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« Risposta #75 inserito:: Dicembre 05, 2008, 09:48:06 am » |
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ECONOMIA
Crisi, consumi e futuro dei figli i nuovi incubi degli italiani
di ILVO DIAMANTI
La crisi si è abbattuta sugli italiani, trainata dalla tempesta che ha travolto le borse e, quindi, il sistema bancario e l'economia. Eppure inattesa, nonostante la evocassero da tempo.
Ma gli italiani si sono adeguati in fretta, come mostra il sondaggio dell'Osservatorio sul capitale sociale di Demos-Coop. La crisi è divenuta un "dato", accettato e condiviso. Base e riferimento di una "Second Life" - vissuta realmente però e non sulla rete. Quattro italiani su dieci sostengono, infatti, che la recessione abbia creato loro nuovi problemi oppure aggravato quelli esistenti.
D'altra parte, i segni della crisi - raccolti dall'Osservatorio Demos-Coop - sono molti. I più evidenti e traumatici riguardano il lavoro e il reddito. Oltre una persona su dieci dichiara che, da un anno a questa parte, qualcuno, nella sua famiglia, ha perso il lavoro oppure è stato messo in CIG. Oltre metà degli intervistati, inoltre, lamenta perdite significative ai propri risparmi e ai propri investimenti.
Ai "costi" della crisi gli italiani hanno reagito modificando i comportamenti di consumo e gli stili di vita. Quasi metà di essi ha rinviato le spese più impegnative per la famiglia: casa, auto, elettrodomestici, arredamento. La stessa quota di persone che dichiara di aver ridotto i consumi domestici. Non solo la spesa per l'abbigliamento, anche quella alimentare.
Gli italiani, quindi, si sono già adeguati alla crisi adottando strategie di consumo selettive e di risparmio preventivo, che investono anzitutto il loro ambiente di vita. La loro casa, la loro famiglia. Anche se, parallelamente, la preoccupazione li spinge a rinchiudersi proprio in casa. Nella loro cerchia domestica. Infatti, molti di essi hanno diradato le uscite con amici e parenti, i pasti all'esterno. Hanno limitato le spese per i viaggi e il turismo. Gli italiani. Hanno limitato il perimetro dei loro movimenti e della loro vita sociale. D'altra parte, la crisi li ha resi più insofferenti e diffidenti. Nei confronti degli "altri" , anzitutto. Solo il 20% - o poco più - pensa che "gran parte della gente è degna di fiducia". Il resto - quasi 8 persone su 10 - teme, invece, di essere fregato. I problemi economici, però, hanno deteriorato il clima delle relazioni personali anche in famiglia, come ammettono 4 intervistati su 10.
Più che dal terrorismo (nonostante il sanguinoso raid di Mumbai) e più che dalla criminalità comune (che sembra non essere più un'emergenza sociale), dunque, gli italiani si sentono spaventati dall'economia. Dalla disoccupazione, come minaccia e come realtà. Dai problemi che incombono sulla condizione familiare. Ma soprattutto dal futuro dei loro figli. Che preoccupa seriamente quasi un italiano su due. D'altra parte, circa 7 persone su 10 pensano che i giovani occuperanno, in prospettiva, una posizione sociale ed economica molto peggiore rispetto ai loro genitori. Due anni fa questa convinzione veniva espressa da una quota di persone molto più limitata, per quanto ampia: il 45%.
In generale si assiste a un collasso emotivo, che influenza direttamente e profondamente le aspettative di mobilità sociale. Al ribasso. La scala della stratificazione sociale costruita in base all'autodefinizione e all'autocollocazione degli italiani rivela, infatti, come nell'ultimo periodo sia avvenuto un sensibile slittamento. Le persone che considerano "bassa" la posizione della propria famiglia erano il 7% due anni fa: ora sono oltre il 15%. Nello stesso tempo è aumentata anche la componente di coloro che definiscono "medio-bassa"la posizione sociale della propria famiglia: dal 21 al 29%. Lo spazio della classe media, di conseguenza, si è ridotto: dal 59 al 48%. Si assiste, quindi, a una discesa sociale "percepita" che riflette il calo dei consumi effettivamente "sperimentato".
I costi reali e psicologici della crisi, tuttavia, non si distribuiscono in modo equilibrato. Alcuni ne sono colpiti in misura più pesante degli altri. Si tratta, soprattutto, di coloro che hanno perso il lavoro o ne sono ai margini. Insieme a una quota, ampia, di persone fuori dal mercato del lavoro. Nel complesso: intorno al 20-25% della popolazione. Se questa crisi rispecchia la competizione globale, loro rappresentano i "perdenti". Sono perlopiù operai o di famiglia operaia - ma anche pensionati. Si collocano, in gran parte, nelle posizioni più basse della scala sociale. Avevano basso potere d'acquisto e di consumo, prima. Oggi l'hanno perduto ulteriormente. Se ne stanno in famiglia più per costrizione che per scelta. Abitano, soprattutto, nel Nordovest metropolitano e nel Mezzogiorno.
Va detto, tuttavia, che questa crisi suscita grande preoccupazione, ma non panico. Gli italiani sembrano essersi adattati presto alla nuova emergenza. Soprattutto quanti (tanti) possono contare sui tradizionali "ammortizzatori" sociali: la famiglia, la casa in proprietà.
Tuttavia, la recessione ha avuto un effetto psicologico importante, in quanto ha spostato il pendolo dell'insicurezza: dalla paura della criminalità comune ai problemi economici, legati al reddito e al lavoro. Ciò potrebbe riflettersi sugli orientamenti politici, creando un clima sfavorevole al centrodestra, che oggi governa. Ma non è detto. Fino ad ora, almeno, questa svolta non si è percepita. Anzi: la preoccupazione economica sembra oscurare la politica. Ritenuta - quasi - impotente, di fronte a quanto avviene. E quindi estranea. Peggio: incolpevole. Innocente.
(5 dicembre 2008) da repubblica.it
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« Risposta #76 inserito:: Dicembre 08, 2008, 12:30:55 am » |
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Ilvo Diamanti
La morte in diretta Sparatoria fuori dal Taj Mahal
E' una battaglia globale combattuta secondo le regole della guerra globale. L'operazione terrorista a Mumbai: va oltre l'attentato, singolo o a catena. Evoca, invece, un attacco militare, scatenato da un esercito frazionato in diverse cellule, che hanno aggredito molteplici punti della città. Contemporaneamente. In modo coordinato. Un'azione di guerra, preparata e realizzata con cura pari alla violenza. Comune alla logica terrorista è il bersaglio. I civili. Inconsapevoli. Colpiti nel corso della loro vita quotidiana, in luoghi pubblici, affollati. Scelti con grande attenzione simbolica. Hotel, locali di lusso. Turismo d'èlite e uomini d'affari. "Cercavano sangue a cinque stelle... erano alla caccia di inglesi e americani", hanno raccontato Davide Scagliola e Marilena Malinverni, due giornalisti di Repubblica che hanno assistito, loro malgrado, all'attacco. Un episodio eclatante della Guerra globale lanciata dalla galassia di Al-Qaida contro i "Signori della globalizzazione". Contro l'Occidente e il suo baricentro: l'asse anglo-americano. Appunto.
In questa guerra globale, le vittime non esistono come persone. Sono feticci. Sangue con cui imbrattare in modo appariscente e indelebile gli schermi di tutto il mondo. Perché non avrebbe senso un attacco a Mumbai, l'antica Bombay - la più "globale" delle metropoli indiane - senza la comunicazione "globale".
Pochi minuti dopo le prime esplosioni, dopo i primi attacchi e le immagini, le notizie - drammatiche e concitate - arrivano dovunque. Attraverso le tv, le emittenti satellitari e internet. Giornali online e blog. La morte in diretta. Con i rischi del caso. Perché la violenza e la morte sono, da tempo, divenute uno spettacolo diffuso e attraente. Videogames, giochi di ruolo, fiction: usano il terrore e la guerra come script. Mentre la rete si affolla di sequenze di violenza quotidiana, girate con il cellulare, spesso da giovani e giovanissimi.
Così, diventa difficile riconoscere la guerra vera, la violenza vera, il terrore vero. Tutto rischia di sembrare artefatto - fatto e girato "ad arte". Fino a rendere meno spaventose le immagini di morte e di guerriglia. Perché la morte e la guerriglia, appunto, si riducono a immagini. D'altra parte, le vittime, lo abbiamo detto, vengono "usate" - e massacrate - come bersagli "simbolici". Comparse di una rappresentazione in cui recitano e raffigurano il Nemico Globale. Ombre del Grande Fratello americano, il Padrone dell'Occidente. Gli stessi protagonisti - l'esercito di Al Qaida - immolano se stessi, bruciano la loro vita (e quella di altri, che nulla hanno fatto per meritare tanta attenzione) in nome di questa guerra simbolica. Vittime reali - metafore sanguinose - di una battaglia a uso mediatico.
La guerra globale rende evidenti anche le sfasature del nostro modo di conoscere e di guardare il mondo. L'informazione, anzitutto. Perché il giornale acquistato la mattina è già vecchio. Si riferisce a "prima": a un mondo che, dopo la chiusura delle pagine, è cambiato. Fornisce una rappresentazione sfasata. Non solo perché è superata dai fatti, ma perché, si traduce in "una" immagine, "un" fotogramma, "una" cronaca" e "un" commento. Il che fornisce una lettura dissociata e asincrona rispetto al fluire degli eventi. D'altronde, la globalizzazione, ha scritto Giddens, è riduzione spazio-temporale. Il tentativo stesso di "prendere le distanze", di trattare questi eventi come altri e altrove rispetto a noi, per questo, è destinato a fallire. Perché le distanze - di spazio e di tempo - si perdono e vengono meno. Così la battaglia di Mumbai si svolge qui, ora. E prosegue, una vittima dopo l'altra, sotto i nostri occhi: 24 ore dopo è ancora in divenire, come il numero delle vittime. Gli hotel trasformati in fortilizi assediati. I civili trasformati in ostaggi. Mediatici. Simbolici.
E noi, per difenderci, possiamo solo cambiare canale.
(28 novembre 2008)
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 12, 2008, 11:45:33 am » |
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Ilvo Diamanti.
Grecia, Francia, Italia la gioventù bruciata
In Grecia è esplosa una rivolta giovanile. Partita da Atene, si è propagata in molti altri punti del paese. Da Salonicco a Patrasso, da Corfù a Creta. Ma la protesta ha scavalcato i confini, coinvolgendo, fra i bersagli, le ambasciate greche di alcune capitali europee. E' una vera mobilitazione, scandita da episodi violenti. E di scontri continui, con le forze dell'ordine. Molti di essi sono studenti. E infatti l'epicentro del terremoto sociale è diventato il Politecnico di Atene, insieme al quartiere di Exarchia (intellettuale e, insieme, alternativo). Luoghi mitici, perché proprio da lì, proprio dagli studenti partì la rivolta che, con un costo di vite altissimo, travolse il regime dei colonnelli, 35 anni fa.
D'altra parte, non è un "movimento studentesco". Perché agli studenti si sono uniti molti altri: lavoratori, precari, disoccupati. Comunque: giovani. Inoltre, a guidare le manifestazioni sono gruppi di sinistra radicale, affiancati da gruppi anarchici. Ma non ciò che sta avvenendo non può essere riassunto in un'azione della sinistra antagonista. Anche perché la sinistra antagonista non dispone di una base tanto ampia. La ribellione di massa che sta incendiando le città greche è un po' di tutto ciò. Mobilitazione studentesca universitaria (e non), antagonista, di sinistra, giovanile.
L'episodio scatenante è drammatico. La morte di un giovane 15enne, sabato scorso, ad Atene, nel quartiere di Exarchia, ucciso da un poliziotto, in seguito allo scontro fra un gruppo di studenti e una pattuglia della polizia. Di fronte a quel che è avvenuto e che sta avvenendo, però, l'episodio, per quanto sanguinoso e violento, appare quasi epifenomenico. Un incidente occasionale. La miccia che provoca un'esplosione a catena. Ed è facile, anche se discutibile, per questo, accostarlo ad altre rivolte che hanno investito le metropoli europee negli ultimi anni.
Per prima, l'esplosione di rabbia che ha sconvolto le banlieue francesi - parigine, anzitutto - nell'autunno del 2006. Anche in quel caso il motivo scatenante è lo stesso: l'uccisione di un ragazzo in una colluttazione con la polizia. Da cui la spirale di violenza che ha travolto, per settimane, le periferie di Parigi, per propagarsi presto ad altre metropoli francesi. La stessa dinamica si ripropone un anno fa, a Villiers-le-Bel, nella banlieue Nord di Parigi. Stessa meccanica: la morte di due ragazzi in moto, investiti (in questo caso in modo del tutto accidentale) da un'auto della polizia. Cui segue una vampata di violenze che degenerano subito. In modo drammatico, visto che in pochi giorni si contano oltre cento feriti, perlopiù tra forze dell'ordine. Certo: si tratta di eventi assolutamente diversi, per contesto urbano e sociale. In Grecia: studenti che si mobilitano in centro storico, con obiettivi apertamente politici. I palazzi del governo e del potere, la maggioranza di destra. In Francia: francesi di seconda generazione; giovani socialmente periferici che abitano le periferie più povere e inospitali. I bersagli: i simboli della cittadinanza negata. Auto, centri sociali, biblioteche. In entrambi i contesti, però, si tratta di "giovani". E la violenza investe alcuni "oggetti" specifici. Oltre alle auto: negozi e hotel di lusso. Simboli di un sistema che si regge e si rappresenta attraverso i consumi. In entrambi i casi, ancora, lo scontro avviene direttamente con le forze dell'ordine e con la polizia, in modo aperto. Non solo è solo la polizia a opporsi alle azioni giovanili. Sono gli stessi giovani a cercare lo scontro con la polizia.
La rivolta di Atene, per alcuni versi, richiama, inoltre, le mobilitazioni che attraversano l'Italia da alcune settimane. Le differenze, in questo caso, sono però ancor più evidenti. Perché in Italia la protesta giovanile non nasce da un episodio violento e non ha assunto toni violenti (se non in alcuni casi molto specifici). Perché ha fini e bersagli squisitamente politici. I provvedimenti del governo in materia di scuola e università. Tuttavia, fra le mobilitazioni vi sono i punti di contatto altrettanto palesi. In Italia come in Grecia i protagonisti sono gli studenti, i teatri le università. In Grecia come in Italia la popolazione studentesca era da tempo in ebollizione, per gli stessi motivi. L'opposizione aperta contro la riduzione delle risorse e degli investimenti sulla scuola - e in particolar modo sull'organizzazione della ricerca e dell'università - pubblica.
Se colleghiamo questi tratti, tanto diversi in apparenza, si delinea un profilo comune e largamente noto. Perché le rivolte investono i giovani, sia gli studenti che i marginali, delle classi agiate e dei gruppi esclusi. I bersagli sono, in ogni caso, le istituzioni di governo, il sistema educativo e le forze dell'ordine, il sistema politico e in particolar modo i partiti e gli uomini di governo. Il denominatore comune di queste esplosioni sociali sono i giovani, occultati e vigilati da una società vecchia e in declino, da un sistema politico im-previdente, inefficiente e spesso corrotto. Schiacciati in un presente senza futuro. Cui sono sottratti i diritti di cittadinanza. Costretti a una flessibilità senza obiettivi. Il che significa: precarietà.
La violenza, in questo caso, diventa un modo di dichiarare e gridare la propria esistenza. Loro, invisibili. Inutile ignorarli, fare come se non ci fossero. Ci sono. Studenti, precari, di buona famiglia oppure marginali e immigrati, politicizzati o apertamente impolitici e antipolitici. Esistono. E se si finge di non vedere si accendono, bruciano. Fuochi nella notte che incendiano le città.
(9 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #78 inserito:: Dicembre 14, 2008, 10:40:57 pm » |
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Oltre la democrazia
di ILVO DIAMANTI
LA DEMOCRAZIA. Molti ne osservano in modo scettico l'evoluzione. In Italia, ma non solo. Così è diffusa la tendenza ad associarne il termine al prefisso "post". Come ha fatto il politologo Colin Crouch alcuni anni fa. Definendo la fase attuale fase post-democratica. Non "anti" democratica, ma "oltre" la democrazia. O, ancora, "dopo" la democrazia, come suggerisce il socio-demografo Emmanuel Todd in un recente saggio di grande capacità suggestiva ("Après la démocratie", pubblicato da Gallimard).
Eppure pochi, in Italia, la mettono in discussione. Lo sottolinea l'XI rapporto su "gli italiani e lo Stato" di Demos - la Repubblica (www. demos. it), proposto due giorni fa sul Venerdì. Quasi tre persone su quattro la considerano il "migliore dei mondi possibili". Un dato in crescita (4 punti percentuali in più) rispetto all'anno scorso. Tuttavia, vi sono categorie sociali che la pensano diversamente. I più giovani, in particolare: oltre un terzo di chi ha meno di 35 anni ritiene che rinunciare alla democrazia, magari per un certo periodo, in fondo, non sarebbe male. Oppure, non cambierebbe nulla. E il peso della componente scettica sale fino a circa il 40% fra gli operai e i disoccupati. A rammentarci che il consenso alla democrazia declina quando manca il lavoro e le condizioni di vita quotidiana degradano.
Peraltro, il significato della democrazia appare profondamente cambiato rispetto al modello originario del dopoguerra. Fondato sulla partecipazione e sui partiti di massa, garantito dal bilanciamento fra poteri. In particolare: dal controllo del potere giudiziario su quello politico (legislativo ed esecutivo). Il rapporto di Demos - la Repubblica rileva, anzitutto, come, ormai, i partiti siano guardati con diffidenza generalizzata. Non solo: appena la metà dei cittadini ritiene che "senza partiti non vi sia democrazia". D'altronde, i due terzi degli italiani pensano che i partiti siano tutti uguali, dicano le stesse cose. Non riescono a coglierne le differenze di progetto e di azione. Ne considerano i programmi e il linguaggio strumentali. Più dei partiti, secondo il 40% degli italiani, oggi contano i leader. I partiti, di conseguenza, appaiono organismi personalizzati, talora "personali", al servizio del Capo. Una percezione generale che, peraltro, coincide largamente con la realtà. Richiama un'idea della democrazia fortemente semplificata e populista.
Alimentata dalla svalutazione dei tradizionali soggetti di partecipazione e rappresentanza. I partiti. Mentre i canali di mediazione degli interessi - organizzazioni imprenditoriali e ancor più sindacali - raccolgono consensi minimi nella società. Non che la partecipazione sia svanita. Anzi, nell'ultimo anno è perfino cresciuta, ma nelle forme meno convenzionali e istituzionali, oltre che antipolitiche. Quanto alle istituzioni e ai poteri di controllo, la magistratura è valutata con fiducia dal 37% dei cittadini. Più o meno come un anno fa. Ma circa la metà rispetto ai primi anni Novanta. Anche per questo motivo oggi il presidente del Consiglio afferma di voler procedere alla riforma del sistema giudiziario anche da solo, se necessario. Perché si sente più forte e socialmente legittimato dei giudici.
Da ciò il dibattito, meglio, il contrasto che investe il significato stesso di democrazia, nella pratica politica ma anche nella percezione sociale. Stressata fra due opposte tendenze, largamente complementari. Da un lato, si afferma una democrazia formale, che trae legittimazione, quasi unicamente, dal voto personalizzato della maggioranza. I partiti, sempre più oligarchici, racchiusi nelle istituzioni e nei centri di potere. La piazza, l'agorà: riassunta dai media e dalla televisione. Una democrazia elettorale. Il potere dei cittadini si esercita e si esaurisce in trenta secondi, una volta ogni 4-5 anni. Quanto basta per fondare l'autorità degli eletti, o meglio, dell'Eletto. Che, per questo, considera illegittimo ogni vincolo posto da poteri non elettivi. E sopporta a fatica e con fastidio ogni critica al suo operato che provenga da giudici, giornalisti, comici e intellettuali. Non eletti dal popolo. è su questa base, con questo argomento che, da sempre, Silvio Berlusconi (e la sua parte) rifiuta le critiche al conflitto di interessi e i tentativi di regolarlo.
Su questa stessa base contesta l'azione della magistratura nei suoi confronti, anche quando si tratta di accuse relative a reati esterni alla pratica di governo e all'attività politica. Perché si tratterebbe di limiti imposti da soggetti "non democraticamente eletti" a un leader "votato dal popolo". Nonostante tutte le accuse e tutti i conflitti di interesse, da cui - è il ragionamento implicito - il "popolo sovrano", con il voto, l'avrebbe assolto, oltre ad avergli attribuito il mandato di governare. è la post-democrazia, denunciata da molti critici, non solo di sinistra. Una democrazia elettorale e personalizzata. Spogliata delle mediazioni e dei controlli. La comunicazione al posto della partecipazione. L'equilibrio dei poteri, finalmente, modificato. Attraverso la riforma della giustizia, mettendo mano alla Costituzione - come ha annunciato il presidente del Consiglio - anche senza dialogare con l'opposizione. Si tratterebbe, come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, del "passaggio... da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico". Post. Appunto. Una democrazia in preda a un degrado organico e quasi biologico. Una sorta di "mucca pazza della democrazia", come l'ha definita Alfio Mastropaolo.
D'altro canto, questa tendenza post-democratica e post-costituzionale sta insinuando, nell'area di opposizione, un sentimento di sfiducia nella democrazia. Riflette e moltiplica il senso di riprovazione verso quella parte di elettori, molto ampia, che, da quindici anni, continua a votare per Berlusconi. Nonostante i suoi stravizi o, forse, proprio per questo. Verso quegli elettori che nel Nord si ostinano - in gran numero - a premiare la Lega. Nonostante il suo linguaggio intollerante e le sue iniziative xenofobe o, forse, proprio per questo. Mentre nel Sud continuano a votare per oligarchie clientelari e corrotte. Senza porsi problemi. Da ciò, come osserva Emmanuel Todd, l'idea, latente e diffusa (a sinistra), che "il popolo è per natura cattivo giudice". E il pensiero - inconfessato e represso - che occorra, per questo, "ritirargli il diritto di voto o, almeno, limitarne seriamente l'esercizio".
Difendere la democrazia dal popolo e perfino dal voto popolare. Oppure usare il popolo e il voto per limitare le garanzie democratiche. Questa alternativa insidiosa racchiude tutto il malessere che oggi attraversa la nostra democrazia rappresentativa.
(14 dicembre 2008) DA repubblica.it
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« Risposta #79 inserito:: Dicembre 15, 2008, 12:13:52 am » |
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RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO - EDIZIONE XI 2008 COMMENTO GENERALE [di Ilvo Diamanti] E' l'anno dell'eterno ritorno. Ritorna Berlusconi alla guida del governo, per la terza volta, dal 1994. Dopo ogni caduta, puntualmente, si rialza. A dispetto di ogni previsione. (Dovesse davvero uscire di scena, un giorno, non ci crederebbe nessuno). Insieme a lui si assiste al ritorno dello Stato, ancor più sorprendente e clamoroso. Un'ipotesi implausibile fino a qualche anno - ma che diciamo? qualche mese - fa. E' l'indicazione più evidente e più importante dell'XI Rapporto su "gli italiani e lo Stato", condotto da Demos per "la Repubblica". Un ritorno tanto più sorprendente perché, un anno fa, la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche e di governo aveva toccato i livelli minimi dal 2000. Non a caso avevamo titolato il rapporto 2007: "Gli italiani prigionieri della sfiducia". Mentre, al tempo stesso, incombeva, pesante, un clima di insicurezza, e quasi di paura sociale, accompagnato da un atteggiamento antipolitico diffuso. Oggi, questo clima, questo atteggiamento sembrano cambiati. Non rovesciati. Ma di certo meno opprimenti. a) È risalita, anzitutto, la fiducia nello Stato e nei suoi organismi più rappresentativi. Il Parlamento, ma soprattutto e anzitutto il Presidente della Repubblica, che ha raggiunto i livelli di consenso dell'era "ciampiana": oltre il 70%. Si tratta di un orientamento politico trasversale. La fiducia in Napolitano, infatti, è alta anche a destra, dove un anno fa l'atteggiamento nei suoi confronti era piuttosto freddo. Merito della sua capacità di imporsi come figura di garanzia istituzionale, in tempi tanto difficili. La sua ascesa, però, riflette anche questa nuova (e antica) domanda di Stato. E' cresciuto notevolmente anche il consenso nell'Unione Europea. Di oltre 10 punti percentuali. Oggi è sostenuta dal 58% degli italiani. Il livello più elevato da cinque anni a questa parte. E' come se la critica antistatalista ed euroscettica degli ultimi anni si fosse smorzata. Frenata dalle paure globali e dall'incertezza locale. b) Assistiamo, parallelamente, alla rivalutazione del "pubblico". E' infatti cresciuta la soddisfazione per i servizi. Le scuole "pubbliche" (a differenza di quelle private), la sanità "pubblica", i trasporti urbani. Perfino il giudizio sulle ferrovie migliora, seppur di poco. Gli stessi "dipendenti pubblici" (per quanto notoriamente "fannulloni") godono della fiducia di quasi un terzo degli italiani. Più delle associazioni imprenditoriali e del sindacato. Nell'ultimo anno, invece, la residua quota di persone che recrimina contro la presenza dello Stato nei servizi pubblici è diminuita ancora. Oggi è ridotta a un quinto della popolazione, per quel che riguarda i servizi sociosanitari. A poco più di una persona su dieci, quanto al sistema scolastico e formativo. c) Ma è in rapporto all'economia che la domanda di Stato appare inarrestabile. Decenni di critiche liberal-liberiste contro l'ingerenza dello Stato padrone che, oltre alle infrastrutture e ai servizi di interesse pubblico, occupava anche il mercato e il campo della produzione. Lo Stato pasticciere, che faceva panettoni e cioccolatini. Oggi quello scetticismo si è dissolto. Secondo l'85% degli italiani "lo Stato deve intervenire sull'economia e sul mercato ogni volta che c'è bisogno". d) Il vento dell'antipolitica soffia ancora, ma meno violento. Beppe Grillo, che ne è la figura più rappresentativa, suscita atteggiamenti più contrastanti di un anno fa. Di certo, i giudizi positivi nei suoi riguardi, per quanto prevalgano ancora su quelli negativi, sono calati sensibilmente (10 punti percentuali in meno). e) Il ritorno dello Stato e del pubblico, lo stallo dell'antipolitica, però, non sembrano annunciare una nuova affermazione delle dottrine keynesiane, dello Stato interventista e regolatore; né una nuova stagione di consenso ai partiti e alla classe politica. La fiducia nei partiti resta debolissima. Quasi due italiani su tre pensano che siano tutti uguali, quattro su dieci che oggi conti solo il leader. E, per quanto in crescita, la fiducia nello Stato viene espressa solo da una minoranza: un terzo. Ciò significa che due persone su tre lo percepiscono con distacco. f) Se la domanda di Stato e di pubblico è cresciuta non è, quindi, per convinzione o per l'affermarsi di nuove idee e di nuove visioni, ma per necessità. Sulla spinta dell'emergenza. E' uno "Stato di emergenza", quello che sembra ispirare gli orientamenti degli italiani. La cui agenda delle priorità e delle preoccupazioni è cambiata profondamente, negli ultimi mesi. Dominata non più dal tema della "sicurezza" personale, dell'allarme per la criminalità, della paura degli altri, in particolare degli immigrati. Ma dalle prospettive economiche e del lavoro. Gli italiani - gran parte di essi, almeno - temono per i propri redditi, per la disoccupazione, per i propri risparmi, per il costo della vita. Temono per il futuro proprio, della propria famiglia e dei propri figli. Per questo motivo non si fidano più degli attori del mercato, della finanza, delle banche. Non si fidano neppure del sindacato. Chiedono, invece, "più Stato". Ma uno Stato barelliere, infermiere, pronto-soccorso. Uno Stato che dia assistenza (ma non "assistenziale": non si può dire). Riscoprono l'Europa, guardata, fino a ieri, con sospetto e diffidenza. Per difendersi dal mondo. Mentre non osano chiedere "più politica" e "più partito". Si limitano a sospendere le critiche più aspre. Sorprende un poco - o forse non poco - che a interpretare questo clima neo-statalista, pervaso da una nuova domanda di pubblico, sia Berlusconi, insieme al PdL, accanto alla Lega. I cui elettori continuano ad essere, di fatto, più liberal-liberisti degli altri. La Lega: nemica dello Stato nazionale e dell'Europa degli Stati e dei capitali. Berlusconi: che si era opposto allo Stato imprenditore e agli imprenditori di Stato, imponendosi come imprenditore alla guida dello Stato. Dopo aver vinto le elezioni, trainato dal vento dell'insicurezza, oggi cerca di intercettare il vento della crisi economica e finanziaria. Anche se non è facile, non sarà facile, neppure per lui, interpretare la domanda di Stato e di pubblico. D'altra parte, è complicato impersonare Keynes, al tempo della depressione. Con investimenti molto limitati. Tagliando il bilancio dello Stato, riducendo (e delegittimando) il personale pubblico: nella scuola, nell'Università, nella sanità. Più che un attore forte e rassicuratore, lo Stato proposto, oggi, dal governo assomiglia, da un lato, a un occhiuto guardiano della buona condotta dei suoi funzionari; dall'altro, a una sorta di associazione caritatevole, che aiuta e fidelizza i cittadini più bisognosi con una tessera. Da usare per gli acquisti e i consumi. Uno "Stato di emergenza" che legittima l'autorità alternando le crociate alla pietà. ----------------------------------------------------------------- RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO - EDIZIONE X 2007 COMMENTO GENERALE [di Ilvo Diamanti] Nell'anno dell'antipolitica, la fiducia nelle istituzioni scende al livello più basso registrato dal 2000 ad oggi. In particolare: la magistratura, la scuola, oltre, ovviamente, allo Stato. Anche, il consenso verso l'Unione Europea, fra i cittadini, cala al di sotto del 50%. Per la prima volta. Mentre il grado di fiducia nella Chiesa diminuisce sensibilmente. Perdono ulteriormente "credito" le banche. Per non parlare delle istituzioni rappresentative: parlamento e partiti. Pubblico e privato. Giustizia e interessi. Enti locali e nazionali. Poteri civili e religiosi. Nessun riferimento pare in grado di esercitare autorità sui cittadini. Questo inverno civile: sembra senza fine. Altri segni lo rammentano, monotoni e puntuali. La soddisfazione dei servizi, soprattutto dei servizi pubblici, continua a calare. In misura massima: i trasporti urbani e le ferrovie. Al tempo stesso, aumentano sensibilmente l'insicurezza personale e l'insoddisfazione per il costo della vita. L'ottimismo economico, riguardo alle prospettive del Paese, ma anche alla condizione familiare, nell'ultimo anno, si è raffreddato ulteriormente. Quasi metà delle persone ritiene, quindi, che oggi sia inutile fare progetti impegnativi "perché il futuro è incerto e carico di rischi". Gli italiani sembrano, ormai, dediti a un esercizio di ordinaria sopravvivenza. D'altra parte, due persone su tre sono d'accordo con l'affermazione che "è meglio guardarsi dagli altri, perché potrebbero approfittare della nostra buona fede". Ci si attrezza, per questo, ad arrangiarsi, così come viene. Impegnati a "resistere", insieme ai propri familiari e alle (poche) persone amiche, giorno per giorno. Perché domani, chi lo sa... Gli italiani. Diffidenti nei confronti degli altri e, ancor più, dello Stato. Di cui sopportano sempre più a fatica la pressione fiscale. Così, si allarga la quota di quanti ritengono lecito - comunque comprensibile - "pagare meno tasse del dovuto". In altri termini: evadere, o almeno eludere. La sfiducia ha smesso di essere un vizio, un problema. Si è trasformata in un sentimento "normale". Quasi un "carattere nazionale". Gli italiani: creativi, fantasiosi. E poi: sfiduciati e diffidenti. Nei confronti dello Stato, del pubblico; ma anche del privato. Degli altri, ma anche di se stessi. Per questo, l'istituzione di gran lunga più credibile è costituita dalle "Forze dell'ordine". Per lo stesso motivo, la parola "ordine" raccoglie consensi elevati e al tempo stesso trasversali. Vi si coglie una domanda di protezione nel "presente", visto che il futuro è difficile perfino immaginarlo. D'altronde, la sfiducia e l'eclisse del futuro si richiamano reciprocamente. Parte della medesima sindrome. Perché la fiducia, come scrisse Georg Simmel, è "un'ipotesi sulla condotta futura". In altri termini, allarga l'orizzonte delle nostre scelte, delle nostre decisioni. Permette di assumere rischi "calcolati". A differenza di ciò che avviene da qualche tempo. Non solo in Italia, ovviamente. La "società del rischio" (delineata da Ulrich Beck) accomuna molti Paesi, molti contesti. Tuttavia, in Italia, l'incertezza è divenuta una patologia. Una condizione che non accenna a stemperarsi. Anzi: si drammatizza, a causa della specifica vicenda che ha caratterizzato la politica e le istituzioni, nell'ultima fase. Dopo la caduta della prima Repubblica, fin dal referendum del 1991 sulla preferenza unica, si è, infatti, avviata la (cosiddetta) "transizione" verso una nuova Repubblica. Definita da nuove regole, nuove istituzioni, nuovi attori politici. Sedici anni dopo non si è ancora conclusa. La discussione pubblica, infatti, prosegue, sempre più accesa, sulle stesse questioni. In base alla stessa agenda. Legge elettorale, cambiamento dei partiti, forma di governo, referendum. Tutto pare fermo e al tempo stesso in continuo movimento. Verso orizzonti più che mai confusi e nebbiosi. Impossibile soltanto immaginare che l'atteggiamento di sfiducia e insicurezza dei cittadini possa mutare. Che gli italiani possano guardare avanti. In questo "stato". Al contrario, questo Rapporto rivela l'emergere di alcuni segnali inquietanti. Gli italiani, infatti, faticano a capire di che si discute. Di conseguenza, non possono avere idee molto chiare, al proposito. Il quadro che appare loro di fronte è, comunque, confuso. Due su tre ritengono che, ormai, non vi siano più grandi differenze tra i partiti. Certo: metà degli italiani pensa che "senza partiti non vi sia democrazia"; ma l'altra metà la pensa, evidentemente, in modo diverso. Anzi il 40%, circa, sostiene che anche senza partiti la democrazia possa funzionare egualmente bene. Ancora: il 54% degli italiani crede che i partiti debbano avere una "base di iscritti". Ma il 60% preferirebbe che la scelta del leader avvenisse "attraverso elezioni aperte a tutti gli elettori interessati". Lo stesso vale per la distinzione fra destra e sinistra. Metà degli italiani la considera ancora utile; ma l'altra metà la pensa diversamente; oppure non pensa nulla. Insomma: più che "liquida" (per evocare la felice definizione di Zygmunt Bauman) la società italiana oggi appare "paludosa". Priva non solo di appigli a cui afferrarsi, per trovare stabilità e sicurezza. Ma anche di punti di riferimento, in base a cui orientarsi. Perché gli appigli e i riferimenti mancano, oppure cambiano di continuo. Oppure ancora: sono incomprensibili. Dal 1991, i cittadini sentono parlare di progetti politici e istituzionali sempre diversi, sempre provvisori, con un linguaggio sempre più cifrato. Partiti che cambiano nome e cognome; coalizioni a "geometria occasionale". E modelli istituzionali sempre nuovi. Diversi. Leggi elettorali continuamente in discussione, continuamente in evoluzione. Poi, la "minaccia" permanente che il governo cadrà domani, al massimo fra qualche settimana. Lanciata, senza soluzione di continuità, dal capo dell'opposizione ma anche, di volta in volta, dai leader della maggioranza. Difficile non provare sconcerto e senso di precarietà quando idee, valori, norme, istituzioni - i riferimenti della vita pubblica e dell'identità personale - appaiono tanto incerti e confusi. Così, le stesse fondamenta del sistema rivelano qualche scricchiolio un po' sinistro. Il consenso nei confronti della "democrazia" rimane alto. Espresso dal 68% dei cittadini. Ma è in calo sensibile, rispetto agli ultimi anni. La democrazia: per una larga maggioranza di italiani, è ancora "il migliore dei mondi possibili". Ma quasi una persona su tre la pensa diversamente. Una "larga minoranza" che cresce ulteriormente nella popolazione giovanile, fino a raggiungere il 40% fra i giovanissimi (meno di vent'anni). I quali appaiono, peraltro, i più coinvolti nella partecipazione politica. Disponibili, soprattutto, a percorrere le vie della protesta. Anche sfidando (32%) le leggi vigenti. E qui, in fondo, sta il significato dell'antipolitica che ha caratterizzato il 2007. La cui figura-simbolo, Beppe Grillo, a dispetto degli anatemi giunti da ogni parte, riscuote grandi consensi. Trasversali. L'antipolitica: più che "rifiuto", evoca "domanda" di politica. Nostalgia del futuro. ... segue su www.demos.it
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« Risposta #80 inserito:: Dicembre 22, 2008, 03:01:16 pm » |
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MAPPE Il "non luogo" dei democratici di ILVO DIAMANTI La ragione del disorientamento del Pd e del centrosinistra è, forse, più semplice di quel si pensa, anche se sgradevole. Molto semplicemente: nostalgia dell'unità. O meglio: dell'Unione. Un sentimento diffuso fra gli elettori di centrosinistra, che non si sono rassegnati davvero alla scelta di correre da soli. O, almeno, ci hanno ripensato. Non intendiamo dare giudizi retrospettivi, ma è ciò che emerge dagli orientamenti degli elettori, rilevati da un sondaggio, condotto nei giorni scorsi su un campione rappresentativo (di 1500 casi) da Demos (per i dettagli: www.demos.it). 1. Per quel che riguarda le intenzioni di voto, le stime confermano le tendenze indicate da altri sondaggi in questa fase (Ipsos, Ispo, Swg). In particolare: a) il centrodestra mantiene il distacco emerso alle elezioni di aprile. Il Pdl si attesta oltre il 37%, la Lega ha scavalcato largamente il 9%. Mentre a centrosinistra il Pd è scivolato sotto il 28% e l'Idv/lista Di Pietro ha più che raddoppiato il suo peso elettorale, raggiungendo la Lega. Fra gli altri, l'Udc tiene la sua base, intorno al 6%, mentre le forze della Sinistra (Rc, Verdi ecc.) mostrano segni di recupero. 2. Se consideriamo il grado di vicinanza ai partiti espresso dagli elettori, emerge un dato singolare quanto significativo. Il Pd intercetta più voti che simpatie. Infatti, la quota di elettori che lo sente "vicino" è, di poco, inferiore rispetto alle intenzioni di voto (26,7%). Al contrario della lista Di Pietro, il cui elettorato "amico" è doppio (19%) rispetto alle intenzioni di voto. Il dato, peraltro, riflette quanto avviene nel centrodestra, dove l'elettorato "amico" della Lega è di tre volte superiore alle intenzioni di voto, mentre il peso degli elettori vicini al Pdl risulta sensibilmente inferiore all'incidenza elettorale (di 6 punti percentuali). In altri termini: c'è una quota di elettori che, oggi, voterebbe Pd e Pdl "nonostante": per inerzia o per calcolo, mentre "il cuore" e l'istinto li spingerebbe altrove. 3. Tuttavia, non è possibile porre Pd e Pdl sullo stesso piano. I problemi del Pdl riflettono l'unificazione ancora incompiuta fra i due partiti fondatori, Fi e An. Inoltre, il Pdl (secondo i sondaggi) non ha perduto consensi elettorali dopo il voto di aprile. Il Pd sì. E parecchi. La tentazione di chiamare in causa la "questione morale" che ha investito le amministrazioni locali di centrosinistra è comprensibile e, in qualche misura, fondata. Ma il paragone con il 1992 ci pare improponibile. Allora si trattò di una crisi di sistema, che investì i partiti di governo, a livello centrale. Oggi le inchieste coinvolgono l'opposizione, già fiaccata dal voto. Alla periferia. La ragione principale del disamore verso il Pd, a nostro avviso, è diversa. Per citare Gian Enrico Rusconi (sulla Stampa): "La questione morale è solo un sintomo dell'impotenza politica". 4. Parafrasando Marc Augé, diremmo che il Pd appare ancora un "non luogo" politico. Un posto di passaggio, un poco anonimo. Non una casa stabile. Capace di fornire identità e memoria. Lo suggerisce l'orizzonte dei riferimenti politici espresso dagli elettori del Pd, tutt'altro che unitario e autosufficiente. Il 30% di essi si dice vicino all'Idv, il 10% all'Udc e il 22% ai partiti della Sinistra. Tra gli elettori che votarono per il Pd nello scorso aprile, la percentuale degli amici di Di Pietro sale di circa 4 punti percentuali. La stessa misura, circa, di quanti, dopo le elezioni, hanno spostato la scelta di voto dall'Idv al Pd. Ciò suggerisce che l'elettorato del Pd sia contiguo a quello dell'Idv e si sovrapponga ad esso in molti punti. Ma l'elettorato del Pd si sente vicino anche agli altri partiti di opposizione. All'Udc e alla Sinistra radicale. Tanto che li vorrebbe alleati. In particolare, oltre il 50% degli elettori vicini al Pd vorrebbe allearsi con Di Pietro, il 37% con l'Udc, altrettanti con la Sinistra radicale. Il 39%, per la verità, preferirebbe che il Pd continuasse la sua marcia solitaria, ma circa un terzo di essi accetterebbe di allearsi con le altre forze di opposizione. In particolare con l'Idv e l'Udc. 5. Il principale problema del Pd, a nostro avviso, richiama, dunque, la difficoltà di delimitare con chiarezza il proprio "terreno di caccia". I suoi elettori - potenziali e reali - continuano a immaginarsi parte di un'area più ampia, a cui partecipano gli alleati di ieri: la Sinistra e soprattutto Di Pietro. Ma anche l'Udc. La prospettiva a cui Veltroni (e non solo lui) intendeva sfuggire quando, nello scorso gennaio, annunciò l'intenzione di far correre da solo il Pd. Naturalmente, le obiezioni a questa lettura sono immediate quanto legittime: a) l'Unione è improponibile; la sua fine è stata sancita dal risultato deludente del 2006 e dall'esperienza controversa ed estenuante del governo Prodi; b) i riferimenti di programma e di valore fra i partiti di opposizione erano e restano distanti e, talora, incompatibili; c) il percorso del Pd è appena partito, occorre attendere perché si radichi fra gli elettori. 6. Tuttavia, è evidente la perdita di appeal del Pd da quando si è affacciato sulla scena politica. Nei primi mesi dell'anno il suo elettorato potenziale era molto più ampio. Di circa 20 punti percentuali. È, peraltro, comprensibile anche la ragione "politica" di questo sfaldamento: l'incapacità di andare "oltre" Berlusconi. Lo slittamento di una parte dei suoi elettori verso Di Pietro sottolinea, infatti, una domanda di opposizione "antiberlusconiana". Frustrante per chi (come noi) pensa a un'alternativa capace di esprimere le proprie specifiche ragioni. Il problema, purtroppo, è che Berlusconi stesso contrasta questo disegno. Perché, più di ogni altro contenuto, lui (la sua immagine, i suoi interessi) resta il principale collante e, al tempo stesso, la principale fonte di identità del governo e della maggioranza. Oggi più di ieri. Non solo perché la Lega fa di tutto per marcare le proprie differenze, per sottolineare la propria missione di "partito del Nord". Ma perché il Pdl, ancor più del Pd, appare una casa abitata da inquilini diffidenti, l'uno dell'altro. Nel centrodestra, così, coabitano in tanti, diversi più che mai. Ex democristiani e socialisti, federalisti, secessionisti e nazionalisti, liberisti e colbertiani, postfascisti (e nostalgici). Ultracattolici e libertini. Nordisti e sudisti. Antidipietristi e anticomunisti. Tutti insieme. È l'Unione di Destra. Tenuta insieme e identificata da Berlusconi. Il berlusconismo è, quindi, l'ideologia dominante della seconda Repubblica ma, al tempo stesso, una tecnica di coalizione. Il Pd, da solo, senza interpretare e coalizzare l'antiberlusconismo non andrà mai molto oltre il 30%. Il che significa, con questa legge elettorale: rassegnarsi all'opposizione eterna. (21 dicembre 2008) da repubblica.it
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« Risposta #81 inserito:: Dicembre 29, 2008, 10:33:33 am » |
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La scomparsa dell'albero di Natale
di ILVO DIAMANTI
E' un Natale strano. Sicuramente più buio degli altri. Non ho fatto indagini rigorose, al proposito. Non ho realizzato sondaggi su campioni rappresentativi della popolazione. Mi sono limitato a una passeggiata intorno a casa mia. Guidato dal mio schnauzer. Quindi abbastanza lunga, perché il mio cane non è mai stanco, quando riesce a trascinarmi fuori. E ho cominciato a guardare in giro, a fare un po' di conti.
Gli alberi di Natale sono quasi scomparsi. Non solo quelli "strappati" dai boschi, ma anche quelli artificiali. Ecologici, come si usa dire nel linguaggio eticamente corretto. In effetti: finti. Non si vedono quasi più. Ne avrò contati cinque-sei in tutto il quartiere, peraltro densamente popolato e, negli anni scorsi, illuminato quasi a giorno, la sera: dagli alberi di Natale. D'altra parte, nelle case dove mi sono recato in questo periodo ho visto pochi presepi oltre che pochi alberi di Natale. Oppure presepi e alberi lillipuziani. Mignon. Alberelli alti trenta centimetri accanto a presepi larghi venticinque. Capanna, Giuseppe, Maria, bue e asinello intorno alla culla vuota. Con bambinello a parte, da riporre nella culla la Santa Notte.
Ho girato il quartiere trascinato dal cane senza accorgermi quasi del Natale che arriva. Se non per qualche filo di luci intermittenti arrotolato intorno ai balconi o al corrimano delle scale di ingresso. Qua e là un Babbo Natale aggrappato al muro. Non si capisce bene se in fuga oppure in arrivo. Orrendi. Li brucerei tutti.
E mi sono chiesto cosa stia succedendo, cosa sia successo. Questo Natale mesto e un poco oscuro, senza alberi, pochi presepi e qualche luce. Perché? Perché - mi sono detto - la crisi spinge al risparmio. Induce a ridurre i consumi energetici. E poi, manca l'atmosfera. Perfino la meteorologia congiura ad estraniarci. Come sentire il Natale quando da settimane siamo in mezzo a un monsone, pioggia pioggia e ancora pioggia, la sera nebbia? Manca il pathos.
Perché c'è poco da festeggiare e da celebrare. Con la crisi che incombe, il lavoro incerto, i redditi a rischio, il futuro corto e angoscioso. Chi ha voglia di luci, alberidinatalepresepiequantaltro...
Perché il senso del sacro e del mistero si è perduto. In questa società post-secolare. Anzi: post e basta. Il Dio che si fa uomo non stupisce, non richiede un "atto di fede". Non dà gioia. Eclissato dal virtuale, da Second Life, dai miracoli della tecnologia che tutto crea... E' routine.
Perché ormai è sempre Natale e Natale è, da troppo tempo, un giorno come gli altri. Neppure più una festa consumista, visto che il consumo è rito quotidiano e per questo non può stupire. Ci siamo assuefatti.
Perché è finito anche il tempo in cui i bambini attendevano la notte di Natale con gioia e timore. Non riuscivano a dormire dall'eccitazione. E temevano. Che Babbo Natale e Gesù Bambino se ne sarebbero andati senza neppure entrare se i bimbi erano ancora svegli. Non ci crede più nessuno a Babbo Natale tanto meno al Bambin Gesù. Oggi. E comunque se anche arrivassero non riuscirebbero a entrare nelle case. Troverebbero i bimbi in piedi fino all'alba, perché Natale è festa e si tira tardi davanti alla tivù, al pc e alla playstation. E quanto ai regali... i nostri figli unici: ne sono sommersi da quando sono nati. Perché dovrebbero attendere il Natale con ansia?
Poche luci, pochi alberi di Natale e pochi presepi. Poca attesa e poca emozione. Per dirla con Spinoza: è l'epoca delle passioni tristi. Ma forse "passioni" è una parola fin troppo forte. Come la "tristezza". Anche parlare di "epoca" pare esagerato. Più che un'epoca: un periodo. Un giorno come altri. Neppure tanto triste. Neppure tanto buio. Ma grigio. Qualche luce intermittente e un babbo natale dimenticato sul muro dietro casa.
(26 dicembre 2008) da repubblica.it
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« Risposta #82 inserito:: Gennaio 01, 2009, 07:45:44 pm » |
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Ilvo Diamanti.
La banalizzazione degli auguri
Ho trascorso le feste impegnato a rispondere agli auguri. Via sms. Alcuni, lo ammetto, li ho inviati anch'io. Anzi: molti. E, ovviamente, non è ancora finita. L'opera continuerà per qualche giorno ancora. Dicono, i gestori della telefonia mobile, che in questi giorni l'aumento del traffico degli sms sia aumentato in modo spropositato. Di 25 punti percentuali in più rispetto a un anno fa. Sarebbe stato inviato un miliardo di sms solo a Natale. Pare. Ma deve essere vero. Io, nel mio piccolo, continuo a sentire il mio cellulare che segnala l'arrivo di nuovi messaggi. Tre ticchettii. A ripetizione.
E' il prezzo della tecnologia. Basso, dirà qualcuno. Anzi, più che un prezzo, un risparmio, perché inviare gli auguri per posta - una cartolina, un biglietto, una lettera - costava molto di più, in tempo e, forse, ma non ne sono certo, anche in denaro. Però - bisogna aggiungere - per via postale il numero di messaggi di auguri inviato era molto più ridotto. Il che costringeva a selezionare. A scegliere le persone per cui valesse la pena di "spendere" tempo. Per amicizia, riconoscenza, diplomazia, deferenza. Molti e diversi i motivi. In fondo, gli auguri sono un dono. Il cui fine non è solo altruista. Seguono anch'essi una logica di utilità, per quanto implicita. Servono a tener viva una relazione.
Fanno parte di un complesso gioco di reciprocità. Anzi, di scambi. Gli auguri, infatti, si "scambiano". Il cellulare, per questo, ne riduce il valore e il significato. Riducendoli a un rito elettronico, routinario e superficiale. Si fanno gli auguri in qualche nanosecondo. "Cari auguri...". E, pochi secondi dopo, tre tocchi e arriva la risposta. Oppure, a tua volta, senti il segnale del cellulare. Apri il messaggio e leggi: "Cari auguri...". Un secondo dopo hai già risposto: "... anche a te". Non è più un gioco di scambi e di relazioni. Solo una questione di riflessi. A volte non ti soffermi neppure a guardare di chi si tratta. Anche perché non sempre è possibile. A volte arrivano sms da numeri che non ho memorizzato. E il messaggio è firmato da nomi comuni. Molto comuni. Troppo. "Un Natale felice a te e ai tuoi. Paolo". Ma io conosco almeno una ventina di persone che si chiamano Paolo. Di quale si tratterà? Per cui non mi pongo problemi e rispondo: "Anche a te e alla tua famiglia. Ilvo". Tanto costa poco. Anche se la tecnologia ricorre a soluzioni sempre più elaborate, per simulare il biglietto di auguri tradizionale.
Messaggi sofisticati, con disegni sempre più complessi. Alberi-di-natale-con-luci-intermittenti. Presepi-con-o-senza-remagi. Accompagnati, talora, da canti natalizi. Quattro-cinque note. La tentazione, ovvia, è di usarli a nostra volta. Sostituire la firma, e "inoltrare" ad altri. Evitando, possibilmente, di girarli a chi te li ha spediti.
Gli sms: hanno impoverito il rito degli auguri. Lo hanno burocratizzato definitivamente. Completando l'opera avviata dalle e-mail. Che, però, erano e restano prerogativa di una cerchia ristretta. Perché la posta elettronica la usa, comunque, una minoranza colta di persone, i cellulari più o meno tutti. Della posta elettronica gli sms hanno riprodotto la tendenza a standardizzare il rapporto fra gli interlocutori. Colpa delle mailing-list. Delle agende di indirizzi che possono essere usate per mandare messaggi collettivi. Talora elaborati: poesie, detti celebri, citazioni di filosofi greci o da mistici medievali. I più militanti: frasi di teologi della liberazione. E' la situazione peggiore. Come rispondere se arriva, per sms, questa massima di Meister Eckhart: "... finché avrete dei desideri, Dio li soddisferà, avrete desiderio di eternità e di Dio fino a che non sarete perfettamente poveri. Poiché è più povero solo chi non vuole nulla e non desidera nulla" ?
Sei disarmato. Non puoi reagire con: "Auguri anche a te e ai tuoi". Si instaura così una relazione asimmetrica, almeno in apparenza. Perché, di fatto, quella citazione è stata spedita a qualche decina o centinaia di indirizzi. Una volta per tutte. Non a uno a uno. Anche per questo il Natale e le altre feste stanno perdendo il loro valore sociale. Troppi doni, pochi alberi di Natale, pochi presepi, pochi, pochissimi auguri veri, fatti in modo diretto. Ormai per marcarne il segno esclusivo, come un dono dedicato, gli auguri devi farli di persona. Almeno per telefono.
Altrimenti tutto scade nell'assoluto impersonale. I tentativi di personalizzare gli sms collettivi, usando, per risparmiare tempo, lo stesso messaggio ma cambiando, di volta in volta, il nome del destinatario insieme all'indirizzo, trasmettono, comunque, una sensazione insopprimibile di artefatto. E lasciano aperti varchi pericolosi a equivoci imbarazzanti.
A me, ad esempio, il giorno di Natale è arrivato un sms - firmato da una persona a me nota - che recitava: "Caro Matteo, tanti cari auguri a te e famiglia". Matteo. Così gli ho risposto: "Anche a te e ai tuoi, caro Marco". Io non mi chiamo Matteo. Lui non si chiama Marco. Così ho ristabilito una relazione simmetrica. Fra due persone che si conoscono ma non si ri-conoscono. Un gioco di maschere e di finzioni. Forse un segno dei tempi.
(1 gennaio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #83 inserito:: Gennaio 12, 2009, 01:11:11 am » |
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ECONOMIA MAPPE
Se l'Italia perde l'arte di arrangiarsi
di ILVO DIAMANTI
CE LA FAREMO anche stavolta. Gli italiani ne sono certi. Lo testimoniano i sondaggi. Lo rammentano - e lo ripetono - le autorità più autorevoli. Della politica e dello Stato. In ogni occasione. Senza differenze politiche, per una volta. Ce la faremo come abbiamo sempre fatto in passato. Tanto più se e quando ci davano per spacciati. Dopo la guerra, dopo gli anni bui del terrorismo e della crisi. Dopo la fine della prima Repubblica, Tangentopoli e la recessione. Quando nessuno avrebbe scommesso che saremmo entrati nella Ue.
E dopo Calciopoli? Abbiamo vinto i mondiali. Per cui ce la faremo anche stavolta. Noi, italiani, maestri dell'arte di arrangiarsi. Considerata il distintivo del nostro "spirito nazionale". Come dimostrano le indagini condotte da LaPolis per liMes negli ultimi quindici anni. L'arte di arrangiarsi. Ammessa da un'ampia quota di popolazione. Senza timidezza e senza vergogna.
D'altronde, di che ci dovremmo vergognare? L'arte di arrangiarsi riflette e descrive la nostra capacità di adattamento. Che sconfina nel trasformismo opportunista, che tanto materiale ha fornito alla "commedia all'italiana". Citiamo, per tutti, un film di Pietro Germi degli anni Cinquanta. Intitolato (guarda caso): "L'arte di arrangiarsi". Protagonista un Alberto Sordi inarrivabile, che, per "adeguarsi" ai cambiamenti del paese, diviene, volta a volta: socialista, fascista, comunista e democristiano.
Tuttavia, l'"arte di arrangiarsi" non riflette solo i nostri vizi, ma anche alcune importanti virtù. Descrive, in particolare, la capacità innovativa e creativa degli italiani. Non a caso, nelle analisi sul carattere nazionale, è spesso associata all'arte, alla moda, all'imprenditorialità. Ma anche alla cucina, allo stile di vita. Gli italiani, in altri termini, si immaginano un popolo di lavoratori, imprenditori, artisti, artigiani e commercianti. Magari anche furbi e opportunisti. Insofferenti alle regole. Diffidenti verso lo Stato. Capaci, però, di reagire alle difficoltà più difficili su base individuale e, ancor più, familiare e localista.
Visto che l'attaccamento alla famiglia e alla città completa il marchio dell'identità nazionale. La crisi, quindi, non deve spaventare, come sostiene il Presidente del Consiglio, che ha interpretato ed esportato con successo l'arte di arrangiarsi. La maggioranza degli italiani si riconosce in lui - e continua a votarlo - anche per questo. Perché ne impersona, senza timidezza, le virtù e i vizi. Per cui sarà dura, ma "ce la faremo", anche stavolta.
Forse. Perché qualcosa, comunque, sta cambiando in noi. Dopo decenni di benessere e di successi, si coglie qualche scricchiolio nella nostra capacità di adattamento. L'"arte di arrangiarsi", nella percezione sociale, continua a ottenere grande considerazione. Tuttavia, una recente indagine condotta da LaPolis-Demos per Intesa Sanpaolo (uscirà su liMes, in un numero dedicato all'Italia: alcune tabelle in www. demos. it) la vede superata dall'attaccamento alla famiglia, fra i caratteri che distinguono gli italiani. Il che suggerisce uno slittamento emotivo dell'opinione pubblica che intacca, in qualche misura, anche il significato dell'"arte di arrangiarsi". Dal polo creativo e innovativo a quello difensivo. Un altro segnale, in tal senso, è la perdita di appeal della spinta imprenditiva.
La percentuale di quanti - per sé e per i propri figli - sceglierebbero un "lavoro autonomo", nel Nordest (l'area dove questa domanda è tradizionalmente più estesa) negli ultimi mesi (molto prima della recessione) si è attestata al di sotto del 28%. Sempre tanto e tuttavia 5 punti meno rispetto al 2002 e circa 8 meno del 2000 (Demos per "Il Gazzettino", marzo 2008). Un atteggiamento che si riflette nella realtà. Da un paio d'anni, infatti, la nascita di nuove imprese procede a ritmi molto rallentati. Tende, anzi, ad essere contrastata e talora sovrastata dalla cessazione di numerose attività aziendali.
È un sintomo significativo, vista l'importanza dell'impresa in Italia, come mito e modello, oltre che come fattore di reddito e sviluppo. Il problema è che i fili dell'arte di arrangiarsi si stanno, in qualche misura, logorando. Ma, soprattutto, si fatica a intrecciarli. La famiglia e il localismo, come le appartenenze professionali: sono divenuti luoghi di autotutela per interessi concorrenti e irriducibili. Il dinamismo molecolare della società, a cui fanno riferimento le analisi di De Rita e del Censis, oggi produce effetti dissociativi. Accorcia e schiaccia l'orizzonte delle strategie personali. Perché, a differenza del passato, si è perduta l'idea del futuro.
D'altronde, è il futuro stesso, come idea, ad essere passato di moda, reso inattuale dal presente infinito. Dalla tendenza irresistibile a guardare indietro, a discutere del passato che non passa mai. Ma è il passato stesso a rendere più difficile guardare e marciare in avanti, in modo infaticabile come prima. Perché la società italiana ha conquistato un benessere largo. Ha appreso i piaceri del vivere bene. È divenuta più pingue. Si è un poco impigrita. È invecchiata. Ha parcheggiato (e nascosto) i giovani in angoli confortevoli, ma periferici. Per cui fatica a coltivare l'arte di arrangiarsi come professione creativa e costruttiva.
Non ha più il fisico, la rabbia di un tempo. (Anche se appare perennemente incazzata). Ha smarrito un po' dello spirito animale che le permetteva di reagire e innovare comunque e dovunque. Teme di perdere il benessere ottenuto, dopo averlo conquistato al prezzo di tanta fatica. In più, deve fare i conti con altre società lontane che la globalizzazione ha reso vicine.
Demograficamente giovani, economicamente aggressive. Mentre gli "altri" intorno a noi ci inquietano. Non solo perché minacciano la nostra sicurezza, ma perché ci sfidano sul nostro terreno. L'imprenditorialità, ad esempio. Ci sono 230 mila aziende i cui titolari provengono da paesi esterni alla Ue (anche per questo la Lega vuole imporre loro una fideiussione onerosa all'avvio di un'attività economica; sono tanti e fanno concorrenza ai "padani" in casa loro).
Quanto alla politica, i cambiamenti nella seconda Repubblica sono talmente rapidi e profondi che il personaggio di Alberto Sordi oggi faticherebbe ad adeguarsi. Più che di trasformismo è tempo di camaleontismo. Per narrarlo ci vorrebbe Woody Allen. Se volesse girare una nuova versione di "Zelig", l'Italia gli fornirebbe uno scenario ideale.
(11 gennaio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #84 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:37:37 pm » |
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LE MAPPE
Se si scioglie il Polo del Nord
di ILVO DIAMANTI
Intorno a Malpensa si è combattuta una guerra politica destinata a durare ancora a lungo. Condotta dentro i confini del centrodestra, mischia simboli e interessi riassunti da una bandiera o forse un mito. Il Nord.
Ma, in effetti, la posta in gioco appare più ampia. Il territorio come fondamento della rappresentanza e dell'identità che accomuna e divide il centrodestra. Il quale, d'altronde, nasce così, nel 1994. Un'invenzione di Silvio Berlusconi, attuata coalizzando forze politiche largamente antitetiche. Oltre ai neodemocristiani del Ccd (i meno "pesanti" sul piano elettorale), Lega Nord e Alleanza Nazionale, cioè la Lega Sud. Il Federalismo ultrà (in seguito secessionista) e la Nazione. Il tutto tenuto insieme dall'Italia, apertamente evocata nel simbolo e nel nome dal partito personale creato da Berlusconi. Forza Italia. Più che un marchio, un grido. L'inno dell'Italia azzurra, che echeggiava la passione sportiva e la patria televisiva. Più dell'Italia come nazione: la Nazionale di calcio e Italia 1. Il Milan più di Milano. Anche per questo e in questo modo Berlusconi riesce a coalizzare gli opposti, a renderli compatibili. Attraverso un network ideologicamente leggero e personalizzato. Capace, però, di associare tutti i possibili significati del territorio. Il Nord, la Nazione, l'Italia, il federalismo regionalista. Vincendo, così, la sfida con il centrosinistra, attardato a esibire bandiere ideologiche ormai vecchie e scolorite. Quindici anni dopo, molto è cambiato, ma queste radici restano. Salde quanto prima, come dimostra la vicenda di Malpensa. Su cui intendiamo tornare solo per precisare la mappa che ne spiega i conflitti.
Alitalia, anzitutto. Riguarda Roma, visto che da sempre gravita su Fiumicino. Non può interessare la Lega, da cui si distanzia, anzitutto, per motivi di lessico e identità. Alitalia è Al-Italia. "O si fa Al-Italia o si muore", proclamava Berlusconi prima e dopo le elezioni, sostenendo la necessità di salvare la compagnia di bandiera in nome dell'interesse nazionale. Dell'italianità. Non poteva e non può, la Lega, rispondere al richiamo di una bandiera al-italiana. Peraltro, piantata a Roma. Divenuta, oggi, capitale non solo della Nazione ma di Alleanza Nazionale. Alla Lega interessa assai di più Malpensa. Situata lungo l'asse fra Milano e Varese. Dove si incontrano e si scontrano diversi interessi e diversi attori politici. Diverse facce della stessa alleanza, in aperto contrasto e in aperta concorrenza.
a) La Lega, anzitutto. In quest'area ha radici profonde e, oggi, una base elettorale molto ampia. Una sorta di capitale padana.
b) Formigoni, governatore della Lombardia da quasi quindici anni. Interprete dell'esperienza di Cl, del Movimento popolare. Oggi della Compagnia delle Opere. Determinato a mantenere un ruolo importante nel rapporto con Roma. In nome della Regione e della Lombardia. Sfidando, così, apertamente la Lega di Bossi che è, in origine, Lombarda.
c) Letizia Moratti, sindaco di Milano. L'altro polo della contesa di Malpensa. Teme di vedere la "sua" città risucchiata dalla vertenza fra il Nord della Lega, la Lombardia di Formigoni e il paese di Al-Italia, su cui regna Berlusconi. Il cui presidio è a Milano. Per questo non può accettare il ridimensionamento di Linate, l'aeroporto metropolitano. Per questo non può accettare un confronto che vede lei e la sua città comprimarie più che protagoniste.
d) Sopra tutti - e per questo al centro della guerra - c'è Silvio Berlusconi. Il passaggio della vertenza da Alitalia a Malpensa lo disturba parecchio. Perché accentua le distinzioni e le distanze originarie della sua invenzione: il cartello politico del territorio. Il Polo del Nord e del Sud. Riapre lo scontro fra Milano e Roma, alla base dell'identità leghista, ma anche del suo successo. E alimenta nuovi conflitti "locali": fra Milano, la Lombardia e il Nord. Ma Berlusconi teme, soprattutto, il riaprirsi della "questione settentrionale" oggi che al governo c'è lui e la sua leadership si sta allargando da Forza Italia al PdL. Il Nord, d'altra parte, è divenuto un riferimento largamente condiviso dai cittadini, come emerge da una recente indagine LaPolis-Demos per Intesa Sanpaolo (uscirà su Limes, in un numero dedicato all'Italia). È l'ambito territoriale in cui si riconosce maggiormente circa il 20% dei cittadini residenti nelle regioni dell'Italia settentrionale (ad esclusione dell'Emilia Romagna). Una quota di poco inferiore a quella dell'Italia, ma più ampia rispetto alla regione e perfino alla città. In altri termini, oggi i cittadini del Nord si dicono nordisti più ancora che milanesi o lombardi. Questa "identità", peraltro, diventa dominante nella Lega. Fra i suoi elettori, infatti, i "nordisti" salgono al 38%, mentre gli "italiani" sono il 22% e le altre appartenenze (città, regione) scivolano sotto il 10%. Al contrario, gli elettori del PdL si sentono soprattutto "italiani" (intorno al 25%, come coloro che dichiarano attaccamento alla loro città) mentre i "nordisti" sono il 7%. Il 16% di essi, al contrario, considera il Nord il riferimento territoriale più lontano. Da ciò il problema per Berlusconi e, in fondo, per il centrodestra: la titolarità della rappresentanza territoriale ne fonda ma al tempo stesso ne mina il consenso. Tanto più quanto più assume rilevanza, sul piano degli interessi e dell'identità. Non solo perché divide il Nord da Roma e dal Mezzogiorno. Anche perché divide "i" Nord, soprattutto nell'area lombarda. Il problema, peraltro, è destinato a riproporsi e, per alcuni versi, a moltiplicarsi nel prossimo futuro. Soprattutto in occasione della riforma federalista.
Un'ultima considerazione. La vertenza di Malpensa delinea una geografia del Nord semplificata e ridotta. Una sola capitale: Milano, allargata alla Brianza. Una sola regione: la Lombardia. Tutto il resto: periferia. Il Nordovest e il Nordest. Torino - dove governa il centrosinistra - e il Veneto - dove il PdL e soprattutto la Lega sono più forti che in Lombardia. Difficile parlare di "questione settentrionale" quando sparisce mezzo Nord.
(18 gennaio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #85 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:44:27 am » |
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MAPPE Tra Lega e Pd la strategia del flirt di ILVO DIAMANTI Potrebbe la Lega tradire il Pdl per fuggire con il Pd? E Bossi abbandonare Berlusconi per Veltroni? Il quesito echeggia nelle stanze della politica dopo il voto sul disegno federalista, bandiera della Lega, approvato nei giorni scorsi con il voto della maggioranza e l'astensione del Pd e dell'Idv. Di fatto: con il consenso - condizionato - del centrosinistra. Difficile non rammentare il 1995, quando la Lega, dopo la rottura con il Polo di Berlusconi, si presentò da sola a tutte le scadenze elettorali. Appoggiando, in alcuni ballottaggi, l'Ulivo. Il quale vinse, per questo, le elezioni regionali del 1995, ma anche le politiche del 1996. Quando la Lega trionfò. Inneggiando alla secessione. È possibile che in futuro si riproponga lo stesso schema? Che la Lega, partito del Nord, possa sfidare il Pdl, il Polo del Centrosud, ancorato a Roma (An) e in Sicilia (Forza Italia)? Quesito legittimo, visto che, alle elezioni legislative, la Lega ha conquistato oltre l'8% dei voti, a livello nazionale, ma quasi il 20% nel Nord (esclusa l'Emilia Romagna). E successivamente, secondo i sondaggi, è cresciuta, fino a superare il 10%. Il che significa: primo partito in Lombardia e Veneto, dove si aggirerebbe intorno al 30%. D'altra parte è chiaro che il concorrente diretto della Lega è il Pdl, non certo il Pd. Tra i simpatizzanti della Lega, 2 su 3 si dicono vicini al Pdl (nel Nordest, sondaggio Demos per il Gazzettino, luglio 2008). Reciprocamente, 8 simpatizzanti su 10 del Pdl si dicono vicini alla Lega. Passando alle radici territoriali, alle elezioni del 2008 la Lega si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni su un totale di 4000 (pressappoco) che ne conta il Nord (senza l'Emilia Romagna). Nella gran parte dei casi, però, si tratta di un "ritorno", visto che, dopo il 1996, erano stati "conquistati", perlopiù, da FI (si veda l'analisi delle elezioni 2008 su www.demos.it). Da ciò il problema, per la Lega: trattenere gli elettori "mobili" che, a ondate, in alcune occasioni la spingono in alto, allargando la base "fedele", peraltro ampia e solida. Perché più di ogni altra forza politica la Lega presenta i caratteri del "partito di massa". È radicata nella società e sul territorio del Nord, dove governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Dispone di una base fedele, rilevante: il 4% su base nazionale, poco meno del 10% nel Nord. Questi elettori la votano sempre e comunque. Per atto di fede. Esprimono un alto grado di identità "comunitaria". Circa 2 su 3, fra i leghisti, affermano di frequentare in larga maggioranza persone che hanno "le loro stesse opinioni politiche" (LaPolis, maggio 2008, 2100 casi; per dati e tabelle rinviamo a www.demos.it). Al tempo stesso, però, più degli altri partiti, la Lega riesce ad attirare elettori da altri settori politici, ma anche a perderli. Con un effetto a fisarmonica. È già avvenuto in passato, negli anni Novanta. Si è verificato anche in questo decennio. Alle ultime elezioni, in particolare, ha raddoppiato i voti, perché accanto agli elettori fedeli se ne sono aggiunti altrettanti di nuovi. Ne possiamo osservare i principali caratteri utilizzando i dati di un'indagine condotta nei mesi successivi al voto. Gli orientamenti che distinguono maggiormente i leghisti "nuovi" dai "fedeli" sono, in ordine di importanza, la paura degli immigrati, la domanda di sicurezza, la sfiducia nello Stato e nella politica. Aspetti che, perlopiù, specificano l'insieme della base leghista dall'elettorato nel complesso. Ma che raggiungono, fra i neo-leghisti, un livello elevatissimo, il più alto in assoluto. La Lega, in altri termini, ha interpretato il senso di insicurezza che ha investito la società italiana, soprattutto nel Nord. Non è un caso che abbia conseguito la maggior crescita elettorale in due province, Verona (+19 punti percentuali) e Treviso (+ 17), dove governano Tosi e Gentilini. Sindaci (o prosindaci) leghisti, capaci più di ogni altro, di intercettare - ma anche di alimentare - le paure suscitate dalla criminalità e dai flussi migratori. Inscindibilmente collegati, nel senso comune. Inoltre, i "nuovi" elettori della Lega l'hanno usata come un messaggio antipolitico. Quasi uno su due, tra essi, spiega il proprio voto anzitutto come un atto di "protesta". Il "federalismo", per questo, è importante, per la Lega. È una bandiera condivisa, in grado di tenere insieme i sentimenti e i risentimenti di un elettorato, peraltro, molto differenziato. Ma, nel tempo della politica come marketing, è stato "clonato". Intercettato e riproposto da tutti, come ogni messaggio dotato di appeal. Così il Federalismo, parola scandalosa vent'anni fa, oggi echeggia dovunque. Ne parlano tutti, senza timidezza e senza vergogna. Anche i più centralisti dei centralisti. Anche le forze politiche più "meridionali". Poco è costato ai "romani" di An e ai "siciliani" di FI sostenerlo. E al Pd astenersi. Tanto il decreto del governo è in-definito. Non se ne conoscono con precisione i costi e i vincoli. Il federalismo a parole: dispiace a pochi. Giusto all'Udc. Paradossalmente: per giocare il gioco della Lega. Per distinguersi da tutti. Ma davvero la Lega può "staccarsi" da Berlusconi come nel 1994? Ciò che avvenne dopo quella data dovrebbe apparire educativo. Visto che la Lega secessionista trionfò nel 1996 per crollare successivamente. Quando, solitaria, negli anni seguenti finì ai margini del sistema politico. Abbandonata da molti elettori che l'avevano votata, in precedenza, per costringere Roma a una maggiore attenzione verso il Nord, non per andarsene dall'Italia. Oggi, come nel 1996, la Lega è tornata forte. Ma insieme al Pdl. A Berlusconi. Facendo l'opposizione non "al" ma "nel" governo. Il dialogo con il Pd può servire alla Lega. Per marcare le distanze da Berlusconi e da Fini. Da Roma Ladrona e dalla Sicilia Sprecona. Per fare pressione. Ottenere di più. Non oltre. Perché i leghisti non sono più, come un tempo, estremisti di centro. Quando - a metà degli anni Novanta - i loro elettori non stavano né a destra né a sinistra, ma "fuori" dallo spazio politico. Oggi, invece, la Lega è naturaliter affine (e concorrente) rispetto ad An, per cultura securitaria, e rispetto a Berlusconi, per cultura (anti) politica. Sullo spazio politico (i suoi elettori - nuovi e fedeli, non importa - si situano più a destra del Pdl. Non accetterebbero mai un'intesa stabile con il Pd. Con la Sinistra. Con gli ex democristiani e comunisti. Se non in occasioni e in contesti specifici. È solo un flirt. Per ingelosire l'amante e costringerlo a un'attenzione maggiore. (26 gennaio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #86 inserito:: Gennaio 29, 2009, 09:10:27 am » |
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Ilvo Diamanti
Società rotonda, anzi rotatoria
Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie. In linguaggio familiare: rotonde. Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare.
Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor.
Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi cresco, diventa grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano. Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici.
E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale.
La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti. Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page".
Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio. Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo.
Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano". Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale.
Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione. Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio. Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia.
Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento.
Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione. Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo. Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo. E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario.
La rotonda. La rotatoria. Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro. Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri.
Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).
Non è la società liquida di cui parla Bauman. Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.
(23 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #87 inserito:: Febbraio 06, 2009, 06:55:19 pm » |
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Ilvo Diammanti
Medici (delatori) in prima linea
Probabilmente è involontario il doppio registro che impronta la comunicazione del governo, in questa fase. Un male necessario, generato dalla convivenza di soggetti politici tanto diversi. L'idea di libertà e, parallelamente, di controllo individuale che emerge - anzi: erompe - da alcune iniziative assunte con singolare sincronia.
Evoca una visione strabica e dissociata. Una doppia morale.
Da una parte, il chiodo della libertà di parlare senza essere ascoltati. L'ossessivo mantra sulla necessità di impedire le intercettazioni, limitandole al minimo. Non importa se utili alle inchieste. Anche se l'intenzione si scontra con l'impossibilità pratica di attuarla. Perché le orecchie che ascoltano le nostre conversazioni sono ovunque. Come gli occhi che ci scrutano. Noi siamo "tracciati" a ogni passo e in ogni conversazione. Altro che i prodotti alimentari. E se qualcuno ci osserva e ci ascolta è difficile - velleitario - impedirgli di archiviare le nostre parole, i nostri messaggi, le nostre azioni, i nostri percorsi internautici. Nonostante le leggi. Che possono condizionare l'azione delle autorità pubbliche. Magari dei giornali.
Non degli "altri" spioni, nascosti nell'ombra, nell'etere, nella rete, lontano da qui.
D'altronde, il guardonismo è divenuto un genere mediatico di successo. Come dimostrano i grandi fratelli, le talpe e le isole dei presunti famosi. Ma il Presidente del Consiglio - e proprietario di Mediaset, paradiso dei reality - insiste. Anche perché - dice - lui, per primo, è stato intercettato e certe sue conversazioni se uscissero lo convincerebbero ad andarsene dall'Italia. Non capiterà. Anche se quelle conversazioni dovessero uscire, ormai ci siamo abituati a tutto. Lui stesso, ne dice di tutti i colori, un giorno sì e l'altro pure. Non in privato o al cellulare. Ma in pubblico. Di fronte ai microfoni. Per poi smentire, precisare, rettificare ciò che tutti hanno sentito. Figurarsi se il pubblico si scandalizzerebbe di fronte ai contenuti delle sue intercettazioni. Da lui è disposto ad accettare - e ha accettato, fino ad oggi - di tutto.
Tuttavia, la preoccupazione per questo Grande Occhio, per questo Grande Orecchio che ci spia dovunque non è da prendere alla leggera. Noi, almeno, non lo facciamo. Per quanto disillusi, scettici e un poco cinici. Nonostante tutto: questo martellante riff sul diritto alla privacy ci sembra utile. Serve a frenare almeno un poco l'inquietante e rapida scomparsa dell'uomo privato. Soprattutto se il monito viene dal Signore dei media e della comunicazione. A cui tanta parte della popolazione crede. Dal governo che ci governa, senza quasi opposizione.
Per questo ci chiediamo come possa lo stesso governo, come possano le stesse forze politiche, come possa il Presidente (del Consiglio, per ora), come possano quelli che combattono lo spionismo quotidiano: come possano incitare alla medesima pratica i medici. Coloro a cui affidiamo la nostra salute, il nostro corpo, la nostra stessa identità. Coloro a cui consegniamo i nostri segreti più segreti, tanto segreti che talora restano segreti anche a noi. Coloro che sorvegliano la nostra vita e la nostra morte. Dovrebbero indagare su immigrati, barboni, sbandati, quando si rivolgono a loro, quando vengono ricoverati d'urgenza. E se clandestini, irregolari, homeless: schedarli e denunciarli. Naturalmente dopo averli curati. Così li possono arrestare senza troppi problemi.
Doctor House. I medici in prima linea. Il mio amico Vincenzo, che dirige il Pronto Soccorso. Non lo farebbero e non lo faranno mai. Figurarsi. Un medico.
Non fa obiezione di coscienza quando rifiuta di denunciare i poveracci che si rivolgono a loro in stato di necessità. E' questione di etica professionale oltre che personale. Come la chiamano? Deontologia. E poi, se il governo e il suo presidente rivendicano il diritto dei cittadini (e in particolare il proprio) a non essere ascoltati quando si è al telefono. Se esigono che, a maggior ragione, le loro chiacchiere non vengano raccontate in giro. Ma come possono pensare che un medico possa fare il delatore. "Vendere" un paziente, magari ricoverato d'urgenza, tanto più se in condizioni sanitarie - e sociali - penose? E' come chiedere al prete di raccontare i segreti raccolti in confessione. Alla Caritas di denunciare i poveri e gli stranieri che accoglie e assiste. Agli avvocati di rivelare quel che sanno dei loro tutelati. Al commercialista di raccontare i conti "veri" dei loro clienti.
Altro che Tavaroli e Genchi. Altro che le centrali di ascolto e gli archivi delle intercettazioni. Questo paese versa ormai in uno Stato impietoso.
(6 febbraio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #88 inserito:: Febbraio 14, 2009, 12:08:57 am » |
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Rubriche Bussole
Benefattori anonimi
Ilvo Diamanti
PERCHE' la politica non si occupa più del "bene comune"? La questione è molto dibattuta negli ambienti politici. Quasi che il problema non li riguardasse. Ma, forse, è per chiamarsi tirarsi fuori. Sullo stesso argomento, peraltro, si interrogano le associazioni e i circoli culturali. Come fa, in questi giorni, l'Istituto intitolato a Vittorio Bachelet. Uno che al bene comune ha dedicato e sacrificato la vita.
Ho, tuttavia, l'impressione che la discussione sia viziata da un equivoco di fondo, riassumibile nel legame - dato per scontato - binomio tra bene comune e politica. Attribuendo la (presunta) scomparsa del bene comune, dalla scena pubblica, alla politica. Corrotta. Oligarchica. Ridotta a marketing. A spettacolo di bassa qualità, in onda a tempo pieno sui media. Il che è quantomeno parziale e riduttivo. Anche accettando l'idea di una politica asservita alla logica del marketing. Una politica che costruisce i messaggi e i comportamenti in base alle preferenze espresse dal pubblico a cui si rivolge. E si serve del Grande Orecchio Demoscopico. GOD. Il Dio dell'Opinione. E lecito il sospetto. Se la Politica, serva dell'Opinione Pubblica, non si interessa al Bene Comune forse è perché il bene comune non interessa all'opinione pubblica. Se non a parole. D'altronde, da molto tempo il Bene Comune gode di reputazione modesta. E' irreputato. Sotto diversi punti di vista e per diverse ragioni, che riguardano entrambi i termini del concetto.
Anzitutto il Bene, da parecchio tempo, è considerato male. E guardato peggio. Chi lo predica è considerato un idealista. Un cacciatore di nuvole, visto che gli ideali sono vaporosi, mutevoli e viaggiano rapidi. Proprio come le nuvole. Ma soprattutto: è ritenuto un debole. Vizio imperdonabile al tempo dei "cattivi", degli intolleranti, degli sceriffi, delle ronde, dei giustizieri. I nemici del "buonismo" (il pensiero debole fondato sul bene) godono di grande consenso, oggi, perché "rassicurano". Solo i cattivi possono difenderci dai cattivi che ci minacciano.
L'altro termine del concetto, Comune, è ancora più usurato. Non si sente più nominare. Se qualcuno ne parla è solo per sbaglio. E, quindi, si scusa e si corregge subito. D'altronde, veniamo da secoli di elegia del privato, dell'individuo, della specificità e della differenza. Ciò che è in "comune" non è di nessuno. Per cui è senza valore. Tanto più se viene associato - come spesso capita - al Pubblico, che, a sua volta, è perlopiù associato allo Stato. E tutto ciò che è Pubblico e Statale viene guardato con disprezzo. Pensate al Pubblico Impiego. Agli Statali. Ai Professori. Genia di fannulloni. Peggio dei romeni.
Si salva solo il pubblico con la p minuscola. La società intesa come una platea di spettatori che assistono - indifferenti - alla politica, alla cronaca rosa e nera, alle partite di calcio. Eternamente davanti agli schermi e ai media. Il pubblico, lo Stato. La gente li invoca solo in caso di emergenza. Come pronto soccorso. Dove si giunge in condizione di necessità e di urgenza e per questo ogni intervento sembra sempre tardivo, ogni terapia inadeguata. Così l'esasperazione e il risentimento, invece di sopirsi, si accendono ancor di più.
Per cui è difficile che la politica persegua il "bene comune", guardato dalla società con sospetto misto a dileggio. Certo, l'analista disincantato potrebbe avanzare il sospetto che la realtà sia diversa. E osservare che il "bene comune" non è scomparso. Anzi, muove i sentimenti e i comportamenti di gran parte delle persone. Basta pensare all'agire altruista e solidale. A quanti - tanti - fanno donazioni, dedicano parte del loro tempo ad attività volontarie. A quanti - tanti - si impegnano, nel loro quartiere e nel loro paese - per fini "comuni". Nella tutela dell'ambiente, del paesaggio, in azioni caritative. A quanti - tanti - si mobilitano a sostegno di valori universali. La pace, la solidarietà, il lavoro. Potrebbe, l'analista controcorrente, segnalare come il malessere sociale dipenda, almeno in parte, proprio dalla povertà di spazi, luoghi, occasioni dedicati al bene comune. Alla vita di "comunità". Perché il bene comune non serve solo al bene comune ma anche al bene(ssere) di chi lo persegue e lo pratica. Perché agire in "comune", per il bene "comune" soddisfa il "proprio" bene; il proprio bisogno di identità, di riconoscimento. Perché abbiamo bisogno di altruismo e di comunità. Ma, appunto, si tratterebbe solo di provocazioni. Per scandalizzare e, magari, far parlare i media. Guai a dire alla gente che è meglio di come è dipinta ed essa stessa si dipinge. Che, anche se non lo vuole ammettere, se non ne vuol sentir parlare: contribuisce al "bene comune". Guai. Penserebbe che la prendi in giro. Peggio: che la insulti e intendi metterla in cattiva luce.
Meglio rassegnarsi, allora. Essere duri, inflessibili. Dei mostri. Infelici. Almeno in pubblico. E per consumare la dose quotidiana di "bene comune" di cui abbiamo bisogno, meglio attendere. Quando e dove nessuno ci vede. Da soli. O in associazioni specializzate. Gli alcolisti anonimi del bene comune. I benefattori anonimi.
(13 febbraio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 15, 2009, 03:00:54 pm » |
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La Sardegna capitale d'Italia
di ILVO DIAMANTI
In Italia ogni elezione assume valore politico nazionale. Non importa se municipale, regionale o europea. Così avverrà per la Sardegna. Tanto più per la Sardegna. Anche se è davvero un'isola. Una regione "speciale", per statuto, storia, società, economia. Tuttavia, si tratta della prima consultazione dopo le elezioni politiche dell'aprile 2008, il cui esito è stato tanto netto da rendere inattuale ogni possibile alternativa, politica e di leadership. Una sorta di elezione di mezzo termine in attesa dell'Election Day del prossimo giugno. Quando si voterà per il parlamento europeo e in molte importanti amministrazioni locali.
Si tratterà, dunque, di un test importante, per il centrosinistra e soprattutto per il Pd. Incerto sulle strategie e diviso da antiche rivalità personali. Il risultato della Sardegna potrebbe accentuarne le lacerazioni oppure aprire qualche spiraglio per guardare avanti. Per questo potrebbe sorprendere il protagonismo di Silvio Berlusconi, che da settimane batte l'isola, impegnato a pieno tempo nella campagna elettorale. Divenuta la "sua" campagna personale. Anche se, fino a prova contraria, egli governa il paese e non la Sardegna. Tanto attivismo e tanta attenzione hanno alcune spiegazioni precise. Anzitutto, la Sardegna è la capitale estiva dell'Italia di Berlusconi.
Fin dal 1994, quando il Cavaliere vi accolse Umberto Bossi, per scongiurare la defezione della Lega dal governo. Rammentiamo tutti il leader padano passeggiare, in canottiera, accanto a Berlusconi. Per poi tornarsene nel Nord. E rompere definitivamente con il Polo delle Libertà. Dopo il ritorno al governo del centrodestra, nel 2001, la Sardegna ha rafforzato il suo ruolo.
E' divenuta la Capitale estiva della Repubblica. In particolare, Villa Certosa, a Porto Cervo. Più che una villa, una residenza presidenziale, coerente con le ambizioni di Berlusconi. Sede istituzionale sontuosa, dove il Presidente incontra la sua corte di consiglieri, amici e amiche. Ma soprattutto i suoi pari. I potenti del mondo. Capi di Stato e di governo. Aznar, Blair, Putin, Mubarak. Il Presidente li accoglie in tenuta informale: bandana, braghe corte e camicia aperta sul petto. E li guida in mezzo a foreste di cactus lussureggianti, piscine, spiagge, baie e luna park. Dove organizza grandi feste festose, nelle quali si esibisce al pianoforte, e canta, accompagnato dal fido Apicella. Più che un Presidente, un Sovrano. O almeno un Principe.
La Sardegna è la "sua" Isola. Casa "sua". Residenza estiva del "suo" governo. Per questo gli è difficile - anzi: intollerabile - abbandonarla ad altri. Soprattutto, a Renato Soru. Una storia, per alcuni versi, simile alla sua. Perché è un imprenditore, inventore di un'azienda innovativa e titolare di marchio di successo. Perché è, anch'egli, poco incline a piegarsi alle logiche della politica.
Capace di sciogliere il parlamento regionale, per marcare le distanze dalla sua stessa maggioranza, contro il suo stesso partito, il Pd. Per cui, oggi, egli appare il candidato di una lista presidenziale. Questa elezione appare, quindi, un confronto diretto, faccia a faccia. Un fatto personale: tra Soru e Berlusconi. Il quale, d'altronde, ha imposto un candidato a lui fedele, ma oscuro, Cappellacci, invece del sindaco di Cagliari, Floris, sicuramente più popolare e accreditato. Ma, appunto, Berlusconi voleva, anzi vuole, essere padrone lui, a casa sua. Senza fastidiosi concorrenti.
Peraltro, c'è chi vede in questa elezione il preludio a un prossimo, possibile confronto davvero nazionale. Quasi si trattasse, oltre che di eleggere il governatore della Sardegna, di designare il successore di Veltroni, in vista delle prossime, più o meno lontane, elezioni politiche. Una sorta di primarie del Pd. D'altronde, la politica italiana ormai si è presidenzializzata. Se non ancora dal punto di vista delle regole e del modello istituzionale, come vorrebbe Berlusconi, sicuramente nei fatti: nel modello di partito, nella comunicazione. E il centrosinistra, il Pd, pare abbia come unico problema e come unica missione la ricerca del candidato da opporre a Berlusconi. Un nuovo Berlusconi, magari. Simile a lui. Imprenditore, impolitico, decisionista. Insomma: uno come Soru.
Per questo Berlusconi preferisce chiudere subito i conti. Senza attendere che questa ipotetica alternativa si rafforzi; guadagni autorevolezza e legittimazione. Tuttavia, la campagna di Berlusconi in Sardegna ha anche finalità "interne" al centrodestra. Serve a ribadire la sua leadership, alla vigilia della fondazione del Pdl, di fronte a Fini, ma anche a Bossi. Sempre più insofferenti verso un premier che agisce da Presidente in un regime che presidenzialista, per ora, non è. E che non prepara alcuna successione. Perché pensa di vivere fino a 120 anni. Designando, semmai, il successore per via ereditaria, come in ogni regime dinastico che si rispetti.
Per questi motivi Berlusconi ha deciso di "scendere in campo" un'altra volta. D'altronde, lui vive la vita come una "campagna elettorale permanente". Ha bisogno di competizioni. E vuole vincere. Sempre. Per rinnovare il mito del Leader Invincibile.
Ciò significa, però, che a rischiare è soprattutto lui. Perché se vincesse si tratterebbe di una conferma dell'esistente. Il consolidamento di una leadership e di una maggioranza già solide. Ma se Soru vincesse, lo sconfitto sarebbe Berlusconi. Il che alimenterebbe nuove tensioni fra gli altri leader del centrodestra. E restituirebbe la speranza al centrosinistra, schiacciato dalla delusione. Gli fornirebbe, inoltre, qualche suggerimento per una possibile alternativa al Cavaliere. Non necessariamente Soru. Non necessariamente un imprenditore. Ma neppure un professionista della politica. Semmai: un professionista impegnato in politica.
Per queste ragioni, il voto in Sardegna avrà in ogni caso conseguenze nazionali. Rinnovando il mito del Presidente Invincibile. Oppure secolarizzandolo. Insinuando il dubbio verso una leadership che, invece, si nutre di certezze.
(15 febbraio 2009) da repubblica.it
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