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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277480 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Agosto 26, 2008, 10:52:06 pm »

Ilvo Diamanti


Rubriche » Bussole

Gran Bazar Mussolini

 
Domenica scorsa, tardo pomeriggio, sono passato per Rimini con la famiglia. Il tempo di una vasca lungo le vie parallele al lungomare, in attesa di recarci a cena da amici. Ci siamo, così, tuffati in mezzo ai turisti che, di ritorno dalla spiaggia, sciamavano, in massa, costeggiando un'infinita teoria di botteghe, bar, ristoranti, pizzerie, minimarket, fast-food, gelaterie, pasticcerie, piadinerie. Come in ogni città turistica che si rispetti.
E Rimini non è "una", ma "la" città turistica del lungomare di Romagna. Una città speciale, capace di non perdere la propria identità.

Perché Rimini ha un centro storico molto bello e ben tenuto. Una società (e una classe dirigente) locale ancora solida e resistente. Una storia e una tradizione artistica e culturale di tutto rispetto. Come rammentano le vie del lungomare che echeggiano i film di Federico Fellini. Rimini è una città "memorabile", in senso letterale: degna di memoria. Oltre l'amarcord: anche per la spiaggia, il lungomare e le vie dedicate allo struscio dei turisti.
Il vecchio e il nuovo, insieme.

Questa breve visita occasionale mi ha, tuttavia, riservato una scoperta inattesa. L'immagine del duce, Benito Mussolini, disseminata lungo il passeggio commerciale. Esposta in numerosi negozi (davvero tanti). Mussolini: in vendita, come un prodotto di consumo popolare. Tra una piadina e la coca-cola, ecco il busto del duce, in diversi formati, ma soprattutto la faccia del duce: su magliette, camicie, poster, bandierine, adesivi, quadretti già incorniciati, bicchieri e sottobicchieri, piatti, penne, sulle etichette di bottiglie di vino, dal contenuto improbabile.

Ma l'iconografia del Ventennio non si riduce alla sola immagine del duce - proposto perlopiù in primo piano, di profilo, la mascella volitiva e l'elmo bellicoso. Su t-shirt, poster, stoviglie e bottiglie incontriamo massime del duce e slogan del regime. Gli stessi che resistono - talora sbiaditi dal tempo, talora rinfrescati - ancora in alcuni edifici del tempo. Tipo: "è l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende"; oppure il noto "molti nemici, molto onore" ... Inoltre, molte immagini del führer Adolf Hitler. Spesso accostato al Duce. Lungo il passeggio, in bella evidenza, un grande mobile- cantina, carico di decine di bottiglie allineate. Il sangiovese di Benito alternato al nero di Adolf. Tutto ciò esposto alla luce del sole (domenica sera era ancora forte e caldo). Senza pudore e senza problemi. Perché, evidentemente, un problema di pudore non esiste, in questo caso. Prodotti come gli altri.

Se dedico una Bussola a questo argomento, tuttavia, non è per manifestare indignazione. Anche se lo spettacolo mi ha dato fastidio. (Ma se infastidisce solo me, che problema c'è?). Tanto meno per sollecitare provvedimenti restrittivi e proibizionisti. Probabilmente non servono, sicuramente non mi piacciono. Neppure per sollevare polemiche sul revisionismo dilagante, sul rischio di un "nuovo fascismo" o sul silenzio della memoria democratica. Questioni troppo impegnative per inseguirne le tracce a partire da cavatappi, magliette, bottiglie e sottobicchieri. (E poi non scrivo mica su Famiglia Cristiana...).

E' probabile, peraltro, che si tratti di un fenomeno più esteso. A Rimini (città di centrosinistra) appare più evidente perché luogo ad alta intensità turistica. Non lontano dalla terra del duce. I riminesi, che evitano le vie più affollate dai turisti, forse, non ci hanno fatto caso.

Comunque, nel passato, in alcuni mercati si incontravano (e ho incontrato) stand specializzati, che esponevano bottiglie fasciste, affiancate ad altre soviet-comuniste. Mussolini e Stalin vicini, in nome del vino. Poi, Stalin è scomparso. Mussolini, invece, resiste. E oggi fa concorrenza a Che Guevara (da tempo icona consumista, consumata negli accendini usa e getta e sulle copertine dei diari scolastici).

Nessuno scandalo. Anzi. Proprio questo mi ha colpito maggiormente: la "normalità" (neppure la normalizzazione) del fenomeno, ormai sospeso fra ideologia popolare e senso comune, fra politica e costume. La "banalizzazione del fascismo", commercializzato come un prodotto qualsiasi. Un consumo nazionalpopolare (nazipop?). L'immagine di Benito impressa su una t-shirt - accanto a quella di James Dean, George Clooney, Ronaldinho e Homer Simpson. Un gadget. Fra una piadina, una crescia, una birra e una coca-cola. Una porchetta e un sangiovese. Nell'aria echeggia la voce di De André ... "E un errore ho commesso - dice - un errore di saggezza abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza. Ma voi che siete a Rimini tra i gelati e le bandiere non fate più scommesse sulla figlia del droghiere".
Coro: "Ri-mi-ni".

(26 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 07, 2008, 07:48:37 pm »

POLITICA MAPPE

Perché non avremo mai un Obama o un McCain

di ILVO DIAMANTI


UNA PERSONALIZZAZIONE impersonale e irresponsabile caratterizza la politica italiana. Una democrazia mediatica, affollata di volti e nomi noti e visibili. Che, tuttavia, ha ridotto e quasi abolito la possibilità, per gli elettori, di esprimere scelte e preferenze "personali". Visto che ormai la costruzione delle rappresentanze politiche e parlamentari è un fatto praticamente esclusivo dei partiti, ridotti a cerchie di gruppi dirigenti ristrette e centralizzate. Eppure, quasi vent'anni fa, la storia era cominciata diversamente. La crisi del sistema politico era stata sancita, è vero, dal referendum del 1991, che riduceva le preferenze elettorali a una sola.

Ma si trattava, allora, di ridimensionare un sistema partitocratico, nel quale le preferenze costituivano uno strumento di controllo della società e, al tempo stesso, un elemento di scambio fra gruppi di potere. In seguito, siamo passati a sistemi elettorali che personalizzano il rapporto fra elettori ed eletti. Anzitutto a livello locale, con l'elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di Provincia e, quindi, di Regione. Un rapido processo di presidenzializzazione diffusa, che il sistema elettorale della Camera e del Senato ha assecondato attraverso il maggioritario di collegio, che rende più immediato e trasparente il rapporto tra i parlamentari, i cittadini e il territorio.

Quel modello, ne siamo consapevoli, non ha ridotto la frammentazione dei partiti, tanto meno il distacco fra sistema politico e società. Ha, tuttavia, segnato una frattura, almeno a livello simbolico. Partiti contro presidenti. Riassunto dell'opposizione fra vecchio e nuovo, come ha osservato Mauro Calise.

D'altronde, i partiti si sono, anch'essi, personalizzati tutti. Dal 1994 ad oggi. Dall'archetipo insuperato, Silvio Berlusconi, fino a Walter Veltroni. Da Forza Italia all'Ulivo. Dal Partito democratico al Popolo della libertà. Passando per le diverse liste. Per limitarci alle principali: Lista Pannella e Bonino, la Lista di Pietro. Ma anche Alleanza nazionale, prima di confluire nel Pdl, nonostante disponesse di identità e organizzazione, era un soggetto identificato con il suo leader, Gianfranco Fini. E nell'Udc, ormai, la C evoca l'iniziale di Casini.

La personalizzazione è, ovviamente, enfatizzata dall'uso dei media. La televisione, in particolare, ha dato ai partiti un volto, un'immagine familiare. Anche in questa fase. I ministri più popolari appaiono al pubblico personaggi caratterizzati, che recitano in fiction di successo. Due sopra tutti. Brunetta, il vendicatore dei cittadini contro i servi fannulloni dello Stato (gli statali, appunto).

Mariastella Gelmini, protettrice dei genitori e degli alunni dagli insegnanti incapaci; restauratrice delle virtù perdute: la buona condotta, i buoni costumi (i grembiulini), i buoni maestri (unici). Mentre, all'opposizione, incontra un successo larghissimo Antonio Di Pietro, che interpreta il garante della legalità contro ogni abuso della politica; e anzitutto contro Berlusconi (che ne è il compendio). Ma anche Beppe Grillo. Attore protagonista della protesta di piazza.

Passando dal versante della partecipazione a quello della comunicazione, occorre rammentare che la costruzione del Partito democratico e, prima, dell'Ulivo, è avvenuta attraverso le primarie. Un rito di massa per celebrare la scelta del leader. Prodi, Veltroni.

Tuttavia, da qualche tempo, la personalizzazione della politica avviene insieme alla spersonalizzazione della scelta di voto. Imposta, per quel che riguarda le elezioni politiche, dalla legge elettorale in vigore dall'autunno 2005. Un proporzionale con premio di coalizione e liste bloccate. Cioè: senza preferenze.

La legge, inventata in fretta dal centrodestra al fine di contrastare il successo annunciato del centrosinistra (particolarmente avvantaggiato dal maggioritario), ha, nei fatti, rafforzato le leadership centrali di "tutti" i partiti. Consentendo loro di controllare e condizionare le candidature e, quindi, gli eletti. Mentre ha spezzato il legame dei candidati con gli elettori. Tanto che i candidati sono quasi spariti dal territorio, nel corso della campagna elettorale, limitandosi, perlopiù, ad apparire accanto ai leader nazionali, durante le manifestazioni più importanti.

Il problema avrebbe dovuto e potuto essere ridimensionato attraverso il ricorso alle primarie. Che, tuttavia, è divenuto molto intermittente. Quasi assente. Anche il Partito democratico ha usato le primarie con cautela. Evitando, comunque, di renderle troppo aperte e competitive. A livello nazionale, d'altronde, sono servite all'investitura di leader pre-destinati.

Mentre l'elezione dell'assemblea costituente e degli organismi rappresentativi a livello territoriale è stata vincolata dall'esigenza di garantire l'equilibrio tra componenti oltre al controllo (e al mantenimento) dei gruppi dirigenti. Anche nella scelta dei candidati alle amministrative (sindaci o presidenti), le primarie vengono guardate con diffidenza e trattate con prudenza. Impossibile che emergano outsider. Un Obama o un McCain de noantri. Inutile attenderli.

La questione si ripropone, oggi, in relazione al sistema elettorale che si sta progettando in vista delle prossime elezioni europee. Prevede, com'è noto, una soglia di sbarramento (3-4 per cento), per ridurre la frammentazione. Inoltre, un numero più ampio di circoscrizioni. Infine: l'abolizione delle preferenze. Su cui non c'è accordo. Ma che, indubbiamente, non dispiace - anzi, piace - ai partiti, in generale. Anche ai maggiori: Pdl e lo stesso Pd. In quanto permette loro di regolare e distribuire, con precisione algebrica e senza rischi, i posti tra le componenti (sotto)partitiche. An e Fi, da un lato. Ds e Margherita, dall'altro. Che ancora resistono e agiscono. Accanto ad altre correnti.

Vorremmo ribadire che non siamo tifosi delle preferenze. Abbiamo memoria di quando costituivano un metodo di scambio clientelare. Però insospettisce la paura che suscitano nei partiti, oggi che non hanno più basi di massa e sono ridotti a ristrette cerchie di vertice. Il contrasto tra l'enfasi sulla personalizzazione e la crescente spersonalizzazione del voto riassume quanto sia fittizia, oggi, l'opposizione fra partiti e presidenti. Visto che i presidenti identificano partiti "chiusi", la cui classe dirigente si riproduce in modo endogamico. Al proprio interno. Senza competizione; ma, semmai, per cooptazione, dall'alto.

Questo modello, peraltro, è coerente con la biografia del centrodestra. Inventata, scritta e interpretata da un Sovrano: Silvio Berlusconi. (Se ne è discusso molto nel recente convegno della Società italiana di scienza politica, all'Università di Pavia). Ma il centrosinistra e, soprattutto, il Partito Democratico - per storia, cultura e sociologia - non hanno prospettive senza coltivare il rapporto con il territorio e con la società. Senza rivalutare le primarie come metodo "vero" di consultazione e di selezione della classe dirigente. Senza dare agli elettori la possibilità di esprimere - in nessun modo - le loro preferenze personali. Senza vincolare gli eletti a un rapporto responsabile con gli elettori. Meglio che il Pd ci pensi, in vista delle prossime elezioni europee. Che, come sempre, avranno anzitutto effetti politici "nazionali".

(7 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 09, 2008, 05:46:47 pm »

Rubriche » Bussole


Italia fra Repubblica e repubblichini
 


La "Bussola" dedicata alla banalizzazione del fascismo, ridotto a merchandising per turisti, a Rimini, ha prodotto molte reazioni. Di segno e contenuto diverso, hanno contribuito a precisare la fenomenologia nostalgica. Ne hanno, in particolare, allargato la geografia ben oltre Rimini. A partire dalla vicina Riccione, dove, mi è stato segnalato, da poco è stata restaurata e riaperta al pubblico Villa Mussolini. Proseguendo sul lungomare romagnolo, dove l'oggettistica fascista sembra diffusa, nelle vetrine e nei mercati, quanto l'iconografia del football.

Ma lo stesso avviene altrove, in punti diversi e distanti del paese. Per chiarire che la nostalgia non è un prodotto locale, circoscritto alle terre del duce. Il busto di Mussolini, in formato mignon, è stato avvistato - e segnalato - un po' dovunque, nella penisola. Da Nord a Sud, da Bolzano alla Sicilia, passando per la Liguria e la Campania. Nei mercati e nei mercatini di rione e di paese, nei minimarket lungo l'autostrada.

L'ampiezza del fenomeno suggerisce l'esigenza di una domanda, evidentemente, altrettanto estesa. E in crescita, come ha rammentato un lettore che se ne intende. Il quale mi ha ragguagliato che Mussolini è venduto ormai quanto il Che, mentre Stalin è in caduta. Anche Hitler riscuote un certo interesse, visto che la sua immagine si incontra, con frequenza crescente, accanto a quella del duce. A differenza di quanto avviene in Germania, come ha sottolineato un altro lettore, il quale vi si reca almeno due volte l'anno per lavoro. A Monaco, Francoforte, Berlino, Colonia, scandisce, " Mai e poi mai sono imbattuto nell'immagine di Hitler".

Ma gli estimatori tedeschi del fuhrer possono sfogare e soddisfare la loro passione quando passano per l'Italia. Qui il tabù è stato infranto, se mai è esistito. Sicuramente, però, oggi le immagini del fascismo e perfino del nazismo circolano senza problemi e senza inibizioni. Alcuni mi hanno rimproverato - talora aspramente- per aver manifestato una certa sorpresa, al proposito. Io tanto naif da non aver percepito prima che il fascismo sia stato sdoganato, da tempo. Tuttavia, non è la rivalutazione del fascismo a spiazzarmi. Semmai, la sua banalizzazione. A ogni livello. Dai mercatini al Campidoglio. Dagli autogrill ai palazzi del governo.

Quel clima culturale che induce il sindaco di Roma - senza provare neppure un brivido - a ridurre le colpe del fascismo alle "sole" legge razziali. E il ministro della difesa a porre sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Una guerra civile riletta con occhio equidistante. O equivicino. (Come ha denunciato il Presidente Napolitano). Gli antifascisti e i fascisti: portatori di eguali ragioni. E di eguali torti. Così, il male assoluto denunciato da Gianfranco Fini, per i suoi compagni di partito e di militanza, smette di essere tale. Diventa relativo. Limitato. L'unico male assoluto resta il comunismo. Un peccato originale che stigmatizza chiunque ne abbia avuto esperienza. Ieri, l'altro ieri, quando non importa. Comunisti e basta. Tanto più pericolosi se e quando rifiutano e condannano la loro tradizione ideologica.

Il fascismo invece no. E' parte della nostra biografia, della nostra memoria. Non un male assoluto, ma una malattia dell'infanzia. Come la varicella e il morbillo. Da cui si guarisce in fretta. Anzi, serve a crescere. L'Italia: una Repubblica e repubblichina al tempo stesso. Fondata, equamente, sull'antifascismo e sul fascismo.

Ecco: la banalità del "nostro" male rischia di renderlo inguaribile. Perché non si può curare una malattia che non è ritenuta tale. Ma viene percepita, al massimo, come un segno di stanchezza. E se la democrazia è stanca, in fondo, chissenefrega. Si riposi. Si prenda una pausa. Troppa democrazia, a volte, fa male.

(9 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #63 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:14:25 pm »

POLITICA       

MAPPE / Il passato riaffiora nei discorsi pubblici e nelle discussioni politiche

Come il fascismo, che a 60 anni dalla caduta continua a riemergere

Prigionieri del passato


di ILVO DIAMANTI


È difficile guardare avanti quando si continua a camminare con la testa voltata indietro. Quando il passato riaffiora di continuo nei discorsi pubblici e nelle discussioni politiche. Come il fascismo, che - a oltre 60 anni dalla caduta - continua a riemergere. D'altronde, autorevoli leader di An, nei giorni scorsi, avevano riaperto la discussione.

Ha cominciato il sindaco di Roma, per il quale il fascismo non è stato il "male assoluto". Ad eccezione delle leggi razziali. Gli ha fatto eco il ministro della Difesa, ponendo sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Li ha smentiti ieri il presidente della Camera, e leader di An, Gianfranco Fini, il quale ha sostenuto che "la destra si deve riconoscere nei valori dell'antifascismo". Precisando, inoltre, che la Repubblica di Salò combatteva dalla parte sbagliata.

È probabile che questa volta i compagni di partito non prendano le distanze da Fini, com'è avvenuto invece quando ha confermato l'apertura verso il diritto di voto amministrativo agli immigrati. D'altronde, a destra è forte la voglia di "normalizzare", se non riabilitare, il fascismo. Riducendolo a un male non più "assoluto" ma "relativo".

Il ritorno del passato è, per molti versi, giusto e utile, perché dalla nostra storia possiamo trarre identità comune. Ma da noi succede l'opposto. La storia viene riscritta ad arte, da una stagione all'altra. La memoria è usata per dividere. Per cui, non solo il fascismo, neppure il comunismo passa mai di moda. Anche dopo la caduta del muro di Berlino. Dopo che, in Italia, il Pci si è sciolto, diviso, ha cambiato e ricambiato nome. Tuttavia, vi sono partiti e militanti che continuano a dirsi comunisti. Ma, soprattutto, i comunisti "servono" a Berlusconi, che li evoca dovunque, ora per minaccia ora per dileggio. Definiscono l'esistenza del Nemico, tanto più insidioso se pretende di cambiare nome e abito. Se si maschera. I comunisti: pericolosi e ridicoli. Al punto che il premier li usa come personaggi delle barzellette. L'equivalente dei carabinieri di un tempo.

Più complicato - e agro - entrare nella notte della Repubblica. La stagione delle stragi e del terrorismo, di cui non esiste una storia condivisa, ma un viluppo intricato di molte storie incrociate. Trent'anni dopo il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro è forte la sensazione che molte verità ci sfuggano. Lo stesso per quel che riguarda l'uccisione del commissario Luigi Calabresi. Inevitabile che il dibattito riemerga, aspro. Violento. Ma anche senza soluzione. In-finito.

D'altronde, quarant'anni dopo, siamo ancora impegnati a fare i conti con il '68. Anzitutto, una rivoluzione antiautoritaria, che ha investito tutti i piani. I costumi, la cultura, le relazioni sociali, la morale personale e sessuale, i rapporti di potere, il linguaggio. E tutti gli ambienti: il lavoro, la politica, la religione e la chiesa, l'informazione. Ma, soprattutto, l'università e la scuola, dove gli squilli di rivolta sono risuonati prima che altrove.

Così, oggi è esplosa la determinazione a ri-formare, nel senso di restaurare: modelli, valori, simboli. Come sta facendo la ministra dell'Istruzione, che ha restituito valore prescrittivo al voto in condotta, reintrodotto gli esami di riparazione, ma anche il maestro unico, alle elementari. E promette il ritorno dei grembiulini, magari griffati. Con il consenso di gran parte dei genitori. I quali apprezzerebbero anche l'uso dei cappelli d'asino per stigmatizzare i peggiori oppure l'impiego della lavagna come gogna, dietro a cui esiliare i cattivi.

Ultima, la frattura del '92. L'anno di "Tangentopoli". Formula con cui si indica la stagione dei processi per corruzione che investirono la classe politica al governo. L'anno dell'attacco condotto dalla mafia contro lo Stato e i suoi uomini più intransigenti. I magistrati, per primi Falcone e Borsellino. L'anno in cui si dissolve il sistema politico della prima Repubblica. Dalle cui macerie nasce un nuovo (dis)ordine, guidato dai leader e dalle formazioni politiche oggi al governo: Berlusconi e Fi, Fini e An; e, primo fra tutti, Bossi, insieme alla Lega. Difficilmente avrebbero conquistato altrettanto spazio, senza il "vuoto" prodotto dal '92.

Tuttavia, essi per primi, ne vorrebbero riscrivere la storia, il significato. Nel '92 - secondo loro - non si sarebbe verificato il crollo di un ceto politico esausto ma un complotto. Sinistra, poteri forti e media a sostegno dei magistrati: uniti nella lotta contro il ceto politico della prima Repubblica. Per ottenere a colpi di giustizia giustizialista ciò che con il voto democratico non era possibile.

Alla tesi del complotto si oppone quella del "male incurabile" (la formula è di Alfio Mastropaolo). Secondo cui il ceto politico e, in generale, il sistema partitico erano tanto corrotti e inefficienti da non reggere più. Affetti da un male incurabile, che i magistrati si erano incaricati di estirpare. Da ciò le opposte versioni dei fatti. Craxi: un esule o, al contrario, un evaso. I magistrati: "vendicatori" della società civile e garanti della legalità oppure gli autori di un golpe.

Siamo un paese smemorato che non riesce a dimenticare. I fatti ci inseguono sempre. Anche se o forse proprio perché abbiamo cercato di rimuoverli, rinunciando a chiarirli. O, almeno, a fornire loro una spiegazione condivisa. Abbiamo preferito, invece, voltare pagina, ogni volta, senza prima averne letto e compreso il testo. Così le storie e i personaggi del passato continuano a riemergere, nella nostra mente, nei nostri discorsi. Pagine di libri mai conclusi.

Di stagione in stagione, la storia viene riscritta retrospettivamente, in base a interessi e valori di parte. La nemesi è che alla rimozione succede la nostalgia. Della scuola di tanti anni fa, quando portavamo il grembiulino e il colletto bianco, quando gli insegnanti mantenevano la disciplina. Nostalgia dei democristiani e dei comunisti: quando sapevamo da che parte stare, chi erano gli amici e soprattutto i nemici. Nostalgia di De Gasperi, La Malfa (Ugo), Berlinguer. Perfino Craxi. (Andreotti no: è vivo e lotta insieme a noi).

Tuttavia, se siamo prigionieri del passato è anche per un'altra ragionevole ragione. Questa società ha abolito il futuro. Ha rinunciato a descrivere un orizzonte comune. Procede in ordine sparso, giorno per giorno. Una società vecchia, dove i giovani sono una specie rara - come i panda - controllata da adulti che non vogliono diventare adulti e da vecchi che rifiutano di invecchiare. La classe politica ne è uno specchio fedele. Al governo: un premier in continua opera di restauro; per apparire giovane, un pezzo dopo l'altro, è ridotto a un androide. All'opposizione: una leadership di ex (comunisti e democristiani). Impaurita da ogni cambiamento che ne possa minacciare il ruolo.
Un paese smemorato e, al tempo stesso, incalzato dalla memoria. Sospeso fra rimozione, revisione e nostalgia. Per sottrarsi alle trappole del passato che non passa mai, resta solo una via. Guardare avanti. Progettare - o almeno immaginare - il futuro.

(14 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 19, 2008, 05:38:45 pm »

Ilvo Diamanti


Se la delusione genera consenso
 
Berlusconi nella nuova scuola di S.Giuliano di Puglia (Cb)


E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier.
Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa. Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.

Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza. Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati? Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?

Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi.

Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione. E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).

Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.

Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.

Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni. Oltre ogni ragionevole ragione. Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia.

Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi. A prescindere. Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso. Il più sfiduciato. Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi.

Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici? Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo. Accontentiamoci. Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua).

Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve. Non solo, ma diventa dannosa. Un boomerang.

Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusione. Ma la speranza è un attributo del futuro. E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.

(19 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 03, 2008, 10:36:11 am »

Rubriche » Bussole     

Ilvo Diamanti

Se la democrazia diventa inutile
 

Il Consiglio di Stato ha bocciato il referendum indetto, domenica prossima, a Vicenza dall'amministrazione comunale, per consultare i cittadini sull'uso dell'area dove è prevista la costruzione di una nuova base Usa. Non una consultazione deliberativa, perché si tratta di una scelta che poggia su negoziati internazionali. Ma un modo per permettere alla popolazione di esprimersi su una decisione che è destinata a produrre effetti rilevanti sulla realtà locale: dal punto di vista dell'ambiente, del territorio, della viabilità, della sicurezza.

Il Consiglio di Stato ha stabilito che si tratta di un esercizio "inutile", perché si applica a un obiettivo "irrealizzabile". E ha, per questo, bloccato l'iniziativa, tre giorni prima dello svolgimento. Contraddicendo, così, il pronunciamento del Tar, che, al contrario due settimane fa, aveva considerato legittima la consultazione.

Così, Vicenza diventa un caso esemplare, nella sua specificità. Una città dove lo Stato decide che i cittadini non "devono" pronunciarsi, secondo procedure istituzionali, perché, comunque, è stato già deciso. Peraltro, è difficile che, in questo caso, si levino voci indignate, a livello nazionale. (ad eccezione dei "soliti" esponenti della sinistra radicale). Perché su questa materia l'accordo è bipartisan.

La scelta della nuova base Usa nasce, cinque anni fa, da un accordo informale fra Berlusconi e le autorità americane, approvata dall'amministrazione di Vicenza del tempo e coltivata in gran segreto per anni. Così, a doverla gestire è stato il governo Prodi, che, dopo qualche resistenza e molte perplessità, ha, infine, concesso la base agli Usa, nel gennaio 2007. In nome dei buoni rapporti con l'alleato più influente, a livello internazionale. Dunque, destra, sinistra e centro d'accordo. Senza se e senza ma. Cioè: senza ascoltare i cittadini. Senza neppure preoccuparsi di vedere il luogo, il contesto, le condizioni.

Nessun leader politico del centrodestra e del centrosinistra che sia venuto a Vicenza a confrontarsi, a spiegare le ragioni della scelta. Nessun ministro che, negli ultimi due anni, abbia avuto il coraggio di avvicinarsi alla città, per timore di venire fischiato e contestato. Oggi che i fischi e le contestazioni fanno male all'immagine.

Solo il presidente Napolitano, di recente, si è recato a Vicenza. E ha pronunciato parole prudenti ma, in fondo, sagge, esortando affinché la difesa degli interessi locali avvenga nel rispetto di quelli nazionali. Senza, però, negare il diritto dei cittadini a esprimersi. Mentre il Consiglio di Stato ha decretato che il referendum è inutile. La stessa posizione espressa, in modo aperto, dal ministro La Russa. E dai leader di centrodestra. Dal presidente della Regione, Galan. Senza che, peraltro, si siano levate voci dissonanti dal centrosinistra. Né dal Pd né dall'Idv di Antonio di Pietro. D'altra parte, lo stesso Berlusconi, nelle scorse settimane, aveva inviato al sindaco di Vicenza una lettera per invitarlo a desistere. Il referendum è inutile: non fatelo. Tutti d'accordo, da sinistra a destra. Da Roma a Venezia.

Qui, però, non si tratta più del merito: la costruzione di una "nuova" base Usa (non dell'allargamento di quella pre-esistente, come erroneamente si dice) alle porte della città. Ma della possibilità dei cittadini di esprimersi attraverso un referendum. (come ritiene giusto oltre il 60% dei vicentini, interpellati in un sondaggio condotto da Demetra la settimana scorsa).

Il Consiglio di Stato (come le principali forze politiche nazionali) ha negato questa possibilità perché "ha per oggetto un auspicio irrealizzabile... su cui si sono pronunciate sfavorevolmente le autorità competenti". Sostenendo, in questo modo, che l'utilità della democrazia si misura solo a partire dal suo "rendimento" concreto; dall'efficacia dei risultati. (Se così fosse, non si spiegherebbe perché, per quanto faticosamente, regga ancora nel nostro paese).

Come se la democrazia fosse un utensile per realizzare "prodotti" pubblici. Un sistema e un metodo per decidere, come un'impresa qualsiasi (proprio oggi che il mercato non sembra più di moda). Dimenticando che la democrazia ha valore in sé. E' un valore in sé. Le procedure mediante cui si realizza "servono" come fonte di legittimazione perché garantiscono riconoscimento alle istituzioni e consenso alle autorità.

La democrazia "serve" perché istituzionalizza il dissenso sociale, perché sostituisce la mediazione e la partecipazione allo scontro. La democrazia diretta, peraltro, offre un sostegno importante alla democrazia rappresentativa. Nel caso concreto, la prospettiva del referendum ha incanalato i comitati e i movimenti contrari alla base americana dentro alle logiche e alle regole del confronto istituzionale. Ha istituzionalizzato il dissenso. Ha isolato e estromesso le frange più estreme e le tentazioni violente.

Due anni di opposizione, manifestazioni e proteste su un terreno così critico si sono svolte senza incidenti, senza strappi. D'altronde, e non a caso, il movimento "No dal Molin" ha partecipato alle elezioni comunali dello scorso aprile, dove ha eletto una rappresentante. Accettando, così, il gioco della democrazia. Trasferendo il confronto dalla piazza alle sedi istituzionali. Sostituendo - e preferendo - la logica della rappresentanza a quella dello scontro.

Per la stessa ragione, il referendum avrebbe offerto all'amministrazione comunale e, in primo luogo, al sindaco Variati uno strumento per "governare" il malessere e le tensioni sociali. Perché, qualsiasi ne fosse stato l'esito, avrebbe ottenuto una delega a "negoziare". Anche se non vi fosse stato nulla di negoziabile - come accusa il Consiglio di Stato (la cui fiducia nel potere della partecipazione, dunque, della democrazia "sostanziale" appare assai fragile). In quel caso, avrebbe pagato lui, il sindaco, insieme all'amministrazione il prezzo di aver generato aspettative deluse. Ora, invece, la città si ritrova muta. Costretta al silenzio. Perché si è sancito, semplicemente, che, in alcuni casi, in questo caso, nel "suo" caso, la "democrazia è inutile". Che la partecipazione non serve. Che l'ascolto è un vizio. Che è meglio decidere ignorando il dissenso. Dichiarando preventivamente "illegittima" la semplice possibilità di farlo emergere.

Ma la democrazia ha una funzione terapeutica, prima che pratica e strumentale. Serve a curare la frustrazione nei rapporti sociali e politici. A evitare che degeneri.

Quando diventa inutile allora è lecito avere paura.

(1 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 06, 2008, 10:48:21 pm »

MAPPE.

L'allarme viene alimentato dall'uso politico dell'immigrazione anche nelle leggi

Fino a ieri la parola razzismo era tabù, oggi ne parlano le cariche politiche

La penisola della paura dove la tolleranza fa perdere consensi


di ILVO DIAMANTI


IL CONTAGIO razzista ha coinvolto l'Italia. Perlomeno: nel linguaggio pubblico. Fino a ieri l'altro era un tabù. Ora, invece, le autorità religiose e politiche ne parlano esplicitamente. Il Papa, il presidente della Repubblica e perfino quello della Camera, Gianfranco Fini. Leader di destra. Perfino il sindaco di Roma, Alemanno, che ha espresso le scuse della città a un cittadino cinese, malmenato nei giorni scorsi da un gruppo di bulletti.
Dunque, il tabù si è rotto.

Oggi a denunciare il razzismo degli italiani non sono esclusivamente i "soliti noti". Sinistra radicale, no global, cattolici solidali. Giornali come il Manifesto e Famiglia Cristiana. Ma ciò solleva il rischio opposto. Scivolare dalla drammatizzazione alla banalizzazione. "Allarme siam razzisti?" No, se intendiamo definire, in questo modo, l'orientamento e il comportamento degli italiani. O meglio: il razzismo c'è, in Italia, come nel resto d'Europa. Dove gli episodi di intolleranza sono numerosi e violenti, anche più che da noi. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Belgio, in Spagna.

D'altronde, l'importanza del fenomeno è sottolineato dai successi elettorali di formazioni politiche di impronta apertamente xenofoba. Da ultimo, in Austria, una settimana fa. La reticenza è, dunque, pericolosa, quanto la generalizzazione. Tanto più, il sensazionalismo, che sposta il fenomeno al centro dei talk show e nei titoli di prima pagina. D'altronde, gli episodi di razzismo, probabilmente, esistevano anche prima, (sempre troppo) numerosi. Ma non se ne parlava, perché le vittime, per prime, preferivano tacere. Come è avvenuto, in passato, per le violenze sessuali sulle donne e sui minori.

Ora invece il clima è cambiato e gli episodi di razzismo sembrano moltiplicarsi, anche perché - più di ieri - sono riconosciuti come tali e denunciati. Anche se, di fronte alle ripetute aggressioni ai danni di stranieri e rom, è diffusa la tendenza a sostenere che "il razzismo non c'entra". Oppure a giustificarle: conseguenze della "legittima furia popolare" (come ha osservato Gad Lerner, su questo giornale). Invece, il razzismo c'è. La tentazione di costruire barriere fra noi e gli altri, in base a fondamenti in-fondati e in-dimostrabili. Come l'idea stessa di "razza", d'altronde. Il razzismo c'è. Allontanarlo da noi con un gesto di fastidio, non aiuta ad affrontarlo. Il razzismo esiste: in Italia come altrove. La storia e l'esperienza non rendono immuni neppure la Germania, l'Austria o la Francia.

Tuttavia, il confronto su base europea mostra come in Italia l'allarme sollevato dagli immigrati sia fra i più elevati. Il più alto, in assoluto, fra i paesi della vecchia Europa. Come emerge, chiaramente, dall'indagine europea curata da Demos, laPolis e Pragma (in collaborazione con Intesa Sanpaolo). In particolare, l'Italia è il paese dove l'allarme suscitato dagli stranieri è più forte, relativamente alla sicurezza e all'ordine pubblico, come denuncia una persona su due. In paese dove, al tempo stesso, i "pregiudizi positivi" si attestano su livelli più bassi. Meno della metà della popolazione accetta l'immagine degli immigrati come "risorsa dello sviluppo" oppure "fattore di apertura culturale". L'Italia, in particolare, è il paese in cui tutti gli indici di allarme son cresciuti maggiormente, negli ultimi anni. Come se qualcosa avesse abbassato le nostre difese, le nostre inibizioni. Alimentando la nostra paura. Madre del razzismo, come ha scritto Zygmunt Bauman nei giorni scorsi sulla Repubblica.

Il razzismo, allora, forse non è un'emergenza, come ha sostenuto ieri il ministro Maroni. Ma lo è sicuramente la xenofobia. Letteralmente: la "paura dello straniero". Che ha diverse cause, comprensibili, e che vanno comprese, se la vogliamo contrastare. Una su tutte: la distanza fra rappresentazione e realtà. La realtà è che ci siamo trasformati in un paese di immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario. In poco più di un decennio il peso degli immigrati è passato dallo 0 virgola al 5-6% della popolazione. In alcune aree, soprattutto nel Nordest e nelle province più produttive del Nord, questa misura è doppia, talora tripla.

In dieci anni o poco più abbiamo raggiunto e superato paesi in cui questi processi hanno storia e tradizione assai più lunghe. Abbiamo "il primato dell'immigrazione veloce", come hanno scritto i demografi Billari e Dalla Zuanna, in un recente saggio ("La rivoluzione nella culla", Università Bocconi Editore). La realtà è che ci siamo adattati altrettanto in fretta. Non siamo stati travolti. In particolare, le zone dove si registrano i maggiori indici di integrazione (come sottolinea il periodico rapporto della Caritas) sono proprio quelle dove l'immigrazione ha assunto proporzioni più ampie.

Il Veneto, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia. Fra le province: Bergamo, Treviso, Vicenza. Dove, cioè, la Lega è più forte. Ma la rappresentazione è opposta, perché proprio qui la "paura dell'altro" è più elevata. In altri termini: abbiamo accolto e integrato milioni di stranieri - perché ne abbiamo bisogno, dal punto di vista economico, dell'assistenza, ma anche della demografia. Ma si stenta ad ammetterlo, ad accettarlo. In parte, è inevitabile. Flussi di stranieri tanto ampi e tanto rapidi generano inquietudine. Soprattutto se non sono regolati da politiche adeguate (sociali e urbane), a livello locale. Se si "permette" la concentrazione degli stranieri in ampie periferie degradate.

La paura, tuttavia, è alimentata dall'uso politico dell'immigrazione. Dal fatto che la paura degli immigrati e dei rom "paga". In termini elettorali e di consenso. La stessa legislazione riflette questo sentimento. Si preoccupa di rassicurare assecondando la diffidenza. Promette di "arginare" gli stranieri alle frontiere. Oppure di regolarne i flussi, in base a quote irrealistiche. Con l'esito che gli stranieri continuano ad entrare, lasciando dietro sé una scia di morte che non emoziona quasi nessuno. E quando sono in Italia diventano "clandestini". Per legge. Per la stessa ragione, si irrigidiscono le restrizioni agli istituti che rafforzano l'integrazione. Primo fra tutti: i ricongiungimenti familiari. Così gli stranieri diventano viandanti di passaggio. "Altri" da cui difendersi.

Invece di promuovere un modello - magari involontario - che ci ha permesso di "sopportare" e, anzi, di integrare flussi di immigrati così imponenti in così poco tempo, ci si affretta a negare l'evidenza. Si indossa la maschera più dura. Perché la faccia tollerante non è di moda. Fa perdere consensi. Per contrastare il razzismo, si dovrebbe, quindi, combattere la paura. Invece, viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano. Questa pianta dai frutti avvelenati, che cresce nel giardino di casa nostra.

(6 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #67 inserito:: Ottobre 10, 2008, 12:01:55 pm »

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Il ritorno dello Stato (di necessità)


di ILVO DIAMANTI
 


C'è di che stropicciarsi gli occhi (e le orecchie) a leggere i titoli dei giornali di questi giorni. A sentire i discorsi dei leader. Politici, imprenditori, imprenditori politici e politici imprenditori. Presidenti della Repubblica e di Banche internazionali - europee, americane e quant'altro. Super-ministri del tesoro e delle finanze.

Tutti quanti a invocare una nuova divinità, che, tuttavia, fa riemergere dalla nostra memoria qualche traccia, qualche ricordo. Ne avevamo sentito parlare altre volte, un tempo. Pare. Forse. Ma non ne siamo sicuri. Lo Stato. Rammentate: lo Stato? Proprio lui.

Quello che non poteva neppure essere pronunciato senza venire sommerso dalla riprovazione pubblica (pardon: generale). Lo Stato. Caduto in disgrazia dopo gli anni Ottanta. E negli anni Novanta: innominabile. L'unico "stato" possibile: il participio passato del verbo essere. Appunto: lo Stato? E' stato. Lo Stato imprenditore, lo Stato padrone. Che salva le aziende decotte. Lo Stato che fa i panettoni. Lo Stato che controlla i telefoni. E le poste. E le ferrovie. E la luce elettrica. Innominabile. Indicibile. Scacciato e sepolto dal Mercato. Dal Privato. Principio e pensiero unico del Mondo nuovo.

Dove a nessuno - ma proprio a nessuno - passava per la testa che il pubblico e lo stato potessero più competere, svolgere un ruolo regolatore, neppure di comando, o direzione. Meno stato e più Mercato. Meno pubblico e più Privato. Gli slogan dominanti li sentiamo ancora nelle orecchie. Era ieri. Ieri l'altro al massimo.

Per cui non sappiamo quando, perché e come sia successo. Ma una mattina mi son svegliato. E ho ritrovato lo Stato, insieme al Pubblico. Dovunque. Invocato da tutti: Garante e Salvatore. Esibito come un'icona, un'immagine sacra. Non sappiamo cosa sia successo - quando, come e perché. Ma tutto questo ci disorienta non poco, perché i sacerdoti del nuovo culto hanno volti e nomi noti. Sono gli stessi che hanno celebrato il culto dominante fino a ieri. Anzi: stamattina. Governi liberali e ministri liberisti. Presidenti imprenditori. E Imprenditori presidenti. Di uno stato Imprenditore. E partiti-azienda oppure leghe di piccoli produttori. Tutti quanti a celebrare il rito dello Stato. Che ci salverà. Che garantirà i nostri risparmi, i nostri fondi, le nostre banche, le nostre imprese - piccole e grandi. Perché nessuna banca fallirà e nessun risparmio sfumerà. Lo Stato che protegge i cittadini dovunque e comunque.

Lo Stato assicuratore e rassicuratore. A vegliare sulla quiete pubblica. A imporre l'ordine. L'esercito sparso dovunque. Sulle piazze e sulle strade. Nei luoghi di crisi. A presidiare le discariche e le periferie in degrado. Lo Stato ci salverà dal mondo che ci minaccia. Barboni, immigrati, puttane, scippatori, spacciatori, lavavetri. Ci vuole davvero uno sforzo grande per adeguarsi in fretta. Per non rischiare il cortocircuito cognitivo. E occorre tanta flessibilità - specialità del tempo presente - per cogliere l'attimo fuggente e già fuggito. Per riconoscere - senza perdersi - il nuovo paesaggio, al cui centro svetta lo Stato al posto del mercato. Il Pubblico al posto del privato. Quasi fossimo tornati indietro. Un ritorno al futuro. Anche se - a ben vedere - qualcosa manca nell'immagine del passato che ritorna. In particolare: lo Stato sociale, previdenziale e provvidenziale. Quello che garantiva - e spendeva tanto - per salute, lavoro, educazione, assistenza, pensioni. Quello Stato lì: non ritorna. O meglio: non "deve" tornare. Quello Stato lì: va aperto al mercato (che solo in questo caso torna ad essere considerato un valore). Pesa ancora troppo, si dice con rammarico. E - per questo - va ridimensionato. Troppi professori - perdipiù incapaci; troppi chirurghi macellai; e troppi maestri (torniamo ai maestri unici - e anche così sono troppi). Così la sensazione di essere proiettati all'indietro - nel vortice del passato - un poco sfuma. Non è lo Stato che domina il mercato, del pubblico che guida il privato.

Questo Stato non rimpiazza il mercato, ma lo soccorre. Sostiene le banche più delle scuole. Le borse molto più della sanità. E non promette più benessere sociale (come potrebbe?), ma sicurezza individuale. Sorveglia il nostro mondo, affronta le paure - senza dissolverle. E' lo Stato al servizio dei privati. Lo Stato che stigmatizza gli "statali" (fannulloni) e i servizi "pubblici" (inefficienti). Per cui non riesce a curare la nostra inquietudine, ma, anzi, la alimenta. Né può ricostruire la nostra fiducia. In noi stessi, nelle banche e nello Stato. Quando lo Stato è "stato": ridotto a un participio passato, d'altronde, come è possibile affidargli il nostro futuro?

E come credere nella sua forza, quando, per decenni, se ne è recitato il declino, anzi: la fine? Quando la globalizzazione - mitica - ne ha indebolito poteri e legittimità? Quando la finanza senza confini e senza bandiere ne ha fatto un dio minore: come si può pretendere che oggi possa fare miracoli? sconfiggere il panico finanziario? Ergersi al di sopra della paura? E' uno stato di necessità: non ha il fisico, tanto meno il carisma per recitare la parte del Leviatano.

(10 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 12, 2008, 04:34:59 pm »

POLITICA     LE MAPPE.

Sei italiani su dieci ammettono di non fare più progetti impegnativi

Fiducia giù per imprese e sindacati, ma il gradimento del governo è a livelli record

Il Paese nella morsa della sfiducia

Gli italiani pessimisti come mai prima

di ILVO DIAMANTI


 E' come essere in guerra. E forse è proprio così. Anche se gli attacchi aerei e missilistici sono rimpiazzati dagli indici Dow Jones, MIB, Nasdaq e CAC. Il che fa una bella differenza, ovviamente e per fortuna.

Ma è una vera guerra quella che si combatte ogni giorno sulle piazze finanziarie di ogni parte del mondo.
E come tale è rappresentata, sui media. A ogni ora un bollettino che annuncia i dati della catastrofe. Le borse che crollano dovunque. Mentre i grandi (?) del mondo si incontrano e si affacciano sulle tivù. Per spiegare che non c'è da preoccuparsi, nessuna banca fallirà, nessun risparmiatore perderà i suoi risparmi. Producendo l'effetto opposto. Perché è difficile non farsi prendere dal panico quando i grandi del mondo ripetono che non bisogna farsi prendere dal panico. Sentirsi tranquilli quando le autorità intimano che bisogna restare tranquilli, mantenere i nervi saldi e il sangue freddo. Se non vi fossero motivi di timore, perché affannarsi a rassicurarti a ogni minuto che passa?

La spiegazione principale di questa crisi finanziaria senza fondo, peraltro, è che sui mercati ormai domina la sfiducia. Nessuno si fida di nessuno. Com'è ovvio, visto quel che è successo nel sistema finanziario negli ultimi anni. Tuttavia, in questo caso, mercati finanziari e società si rispecchiano. Soprattutto da noi. In Italia. Certo, non viviamo in un paese da incubo (come ha opportunamente rammentato il cardinal Bagnasco alcune settimane fa). Però bisognerebbe spiegarlo al paese. Visto che in Italia si rilevano, da tempo, gli indici di pessimismo e di insicurezza più elevati d'Europa (come hanno mostrato i sondaggi di Eurobarometro). Un clima d'opinione che sembra essersi ulteriormente deteriorato.

Sei italiani su dieci pensano, infatti, che in questo momento non valga la pena di "fare progetti impegnativi per sé e la propria famiglia, perché il futuro è troppo carico di rischi" (sondaggio nazionale Demos, condotto nei giorni scorsi). Si tratta della misura più elevata registrata dal 2000 fino ad oggi. Il problema è che questo sentimento, al di là delle ragioni ragionevoli che lo ispirano, in Italia trova importanti moltiplicatori. In particolare, lo sbriciolarsi dei legami e delle solidarietà sociali, alimentato dalla decomposizione urbana. Il gioco dei risentimenti incrociati fra gruppi professionali, di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Professori, medici, avvocati, maestri, farmacisti, tassisti, broker, commercianti e commercialisti ... Una lista infinita, destinata ad allungarsi. Tutti contro tutti. Deprecati a prescindere. Volta a volta: poveracci, privilegiati, evasori, fannulloni, ladri, incompetenti. Oppure, semplicemente, "nessuno". Un'entità fantasmatica, come gli operai. Che fanno notizia solo quando muoiono sul posto di lavoro.

Lo sfarinarsi delle appartenenze professionali, d'altronde, è drammatizzato (e accelerato) dalla perdita di rilevanza delle grandi organizzazioni di rappresentanza economica (Demos, ottobre 2008). In particolare, il 27% dei cittadini esprime fiducia nel sindacato, il 25% verso Confindustria. Si tratta di indici fra i più bassi nella graduatoria dei principali riferimenti associativi e istituzionali in Italia. La fiducia nel sindacato, soprattutto, scivola al livello minimo degli ultimi due anni. Inoltre, scende più in basso della media nella base di riferimento: gli operai (22%). Mentre sale soprattutto fra i pensionati. Uno scenario simmetrico rispetto agli anni Novanta, quando sindacato e Confindustria avevano garantito consenso allo Stato, dopo il tracollo della prima Repubblica. Era la stagione della concertazione, a cui si oppone, oggi, una società "sconcertata". Dove le tradizionali organizzazioni intermedie di rappresentanza non rappresentano più neppure i loro iscritti. La loro base professionale di riferimento. Come potrebbero, d'altra parte, supplire al deficit di fiducia delle istituzioni se esse stesse sono percepite come istituzioni e, per questo, sfiduciate?

Il collasso delle borse e del sistema finanziario, peraltro, rischia di accentuare ulteriormente le divisioni interne alla società. Di renderle profonde come baratri. Il 47% degli italiani (Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop, di prossima pubblicazione) afferma, ad esempio, di aver ridotto i consumi alimentari, in famiglia. Ma il dato scende sotto il 40% fra imprenditori, lavoratori autonomi e professionisti, mentre supera il 50% fra gli operai e i pensionati.

Da ciò il problema: come possa mantenere un grado accettabile di coesione una società così incoerente. Tendenzialmente dis-integrata. E come possa, a maggior ragione, non ri-esplodere quel dissenso politico che travolse, dall'autunno 2006, il governo Prodi e le forze che lo sostenevano. In una fase assai meno drammatica, economicamente, rispetto a quella attuale. Oggi, anzi, si osserva un orientamento contrario. Visto che la fiducia nel governo continua a crescere e ha raggiunto il livello più alto dal settembre 2002. (Al contrario dell'opposizione di centrosinistra, ormai ai minimi storici). La spiegazione più ragionevole sta, a nostro avviso, proprio nel clima di inquietudine e diffidenza che inquina il nostro mondo.

Questa società si sente sotto assedio. E le forze politiche, gli uomini di governo, lo stesso Presidente del Consiglio confermano le sue paure. Ne traggono motivo di consenso. Promettono di difenderla dai nemici che la minacciano. Immigrati, rom, prostitute, automobilisti e motociclisti ubriachi, tossici e spacciatori. Promettono, inoltre, di contrastare il disordine sociale, devastato dalla perdita di senso e di autorità. Combattono la morte del futuro e il collasso del presente attraverso il richiamo al passato. Attraverso i valori e i simboli pre-sessantottini. I grembiulini, il voto di condotta, i bambini che si alzano quando entra il professore. Attraverso lo Stato protettivo e protettore, gli impiegati pubblici che, finalmente, la smettono di poltrire, i professori che, finalmente, si fanno rispettare, i maestri, che, finalmente, tornano ad essere unici. Questa società sotto assedio (come la definisce Bauman) applaude l'esercito sparso sul territorio e nelle città, i vigili urbani che diventano poliziotti, i sindaci che si fingono sceriffi. I "ministri della paura", geniale invenzione di Antonio Albanese (puntualmente superata dalla realtà). Questa società, di fronte al terrorismo delle borse, come dopo l'attacco alle torri nel settembre 2001, esprime domanda di certezza e di autorità. Così, si raccoglie, trepida, intorno al Grande Rassicuratore. Che, dagli schermi, dice ciò che tutti temono e tutti vogliono sentire. Non c'è motivo di avere paura. Cioè: abbiate paura, perché ce n'è motivo. Ma io - solo io - vi salverò. Dalle banche e dai banchieri, dai subprime e dai fondi tossici, dalle cattive azioni e dai cattivi maestri (sempre loro...). Dai broker armati, che vi minacciano: "O la borsa o la vita". E se le borse non mi ascoltano io le chiuderò. Abbiate sfiducia negli altri. Paura del mondo. Il futuro è ieri. E' il consenso triste del nostro tempo. Intriso di sfiducia e di paure. Prigioniero della nostalgia.

(12 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 15, 2008, 04:00:55 pm »

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Il popolo delle Primarie si è perduto

di ILVO DIAMANTI
 

E' trascorso giusto un anno dalle primarie che elessero Walter Veltroni alla segreteria del Pd, insieme a un'assemblea costituente composta da qualche migliaio di persone. L'approdo finale dell'Ulivo di Romano Prodi dopo 12 anni di navigazione. Il 14 ottobre 2007 si recarono ai seggi circa tre milioni di persone. Mentre due anni prima la partecipazione alle primarie che avevano sancito la candidatura di Prodi in vista delle elezioni politiche del 2006 era risultata ancor più larga. Oltre 4 milioni. Ma allora la consultazione riguardava l'intera coalizione di centrosinistra.

In entrambi i casi, però, le primarie hanno costituito un'occasione di straordinaria partecipazione. Milioni di persone, in fila, davanti a seggi improvvisati, a firmare una dichiarazione di appartenenza. Disposte a pagare per votare. Un segno di vitalità della società civile che contrasta con quanti immaginano - e teorizzano - una democrazia stanca, fatta di cittadini indifferenti, per i quali il rito delle elezioni basta e avanza. E' fin troppo.

La risposta alle primarie dimostrò - dimostra - che i cittadini sono silenziosi perché non hanno buone ragioni e valide occasioni per esprimersi. Peraltro, le primarie non vanno confuse con una manifestazione di democrazia diretta. Sono, invece, strettamente collegate alla democrazia rappresentativa, in quanto servono a selezionare e a legittimare la classe dirigente dei partiti oppure le candidature alle elezioni a cariche pubbliche.

Tuttavia, nonostante si celebrino ogni giorno le ricorrenze più improbabili, l'anniversario delle primarie è stato accompagnato da un singolare silenzio. Rotto da alcuni contributi sui giornali di area. E da qualche iniziativa del Pd e dintorni. Come l'avvio di Youdem, la tv di partito voluta da Veltroni. Un convegno dei Democratici di Parisi. Questo silenzio riflette, forse, una certa voglia di rimozione. Alimentata, in primo luogo, dal risultato elettorale dello scorso aprile.

Se le primarie sono nel codice genetico del Pd, la sconfitta ne ha, in qualche misura, ridimensionato il ruolo. Il divario tra la partecipazione di un anno fa e l'ampiezza della sconfitta elettorale ha generato grande delusione. Da ciò una certa, magari inconfessata, voglia di dimenticare. La sconfitta e i suoi precedenti. La tentazione di esorcizzare la delusione per il risultato elettorale rimuovendo - dimenticando - l'illusione prodotta dalle primarie.

Tuttavia immaginare una vittoria, alle elezioni di aprile, era velleitario, visto il grado di sfiducia sociale verso il governo e il centrosinistra. Per cui la disattenzione intorno alle primarie ha altri motivi.

Riflette, in parte, la difficoltà di realizzare il progetto implicito nelle primarie. La costruzione di un partito aperto al confronto con la società, in grado di favorire la formazione e il rinnovamento della classe dirigente. Le primarie come indicazione di metodo. Come marchio di un nuovo modello di partito e di democrazia. Non possiamo dire che abbiano prodotto i risultati attesi.

Il Pd resta un progetto incompiuto.

Le primarie non sono diventate un metodo di selezione generale e generalizzato. Fin qui, a livello nazionale, sono state usate solo per dare investitura popolare a scelte già fatte dai gruppi dirigenti (Prodi, prima; quindi Veltroni). L'assemblea costituente, eletta un anno fa, d'altronde, si è riunita un paio di volte e sembra già aver concluso la sua missione.

Le primarie, invece, non sono state usate per scegliere i candidati alle politiche. Né il sindaco a Roma. A causa dei tempi troppo ravvicinati, si è detto. Un problema reale. Che, però, sembra essere stato accolto con sollievo nei gruppi dirigenti, preoccupati dall'emergere di qualche sorpresa, per definizione sgradita. In generale, a livello centrale e locale, negli organismi e fra gli eletti del Pd alle cariche più importanti prevalgono sempre i soliti noti. I leader dei partiti da cui originano: Ds e Margherita. Che, spesso, operano distintamente, come due entità specifiche (come ha rilevato una ricerca sul cambiamento dell'organizzazione dei "nuovi" partiti a livello territoriale condotta da Terenzio Fava, dell'Università di Urbino). La distribuzione degli incarichi avviene, inoltre, in base ad appartenenze "partigiane" (e di corrente: d'alemiani, rutelliani, popolari, veltroniani...).

Per cui, le primarie tendono a diventare un problema, perché complicano i rapporti di forza fra ex-partiti, correnti, leader. A livello centrale e locale. Soprattutto se non è possibile controllarne l'esito. Se possono dare, cioè, esiti imprevisti. E quindi sgraditi ai gruppi dirigenti. Come abbiamo osservato altre volte: Obama, mito e bandiera dei democratici italiani, in Italia non riuscirebbe mai a imporsi. A emergere. Troppo giovane: neppure cinquant'anni! Fuori dai giri che contano, controllati da Clinton. E poi, negli Usa (e non solo), difficile imporsi con quella carnagione scura...

Insomma, non è "previsto". In Italia, al massimo l'avrebbero nominato a rappresentare i diritti degli immigrati, in qualche amministrazione comunale; al massimo, in qualche commissione governativa. Anche coloro che parlano di "sfiduciare" Veltroni, d'altronde, pensano di rimpiazzarlo con qualcun altro dei "soliti noti". Per cooptazione o congiura. Sancita - ma solo dopo - dal voto popolare. Il che delinea un modello di democrazia poco democratico.

Un esito contradditorio e un poco ironico, visto che il progetto da cui originano l'Ulivo, il Pd e le primarie mira all'esatto contrario. Porre limiti a questa democrazia personalizzata e al tempo stesso impersonale. Impostata su partiti "senza società". Centralizzati, identificati nel leader. Le cerchie dirigenti scelte in base a criteri di fedeltà e di immagine. Una democrazia in cui la mediazione con la società è svolta dai media.

La televisione, in primo luogo. Dove il contatto con la "gente" avviene attraverso episodici e oceanici bagni di folla, manifestazioni di piazza. Si tratta di un format inventato e imposto da Silvio Berlusconi, che ha adattato e ridisegnato, a modo suo, tendenze presenti - spesso dominanti - in tutto l'Occidente (e non solo). Il filosofo francese Bernard Manin le ha riassunte nella formula della "democrazia del pubblico". Lo stesso Sarkozy ne ha imitato molti tratti. Alcuni commentatori hanno parlato per questo di "berluskozysmo". Il Pd è nato per contrastarlo sul suo terreno. Ma non sembra esservi riuscito. In particolare, non pare essere capace di opporsi alla deriva della democrazia che esclude gli elettori da ogni scelta relativa a chi dovrebbe rappresentarli. Una democrazia "rappresentativa" solo a parole, perché i rappresentanti li decide l'oligarchia che comanda. E che, con queste regole e con questi partiti, comanderà per sempre. Visto che la legge elettorale, alle politiche, non prevede il voto di preferenza.

E la dimensione delle circoscrizioni impedisce un rapporto diretto con gli eletti (che invece era possibile nel maggioritario di collegio). Visto che, inoltre, si sta preparando una legge con caratteristiche analoghe anche per le elezioni europee. Con soglia di sbarramento elevata e abolizione delle preferenze. Per impedire qualche imprevisto. Qualche lista sgradita. O peggio: qualche candidato non deciso a livello nazionale. Ormai, solo nelle elezioni amministrative (comunali, provinciali, regionali) la responsabilità degli eletti e degli elettori è chiara. Ma è probabile che, presto, si troverà rimedio anche a queste anomalie. Il Pd, al di là della buona volontà, non pare capace di opporsi a questa partitocrazia senza società. A questa democrazia che limita il potere del cittadino a un esercizio che si svolge - e si esaurisce - una volta ogni tot anni. Quando l'elettore mette una croce su una scheda. E tutto finisce lì. Fino alla prossima.

Per questo l'anniversario delle primarie avrebbe potuto essere una buona occasione. Per ricordare - per non dimenticare. Ciò che il Pd dovrebbe diventare. Ma che ancora non è - e non sappiamo se mai diventerà. Per ricordare - per non dimenticare. Ciò che rischia di diventare la nostra democrazia. Fondata su partiti chiusi - alla società e alla "circolazione delle élites" (per citare Pareto). Una democrazia povera, per pochi intimi.

Avrebbe potuto essere, ma non lo è stato, un'occasione per ricordare. Questo anniversario finito come è cominciato. Nell'indifferenza.

(14 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 31, 2008, 11:28:02 pm »

Rubriche » Bussole   

 Chiamatemi Barone


Ilvo Diamanti


Chiamatemi Barone. L'ho detto anche mia moglie, ieri sera, dopo aver sentito ripetere questa definizione almeno una decina di volte, in tivù, nei salotti dove si discute delle sorti dell'umanità. Da Vespa e da Mentana. Da Floris e da Santoro. Ospiti: la variegata tribù di lotta e di governo, che si affolla intorno e dentro l'Università. Studenti pro e contro, manifestanti di sinistra e di destra, agitatori e agitati, rumoreggianti e silenziosi. Occupanti e occupati. Poi, filo-ministeriali e oppositori democratici. Infine, professori.

Pardon: "baroni". Perché ormai è dato per scontato: i professori universitari sono "baroni". Tutti. Reclutati in base a criteri clientelari, attraverso concorsi-truffa, che a loro volta provvedono, puntualmente, a riprodurre. Reclutando, a loro volta, ricercatori e professori in base a logiche di fedeltà. Schiavi e servi della gleba, che, dopo secoli di precarietà, un contratto oggi, una borsa domani, un dottorato e un post-dottorato dopodomani, giungono, alla fine, stremati, all'auspicato posto fisso. Per fare i ricercatori fino a diventare professori. Naturalmente "per anzianità" (così si dice). Senza rispetto per il merito e per la produzione scientifica, didattica e organizzativa. "Baroni", appunto. I veri colpevoli del dissesto dell'Università italiana. Del degrado del sapere nazionale.

Dell'ignoranza che regna fra i giovani. E, anzitutto, del disastro finanziario. Del deficit crescente di risorse. Provocato non tanto dai tagli di questo governo e da quelli precedenti, ma da loro (da noi): i baroni. Che prendono lo stipendio senza fare nulla. (Soggiogateli ai tornelli!). Incapaci di gestire le università. Colpevoli della moltiplicazione dei corsi e delle sedi, dovunque. Le università telematiche e quelle tascabili, fuori porta. Che promettono e permettono la conquista del titolo di dottore a tutti. Giornalisti, carabinieri, poliziotti, infermieri. Volontari e involontari. Perfino i politici. Beneficiati da un monte-crediti formativi tale da permettere loro di laurearsi in pochi mesi, con pochi esami. Dottori in Scienze della futilità. Questi "baroni": fannulloni, perfidi e manovratori. Capaci di manipolare gli studenti. Di farli scendere in piazza insieme a loro, per loro, con loro. Invece che "contro" di loro.

Tutti baroni. Tutti. Inutile eccepire ... Inutile osservare che tu, io, lui, noi - alcuni, magari molti - lavoriamo e insegniamo in modo assiduo e regolare, facciamo ricerca, pubblichiamo libri e saggi, perfino su riviste internazionali (un'aggravante: dove troviamo il tempo per fare tutte queste cose? Per scrivere e per studiare? Partecipare a convegni in Italia e addirittura all'estero?). Per sostenere le nostre attività, cerchiamo - e qualche volta troviamo - finanziamenti. Non solo pubblici: perfino privati. Le eccezioni non contano.

Sono conferme alla regola. Inutile osservare che se ci fosse un sistema di reclutamento e di valutazione universalista, criteri di finanziamento fondati su parametri "misurabili" di qualità e quantità ... Inutile. Perché tutto ciò non c'è. E se non c'è, inutile prendersela con il legislatore. La colpa è dei "baroni". D'altronde, quanti baroni infiltrati in Parlamento e perfino nel governo... Insomma, è inutile entrare nel merito, precisare. Quando da "professori" si diventa "baroni" le distinzioni cessano di avere rilievo e significato. Suggerirle, evidenziarle: è perfino fastidioso. Perché possiamo differenziare i professori, i quali possono essere bravi, capaci, laboriosi, prestigiosi, oppure fancazzisti, ignoranti peggio degli studenti, arroganti, fannulloni nullafacenti e nullapensanti.

Ma i "baroni" no. Perché traducono fenomenicamente una categoria sostanziale: la "baronità". Per cui i baroni sono i signori oscuri di una terra oscura. Avvolta nelle nebbie. Anche la semantica, d'altronde, condanna e stigmatizza la categoria. Ridotta a una variante della "casta". Definizione usata, fino a qualche mese fa, per catalogare (e insultare) i politici. Ora, invece, lo stesso termine è applicato con analogo disprezzo, ai professori dell'università. La casta dei baroni. Titolari di privilegi ereditati ed ereditari. Dotati di un potere arbitrario. Un ceto "nobiliare", appunto.

L'ho rammentato a mia moglie, come scrivevo all'inizio di questa "bussola" un po' scombussolata. Da oggi io sono un Barone.
E lei, di conseguenza, una Baronessa. Intanto, i Baronetti - ignari di essere divenuti tali - se ne stavano nelle loro stanze, intenti a studiare.

Chissà che invidia il Presidente del Consiglio. Lui, con i suoi successi, riconosciuti da tutti: soltanto Cavaliere.

(31 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #71 inserito:: Novembre 02, 2008, 11:44:13 am »

SCUOLA & GIOVANI    MAPPE

Il '68 è finito andate in pace

di ILVO DIAMANTI


E' raro che un anniversario acquisti tanta forza quanto, quest'anno, il Sessantotto. Evocato, di continuo, grazie alle - e a causa delle - manifestazioni degli studenti universitari contro le politiche del governo.

In particolare, contro la ministra Mariastella Gelmini, il cui decreto, in effetti, c'entra poco con l'università. Tuttavia, la scuola e soprattutto l'università stanno al crocevia delle esperienze e delle attese dei giovani. Riflettono e acuiscono un disagio che ha ragioni lontane. E' comprensibile, anche per questo, la tentazione di cercare i segni di una storia che si ripete. Quarant'anni dopo. Anche se, a nostro avviso, si tratta di periodi difficili da comparare. Anzitutto, per il contesto sociale e globale che li caratterizza.

Quarant'anni fa la contestazione studentesca giungeva in Italia per contagio internazionale. Dopo avere infiammato molte importanti piazze e università. Citiamo, per tutte, le rivolte nei campus universitari USA e il maggio parigino. Il Sessantotto, in altri termini, fu un passaggio d'epoca internazionale, trainato da movimenti che attraversavano società, economia, religione, cultura e politica. Nelle scuole e tra i giovani, però, quella fase assunse un senso specifico. Marcò, infatti, la frattura generazionale tra figli e genitori.

Dove i genitori - insieme ai professori, ai politici, agli imprenditori (allora definiti, non a caso, "padroni"), alle gerarchie della Chiesa - evocavano l'autorità. E venivano, come tali, contestati. Perché il 1968 è, anzitutto, una rivoluzione antiautoritaria, che ridisegna i ruoli e i rapporti sociali: in famiglia, a scuola, nel lavoro, nella politica. E innova profondamente i riferimenti etici e di valore, gli stili di vita, i costumi sessuali.

Gli avvenimenti di questa fase hanno un carattere molto diverso. Si verificano in un contesto globale di implosione finanziaria ed economica. In Occidente e in Europa non si scorgono grandi movimenti di protesta. Prevale, invece, un'insicurezza diffusa, da cui si irradiano spinte populiste e domande d'ordine. Quanto alla mobilitazione degli studenti in Italia, avviene in uno scenario molto diverso. I professori: 40 anni fa stavano dall'altra parte della barricata. Oggi, sono vicini a loro. Ma sarebbe sbagliato parlare di "complicità", come denuncia la destra.

Le rivendicazioni di questa fase hanno un'impronta prevalentemente "difensiva". Ciascuno rema per proprio conto. I docenti: protestano contro la marginalizzazione della propria categoria e della scuola. Gli studenti e i giovani, invece, manifestano contro il furto del futuro. Dovrebbero prendersela "anche" con i professori (e con i genitori). Ma il governo e questa maggioranza offrono un buon bersaglio polemico. E per loro è prioritario manifestare la propria esistenza, anche se "contro"; per sfidare la propria condizione di generazione perdente e invisibile.

Il richiamo al Sessantotto, quindi, pare poco fondato. Se risuona di frequente è per iniziativa degli attori politici, in base a ragioni legate al presente.
Guarda al Sessantotto l'opposizione di sinistra riformista e radicale. Per nostalgia. Ma soprattutto nella speranza che le proteste studentesche si trasformino, come allora, in movimento. Che il movimento eroda il consenso del governo. Che incrini l'immagine del Cavaliere invincibile. Che restituisca alla sinistra, spaesata, la base sociale perduta.

Questo Sessantottismo minimalista si scontra con un Antisessantottismo ben più ambizioso e consapevole, espresso dalla destra al governo. Ben più determinata della sinistra a fare i conti con l'eredità di quella stagione. Lo ha chiarito bene la ministra Gelmini, subito dopo l'approvazione del decreto: "Si torna alla scuola della serietà, del merito e dell'educazione". Dando, quindi, per scontato che oggi nella scuola non vi siano serietà, merito ed educazione, la ministra riporta il calendario indietro di quarant'anni. E riafferma i valori della tradizione. Scanditi dai provvedimenti - altamente simbolici - assunti nei mesi scorsi.

Il voto in condotta: la disciplina. Gli esami di riparazione, il ritorno dei voti: la selezione e il merito. I grembiulini, il maestro unico: l'autorità.
La volontà di fare i conti con il Sessantotto è espressa, senza perifrasi, anche dal ministro Maurizio Sacconi (intervistato da Vittorio Zincone, sul Magazine del Corriere della Sera): "Il sessantottismo è il male oscuro, il cancro di questo Paese". Una metastasi prodotta "dall'Università corporativa figlia della sinistra degli anni Settanta".

Parallelamente, l'Antisessantottismo investe altri puntelli dell'identità di sinistra. Il sindacato unitario e in particolare la Cgil. Valori come la solidarietà e l'egualitarismo. Per contro, aderisce al discorso etico elaborato e predicato dalla Chiesa di Benedetto XVI, teso a marcare i confini della verità definiti dalla fede cattolica. A papa Ratzinger, non a caso, si ispirano molti esponenti politici e culturali della destra (anche se non solo). Cattolici e laici. Atei devoti e credenti disciplinati.

Ma il nucleo dell'Antisessantottismo coincide con il ritorno dell'autorità, delle istituzioni e delle figure che lo interpretano. Da ciò la polemica contro i professori, i maestri e, in fondo, i genitori (sessantottini). Incapaci di comportarsi davvero da padri, maestri e genitori. Simboli dell'antiautoritarismo da sconfiggere.
Non si tratta, peraltro, di un discorso nuovo. In Inghilterra, Tony Blair, alcuni anni fa, si espresse apertamente contro l'eredità sociale e culturale del Sessantotto.

In Francia, un anno e mezzo fa, Sarkozy, appena eletto, impostò il suo piano di riforme proprio sulla scuola. Il ritorno all'autorità perduta venne, simbolicamente, sottolineato dall'obbligo imposto agli studenti di alzarsi all'ingresso degli insegnanti.
Tuttavia, in Italia, questa polemica oggi appare strumentale. Non c'è partita fra le due diverse letture, perché il Sessantottismo è appassito, insieme ai suoi miti e ai suoi eroi. Si pensi al sindacato, diviso, il cui consenso è sceso a livelli minimi fra gli operai. E resiste solo fra i pensionati. Si pensi al solidarismo e all'egualitarismo: parole indicibili. Si pensi al disincanto dei genitori e dei professori. Loro, i primi a sentirsi sconfitti.

Mentre il ritorno dell'autorità - di ogni autorità - è ostacolato non da ideologie e da teologie della liberazione, ma, anzitutto, dalla scomposizione corporativa della società, frammentata in mille interessi organizzati, chiusi, gelosi e irriducibili. Si pensi alla rivoluzione dei costumi e della morale sessuale, oggi presidiati dal consumismo e dal "velinismo di massa" diffuso dai media. In particolare dalle tivù del Cavaliere.

Gli studenti che manifestano nelle scuole e nelle università, dunque, non debbono preoccuparsi troppo del Sessantotto. Semmai, del Sessantottismo e - ancor più - dell'Antisessantottismo. Conviene loro, per questo, marciare da soli. Liberarsi di padri, maestri e professori. Ma anche di coloro che li esortano a liberarsi di padri, maestri e professori. E cerchino di guardare avanti. Il loro futuro - incerto - non è quarant'anni fa.

(2 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 14, 2008, 10:44:09 pm »

L'ANALISI

La politica non cerca la selezione in Italia vince la via dinastica

di ILVO DIAMANTI


IL SOGNO americano, interpretato da Obama, a molti italiani evoca, soprattutto, la possibilità e la capacità di cambiare. Perché Barack Obama è giovane e di colore. Parte di una minoranza, fino ad oggi esclusa dal potere. In più: non ha alle spalle una carriera politica lunga. Non fa parte delle oligarchie familiari che contano, fra i repubblicani e i democratici. La voglia di cambiare, cioè, ha spinto una grande quota di cittadini americani - anche "bianchi" - a scegliere (in larga maggioranza) un presidente meno condizionato da interessi ed eredità sociali, generazionali, familiari. Evidente la frattura rispetto all'Italia.
D'altronde, in nessun altro luogo in Europa l'incapacità di cambiare e di innovare la classe dirigente è altrettanto evidente che in Italia.

In Spagna: in trent'anni di democrazia si sono succedute quattro leadership. In Francia, nel corso della V Repubblica, si è passati dal gollismo al mitterrandismo fino al sarkozysmo. Il cui interprete, Nicolas Sarkozy, non proviene dalle Grandes Ecoles; ed è, inoltre, di origine straniera (ungherese, per la precisione).

Ma lo stesso vale per la Germania (passata, in vent'anni, da Kohl a Schroeder fino ad Angela Merkel) e per l'Inghilterra (dalla Thatcher a Mayor; e da Blair a Gordon Brown). Nell'Italia repubblicana, invece, i cambiamenti sono avvenuti in modo sporadico, per strappi e rivoluzioni. La generazione politica che ha costruito la democrazia e ricostruito l'economia e la società italiana era, prevalentemente, "giovane" all'indomani della guerra, nella fase costituente. Un po' meno, cinquant'anni dopo, quando, in buona parte, guidava ancora il sistema politico e le istituzioni.

Il Sessantotto, in realtà, non ha prodotto fratture determinanti nella classe dirigente dei partiti maggiori. Neppure a sinistra. Ne ha, semmai, accelerato la crisi. Perché si verificasse un cambiamento profondo si è dovuto attendere la fine della Prima Repubblica, nei primi anni Novanta. Appunto: una "rivoluzione". La caduta del "nostro" muro. Tuttavia, dal punto di vista dei soggetti politici e della leadership, le novità più rilevanti sono emerse a Destra. O, comunque, da settori antipolitici. Dalla Lega, anzitutto, la quale ha favorito l'accesso nel sistema politico e di governo di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Operai e lavoratori autonomi, giovani, "dilettanti" politici.

In seguito, l'ha affiancata e sovrastata Silvio Berlusconi, che, con il suo "partito personale", ha occupato lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo. Berlusconi e Bossi: entrambi del Nord, entrambi "padroni" del loro partito, entrambi "nuovi" per linguaggio e stile di leadership. Politici impolitici e populisti. Maestri della personalizzazione: territoriale oppure mediatica. A sinistra, l'affermazione di Romano Prodi e dell'Ulivo è stata favorita dalla debolezza dei partiti tradizionali. Sopravvissuti allo sfascio del sistema. Ma sradicati dal punto di vista sociale e del territorio. E zavorrati dall'eredità politica del passato. Più che imporsi, Prodi è apparso, allora, una reazione difensiva alla sfida di Berlusconi.

Quindici anni dopo, siamo sprofondati in un "regime oligarchico e personalizzato", che non lascia spazio al rinnovamento. A destra, Berlusconi e Bossi sono saldamente in sella ai loro partiti. Intorno al Cavaliere: esperti, consulenti di fiducia, amici e amiche. Un modello "cortigiano". In cui la successione può avvenire solo per via dinastica. Il più tardi possibile, visto che il Sovrano prevede di mantenere lo scettro oltre il secolo di vita. A sinistra, Prodi è stato sostituito, alla guida, dai "ragazzi" della Figc e del Movimento Giovanile Dc degli anni 70 e 80. Le primarie hanno plebiscitato prima Prodi e poi Veltroni, senza vera competizione. Mentre a livello territoriale appaiono, molto spesso, regolate dal centro. Il loro esito: predeterminato. Insomma: non appaiono ambienti di lotta per la vita. Di selezione darwiniana. Dove possano emergere i migliori; in grado, per affermarsi, di "uccidere" padri e maestri.

Anche l'esperienza dei sindaci che, nei primi anni '90, aveva promosso un significativo rinnovamento della classe politica non ha trovato sbocchi in ambito nazionale (salvo che per i sindaci di Roma) ed è stato "normalizzato" in periferia.

Tutto ciò, d'altronde, riflette un vizio nazionale, che, negli anni, è degenerato. Siamo una società familista e vecchia. Vecchia e familista. E, inoltre, corporativa e localista. Immobile e chiusa. La politica, in fondo, ne riproduce ed enfatizza i limiti, come un gioco di specchi. Un paese previdente si attrezzerebbe per superare in fretta questo problema, che sta producendo effetti devastanti.

Penserebbe, ad esempio, a favorire l'accesso nella politica e nelle istituzioni delle componenti "nuove"; delle "minoranze". Applicherebbe seriamente le quote "rosa", riservate alle donne. Ma introdurrebbe anche le quote "verdi", riservate ai giovani con meno di 35 anni. Abbasserebbe l'età del voto a 16 anni, anche alle politiche. E allargherebbe agli immigrati regolari il diritto di voto, alle amministrative e non solo. (Da noi, l'abbiamo già detto, Obama potrebbe, al massimo, ambire all'incarico di mediatore interculturale in qualche amministrazione di sinistra). Tuttavia, l'interesse comune contrasta con quello particolare. L'investimento nel futuro, anche immediato, è frenato dalle resistenze del passato. Per cui è difficile immaginare grandi mutamenti, senza nuovi strappi.

Come nel '45, nel '68 e nel '92. Senza rivoluzioni, senza fratture e "ribellioni" è difficile che le donne e - a maggior ragione - i giovani divengano protagonisti. Per questo guardiamo con interesse alle mobilitazioni studentesche di queste settimane. Al là degli obiettivi espliciti, possono diventare occasioni importanti di "formazione politica". Esperienze utili all'affermazione di nuovi leader. Tuttavia, questi giovani, questi studenti, difficilmente riusciranno a diventare una "generazione politica" con il permesso e la compiacenza dei genitori e dei professori.

(13 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #73 inserito:: Novembre 16, 2008, 10:10:20 am »

IL COMMENTO

Se riesplode la guerra mediatica

di ILVO DIAMANTI


NON finisce mai la guerra politica intorno allo spazio radiotelevisivo, ma, in particolare, intorno alle tivù. L'elezione del senatore Villari, del Pd, alla presidenza della Commissione di vigilanza della Rai, con i voti del centrodestra (e qualcuno in più) ne è solo l'ultimo atto. Tuttavia, è da qualche settimana che si colgono segni di nervosismo, intorno alla tivù. Soprattutto da parte del centrodestra e, anzitutto, del Presidente del Consiglio. Il quale è intervenuto, in diverse occasioni, perlopiù durante i suoi viaggi all'estero (d'altronde, è sempre in viaggio), per esprimere il suo disappunto sull'informazione televisiva.

Nello specifico: sulla Rai. Accusata di proporre l'immagine di un paese in rivolta. Strade e piazze affollate dalle proteste di studenti, genitori e professori. Scuole e Università in assemblea permanente. Ha recriminato, ancora, Berlusconi contro la satira che lo bersaglia ogni sera in tivù. Gli hanno fatto eco alleati fedeli. Il ministro Bondi ha gridato la sua indignazione contro una trasmissione satirica di tarda serata (Glob, condotta da Bertolino). Inoltre, Marcello Dell'Utri, amico e collaboratore di sempre, ha ironizzato - e polemizzato - sulla tivù ansiogena, che affida la lettura delle informazioni a giornaliste dark. Critiche politiche, etiche, estetiche. Troppe, in poche settimane, per non far pensare che la ricreazione è finita. Pareva, Berlusconi, aver allentato il morso sulla tivù (di Stato), dopo le elezioni dello scorso aprile. A differenza del 2001, quando, all'indomani del voto, si occupò presto della Rai.

Accelerò le nomine indicando, da subito, le figure sgradite. Biagi, Luttazzi e Santoro. Forse il Cavaliere, questa volta, dopo aver conquistato un successo tanto largo e una maggioranza parlamentare tanto netta, ha accarezzato davvero l'idea di assumere un atteggiamento più "liberale" verso l'informazione Rai. Che, d'altronde, non ha certo assunto un atteggiamento "militante" e antagonista, nei suoi confronti. Semmai, si è fatta più prudente, come normalmente avviene quando i giornalisti si sentono "di passaggio". Questa "pazza idea", però, sembra svanita in fretta. Dissolta, nell'ultimo mese, dal ritorno del "Cavaliere mediatico" - occhiuto e polemico - che abbiamo imparato a conoscere in questi anni. Spinto da diversi motivi.

1. Anzitutto, i sondaggi hanno rilevato un calo del consenso: suo personale e del governo. A causa di alcuni provvedimenti, che hanno sollevato polemiche e proteste. In primo luogo, come abbiamo detto, la mobilitazione di studenti e genitori, maestri e professori contro i decreti sulla scuola e sull'Università. Poi, il persistere e l'acutizzarsi della crisi economica e finanziaria. E gli effetti che sta producendo sulla vita quotidiana: dal punto di vista dei redditi, del risparmio, dei consumi. Nell'insieme, hanno spezzato lo "stato di grazia" che aveva permesso al governo di giungere fino a ieri "nonostante" la delusione. Non che la popolarità di Berlusconi e del suo governo abbiano subito un crollo. Ma si è ridimensionata. E, soprattutto, ha mostrato di non essere immune alla rappresentazione infinita sui media del malessere sociale.

2. Tuttavia, il timore di Berlusconi più che dal passato recente è dettato dal futuro prossimo. Dalla crisi economica che incombe. Dalla consapevolezza che, nei prossimi anni, i tagli della spesa pubblica continueranno; che la pressione fiscale non calerà. Preoccupa, Berlusconi, l'idea che la recessione divenga un genere televisivo, come nel passato recente la violenza nella vita quotidiana. Che comprometta la sua immagine di Grande Rassicuratore. Di Cavaliere Vincitore e Invincibile.

3. Tuttavia, le preoccupazioni di Berlusconi si rivolgono anche all'interno della sua coalizione. Il malessere sociale, amplificato dai media, alimenta, infatti, il clima antipolitico e le tensioni territoriali. E rafforza il partito antipolitico e territoriale per definizione. La Lega, stimata, oggi, sopra il 10% e nel Nord oltre il 20% (intorno al 30% in Lombardia e ancor di più in Veneto). Il che spinge il Pdl a centrosud. Nell'area della crisi. Si aggiunga che, in questa fase di "fondazione" unitaria, le tensioni attraversano lo stesso Pdl. An, infatti, cerca di far valere il suo radicamento territoriale per pesare di più, nei futuri assetti del partito. Inevitabile, per Berlusconi, rispondere all'organizzazione con la televisione.

4. I problemi di Berlusconi sono, peraltro, comuni anche al centrosinistra. La "comunicazione ansiogena" e "l'antagonismo e l'antiberlusconismo come spettacolo" hanno, infatti, avvantaggiato soprattutto l'Idv (stimata dai sondaggi intorno al 9%). Ma anche Michele Santoro, il cui programma ha raggiunto livelli di audience elevatissimi. Non a caso Santoro e Di Pietro costituirebbero, secondo alcuni, l'unica vera opposizione in Italia.

5. Anche il Pd, come il Pdl, è attraversato da tensioni interne. Tra fazioni e frazioni. Che mirano a consolidare oppure a scardinare definitivamente la leadership di Veltroni. La vicenda della "commissione di vigilanza", in fondo, costituisce un atto di sfiducia nei suoi confronti espresso anche dall'interno del Pd, visto che Villari non è stato votato solo dal centrodestra.

La tivù è tornata, dunque, il "campo di battaglia" privilegiato dalla politica e dai politici. Di entrambe le parti. Con un duplice rischio. A) Lo svuotamento della politica e dei suoi attori, sempre più distanti dalla società e dal territorio. B) Reciprocamente, la definitiva trasformazione del ruolo dei media e dei giornalisti: da mediatori ad attori politici. La rappresentanza politica tradotta in rappresentazione, guidata e interpretata da Vespa, Floris, Mentana e Santoro. O come imitazione. Crozza, Guzzanti, Cortellesi e Marcoré. Al tempo stesso, governo e opposizione.

Il Pd, Di Pietro, i Radicali e quanti contestano il rapporto mimetico e complice fra media e politica, fra i partiti e la Rai, per essere credibili, non dovrebbero spingere alle dimissioni Villari, per mettere qualcun altro al posto suo. Ma semplicemente andarsene dalla "Commissione di Vigilanza". Organo non di controllo, ma di spartizione.


(16 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 23, 2008, 11:43:42 am »

MAPPE

Come si fabbrica l'insicurezza

di ILVIO DIAMANTI


SONO passati un anno, dodici mesi appena, ma l'Italia sembra un'altra. Meno impaurita e meno insicura. Infatti, l'inverno è vicino, ma il clima d'opinione registra un disgelo emotivo evidente. Come testimonia il 2° rapporto - curato da Demos e dall'Osservatorio di Pavia per Unipolis sulla rappresentazione della sicurezza - nella percezione sociale e nei media. Pochi dati, al proposito (d'altronde, ieri Repubblica gli ha dedicato molto spazio).

Nell'ultimo anno, si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità a livello nazionale e soprattutto nel contesto locale. E' calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di reati. Da un recentissimo sondaggio di Demos (concluso venerdì scorso) emerge, inoltre, che il problema più urgente per il 31% degli italiani (se ne potevano scegliere due) è la criminalità comune.

Un anno fa era il 40%. Mentre il 21% indica l'immigrazione: 5 punti meno di un anno fa. Gli immigrati, peraltro, sono considerati "un pericolo per la sicurezza" dal 36% degli italiani: quasi 15 punti percentuali meno di un anno fa e 8 rispetto allo scorso maggio. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione che, negli ultimi anni, è apparso inscindibile, agli occhi dei cittadini, oggi sembra essersi allentato. Cosa è successo in quest'ultimo anno, in questi ultimi mesi di così importante, significativo e profondo da aver scongelato il clima d'opinione? L'andamento dei reati, in effetti, rileva un declino che, peraltro, era cominciato a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, si è sviluppato senza variazioni tali da giustificare mutamenti di umore tanto violenti.

Invece, l'immigrazione è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell'interno alla Caritas. Gli sbarchi di clandestini sono anch'essi aumentati. Quasi raddoppiati. Non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. Al contrario: le opinioni si sono separate dai fatti. Per effetto di un complesso di fattori. D'altronde, il clima d'opinione riflette una pluralità di motivi, spesso non prevedibili e, comunque, non controllabili.

In questa fase, in particolare, la crisi economica e finanziaria ha spostato il centro delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Non solo in Italia: anche negli Usa, prima del collasso delle borse, la campagna delle presidenziali era concentrata sull'immigrazione. Poi tutto è cambiato, con grande beneficio per Obama. Tuttavia, la preoccupazione economica, in Italia, è da tempo molto alta. Destinata a deteriorarsi ancora.

Nell'ultimo anno, però, non è peggiorata. Era già pessima. Il profilo delle "persone spaventate" presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l'origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega.

L'analisi dell'Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei tg di prima serata, peraltro, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell'autunno di un anno fa e un successivo declino - particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, ma soprattutto su Studio Aperto e Canale 5.

Seguiti, per trascinamento, dal Tg 1, il più popolare e autorevole presso il pubblico. Il sondaggio di Demos osserva come l'insicurezza sia molto più alta fra le persone che frequentano prevalentemente le reti e i notiziari Mediaset. Ciò suggerisce che i cicli dell'insicurezza siano favoriti e scoraggiati, in qualche misura, dal circuito fra media e politica. D'altra parte, la sicurezza, l'immigrazione e la criminalità comune sono temi "sensibili" negli orientamenti degli elettori.

"Spostano" i voti degli incerti. Rendono incerti molti cittadini certi. Peraltro, come abbiamo già visto, il tema della sicurezza non è politicamente "neutrale". La maggioranza degli elettori (anche a centrosinistra) ritiene la destra più adatta ad affrontare questi problemi - trasformati in emergenze (Indagine Demos, luglio 2007).

Così, per creare un clima d'opinione favorevole, al centrodestra basta sollevare il tema della sicurezza. Cogliere e rilanciare episodi e argomenti che alimentano l'insicurezza sociale. Farli rimbalzare sui media. Il che avviene senza troppe difficoltà. Non solo perché il suo Cavaliere ha una notevole conoscenza del settore, sul quale esercita un certo grado di influenza. Ma perché la paura è attraente. Fa spettacolo e audience. E perché, inoltre, in campagna elettorale, la tivù costituisce la principale arena di lotta politica, su cui si concentrano l'attenzione dei partiti e la presenza dei leader.

Così, l'insicurezza cresce insieme ai consensi per il centrodestra. Senza che il centrosinistra riesca a opporre una resistenza adeguata. Frenato da divisioni interne, particolarismi e personalismi che non gli permettono di proporre e imporre un solo tema capace di spostare a proprio favore il consenso. Il lavoro, i prezzi, le tasse, l'etica: nel centrosinistra c'è la gara a distinguersi e a smarcarsi. Tutti contro tutti.

La recente campagna elettorale di Veltroni, irenica, tutta protesa a marcare la distanza dal passato (Prodi), non ha scalfito l'insicurezza del presente.
La morsa della sfiducia e dell'insicurezza si è allentata solo dopo le elezioni politiche e le amministrative di Roma. Non a caso. Il risultato, senza equivoci, non lascia scampo alle speranze dell'opposizione: resterà opposizione a lungo. Così, la campagna elettorale, dopo anni e anni, finisce. E il centrodestra si dedica a controllare, in fretta, il clima di insicurezza che aveva contribuito ad alimentare negli anni precedenti.

Propone e approva provvedimenti ad alto valore simbolico: l'impiego dei militari contro la criminalità, l'aumento di vincoli e controlli all'immigrazione. La liberalizzazione delle polizie e delle milizie locali, padane, private. Gli stessi episodi di razzismo hanno prodotto la condanna "pubblica" dell'intolleranza, con l'effetto di inibirne, in qualche misura, il sentimento.

In quanto gli stranieri, percepiti perlopiù come "colpevoli" di reati e violenze, ne diventano "vittime".
Così gli immigrati continuano a fluire, i clandestini a sbarcare e il numero dei reati non cambia, ma l'attenzione dell'opinione pubblica e dei media nei loro confronti si ridimensiona. La paura declina. Un po' come avvenne nel periodo fra il 1999 e il 2001. Anche allora criminalità e immigrazione divennero priorità nell'agenda delle emergenze degli italiani.

Spaventati da aggressioni e rapine a orefici e tabaccai; dall'invasione degli stranieri. Che conquistavano i titoli dei quotidiani e dei tg. Poi, l'inquietudine si chetò. Sopita dall'attacco alle Torri Gemelle e dalla vittoria elettorale di Berlusconi. Capace, come nessun altro, di navigare sulle acque dell'Opinione Pubblica. E di domare le tempeste che la turbano dopo averle evocate.

(23 novembre 2008)
da repubblica.it
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