il partito di massa, neo-socialdemocratico, a cui ha sempre guardato D'Alema. Il modello americano, evocato da Veltroni. In mezzo, l'Ulivo di Prodi: anch'esso "americano", maggioritario e personalizzato. Ma "inclusivo", largo come la Dc di un tempo e l'Unione di ieri. Inoltre: non "esclusivo" come quello immaginato da Veltroni. L'insieme di questi modelli a me pare, francamente, inconciliabile. Come il confronto fra i due principali candidati, che hanno in mente modelli di partito e di strategie agli antipodi.

Tuttavia, la critica espressa nella mia Bussola di qualche giorno fa non è metodologica, ma politica. Riguarda il modo in cui pare svolgersi il confronto tra i leader. Nella scelta del segretario. Di nuovo: ho l'impressione di un conflitto senza contenuti. Centrato sulle persone. Non solo quelle scese in campo, ma ancor più fra gli altri leader, che stanno dietro. Poche idee, poche parole. Il nuovo-in-sé, la "questione morale" (evocata in riferimento a un presunto "stupratore democratico". Roba da matti).

Vorrei, insieme a molti altri, sentir parlare d'altro. Anzitutto: di come fare opposizione a una maggioranza di destra che ha un'identità chiara, centrata su valori e messaggi chiari. E non condivisi da molti cittadini (me compreso). Come affrontare il tema della sicurezza senza fare il verso alla Lega? (Sempre meglio l'originale). Come affrontare il tema della crisi economica senza fingere che non esista e senza usarla come uno spot? Come costruire un partito che non solo permetta, ma favorisca la selezione e il ricambio dei leader? Per gli altri, in effetti, il problema non esiste, perché sono talmente personalizzati da essere personali. Creati e riprodotti da una persona. Gruppi dirigenti compresi. Per il PD non è così. Per fortuna. Ma a condizione che riesca a porvi rimedio.

Questo congresso, per le ragioni che ho indicato, mi lascia molto dubbioso (e qui uso un linguaggio fin troppo prudente). Però - e sono convinto di quanto affermo - non ce ne sarà un altro se non produrrà almeno alcuni dei risultati che ho suggerito. In particolare: un leader legittimato e autorevole, gruppi dirigenti e militanti locali rappresentativi e ascoltati. Idee. Un linguaggio democratico. Non ce ne saranno altri di congressi di un partito che in 3 anni ha cambiato 3 leader, due nomi, tre quattro modalità di organizzazione ed elezione della leadership. E ha perso un bel po' di elezioni e di elettori. Questo mi interessava sottolineare. E ribadire oggi. Non per rispondere a Vassallo (io non sono un leader democratico). Ma perché anch'io, come lui, sono interessato a che in questo paese e in questa democrazia opaca si formi un'opposizione vera. Per ora non c'è.

Ilvo Diamanti


(13 luglio 2009)
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« Risposta #115 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:39:40 am »

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"Stressati e felici", gli italiani e la crisi


di ILVO DIAMANTI

È da oltre 10 mesi che la crisi è stata "ufficialmente" dichiarata. A livello globale, ma anche da noi. E fa sentire i suoi effetti. Nei comportamenti privati, nelle aspettative sociali. Ma anzitutto nella condizione sociale e di vita degli italiani. L'indagine condotta da Demos-Coop nelle settimane scorse ne offre numerosi segni. È cresciuta notevolmente la quota di persone che ha familiari disoccupati oppure in cassa integrazione. Si è allargata anche la componente di famiglie che lamentano la perdita di valore del proprio risparmio. Oppure il ricorso al sostegno finanziario di parenti e amici. Necessario per tirare avanti. Anche le previsioni sui tempi della crisi non sono rassicuranti. Quasi il 60% degli italiani (intervistati) ritiene che durerà ancora a lungo. Almeno un anno. Eppure, nonostante la crisi, il clima d'opinione non sembra essersi deteriorato.

L'atteggiamento sociale verso il futuro, al contrario, negli ultimi mesi appare migliorato. Comunque: meno negativo. Verso le prospettive dell'economia nazionale, familiare. Personale. Anche il calo dei consumi denunciato dagli italiani, nei mesi scorsi, sembra essersi arrestato. Come si spiega questo contrasto apparente fra le condizioni e le percezioni? Perché la crisi, contrariamente alla paura del premier, non fa paura? Non ci soffermiamo, in questa sede, sulle ragioni sociali, legate allo specifico "modello italiano".

I cui limiti, spesso deprecati, in fasi critiche come questa, si traducono in risorse. Il ruolo eccedente delle famiglie e delle reti comunitarie, la sovrabbondanza di piccole e piccolissime imprese, il peso del risparmio privato. Agiscono da ammortizzatori sociali. Sistemi di protezione, che assorbono, frammentano e rendono meno pesante l'impatto della recessione. Economica e finanziaria. Tuttavia, vi sono altre ragioni, altri meccanismi che contribuiscono a limitare il peso della crisi. Il primo, più importante, è la capacità di adattamento. La fatidica - per alcuni famigerata - "arte di arrangiarsi", di cui gli italiani stessi si dicono orgogliosi - e si dichiarano maestri. Si trasferisce anche negli atteggiamenti verso gli altri. Verso il mondo. Verso se stessi. D'altronde, per anni la crisi è stata agitata ora come una minaccia, ora come una catastrofe imminente. Così, quando è arrivata, molti si sono chiesti: e allora? C'eravamo già abituati. E poi la convinzione che "ce la faremo", come ce l'abbiamo fatta in passato. In mezzo a una pluralità di emergenze.

Per questo, come mostra l'indagine di Demos-Coop, gli italiani alternano stati d'animo non sempre coerenti. Anzi, talora in opposizione stridente. Si dicono preoccupati, ansiosi e stressati. Ma anche - in misura minore - felici e soddisfatti. In non pochi casi (circa il 13% della popolazione) felici e stressati al tempo stesso. Gli italiani, semmai, hanno modificato i loro stili di vita e i loro comportamenti. Li hanno adeguati al segno dei tempi. Sono divenuti ulteriormente prudenti e casalinghi. Sette su dieci: hanno accentuato l'attenzione sui consumi domestici (luce, acqua, gas). Quattro su dieci: passano più tempo a casa. E, dunque, da soli, davanti alla tivù. Oppure con gli amici. Invece, fanno meno l'amore (o, almeno, è ciò che dichiarano a un estraneo che li intervista, in modo indiscreto, nel corso di un sondaggio). Hanno ripiegato su modelli di vita più parsimoniosi e modesti. In questo modo hanno ammorbidito l'impatto psicologico della crisi. Che li spaventa meno. Questa regola, ovviamente, non vale per tutti. O meglio: tutti cercano di adattarsi. Ma con esiti diversi. Dipende da alcune condizioni specifiche. Tre di esse, in particolare, distinguono le persone più infelici e stressate.

Il primo "distintivo" è la posizione sul mercato del lavoro. Lo esibiscono le figure marginali e precarie. Gli esclusi. I disoccupati, i cassintegrati e i loro familiari. Il loro grado di insoddisfazione è molto più elevato della media. Sono naturalmente poco felici. E anzi spesso infelici. Preoccupati. Ansiosi. Come potrebbe avvenire diversamente?

Il secondo "distintivo" è definito dai "consumi". Consumare meno e soprattutto "peggio" aumenta il grado di frustrazione e di infelicità. E ciò non riguarda necessariamente - e solamente - le persone in condizioni economiche e sociali più difficili. D'altronde, l'abbiamo sottolineato altre volte, i consumi - usati in modo selettivo - fungono da placebo. Aiutano ad "abbassare" l'ansia. A gratificarsi, soprattutto nei momenti difficili. In mezzo alla crisi.

Il terzo distintivo dell'infelicità è squisitamente "politico". Caratterizza, prevalentemente, le persone che si collocano apertamente a sinistra. Ma anche quelli che rifiutano le differenze. Quelli che "destra e sinistra, oggi, uguali sono". Caso specifico ed estremo: gli elettori dell'IdV di Antonio Di Pietro. Sono i più stressati, i più depressi. I più infelici di tutti. Li angoscia una crisi diversa da quella che affligge l'economia globale e nazionale. Una crisi che essi ritengono più grave, Riguarda la politica. La loro infelicità dipende dallo stato dello Stato. E delle istituzioni. Dipende dalla presenza di Berlusconi alla guida del governo. E dell'Italia. (Non a caso esprimono il massimo livello di sfiducia verso il premier). Dipende, inoltre, dall'insofferenza per la leadership politica di centrosinistra: opposizione inefficace. E per la debolezza etica di una parte della società. Specchio del governo e del suo leader. Sono infelici perché alla crisi economica - fino a quando esploderà in modo davvero violento - si possono adattare. Magari con fatica e sacrificio. A Berlusconi no. Da ciò l'insofferenza. E molta sofferenza.

(16 luglio 2009)
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« Risposta #116 inserito:: Luglio 19, 2009, 04:53:26 pm »

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Se la "politica pop" costruisce la morale


di ILVO DIAMANTI

TRE MESI dopo l'avvio delle polemiche sulle frequentazioni del premier. Le reazioni della moglie. Le rivelazioni e i servizi fotografici sulle feste che hanno ravvivato le sue residenze. A Roma e in Sardegna. Private ma al tempo stesso pubbliche. Sede di rappresentanza per missioni dello Stato. E di feste fastose, abituali a casa "sua". Dopo molte spiegazioni - date e ritrattate - per spiegare vicende mai spiegate perché inspiegabili. Sentiamo echeggiare una questione, non solo in ambienti amici (suoi). Questa insorgenza morale e moralista. A chi e a che è servita?

Infine la maggioranza ha vinto le elezioni europee. Stravinto le amministrative. Magari "lui" non ha ottenuto il plebiscito personale che aveva chiesto. Il "suo" partito non ha ottenuto il risultato che sperava. Però, è ancora saldamente al comando. Del partito, della maggioranza, del governo. "Lui": ha vinto anche il G8. Tre mesi di inchieste giornalistiche, fotografie maliziose, rivelazioni piccanti e imbarazzanti. E poi scandali, veline, escort. Se dopo tutto questo "lui" è ancora saldamente al comando: ma chi ne potrà scalfire il potere e il consenso in futuro? Non solo: se dopo tutto questo la popolarità del premier è calata ma non è collassata, non significa che la maggioranza dei cittadini, in fondo, gli somiglia? Pensa come lui?

Definite in questi termini, le questioni ci sembrano mal poste. Anzitutto perché queste vicende hanno comunque influito sul risultato. Spingendo una quota elevata di elettori del PdL nel grande buco grigio dell'astensione. Ma, soprattutto, poste in senso meramente utilitarista. Come se il valore delle inchieste dipendesse solo da chi ci perde e guadagna. Non intendo affrontare discorsi moralisti e tantomeno morali. Non ne avrei titolo. Non scrivo per Famiglia Cristiana e non sono un portavoce della Cei. Solo un peccatore come (e forse più di) tanti altri.

Mi interessa, invece, tornare su un tema già affrontato in altre occasioni. Riguarda il rapporto fra le istituzioni, i leader e gli elettori in tempi di democrazia dell'opinione. Quando i cittadini diventano pubblico. Spettatori. Le istituzioni e i leader: attori. I media: teatro. Quando i valori diventano slogan. Le politiche e i politici prodotti da vendere. Quando il privato diventa pubblico. Perché è esposto in pubblico. E ha valore pubblico. Quando il gossip: diventa linguaggio politico.

È l'epoca della "politica pop". E si rischia di scambiare la popolarità per la realtà. Identificare la volontà popolare con la realtà sociale. Peggio: con l'etica pubblica. E viceversa: immaginare l'etica pubblica come un dato. Ma ciò che pensa e dice la "gente", anche in larga maggioranza, non è "innato". Riflesso della natura umana. Intanto perché una minoranza, talora molto ampia, pensa e dice diversamente. Poi perché a costruire l'opinione pubblica e la realtà sociale contribuiscono, in misura significativa, le istituzioni, chi le rappresenta e governa. Attraverso gli atti, l'esempio, le parole, i contatti quotidiani.

Attraverso i media. Il "fatto" che l'intolleranza e la xenofobia montino a folate in modo non coerente con le tendenze dei reati e dei crimini. Non è un "fatto", ma un "risultato". Prodotto dall'enfasi attribuita dai media e dagli attori politici e sociali. A livello nazionale e locale. Come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa: "I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela".

Si pensi all'esecrazione che, a seconda del periodo, investe i cani assassini, gli stupri, gli zingari, i romeni, gli albanesi. Gli islamici. A ondate. Oggi ad esempio pare che gli sbarchi degli immigrati si siano arrestati. I clandestini ridotti. D'altronde, se tali smettono di essere le badanti, ne abbiamo eliminati più della metà.
La realtà sociale, inoltre, è spesso trasfigurata dall'iperrealtà (come abbiamo scritto, riprendendo una suggestione di Carlo Marletti). Un ritratto quasi fotografico. Che si concentra su alcuni particolari. Li dilata oppure li riproduce in modo ossessivo.

Così propone uno specchio tanto fedele quanto distorto. Riflette una prospettiva unilaterale - e per questo falsa - della realtà. Perché ognuno di noi è "diverse persone". Siamo tutti, almeno un poco: opportunisti, egoisti, xenofobi, intolleranti, bugiardi, trasformisti, evasori (latenti), diffidenti (verso gli altri e lo Stato). Ma siamo tutti - almeno un poco - anche: altruisti, solidali, generosi, ospitali, dotati di civismo, sinceri, aperti, felici di stare in comunità.

E ci sentiamo tutti - almeno un poco - infastiditi: da chi dice bugie, evade, frega il prossimo, tratta male gli altri, è arrogante, prepotente, usa le cose pubbliche come fossero private e le cose private come fossero pubbliche. Tutti. (In particolare quando ci trasformiamo in vittime di questi atteggiamenti.) Per cui siamo capaci di grandi slanci e grandi chiusure. Per questo ogni raffigurazione unilaterale e caricata è irreale quanto iperreale.

È la pop-art della democrazia-pop. Dove i valori sono trasmessi dai comportamenti pubblici e privati - tanto è lo stesso - esibiti dalle istituzioni. Dall'esempio degli uomini che le rappresentano e le governano. Dai media. Tanto più oggi, in Italia. Dove i confini tra chi guida la politica, il governo, i media sono tanto sottili e confusi che quasi non si vedono. Per questo ciò che il premier dice e non dice. Quel che fa e non fa. Anche in privato. Ha valore pubblico. Forma - o deforma - i valori pubblici. E privati. Le inchieste e le critiche (di una parte solo) della stampa e della politica che tanto infastidiscono il premier, per la stessa ragione, non sono un "attentato" alla democrazia. Ma una garanzia.

Un antidoto contro l'iperrealismo. Servono a correggere la distorsione di questo "specchio unico". In cui si riflette, ripetuta e dilatata all'infinito, l'immagine del berlusconi-che-è-in-noi. Fino a sovrapporla al nostro profilo. Un'idea che, personalmente, mi inquieta non poco.

(19 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #117 inserito:: Luglio 31, 2009, 11:40:00 pm »

Ilvo Diamanti.


Le piccole secessioni di un paese piccolo piccolo


Non ha provocato grandi reazioni il passaggio dei comuni dell'Alta Valmarecchia dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Rimini. E, dunque, dalle Marche all'Emilia Romagna. Voluto e votato dai cittadini attraverso un referendum popolare circa un paio d'anni fa. Con un consenso plebiscitario. La Valmarecchia è incastrata fra monti, colline e corsi d'acqua. Un paesaggio suggestivo. Dal punto di vista naturale, ma anche architettonico e artistico. Giacimento gastronomico pregevole. Prodotto di riferimento: il pecorino di fossa. In alto, a Pennabilli, Tonino Guerra esorta il suo amico Gianni a coltivare l'ottimismo. Il profumo della vita.

L'Alta Valmarecchia inseguiva da tempo questo obiettivo. In base a buone ragioni: storiche, geografiche, culturali. Novafeltria, Sant'Agata Feltria, Talamello, Pennabilli, Casteldelci, Maiolo. Insieme a San Leo, sovrastata da una rocca cupa e magnifica. Dove venne imprigionato Cagliostro. Sono periferia - meglio: entroterra - di Rimini e non di Pesaro-Urbino. Oggi che anche il Senato ha riconosciuto la loro identità romagnola: festeggiano. "Abbiamo ridato dignità al popolo dell'Alta Valmarecchia di ritornare alla sua madre patria", ha esclamato, commosso, Gianluca Pini, deputato della Lega. Immaginiamo, però, che l'entusiasmo e l'emozione si riverberino anche altrove. In particolare: negli altri comuni che, in tutta Italia, chiedono - da più tempo dell'Alta Valmarecchia, talora - di liberarsi dal giogo imposto dallo Stato centralista. Di riunirsi, anch'essi, alla loro madrepatria. Cambiando provincia e regione. Come negare questa loro aspirazione? Pensiamo ai comuni dell'Altopiano di Asiago. Perché impedire loro di accedere alla provincia di Trento? Insieme (fra gli altri) a Cortina e a Lamon (il primo ad averne fatto richiesta). E perché bloccare la voglia dei cittadini di Portogruaro, Caorle e Concordia Sagittaria di scavalcare i confini della provincia di Venezia per passare a quella di Pordenone? Di trasferirsi dal Veneto al Friuli Venezia Giulia? Oppure, ancora, perché chiudere i confini della Val d'Aosta ai comuni dell'Alto Canavese? A Noasca e Carema, 1000 abitanti in due? Perché frenare la loro voglia di secedere dal Piemonte? Anche in questi realtà locali si sono svolti referendum, partecipati e approvati dalla quasi totalità della popolazione. Anche se, a differenza della Valmarecchia, è legittimo il sospetto che dietro all'iniziativa gli interessi materiali contino molto più che il patriottismo.

Perché entrare in regioni a statuto speciale - come il Trentino, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta - comporta benefici evidenti e rilevanti. Tuttavia, molti altri comuni nutrono la stessa ambizione, senza però orientarsi verso regioni autonome. Comuni della Campania che intendono passare alla Puglia, al Molise o alla Basilicata. Altri che dalla Toscana vogliono trasferirsi in Emilia Romagna. Oppure che dal Lazio vorrebbero entrare in Umbria. E poi, in definitiva, perché non permettere alla provincia di Bolzano di ritornare ad essere Sud Tirolo e quindi Tirolo? Per lingua e storia è difficile negare l'esistenza di forti legami fra i due contesti.

Certo, in questi tempi si stanno riaprendo fratture territoriali ben più profonde. Tra Nord e Sud, anzitutto. Sudisti e nordisti che si affrontano. Una lotta dura senza paura. Mentre i leghismi affiorano dovunque. Difficile prestare troppa attenzione a piccole secessioni locali che coinvolgono piccoli comuni. Anche se rimettono in discussione e anzi ridisegnano i confini delle regioni e delle province. D'altronde, i confini non si vedono. Soprattutto quelli interni agli stati. (E oggi, spesso, neppure quelli fra gli stati). Mi viene a mente un sentiero sull'Alpe della Luna, in alto, accanto al passo della Bocca Trabaria. Nell'Alto Metauro. Corre e separa, o forse congiunge, quattro regioni e quattro province. Toscana, Emilia Romagna, Umbria e Marche. Arezzo, Perugia, Rimini e Pesaro-Urbino. Quando lo percorro a piedi (il paesaggio è straordinario), giuro, non è visibile la distanza e la distinzione fra una regione e l'altra. Perché i confini sono "costruzioni" sociali, istituzionali, cognitive. Che noi interiorizziamo. Come le mappe, la geografia. Ci servono a capire e a vivere. A guardarci intorno. A situarci. Servono ad avere relazioni con gli altri e con il mondo. E poi delimitano i contesti dentro ai quali agisce l'autorità. Gli spazi di sovranità per le istituzioni. Per questo i cambiamenti di confine non avvengono mai senza conseguenze. Basta pensare a quel che è successo dopo la caduta del muro di Berlino.

Naturalmente, qui si tratta di mutamenti molto meno epici. Non riguardano regimi o sistemi geopolitici mondali. Non ci sono muri che crollano. Semmai, muretti. Questi cambiamenti non intaccano i confini nazionali. Solo quelli locali. Anche se è difficile sminuire il "locale", nei giorni in cui la Lega - con il consenso del ministro Gelmini - alza la voce in nome del rispetto delle tradizioni "locali" nella scuola. Proponendo che ai docenti venga richiesto, come requisito preliminare, la conoscenza della storia e delle culture "locali". Locali. Appunto. Ma quale "locale" - se i nostri confini interni slittano, si spostano senza grandi preoccupazioni politiche? Con il consenso del parlamento? In fondo, in Veneto 4 persone su 10 si dicono d'accordo con le richieste dei comuni che intendono andarsene. Passare a un'altra regione. Il Veneto: dove il 70% degli abitanti parla ancora dialetto (o lingua regionale) "spesso" (Osservatorio Nordest di Demos per "Il Gazzettino": maggio 2009). Il fatto è che l'Italia brulica di localismi. Afflitta e affetta dal virus della "traslochite", come ha scritto tempo fa Gian Antonio Stella. Dove molti comuni vogliono "traslocare". Da una provincia all'altra, da una regione all'altra. E talora ci riescono. Senza un disegno istituzionale, senza un progetto, senza una direzione e qualcuno la diriga. Per le ragioni più diverse e legittime. Per interesse, per storia, per affinità, per comodità, per comunanza di dialetto. Tante piccole secessioni. A cui non si oppone quasi nessuno. Tanto riguardano piccoli paesi. In un paese altrettanto piccolo.

(31 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #118 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:27:39 am »

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La paura a telecomando

di ILVO DIAMANTI


Ora che il decreto sulla sicurezza è entrato in vigore siamo sicuramente più sicuri. Le ronde sono state, finalmente, istituzionalizzate. La clandestinità è reato. Tuttavia, la sicurezza si è affermata anche senza decreti.

Lo confermano i dati del Ministero dell'Interno. Nel 2008 il numero dei reati è sceso di otto punti percentuali rispetto all'anno prima. La riduzione riguarda tutti i tipi di delitti. Dalle rapine agli scippi ai furti. Resta il problema della percezione, che tanto preoccupa il centrodestra. Oggi che governa. Assai meno ieri, quand'era all'opposizione. Negli anni del governo guidato da Prodi, quando al Viminale c'era Amato, era legittimo avere paura. Anche se il calo dei reati è cominciato nella seconda metà del 2007. Ed è proseguito nel semestre successivo.

Andare troppo a fondo nell'analisi dell'evoluzione dei reati, però, potrebbe sollevare qualche dubbio. Sul fatto che la sicurezza in Italia costituisca un'emergenza. O almeno: un problema emergente. Nuovo. In fondo, risalendo al 1991, quasi vent'anni fa, si scopre che il peso dei reati è superiore a quello attuale: 4666 per 100mila abitanti, allora; 4520 oggi. In termini percentuali: lo 0,1 in più. Non molto, si dirà. Anche se, quando si tratta di reati, ogni frazione è rilevante. Tuttavia, la verità è che la variazione percentuale dei reati (negli ultimi dieci anni, almeno) ha un andamento ondivago. Ma segna una sostanziale continuità. Dal 4,2% sulla popolazione, nel 1999, si passa al 4,5% di oggi. Una variazione minima. Che, peraltro, conferma l'Italia come uno dei paesi più sicuri - o meno insicuri - d'Europa.

I cambiamenti più rilevanti, nello stesso periodo, riguardano, invece, la sfera delle percezioni. A fine anni novanta l'Italia era attanagliata dall'angoscia. Poi, nella prima metà del nuovo millennio si è rassicurata. Per cadere preda del terrore nei due anni seguenti. Fino a intraprendere di nuovo una strada più sicura, a partire dall'autunno del 2008. Come ha mostrato il II Rapporto Demos-Unipolis, presentato lo scorso novembre.

Un dato recente suggerisce, peraltro, che la tendenza non sia cambiata. Anzi. In occasione delle elezioni del 2008, infatti, il 21% degli elettori aveva indicato nella "lotta alla criminalità" il tema più importante ai fini della scelta di voto. Ma alle elezioni europee del 2009 questa componente si riduce sensibilmente: 12%. (Indagini post-elettorali condotte da LaPolis, Università di Urbino). Difficile vedere nel cambiamento del clima d'opinione solo - o principalmente - il riflesso della "realtà", come alcuni pretenderebbero. In fondo, l'aumento dei reati che, per quanto limitato, si verifica nel biennio 2004-2005, non accentua l'inquietudine sociale. Mentre negli anni seguenti la paura dilaga.

Un osservatore malizioso potrebbe, semmai, cogliere una costante politica, dietro ai mutamenti dell'opinione pubblica. Visto che, incidentalmente, l'insicurezza cresce quando governa il centrosinistra. E viceversa. Tuttavia, la relazione più significativa riguarda senza dubbio l'attenzione dedicata dai media. In particolare, dalla televisione. Anzi, sotto questo profilo, assistiamo davvero a una realtà - o forse a una fiction - profondamente nuova e diversa rispetto al passato.

Basta scorrere i dati del recentissimo report dell'Osservatorio di Pavia su "Sicurezza e media" (curato da Antonio Nizzoli) per rilevare la rapida eclissi (scomparsa?) della criminalità in tivù. Infatti, i telegiornali di prima serata delle 6 reti maggiori (Rai e Mediaset) dedicano agli episodi criminali ben 3500 servizi nel secondo semestre del 2007, poco più di 2500 nel secondo semestre del 2008 e meno di 2000 nel primo semestre di quest'anno. In altri termini: se i fatti criminali sono calati di 8 punti percentuali in un anno, le notizie su di essi, nello stesso periodo, sono diminuite di 20. Ma di 50 (cioè: si dimezzano) se si confronta il secondo semestre del 2007 con il primo del 2009. Più che un calo: un crollo. In gran parte determinato da due fonti. Tg1 e Tg5, che da soli raccolgono e concentrano oltre il 60% del pubblico. Le notizie relative ai reati proposte dal Tg1 in prima serata, dal secondo semestre del 2007 al primo semestre del 2009, si riducono: da oltre 600 a meno di 300. Cioè: si dimezzano. Insomma, per riprendere i propositi del nuovo direttore del Tg1 (poco responsabile di questo trend, visto che è in carica solo da giugno): niente gossip; ma neppure nera. Solo bianca. Tuttavia, è nel Tg5 che il calo di attenzione in tal senso assume proporzioni spettacolari. Il numero di servizi dedicato a episodi criminali, infatti, era di 900 nel secondo semestre del 2007. Nel primo semestre del 2009 scende a 400. Insomma, la criminalità si riduce un po' nella percezione sociale e sensibilmente nell'opinione pubblica. Ma nella piattaforma televisiva unica di Raiset - o Mediarai - quasi svanisce. E chi non si rassegna (come Canale 3 - pardon: Tg3) viene redarguito apertamente dal premier. Il quale, tuttavia, non ha motivo di avere paura. Se - come ha recitato tempo addietro - l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura. E la paura erompe soprattutto dalla televisione. In questo paese dove il confine tra realtà reale e mediale è sempre più sottile. Allora il premier non ha nulla da temere. Ronda o non ronda. Ronda su ronda. La paura scompare insieme alla criminalità. Oppure riappare. A (tele) comando.

(9 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #119 inserito:: Agosto 23, 2009, 03:59:27 pm »

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Il telefonino come il pane


di ILVO DIAMANTI

LA CRISI sta condizionando le strategie e i comportamenti di consumo delle famiglie. Al di là dell'impatto reale sul mercato del lavoro e sui redditi, ne ha ridefinito le priorità. Per cui non tutti i consumi sono stati ridotti nella stessa misura. Anzi: alcuni sono aumentati. In particolare: i telefoni cellulari. Le cui vendite sono cresciute del 15% nel 2008. Ma quasi del 200% negli ultimi 7 anni.

In altri termini: oggi i telefonini non sono più un consumo voluttuario, ma un bene di prima necessità. Di cui non è possibile fare a meno. Come il pane. Se il reddito si riduce, se le attese sul futuro prossimo sono grigie, allora le famiglie preferiscono tagliare altre spese. Risparmiano sui trasporti, sugli autoveicoli, sull'arredamento. Perfino su alcuni prodotti alimentari. Ma non sulle tecnologie della comunicazione. Sui telefonini, appunto. Ma anche sui computer, in particolare sui portatili e sui palmari.

D'altra parte, i telefonini di nuova generazione sono computer a ogni titolo. Servono a navigare su Internet, a controllare e a inviare la posta elettronica. E svolgono molte altre funzioni. Video e fotocamera, riproduttore musicale Mp3, navigatore satellitare. E, inoltre, sveglia, agenda. Perfino torcia elettrica. Tutto questo riassunto in un oggetto leggero e di piccolissime dimensioni. Portatile, appunto. E concretamente "portato" dovunque. Ci segue dappertutto, in ogni luogo e ad ogni ora. Visto che molte persone lo tengono acceso 24 ore su 24. Notte compresa. Lo appoggiano sul comodino, mentre si carica. Così da non perdere neppure una chiamata o un messaggio.

Chiamarlo telefonino, per questo, non è solo riduttivo, ma improprio. Non è un telefono più piccolo. D'altra parte, in quanto a diffusione, ha ormai sorpassato il telefono fisso. Lo possiede il 90% delle persone (circa il 20% più di uno). I gestori della telefonia mobile, d'altronde, offrono, con un solo contratto, non solo il telefono - a uso domestico e mobile - ma anche l'accesso a Internet (wi-fi) e alle reti televisive. Per questo la diffusione del telefono cellulare riflette, in realtà, il moltiplicarsi dei servizi che esso propone. Ma anche, soprattutto, il mutamento degli stili di vita e delle abitudini delle persone.

Anzitutto dei più giovani. L'uso dei cellulari, infatti, è condizionato e incentivato da due aspetti. L'età e il livello di istruzione. I consumatori "pesanti" e al tempo stesso gli specialisti sono infatti i più giovani. Anzi: i giovanissimi. Gli adolescenti. I quali si distinguono dalle altre generazioni perché non usano il telefonino per telefonare. Infatti, è quasi impossibile coglierli mentre parlano con il cellulare all'orecchio. A differenza degli adulti che, armati di auricolare, per strada parlano da soli, in modo animato.

I giovani, invece, messaggiano. Usano gli sms. Oppure segnalano la propria presenza ed esistenza agli amici con uno squillo muto. Una vibrazione, una schermata a colori personalizzata. E reagiscono ai messaggi degli altri subito. Dovunque essi siano. A casa, per strada, a scuola, in chiesa, al cinema, in riunione. Non importa. Il cellulare è sempre acceso e accessibile. Loro: sempre pronti a leggere i messaggi e a rispondere.

Negli ultimi anni, peraltro, la confidenza con il cellulare si è allargata anche agli adulti. Perfino a qualche anziano. E sono molte le persone che messaggiano. Dappertutto. Non solo: ricorrono agli sms per messaggi destinati a una larga cerchia di persone. Soprattutto in occasioni particolari. Festività, mobilitazioni, ricorrenze.

Si digita il messaggio, breve, e lo si invia alla lista - sempre più lunga - di numeri in agenda. Infine, l'accesso dei cellulari - in particolari i palmari - a Internet ha incentivato la possibilità di dialogo con gli altri (gli "amici" di una comunità elettronica) attraverso i social network. Come Facebook e soprattutto Twitter, concepito per essere consultato e aggiornato via sms. Quindi, con il cellulare.

Da ciò una ulteriore - decisiva - ragione che spiega la diffusione dei cellulari. A dispetto dell'andamento dei redditi e dei consumi. Riguarda il cambiamento sociale e culturale. I modi di comunicare e di stare insieme. E per questo coinvolge, per primi, i giovani più giovani. Demograficamente pochi. Protetti e controllati da famiglie pervasive. Vivono in un ambiente urbano devastato e informe. Frutto di politiche territoriali imposte dagli immobiliaristi.

Secondo logiche e interessi, ovviamente, immobiliari. I luoghi di incontro e di contatto fisico, per loro, si sono ridotti sempre di più. Non la domanda di stare insieme. Per cui hanno trasferito le relazioni dal territorio allo spazio tecnologico. I loro contatti non avvengono più - meglio: si verificano sempre meno - in un contesto di compresenza fisica. A casa, in piazza, sulla strada, a scuola, in oratorio.

Ma si realizzano, sempre più spesso, a distanza. Attraverso la rete e i cellulari. Così intrattengono relazioni sempre più frequenti. Sempre più fitte. E sempre più astratte. Sempre più personali e impersonali al tempo stesso. La società intera li segue, su questa strada. I fratelli maggiori. I genitori. Gli adulti. Si addentrano in questa terra senza terra. Dove gli altri sono un numero di cellulare o un indirizzo e-mail. Dove tutti comunicano senza vedersi e senza parlarsi direttamente. Nelle piazze e nelle comunità della rete. Proiettano la loro icona. Il loro avatar. Il loro profilo. E dialogano con altri avatar e altri profili. Un teatro di maschere. Un mondo di relazioni senza empatia. Dove il confine tra comunicazione ed esperienza, fra immagine e realtà: svanisce.


(23 agosto 2009)
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