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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 245155 volte)
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« Risposta #495 inserito:: Dicembre 22, 2016, 04:42:06 pm »

Pd fermo al 30%, Grillo paga il caso Roma.
Governo a bassa fiducia
Atlante politico. Sondaggio Demos: Renzi difende il suo "gradimento" dopo la sconfitta al referendum. M5s cede l'1,5%. L'esecutivo di Gentiloni al 38%, il livello minimo per uno appena insediato

Di ILVO DIAMANTI
22 dicembre 2016

Sorprende un poco, anzi, non poco (questa, almeno, la mia reazione) il sondaggio dell'Atlante Politico condotto da Demos nei giorni scorsi sugli elettori italiani. Il primo realizzato dopo il referendum, che ha bocciato la riforma costituzionale promossa dal governo e approvata in Parlamento lo scorso aprile. Un voto che ha assunto un significato politico e personale preciso. Visto che il premier, Matteo Renzi, ha tradotto la consultazione in un referendum su se stesso e sulla propria leadership di governo. Renzi, peraltro, ha tratto immediatamente le conseguenze del risultato, dimettendosi subito. (Mi) sorprende un poco, anzi, non poco, questo sondaggio, perché, dai dati delle interviste, non sembra sia cambiato molto, nell'orientamento degli elettori. Verso il governo, verso i partiti, verso lo stesso Renzi. Nonostante le grandi polemiche e le mobilitazioni che, negli ultimi mesi, hanno opposto il "fronte del Sì" e "il fronte del No", le stime di voto non mostrano cambiamenti significativi rispetto alle settimane prima del referendum. Il Pd - malgrado la "sconfitta personale" del leader - risulta stabile, primo partito, appena sopra il 30%. Seguito dal M5S, quasi 2 punti sotto. In calo di poco più di un punto. Nonostante le difficoltà e gli scandali che ostacolano il percorso della giunta romana, guidata da Virginia Raggi. Il confronto elettorale sembra ancora polarizzato nell'alternativa fra Pd e M5S.

Gli altri partiti restano a distanza. Esattamente come prima. La Lega e FI (in lieve crescita) intorno al 13%. Tutto il resto, dal 5% in giù. Il referendum, dunque, non sembra aver cambiato i rapporti di forza tra i partiti. Ma neppure la considerazione nei confronti dei leader. Se Renzi, per primo, ha ammesso la sconfitta "personale", non per questo risulta piegato, marginalizzato, presso gli elettori. Infatti, la fiducia nei suoi confronti si conferma allo stesso livello degli ultimi mesi. Anzi, sembra perfino risalita, seppure di poco. Ora ha raggiunto il 44%, appena sotto Paolo Gentiloni, il nuovo premier, che si attesta al 45%. La fiducia verso Beppe Grillo, portabandiera del No, e vincitore del referendum, risulta, invece, molto più bassa. Circa il 31%.

Tuttavia, il giudizio nei confronti del governo risulta diverso. È, infatti, apprezzato dal 38% degli elettori. Dunque, in declino di fiducia, rispetto all'ultimo mese e al precedente governo: 2 punti in meno. Poco. Ma si tratta, comunque, del grado di stima più basso ottenuto da un governo all'indomani del voto di fiducia delle Camere negli ultimi 5 anni. Mario Monti, in particolare, disponeva di un livello di fiducia quasi doppio (74%). Lo stesso governo Renzi, all'avvio, nel febbraio del 2014, era "stimato" dal 56% degli elettori.

Come spiegare questi orientamenti, in parte contrastanti? La stabilità del voto e della fiducia nei confronti di Renzi, "lo sconfitto", sostanzialmente eguale a quella verso il successore e nuovo premier, Gentiloni? E come valutare il calo, seppure limitato, della valutazione del governo?

La mia idea, da verificare con altre indagini, più approfondite, è che il referendum abbia "congelato" il clima d'opinione. Radicalizzando le posizioni dentro gli schieramenti che si sono confrontati - e scontrati - in modo sempre più aspro, negli ultimi mesi. Nell'ultimo anno. D'altronde, in caso si rivotasse per il referendum, secondo il sondaggio Demos, oggi si ripeterebbe lo stesso risultato. Ciò significa che i pentimenti e i ripensamenti restano limitati. Così, se l'83% degli elettori del M5S voterebbe di nuovo No, gli elettori del Pd farebbero l'esatto contrario. L'84% di essi, infatti, voterebbe ancora Sì. D'altronde, l'89% degli elettori del Pd continua ad esprimere fiducia nei confronti di Renzi. Mentre il consenso verso Gentiloni, nel Pd, è un poco più basso, 82%. Ma, in compenso, è più "largo" e trasversale. In particolare, supera il 70% fra gli elettori di centro. Circa il doppio rispetto a Renzi. E si avvicina al 60% nella base elettorale delle formazioni a sinistra del Pd.

Il referendum, dunque, pare aver consolidato, quasi radicalizzato, gli schieramenti. Il "renzismo" oggi appare un nuovo muro. Come, ieri, il "berlusconismo". Così, nonostante la sconfitta del Sì, sembra essersi rafforzata la fedeltà nei confronti del leader del Pd. Che oggi, più di ieri, evoca il PdR. Il Partito di Renzi. Al quale quasi tutti gli elettori del Pd si dichiarano "fedeli". Mentre Gentiloni è il nuovo premier. A capo di un governo che, secondo quasi due terzi degli elettori, non arriverà alla scadenza naturale della legislatura, nel 2018. Gentiloni: appare, ai più, il premier di transizione di un governo di transizione. In attesa che Renzi, dal suo Aventino, decida quando e come rientrare. (Mi pare difficile che resti a lungo lontano dalla politica. Che accetti il ruolo dello "sconfitto" per troppo tempo.) Questo governo, però, a differenza del precedente, non si presenta come il "governo personale" del Premier. Non è il GdG. Il Governo di Gentiloni. Ma non è detto che sia uno svantaggio. Perché la doppia personalizzazione politica del partito e del governo, alla fine, non ha portato bene a Renzi.

Nota metodologica. Il sondaggio è stato realizzato da Demos&Pi per la Repubblica. La rilevazione è stata condotta nei giorni 12-20 dicembre 2016 da Demetra con metodo mixed mode (Cati-Cami-Caw). Il campione intervistato (N=1.664, rifiuti/sostituzioni: 7.190) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 2,4%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it.

© Riproduzione riservata
22 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/22/news/gradimento_politici_dopo_referendum_caso_roma-154629186/?ref=HREC1-1
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« Risposta #496 inserito:: Gennaio 08, 2017, 11:42:16 pm »

Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra politica e social cresce la partecipazione
Rapporto Demos: si acuisce il distacco cittadini-istituzioni mentre la campagna referendaria ha riacceso l’interesse per le questioni pubbliche

Di ILVO DIAMANTI
07 gennaio 2017

Nell'anno dell'anti-politica, mentre si acuisce il distacco dallo Stato e dai partiti, si assiste a un prepotente ritorno della politica. O meglio: della "partecipazione politica". Attraverso nuovi "media". Ma anche attraverso le forme più tradizionali. Internet e la piazza, insieme. A rinforzarsi a vicenda. Peraltro, all'indomani del referendum che ha bocciato la proposta di riformare la Costituzione, riemerge e si ripropone, ancora ampia, la domanda di riformare la Costituzione. E le istituzioni. Di emendare il bicameralismo. Di ridurre i costi della politica. Sono alcuni paradossi - apparenti - del XIX Rapporto "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica.
   
LE TABELLE

D'altronde, la campagna referendaria, per quanto aspra, ha, comunque, ri-educato gli italiani ai temi della Carta costituzionale. E ne ha concentrato l'attenzione intorno alle questioni pubbliche. Non solo, ma ha mobilitato gran parte dei cittadini. Li ha spinti al voto e, prima ancora, al dibattito. Nelle sedi politiche, ma anche nella vita quotidiana, negli ambienti privati. Sono gli effetti imprevisti di tanti mesi di confronto e divisioni. Alla fine hanno realizzato un esito unificante. Sotto altri profili, questo Rapporto riproduce un ritratto coerente con il passato.

In alto, davanti a tutto e a tutti, nella classifica dei soggetti pubblici: Papa Francesco. E le Forze dell'Ordine. Rispondono a una domanda - diffusa e radicata - di certezza etica e, d'altro canto, di sicurezza personale. Mentre le istituzioni dello Stato riscuotono la consueta diffidenza. Al tempo stesso, i cittadini sono insoddisfatti dei servizi pubblici. Provano sfiducia nei confronti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Ma, soprattutto, verso i soggetti di rappresentanza politica. I partiti, lo stesso Parlamento. Sono, come sempre, in fondo alla classifica. Evidentemente, è in questione il fondamento della nostra democrazia, visto che i principali attori della rappresentanza, i partiti, non sono solamente sfiduciati, ma vengono ritenuti "corrotti". Quanto e più che ai tempi di Tangentopoli.

Il No al referendum costituzionale, d'altronde, ha avuto - anche - questo significato. Un No al sistema dei partiti. E ai politici che li guidano. In testa: il Premier. La sfiducia diffusa nella società, peraltro, avvolge anche la sfera delle relazioni personali, dei "rapporti con gli altri". Guardati con prudenza da gran parte dei cittadini. Chissà: ci potrebbero fregare... E poi ci sentiamo "invasi". La paura degli immigrati non è mai stata così alta.

Eppure, come sempre quando si tratta dell'Italia e degli italiani, il quadro non è mai così lineare e coerente come potrebbe apparire a prima vista. La considerazione dei servizi pubblici, anzitutto. Gli italiani non ne sono soddisfatti, come detto. Eppure pochi, anzi, pochissimi richiedono davvero "più privato". È l'atteggiamento di prudenza critica, radicato nella nostra società. La democrazia: sarà anche corrotta, ma "un uomo solo al comando" potrebbe essere più pericoloso. Per non parlare della UE e dello stesso Euro. Gli italiani ne pensano il peggio. Però pochi, pochissimi, tra loro, vorrebbero abbandonare l'Euro. E la UE. Perché, anche se non piacciono, non si sa mai... Restarne fuori potrebbe costarci parecchio.

Lo stesso discorso vale per le riforme costituzionali. Non più tardi di un mese fa largamente bocciate. Tuttavia, la necessità di emendare la Costituzione, per renderla più efficiente, è largamente condivisa. E molti che un mese fa avevano votato No, oggi si dicono d'accordo con alcuni dei punti più importanti del referendum. Il superamento del bicameralismo e, soprattutto, la riduzione dei parlamentari.

Il problema è che il referendum, nella percezione generale, assai più della Costituzione, riguardava il sistema politico e di governo. Per primo, Renzi. Oggi quel governo e quel premier non ci sono più. Mentre le riforme possono attendere. Quanto, non si sa. Sicuramente, parecchio.

In questo cielo chiaroscuro c'è una zona di luce interessante e significativa. La partecipazione. Nell'ultimo anno appare cresciuta in modo significativo. In massima misura quella "im-mediata", realizzata attraverso la rete e i social-media. Strumento di "democrazia della sorveglianza". Mentre la partecipazione sociale e il volontariato segnano il passo. Probabilmente, fra queste tendenze c'è una relazione. In quanto le nuove forme di partecipazione hanno, in parte, surrogato e, talora, rimpiazzato la partecipazione sociale e volontaria. Ma si è allargata anche la partecipazione politica "tradizionale", incentivata, nel corso degli ultimi mesi dalla mobilitazione referendaria. In ogni caso, la "critica democratica" ha allargato le basi della "partecipazione democratica". Ha spinto i cittadini a interrogarsi sui valori e sui limiti della Costituzione. Sui rischi che corriamo, nel tentativo di correggerla e ridisegnarla. Ma anche su quanto ci costa la resistenza a ogni innovazione.

Insomma, nel corso dell'ultimo anno, mi pare sia cresciuto, fra i cittadini, il senso civico e critico. Insieme alla domanda di riforme. Che potrebbe essere assecondata meglio evitando di "politicizzarla". O meglio, di piegarla a fini politici contingenti. Ma mi pare sia stato un buon anno per la nostra democrazia. Nonostante tutto. Perché si è allargata la voglia e anzitutto la pratica della partecipazione. Politica e critica. Attraverso vecchie e, soprattutto, nuove vie. La mobilitazione e l'affluenza inattesa, per dimensione, al referendum, ne sono un segnale evidente. Meglio seguirlo con attenzione.

Certo, continuiamo ad essere un popolo di riformisti scettici, animati da un rapporto con lo Stato: critico e disincantato. E da un orientamento politico polemico. Eppure attivo e partecipe. Ci sentiamo europei: nonostante tutto. Siamo italiani. Una nazione con poco Stato. Oppure troppo. Dipende dai punti di vista.

© Riproduzione riservata 07 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/07/news/a_picco_la_fiducia_nei_partiti_ma_tra_politica_e_social_cresce_la_partecipazione-155539074/?ref=HREA-1
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« Risposta #497 inserito:: Febbraio 03, 2017, 08:27:42 pm »

Chi cerca l'uomo forte non vuole autoritarismo ma autorità
L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità

02 febbraio 2017

Ha sollevato dibattito e qualche polemica la Mappa pubblicata, nei giorni scorsi, dove ho segnalato quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un "Uomo Forte". D'altronde, da oltre 10 anni (per la precisione: dal 2004), i sondaggi dell'Osservatorio Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento. Che è sempre apparso molto ampio. Ma, fino ad oggi, o meglio: fino a ieri (novembre 2016), non aveva mai raggiunto una misura tanto estesa: 8 italiani su 10. Otto su dieci significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini. Come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, i dati del sondaggio hanno suscitato reazioni accese. Sono, infatti, stati considerati un segnale inquietante, che richiamerebbe una minaccia "autoritaria". Alcuni hanno evocato perfino Mussolini. In Italia, d'altronde, l'esperienza del ventennio non è così lontana. E pesa ancora nella memoria nazionale. Forse più della resistenza.

Eppure, come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, occorre essere chiari. L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità". Cioè: di una leadership dotata di legittimità. Questa domanda, nel corso degli anni, si è progressivamente "personalizzata". Indirizzata sulle persone. Perché i partiti e le associazioni di rappresentanza hanno perduto i legami con la società. Mentre le istituzioni di governo - locale, centrale, e ancor più, europee - sono apparse sempre più lontane. "Ai" e "dai" cittadini. Burocrazie anonime. Distanti e indistinte. Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica. Al "senso civico" è subentrato il "senso cinico". Mentre - per citare Bauman - si è diffusa "la solitudine del cittadino globale".

Così, la prospettiva di "un Uomo Forte al governo" è divenuta tanto "popolare". Che non significa "populista". Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti. Nelle istituzioni democratiche, nelle organizzazioni di rappresentanza politica e sociale. Se i cittadini restano soli. Davanti agli schermi. E dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i PC, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone. Mentre le dita battono sui tasti. Una "folla solitaria" (per echeggiare il noto saggio di David Riesman, pubblicato nel 1950).

"Affollata" di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo. Ma sono sempre sole.

Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. "Autorevole" non "autoritario". Un "leader", non un "dittatore". Questa società è allergica ai vincoli e alle regole. Figurarsi se accetterebbe figure troppo "forti". Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi. Le difficoltà che incontra Matteo Renzi. La "forza" del leader sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini. In cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi. Per non sentirsi deboli. E disorientati.

© Riproduzione riservata
02 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/02/02/news/chi_cerca_l_uomo_forte_non_vuole_autoritarismo_ma_autorita_-157403106/?ref=HRER2-1
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« Risposta #498 inserito:: Febbraio 04, 2017, 05:48:08 pm »

Sondaggio: Pd e M5s ai minimi, il 70% contro il voto-lampo
Atlante politico. Nella rilevazione Demos, conclusa mentre esplodeva il caso polizza-Raggi, l'onda favorevole ai 5Stelle subisce uno stop. Democratici sotto il 30%. In crescita Forza Italia, Lega e FdI. Si rafforza Sinistra italiana-Sel. Un fronte largo vuole una "legge omogenea" per le due Camere prima di andare alle urne

Di ILVO DIAMANTI

IL SONDAGGIO di Demos per l'Atlante Politico si è chiuso giovedì, in tarda serata. Quando le polemiche intorno a Virginia Raggi, per la polizza donata "a sua insaputa" e le nomine di collaboratori discussi (come il fratello di Raffaele Marra) erano già esplose. Ma non con il clamore che stanno assumendo ora. D'altronde, questa è una fase di instabilità e di tensioni politiche accese. Che investono non solo il M5S romano. Ma anche il Pd, nel quale leader storici della sinistra interna hanno minacciato una scissione.
 
In generale, tutte le forze politiche sono entrate in fibrillazione, dopo la decisione della Corte Costituzionale, che ha emendato l'Italicum. Dichiarando inammissibile il ballottaggio. E dopo la bocciatura della riforma costituzionale, al referendum dello scorso 4 dicembre, che ha determinato le dimissioni del(l'ex) premier Matteo Renzi. Così, siamo entrati in una fase politica fluida. Nella quale il dibattito si è spostato sulla prospettiva e sulla data delle prossime elezioni. Il sondaggio riflette questo clima incerto. Anzi (Bauman mi perdonerà), "liquido". Anche se le intenzioni di voto non appaiono in grande movimento. Mostrano, tuttavia, alcuni segnali di mutamento. Significativi. Anzitutto, l'indebolirsi, parallelo, dei due partiti che dominano la scena, ormai da anni. Il Pd, perde poco. Mezzo punto appena. Ma scivola sotto il 30%. E tocca il livello più basso degli ultimi due anni, nelle nostre rilevazioni. Il M5s, a sua volta, perde consensi. Quasi due punti, anche se, nel corso del sondaggio, il "caso Raggi" era appena emerso. Tuttavia, anche il M5s scivola sui valori più bassi, (stimati) dalla primavera del 2016. Parallelamente, risalgono i soggetti politici della Destra e del Centro-Destra. Forza Italia, la Lega e, ancor più, i Fratelli d'Italia guidati da Giorgia Meloni. Come se, come in altri Paesi, fosse in atto un processo di radicalizzazione. Anche i soggetti a sinistra del Pd, d'altronde, risalgono. Seppure in misura limitata. In attesa che l'ipotesi di "scissione", avanzata, fra gli altri, da Massimo D'Alema, divenga maggiormente concreta. Quasi 6 elettori su 10 , peraltro, pensano che il Pd finirà per dividersi. Si tratta di un'opinione cresciuta sensibilmente, negli ultimi mesi: 10 punti in più rispetto allo scorso ottobre. Ma, soprattutto, questa idea risulta condivisa, in misura pressoché identica (57%), dagli stessi elettori del Pd.

LE TABELLE
 
Tuttavia, Massimo D'Alema, autorevole sostenitore del rischio "secessionista" nel Pd, non pare aver tratto beneficio sul piano del consenso, da questa posizione. E resta in coda alla graduatoria dei leader, in base al grado di popolarità (20% di fiducia).
 
In effetti, siamo in una fase politica strana. La definirei "post-renziana", se Matteo Renzi non fosse ancora in pista. Nonostante le dimissioni. Perché è evidente che non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Eppure qualcosa è sicuramente cambiato, dopo le sue dimissioni da premier. E dopo la bocciatura del referendum. Il primo, evidente, segno di cambiamento nel clima d'opinione è fornito dal grado di fiducia personale espresso dagli elettori. Nell'ultimo mese, infatti, Renzi è sceso di 8 punti. È il leader che ha subito il calo più sensibile. Insieme a Salvini e Grillo, che, tuttavia, hanno perduto minore credito (4-5 punti in meno). D'altronde, il ritiro - temporaneo di un leader si riflette anche sui principali "antagonisti".
 
Ripeto, si tratta di un momento politico singolare. Il post-renzismo al tempo di Renzi. Nel quale agisce un premier sicuramente vicino a Renzi. Sicuramente diverso da Renzi. Paolo Gentiloni. "Personifica" un governo "impersonale". Perché l'attuale premier non ha lo stile di azione e di comunicazione di Renzi. Né di Berlusconi. È post-renziano e post-berlusconiano. Anche se ha una lunga storia politica personale. Questo stile "impersonale", in tempo di partiti e di leader "personali", però, non sembra nuocergli. Almeno fin qui. Anche se la maggioranza degli elettori, il 53%, ritiene che il suo governo sia destinato a concludersi prima della scadenza naturale del 2018. Tuttavia, un mese fa la quota degli scettici, al proposito, era più elevata di 10 punti percentuali. La fiducia nel governo, inoltre, rispetto al momento in cui si è insediato, è salita di 5 punti. E oggi ha raggiunto il 43%. D'altronde, Gentiloni, per quanto "impopulista", oggi è il più popolare fra i leader. Dichiara di aver fiducia verso di lui il 47% degli elettori. Oltre 10 punti più di Renzi. E poi: 9 più di Giorgia Meloni. E 13-14 di più, rispetto a Di Maio, De Magistris, Pisapia e Salvini. I quali, almeno per ora, non esprimono una possibile alternativa di governo.
 
Probabilmente, lo stile "impersonale" del premier asseconda una stanchezza diffusa del Paese. Nel quale la maggioranza dei cittadini invoca l'avvento di un Uomo Forte. Ma solo perché in giro non se ne vede traccia. D'altronde, molti elettori sono stanchi di miracoli annunciati e di guerre - politiche - praticate.
 
E per quanto credano che il voto incomba, in fondo, lo temono. Perché vorrebbero affrontare le prossime elezioni con regole e soggetti che permettano di immaginare governi e parlamenti stabili. Ma nessuna alleanza, fra i principali partiti, raccoglie il consenso degli elettori. E senza alleanze - parlamentari - nessun governo appare possibile. Visto che non è immaginabile - anche in base ai risultati di questo sondaggio - che un partito, da solo, superi il 40% dei voti validi, come prevede l'attuale legge elettorale, per conquistare da solo la maggioranza dei seggi.
 
Così, 7 elettori su 10, prima di andare al voto, preferiscono attendere. Che si approvi una legge elettorale che garantisca una maggioranza comune alle due Camere. Solo nella base della Lega e del M5s la "voglia" di andare comunque al voto "subito" è più ampia. Ma non
di troppo.
 
Così, è possibile che l'era del post-renzismo al tempo di Renzi possa durare più del previsto. Più di quanto vorrebbe lo stesso Renzi. Alla finestra, ma pronto a rientrare in gioco.
 
© Riproduzione riservata 04 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/04/news/sondaggio_pd_m5s_arretrano-157529834/?ref=HREA-1
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« Risposta #499 inserito:: Febbraio 26, 2017, 11:59:21 am »

Scissione Pd, contro il PdR sta nascendo il PD'A
Le mappe. Da due anni il partito si è personalizzato su Matteo Renzi. E la nuova stagione politica vede opporgli come figura più significativa Massimo D'Alema

Di ILVO DIAMANTI
20 febbraio 2017

È difficile definire - e prima ancora: comprendere - cosa sia avvenuto e stia avvenendo nel Partito democratico in questi giorni. Dopo l'assemblea del Pd che si è svolta ieri. Ma è ancora più difficile immaginare il futuro. Del Pd. Dopo la scissione che si è consumata ad opera di alcuni esponenti.

D'altronde, parafrasando Walter Veltroni, "il passato non è il futuro". Anche se, nel nostro tempo, il futuro è sempre più corto. Il futuro: è già passato. Tuttavia, Walter Veltroni conosce bene il Pd. Visto che ha contribuito a "fondarlo". Giusto dieci anni fa, nel 2007. Quando ne divenne il primo segretario. Il Pd costituì l'approdo di un percorso durato oltre un decennio. Durante il quale — per citare Arturo Parisi che ne fu un ispiratore influente — l'Ulivo dei Partiti si tradusse, progressivamente, nel Partito dell'Ulivo. L'Ulivo, com'è noto, è sorto, a metà degli anni Novanta, dall'incontro delle forze politiche di tradizione cattolica democratica con quelle laiche e di sinistra. Di tradizione, prevalentemente, socialista e (post)comunista. L'Ulivo dei partiti: si costruì intorno a Romano Prodi, nel 1996. Che governò per due anni e mezzo. Fino all'ottobre del 1998. Quando venne messo in minoranza, alla Camera, da Rifondazione comunista.

A Prodi successe Massimo D'Alema, primo presidente del Consiglio, in Italia, di "esperienza" comunista. Un passaggio importante per la nostra democrazia. Il Pci, d'altronde, aveva già cambiato nome. Da tempo. Si chiamava, infatti, Pds. Partito democratico di sinistra. E divenne, quindi, Ds. Democratici di sinistra. In seguito alla fusione con altre componenti della sinistra moderata e riformista. Il Pd riassume, dunque, tradizioni e identità diverse. Di certo, sancisce il superamento della frattura storica che aveva accompagnato la Prima Repubblica. La frattura anti-comunista. Ciò avviene, fra le altre ragioni, per l'irruzione di un nuovo attore politico. Silvio Berlusconi. Il quale erige un nuovo muro. Impiantato e fondato su se stesso. Sulla propria figura, sulla propria proposta politica. L'antiberlusconismo, così, si affianca all'anticomunismo. Lo sfida. Lo utilizza come argomento. Come fattore di consenso. E rende difficile, sempre e comunque, la legittimazione dei Ds. Che continuano ad apparire, per molti elettori ex-post-democristiani, gli eredi del Pci. E dunque: comunisti. Basta osservare le difficoltà che hanno incontrato i Ds ad affermarsi in zone e in aree tradizionalmente "bianche". Cioè: democristiane e post-dc. Come nelle province venete e pedemontane del Nord. Il Partito dell'Ulivo e, soprattutto, il Pd permettono di superare, almeno in parte, questo "vizio" originario del sistema politico italiano nella Prima Repubblica. Quando si affrontavano soggetti politici alternativi, ma senza possibilità di alternanza. Così il Pd diventa e si impone come forza di governo. La più forte, sul piano elettorale, dopo la crisi di Silvio Berlusconi. Tanto più oggi, visto che il (non)partito maggiormente in grado di "sfidarlo", in termini di consensi, è il M5S. La cui legittimazione a governare è messa in discussione. A maggior ragione oggi, dopo i primi mesi alla guida di Roma.

Tuttavia, le divisioni emerse nel Pd, nell'ultima fase, hanno riaperto la questione. Anzitutto per il cambiamento avvenuto nella natura e nell'identità del partito. Il Partito dell'Ulivo, il Pd, riassume, infatti, l'esperienza dei principali partiti di massa. Delle principali culture e tradizioni politiche. In Italia. Ma, non solo da oggi, il partito si è personalizzato. Io stesso, da un paio d'anni, l'ho (ri)definito il PdR. Partito di Renzi.

È il marchio con cui l'ha etichettato Pier Luigi Bersani nell'Assemblea nazionale. Polemicamente. Mentre nel mio linguaggio il PdR ha un significato descrittivo, non prescrittivo. Sottolinea come, in una certa misura, sia divenuto un Partito Personale (per usare la definizione di Mauro Calise). Centrato sulla persona del leader. Che gli offre immagine, riconoscimento, identità. Mentre, parallelamente, stanno sfumando le basi sociali, organizzative. I valori e le tradizioni che ne fondavano l'appartenenza.

È con questi argomenti che si sono accentuate le divisioni interne al Pd(R). Che riflettono il disagio di alcuni esponenti, che minacciano di uscire. Oppure lo stanno facendo. Soprattutto, ma non solo, di sinistra. Bersani, come si è detto, ma anche i governatori Enrico Rossi e Michele Emiliano. Oltre ai leader della "sinistra" interna. Per primo, Roberto Speranza. Inoltre, Guglielmo Epifani e Gianni Cuperlo. Mentre altri — Pippo Civati e Stefano Fassina — se ne sono già usciti. Intanto, a sinistra del Pd stanno sorgendo laboratori politici, come il "Campo Progressista" promosso da Giuliano Pisapia. Si tratta di figure ed esperienze non sempre riconducibili alla tradizione del Pci. Tuttavia, è difficile non cogliere in queste tensioni il rischio della divisione (e del "peccato") originale. D'altronde, alla presentazione romana del libro-intervista firmato da Enrico Rossi, sulla "Rinascita Socialista", c'erano molti leader dissidenti e scissionisti. Accompagnati da una coreografia eloquente. Costellata di bandiere rosse. Introdotta da

Ma la figura più significativa di questo passaggio è Massimo D'Alema. Leader Ds e Pds. Stratega accorto. Riferimento possibile anche di questa nuova stagione politica. Che al PdR potrebbe opporre il PD'A.

© Riproduzione riservata
20 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/20/news/scissione_pd_contro_il_pdr_sta_nascendo_il_pd_a-158729015/?ref=fbpr
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« Risposta #500 inserito:: Marzo 05, 2017, 11:14:56 pm »

Scissione e scandali, il Pd perde voti e Grillo lo sorpassa.
Bene Gentiloni Il premier è il leader più apprezzato. Cresce la domanda di stabilità.
I Democratici perdono quasi due punti in un mese, il centrosinistra si allarga ma è frammentato. Il 70% ritiene gravi i fatti emersi con l’indagine Consip

Di ILVO DIAMANTI
04 marzo 2017

Nel Pd - e intorno al Pd - è successo di tutto nelle ultime settimane. È il riflesso del voto al referendum del 4 dicembre 2016. E delle immediate dimissioni di Matteo Renzi da capo del governo. Il sondaggio dell'Atlante politico di Demos per Repubblica mostra come questi eventi abbiano prodotto conseguenze significative non solo nel Pd. Ma sugli orientamenti degli elettori. Di sinistra e nell'insieme. Il Pd, infatti, paga la scissione con oltre due punti percentuali. Si attesta poco oltre il 27% e viene superato dal M5S.

Il Movimento 5Stelle, grazie ai guai del PD riesce a contenere gli effetti dei propri. A Roma, in particolare. I "Democratici e Progressisti" - DP - sono accreditati di circa il 4% dei consensi. Abbastanza per "contare", con l'attuale legge elettorale. Proporzionale. Ma non per andare oltre il ruolo di "minoranza attiva".

Tuttavia, se consideriamo anche il Campo Progressista, appena "aperto" dall'ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e le altre componenti di Sinistra, per prima SI, diventa evidente come l'area di centro-sinistra si sia, complessivamente, allargata. Ora sfiora il 38%. Circa 3 punti in più rispetto a un mese fa. Il problema, però, è che allargamento e frammentazione, a sinistra, procedono insieme. E, anzi, si moltiplicano. Le differenze: divengono divisioni. Confini profondi.

LE TABELLE …

Anche a destra, conclusa la lunga stagione ispirata da Silvio Berlusconi, si stenta a cogliere segni di ripresa. Soprattutto, di aggregazione. Da un lato, si assiste alla crescita dei Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. Oltre il 6%. Ormai costituiscono un concorrente: per FI e, anzitutto, per la Lega di Salvini. Entrambi in calo di 2-3 punti.

Nell'insieme, emerge un quadro più frammentato del consueto. A Destra e a Sinistra. Ma, soprattutto, più difficile da ricomporre, vista la difficile coabitazione fra i principali pezzi del mosaico. Per quasi 3 anni, d'altronde, il sistema politico italiano si è raccolto e diviso intorno a Matteo Renzi. Così oggi è difficile trovare nuovi riferimenti, nuovi muri. In base ai quali "schierarsi". Basta scorrere la graduatoria delineata a partire dal grado di fiducia verso i leader. Mai tanto frastagliata come oggi. Soprattutto, ovviamente, a sinistra. Su tutti svetta la figura del Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Apprezzato da quasi un elettore su due. Non per caso. Perché, per scelta, recita la parte del comprimario. E rimane fuori dalla scena "rissosa" di questa fase. Gentiloni è seguito dagli "antagonisti". Di Maio, Salvini e Meloni. Nell'ordine. Tutti fra il 35 e il 37%. Mentre i "protagonisti" della scissione nel PD sono in fondo alla classifica. Roberto Speranza, Enrico Rossi e Massimo D'Alema galleggiano fra il 15 e il 17%. Solo Pier Luigi Bersani ottiene un consenso maggiore, intorno al 30%. Ma solo un anno fa superava il 39%.

D'altra parte, la scissione non incontra grandi consensi, dentro e fuori il PD. Salvo che a sinistra, com'era prevedibile. Gli stessi leader dell'opposizione interna, Andrea Orlando e Michele Emiliano, dispongono, a loro volta, di un grado di fiducia limitato. Circa il 25%.

Difficile affermarsi, quando il leader che ha riassunto gli orientamenti elettorali - a favore o contro, ma, comunque, "intorno" alla propria persona - ha cambiato ruolo. Posizione. Matteo Renzi. Non è più premier. Né segretario del PD. Così, in attesa di nuove elezioni politiche e delle primarie del partito, il PD appare sospeso. Perché Renzi, nel bene e nel male, resta ancora "al" centro (e "il" centro) del sentimento e del ri-sentimento politico.

Il PdR, infatti, per quanto discusso, appare un riferimento più solido e radicato, fra gli elettori, del PD'Al. Il Partito di D'Alema. Il quale non è il promotore né l'organizzatore della scissione. Ma, di certo, ne è l'ispiratore.

Anche a destra, d'altronde, i rapporti di forza non appaiono molto chiari. Berlusconi ottiene un apprezzamento personale del 30%. Non sovrasta e non divide più la politica italiana, come un tempo. Ma non soccombe. Semmai: "incombe". E Luca Zaia, governatore del Veneto, indicato dal Cavaliere alla guida del Centro-destra, incontra il favore di circa un terzo degli elettori. Non solo del Nord. D'altronde, ha un profilo politico poco "leghista". Semmai, "democristiano". Non per caso, il primo a reagire contro questa candidatura è stato proprio Matteo Salvini.

Tuttavia, in questo clima incerto, si coglie un diffuso senso di attesa. Perché il protagonista della scena resta Matteo Renzi. Dimissionario, ma solo per marcare il peso della propria assenza. E per scandire i tempi del proprio ritorno. Alla guida del partito, anzitutto, visto che - per sua stessa decisione - le Primarie del PD si svolgeranno il prossimo 30 aprile. Certo, gli incidenti di percorso imprevisti non mancano. Di recente, il padre, Tiziano Renzi, è stato indagato per "traffico di influenze". Quasi 7 elettori su 10 ritengono che si tratti di fatti "gravi". Ma, per ora, questa vicenda non pare aver condizionato la credibilità del leader del PD(R). Secondo il sondaggio di Demos, infatti, Renzi, alle prossime primarie, non sembra avere avversari.

Si spiega anche così il sentimento positivo che accompagna il premier Paolo Gentiloni. Di gran lunga il più apprezzato dei leader. Anche se appare più impegnato a sottrarsi alle occasioni del dibattito politico. Piuttosto che a parteciparvi, in prima linea. O forse proprio per questo. Perché, in mezzo a tante polemiche, a tanta incertezza, cresce la richiesta di continuità e di governo. Di continuità al governo. Così, in poco meno di due mesi, "l'aspettativa di vita" del governo guidato da Gentiloni è cresciuta. E se due mesi fa il 63% riteneva che non sarebbe arrivato a fine legislatura, oggi, la maggioranza (52%) pensa che, al contrario, durerà fino alla scadenza naturale del voto. L'anno prossimo.

Certo, viste le vicende attuali e le prossime incombenze, più che una certezza appare un auspicio. Segno di una domanda di stabilità. Molto diffusa in questo Paese instabile.

© Riproduzione riservata 04 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/04/news/pd_scissione_sondaggio-159703843/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T2
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« Risposta #501 inserito:: Marzo 26, 2017, 11:42:13 pm »

Europei sì, ma con disincanto. Scende la fiducia nella UeEuropei sì, ma con disincanto.
Scende la fiducia nella Ue
Mattarella con i rappresentanti dei gruppi parlamentari europei (ansa)
"Giusto e incompiuto", così è visto il progetto sessant'anni dopo.
Ma la maggioranza considera rischioso uscire dall'Unione. Il sondaggio Demos

Di ILVO DIAMANTI
25 marzo 2017

OGGI a Roma si celebra il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Che segnano l'avvio della costruzione europea. Anche se gli accordi originari si limitavano alla Comunità economica e all'energia atomica. Mentre, in seguito, le materie si sono moltiplicate. E anche la Ue si è allargata. A Roma, però, oltre a chi celebra l'Europa, si riuniranno coloro che la contestano.

Tuttavia, il sentimento critico verso la Ue non si esprime solo attraverso le mobilitazioni nelle strade e nelle piazze romane. C'è, infatti, un'insofferenza diffusa, verso la Ue, che attraversa tutti i Paesi che ne fanno parte. Vecchi e nuovi. Non per caso, i partiti euroscettici o apertamente anti-europei hanno assunto proporzioni sempre più ampie. In particolare, in Francia, ma anche in Italia. E mirano, apertamente, a conquistare il governo. Nazionale. Questo orientamento risulta chiaro nel sondaggio dell'Osservatorio europeo sulla sicurezza condotto, nei mesi scorsi, da Demos (per la Fondazione Unipolis). La fiducia nella Ue appare, infatti, in declino, quasi dovunque. Ad eccezione dei Paesi che vi hanno aderito più di recente.

Fra quelli monitorati nel sondaggio: Polonia e Ungheria. Nei quali si osservano gli indici di fiducia più elevati, superiori al 60%. Il consenso appare maggioritario anche in Germania (55%), che costituisce il centro e il riferimento della Ue. Ma anche in Spagna, che si è affidata alla Ue per ottenere sostegno alla propria "giovane" democrazia e alla propria incerta economia. Il sentimento europeista si presenta, invece, molto più debole nel Regno Unito, dove si è consumata, di recente, la Brexit. Ma soprattutto in Francia e, da ultimo, in Italia, dove si osserva l'indice di fiducia verso la Ue più limitato: 34%. Meno di metà, rispetto a vent'anni fa. D'altronde, nel nostro Paese, dirsi europeisti è "impopolare". Fra i simpatizzanti dei maggiori partiti, solo nella base del Pd il consenso alla Ue appare maggioritario. Senza, peraltro, essere plebiscitario. Si ferma, infatti, poco sopra la maggioranza assoluta. Ma fra i sostenitori di Fi, del M5s e, soprattutto, della Lega il sentimento europeista risulta debole. Fra i leghisti: fragilissimo.

Dovunque, i dubbi riguardano non tanto il progetto, ma il percorso: il modo in cui è stato perseguito e realizzato. In Italia, Francia, Germania, Spagna, perfino in Polonia e in Ungheria: oltre 7-8 cittadini su 10 definiscono l'Unione Europea "un obiettivo giusto realizzato in modo sbagliato". Solo nel Regno Unito si osserva un orientamento più scettico. Il problema è che dovunque è cresciuta la convinzione che si tratti di una via che non porta da nessuna parte.

Infatti, tra i "soci fondatori", solo in Germania, la capitale di questa Patria incompiuta, la maggioranza dei cittadini ritiene che "il progetto della Ue sia ancora importante e vada rilanciato". Nonostante tutto. Mentre negli altri Paesi nei confronti dell'Europa prevale il senso di distacco. Soprattutto in Italia e in Francia, per non parlare del Regno Unito, dove è larga la convinzione che si tratti di un ideale ormai logorato. Oppure, semplicemente, in-credibile. Al quale guardare con scetticismo. Così, la convinzione europeista prevale in misura larga soprattutto in Ungheria e Polonia. Gli ultimi arrivati.

Forse perché il tempo non ha consumato l'entusiasmo popolare. Oppure perché l'Unione Europea costituisce ancora un appiglio importante, sul piano economico, ma anche della democrazia.

Gli orientamenti dei cittadini emersi in questo sondaggio, peraltro, spiegano bene il significato della "questione europea". Che, sessant'anni dopo l'avvio, agli occhi dei cittadini, risulta irrisolta. Un progetto giusto e incompiuto. Realizzato in modo sbagliato. L'Europa: appare, cioè, un "progetto", ma non ancora un "soggetto". Si pone, infatti, all'incrocio di diversi progetti e soggetti "nazionali".

Che si incontrano e si scontrano su basi negoziali. Mantenendo salde le identità e gli interessi "nazionali". Così, dovunque, i cittadini si dicono europei "nonostante". In altri termini, non hanno fiducia verso la Ue, ma, in maggioranza, ritengono rischioso uscirne. Non per convinzione. Ma per timore di quel che potrebbe avvenire "senza". Se, cioè, il percorso unitario si interrompesse. E ciascun Paese se ne andasse per la propria strada.

Così, a mio avviso, la minaccia alla Ue non viene dal dissenso aperto di chi manifesta, oggi, a Roma. Ma dal distacco implicito e silenzioso. Perché la protesta è un segno di riconoscimento. Seppure critico e polemico. Per questo la minaccia non viene tanto dal sentimento anti-europeo, ma dal disincant-europeo.

© Riproduzione riservata 25 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/25/news/europei_si_ma_con_disincanto_scende_la_fiducia_nella_ue-161340683/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #502 inserito:: Aprile 11, 2017, 06:20:10 pm »

M5s, né destra né sinistra: il partito "pigliatutti" che punta ai delusi della politica

Le mappe.
È difficile isolare priorità specifiche del programma Cinquestelle, ma si tratta di una scelta strategica.
Grillo e Casaleggio devono fare i conti con un elettorato molto differenziato, sia socialmente che politicamente. Come in passato la vecchia Dc

Di ILVO DIAMANTI
10 aprile 2017

Nei giorni scorsi il M5S si è recato a Ivrea. A celebrare Gianroberto Casaleggio, un anno dopo la sua morte. Ma anche, indubbiamente, a celebrare se stesso. Il MoVimento. Infatti, in questa fase politica fluida, il M5S si muove a proprio agio. D'altronde, si definisce un non-partito. Simbolo della non-politica di questo (non)Paese.

Casaleggio, d'altronde, è stato figura significativa della non-politica italiana e del non-partito che ne è divenuto il riferimento. Co-fondatore del M5s, ne interpreta l'anima digitale. Ma anche il modello "personale" ed "ereditario". A presiedere l'evento, infatti, era il figlio, Davide, che ne ha preso il posto. Non solo in azienda, ma anche nel M5s. Accanto a Grillo. D'altra parte, la personalizzazione, contestuale alla mediatizzazione, è divenuta regola dominante della politica. Osservata da tutti i partiti – o sedicenti tali. Tanto più dopo l'irruzione della rete. Ivrea è stata scelta perché da lì è partita la "carriera" professionale – e quindi politica – di Casaleggio. Alla Olivetti. Più di un'azienda: un modello di ricerca applicata all'economia e alla società. "Insediato" sul territorio. Si pensi all'Istao, un centro studi e formazione, alle porte di Ancona, intitolato ad Adriano Olivetti. Importante anche per chi si occupa di politica e di amministrazione. A Ivrea, non per caso, era presente anche Chiara Appendino. Sindaca 5s di Torino. Eletta lo scorso giugno. Bocconiana. Così Ivrea, per il M5s, costituisce un luogo "esemplare". Adeguato, peraltro, a rappresentare il suo "bacino elettorale", che non pare risentire delle polemiche sollevate da recenti episodi. Da ultimo: la bocciatura di Marika Cassimatis, la candidata vincitrice delle Comunarie online a Genova, esclusa da Beppe Grillo. Nonostante tutto, Il M5s non perde colpi e i sondaggi lo indicano davanti a tutti, o, comunque, accanto al PD, per consensi elettorali. Ivrea, come ho detto, raffigura efficacemente l'identità sociale del M5s. Il soggetto politico più rappresentativo – e attraente – presso gli imprenditori, i lavoratori autonomi e presso i tecnici del privato. Peraltro, raccoglie consensi ampi e superiori alla media anche in altri settori. Fra gli operai, gli impiegati pubblici. E tra gli studenti. Anche perché è il (non)partito di gran lunga preferito fra i giovani (sotto i 30 anni). E fra gli adulti-giovani (30-44 anni).

LE TABELLE

In definitiva, è un "partito pigliatutti", che batte sul tasto dell'innovazione e del futuro, per caratterizzare il marchio della sua offerta politica sul piano generazionale.

Peraltro, è difficile isolare le priorità specifiche del suo programma. Non per caso Davide Casaleggio, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, venerdì sera, ha evitato accuratamente di fornire riferimenti e contenuti precisi, riguardo alle scelte del M5s, nella prossima fase. Preferendo, al proposito, sottolineare la propria in-competenza. In quanto ad altri spetterebbe questo compito. Allo stesso tempo, ha rifiutato di dire per quale partito, o meglio, quali partiti avesse votato in passato. Non per timidezza e neppure per ambiguità. Ma per opportunità. Per strategia. Non diversamente da Grillo, il quale, all'opposto, ha espresso posizioni diverse e talora divergenti, su temi e materie sensibili. Per prime: l'immigrazione, l'euro e l'Europa. Il fatto è che entrambi, Grillo e, dunque, Casaleggio, debbono fare i conti con un elettorato molto differenziato. Sotto il profilo sociale, ma anche della posizione politica. Solo la Dc, nella Prima Repubblica, mostrava un elettorato altrettanto spalmato, da destra verso sinistra. E, per questo, ancorato al centro. Così, la base del M5s oggi si divide e si colloca, politicamente: intorno al centro e fuori dallo spazio politico.

Infatti, il 45% dei suoi elettori si dichiara "esterno" ed "estraneo" alla distinzione fra destra e sinistra. Mentre gli altri si distribuiscono, senza troppi squilibri, nello spazio politico. E gravitano, dunque, "mediamente" al centro. Così si spiega la reticenza dei leader del M5s a "esporsi", esprimendo posizioni apertamente schierate. Perché al M5s si dice vicino circa uno su 4 fra gli elettori della Lega, di FI, della Destra-FdI e, sul versante opposto, di Sinistra Italiana. Ma suscita interesse, per quanto in misura minore, anche fra gli elettori del PD e dei Centristi. Perché "deluderli"? Perché scoraggiare la tentazione, da parte loro, di votare proprio per il M5s, nel caso, più che possibile, prevalesse la delusione verso il proprio partito di riferimento? Verso la politica?

LO SCENARIO - Metodo 'quirinarie' per Palazzo Chigi: gli anti-Di Maio puntano su Casaleggio jr

D'altronde, se osserviamo lo spazio politico, le "tensioni" fra i partiti che si posizionano intorno e vicino al M5s appaiono evidenti. Soprattutto nel Centro-sinistra. Dove gli elettori del PD e gli scissionisti del MDP-Articolo 1, guidati da D'Alema e Bersani, condividono, lo stesso, identico punto dello spazio politico. E ciò conferma il sospetto che le differenze e le divergenze che hanno prodotto la scissione abbiano ragioni non tanto "politiche". Ma, piuttosto e soprattutto, "personali". Dettate da rivalità e incompatibilità ricorrenti e di lunga data. Non per caso, proprio Renzi, a Bari, ha lamentato che "da noi non può funzionare se il primo che ti accoltella è il tuo compagno di partito".

Così, non può sorprendere la capacità competitiva, sul mercato politico, del M5s. Il non-partito "centrale" (senza essere "centrista", per echeggiare Emmanuel Macron) di uno spazio politico "senza stelle". Dove si agitano post-partiti divisi. Oppure cresciuti all'ombra del Capo. E oggi logorati dal declino del Capo e dalla competizione fra capi non altrettanto autorevoli.

© Riproduzione riservata 10 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/10/news/m5s_ne_destra_ne_sinistra_il_partito_pigliatutti_che_punta_ai_delusi_della_politica-162607510/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
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« Risposta #503 inserito:: Aprile 22, 2017, 12:20:19 am »

Ri-leggere Eddy. Sette anni dopo

Di ILVO DIAMANTI
17 aprile 2017

Sette anni dopo, il dubbio che mi dis-turba è che Eddy non gradirebbe. Di essere commemorato. In modo quasi rituale. Lui, così ir-rituale, contro-intuitivo e ironico. Nel linguaggio e, prima ancora, nello sguardo.

Temo che non approverebbe di essere commemorato così, regolarmente, quasi di routine. Eppure la memoria è non solo utile, ma necessaria. Serve a vivere. A guardare oltre. La memoria. Serve a scrivere e a riscrivere la nostra biografia. E io coltivo la memoria di Eddy per egoismo. Perché mi aiuta. A osservare il mondo intorno a me. Io, peraltro, non ho mai smesso di utilizzare le sue categorie, le sue definizioni. E, anzitutto, il suo modo ibrido di affrontare i problemi. Di "dirli". Passando dalla filosofia, alla politica, dal calcio alle canzoni. Senza soluzione di continuità.

Citare Berselli, ha scritto di recente Riccardo Bocca, sull'Espresso, è un esercizio d'obbligo per decodificare la politica e il flusso inesauribile degli stili di vita. D'altronde, viviamo tempi ibridi, nei quali tutto scorre davanti a noi, intorno a noi. La politica, la filosofia, le canzoni: si susseguono. Senza soluzione di continuità. Come uno spettacolo, nel quale ciascuno di noi recita diversi ruoli, diverse parti. Senza soluzione di continuità. Il digitale ha, poi, aggiunto la possibilità di comunicare sempre, dovunque, comunque. Con chiunque. Senza soluzione di continuità. Anche se, forse, più che di possibilità si tratta di illusione. Perché nell'era digitale noi siamo sempre connessi. E sempre soli.

Tuttavia, Berselli ha colto, come pochi altri, segni e passaggi significativi, nella loro apparente ir-rilevanza. Negli anni Sessanta, ad esempio, (in "Adulti con riserva", pubblicato da Mondadori nel 2007) racconta che, ascoltando una trasmissione radiofonica pomeridiana, capì "che la storia aveva subìto un'accelerazione". Si trattava di "Bandiera Gialla", programma musicale di Gianni Boncompagni, "con la complicità di Renzo Arbore. Severamente vietato ai maggiori di anni diciotto". Gianni Boncompagni se n'è andato anche lui. Berselli ne aveva seguito, con cura, le tracce. Alla ricerca dei cambiamenti etici, estetici e an-estetici che attraversavano il Paese.

Segnalati, per esempio, da "Non è la Rai", programma cult che, negli anni Ottanta, annunciò "la dissacrazione televisiva sulle reti Fininvest". Così, continuo a parlare con Eddy, a leggere e rileggere i suoi testi. Anche se venire ritualizzato non gli piacerebbe. Lui, "venerato maestro". Suo malgrado. Ma, caparbiamente "bianconero", senza esitazioni. Come me.

Berselli. Post-italiano. In attesa di diventare europeo. Io continuo a (re)citarlo, perché pochi, al pari di lui, sono stati capaci di pre-dire il destino dei soggetti politici. In particolare, quelli che guardava con maggiore attenzione. E passione. Come quando, dopo il voto del 13-14 aprile 2008, sulla rivista "Il Mulino", definì il PD un "partito ipotetico". In difficoltà a scegliere un percorso preciso fra "Partito mediatico, partito liquido, partito volatile; oppure partito solido e radicato nel territorio".

Un'alternativa ancora irrisolta, che riproduce e moltiplica la sua incertezza sul popolo dei "sinistrati", sempre in bilico fra la "nostalgia di rivoluzioni impossibili" e l'idea, fin troppo razionale, di "riforme possibili". I "sinistrati". Contaminati dal "gene altruista". Predisposti alla sconfitta. Anche perché incapaci di rassegnarsi a governare a lungo, senza dividersi, senza lacerazioni. Per questo continuo e continuerò a "commemorare" Eddy. Perché parlare con lui mi serve. A dare risposte a problemi mai risolti. Anche se rischio, ogni anno, di concludere la mia memoria berselliana allo stesso modo. Con le stesse parole. Chiedendomi, di fronte alle vicende e alle figure che affollano il nostro mondo, il mondo intorno a noi: "Che cosa avrebbe scritto Eddy?".

© Riproduzione riservata 17 aprile 2017

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/04/17/news/ri-leggere_eddy_sette_anni_dopo-163187375/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P3-S1.4-T1
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« Risposta #504 inserito:: Maggio 16, 2017, 01:55:57 pm »

Italia senza certezze: sorpasso Pd sul M5s, ma la crisi della politica genera sfiducia
Il sondaggio. Risale anche il centrodestra unito. Ma nessun polo supererebbe oggi il 40 per cento.
La confusione tra i partiti provoca il caos anche sulle questioni legate al quotidiano.
Lo dimostra il parere della gente su legittima difesa e Ong

Di ILVO DIAMANTI
13 maggio 2017

Alcuni importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l'Atlante Politico pubblicato da Repubblica sengala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d'opinione.

Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5s. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%. Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi, ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5s ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l'altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso). Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre "poli" maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l'80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt'altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l'asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini.

LE TABELLE

È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, "approssimate", in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più "larghe". Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l'operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un'alleanza con Fi, ancor meno con il M5s. Mentre appare maggiore (ma complicata) l'attrazione reciproca tra M5s, Lega e Fdi. Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5s. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l'attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l'anno prossimo. Il governo Gentiloni, d'altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica.

La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestano fra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D'Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale.

Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune.

Anzitutto, l'uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un'arma di notte "nel proprio domicilio". Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, "sparare" all'aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5s. Lo dimostra la legittima difesa. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a "Sinistra" si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di "sparare" in casa propria.

C'è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c'è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma.

Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale "alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti". Al fine di "destabilizzare l'economia italiana per trarne dei vantaggi". Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle "Associazioni di volontariato", tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano "associazioni di volontari". Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro.

Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l'incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell'economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo.

© Riproduzione riservata 13 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/13/news/italia_senza_certezze_sorpasso_pd_sul_m5s_ma_la_crisi_della_politica_genera_sfiducia-165308855/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1
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« Risposta #505 inserito:: Maggio 19, 2017, 02:11:36 pm »


Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Mappe. Le prossime elezioni locali e il referendum d'autunno ci diranno cos'è oggi il Pd

Di ILVO DIAMANTI
25 aprile 2016
   
SONO passati vent'anni dal 21 aprile 1996. Quando l'Ulivo, guidato da Romano Prodi, vinse le elezioni. Di fronte alla coalizione di Centro-destra costruita da - e intorno a - Silvio Berlusconi. Il Polo per le Libertà. Anche l'Ulivo, d'altronde, era una coalizione. Aggregava i post-comunisti del Pds, i post-democristiani (di sinistra) del Ppi, insieme alle forze della sinistra socialista, riformista. Cattolico-sociale ed ecologista.

Dopo la vittoria elettorale, l'Ulivo di Prodi governò poco più di due anni. Nell'ottobre del 1998, infatti, il governo venne sfiduciato da alcuni parlamentari della sinistra neo-comunista. Ma proseguì, sotto la guida di Massimo D'Alema. Fin dalle origini, dunque, emergono i limiti di questo nuovo soggetto politico, che riunisce le tradizioni e le componenti del centrosinistra. Anzitutto: la difficile coesistenza fra tradizioni politiche e sociali diverse. Tra centro e sinistra. In particolare: fra post-democristiani e post- comunisti. In secondo luogo: il conflitto fra leader. Meglio, l'assenza di una leadership condivisa. O, comunque, dominante. Così, dal 1996, il Centro-sinistra inizia un faticoso cammino. Alla ricerca del Centrosinistra- senza-trattino. I suoi soci fondatori, a loro volta, hanno cambiato nome e ragione sociale. Per limitarci a soggetti principali: da Pds a Ds, da Ppi alla Margherita, passando per i Democratici. Mentre, fra il 2005 e il 2007, l'Ulivo si è trasferito sotto le bandiere dell'Unione. Dunque, "coalizione". E questa resta la discriminante nel concepire il Centrosinistra. Con o senza trattino. Cioè: come coalizione oppure soggetto unitario. Una novità importante, anzi, essenziale, sotto questo profilo, è l'introduzione delle Primarie. Come metodo di scelta dei candidati. E dei dirigenti. Ciò avviene nel 2005, in occasione delle elezioni regionali. Quindi, in vista delle elezioni politiche del 2006. Che riporteranno Romano Prodi alla guida del Centrosinistra e del governo.

Ispiratore del progetto, accanto a Romano Prodi, è Arturo Parisi. Che vede nelle primarie non solo un metodo di selezione del gruppo dirigente e dei leader. Ma un marchio, un elemento di distinzione politica. Per usare le sue stesse parole: il "mito fondativo" del Partito dell'Ulivo, in alternativa all'Ulivo dei partiti. Un progetto che, nel 2007, sfocia nel Partito Democratico. Echeggia, non per caso, l'esperienza americana, di una democrazia maggioritaria, bipolare e tendenzialmente bipartitica. Personalizzata. In fondo: presidenziale. Tuttavia, il Partito Democratico non dissolve le divisioni da cui sorge. E a cui vorrebbe - dovrebbe - dare risposta. La distanza, nel Centrosinistra, fra tradizione comunista e democristiana, in particolare, rimane evidente. E si riproduce nella geografia elettorale del Paese. Come emerge chiaramente alle elezioni del 2008, quando il Centrosinistra si presenta unito nel Pd, guidato da Walter Veltroni. E viene sconfitto nettamente da Silvio Berlusconi. Anche perché non riesce a liberarsi dei vincoli territoriali del passato. Il Pd, infatti, risulta tanto più forte dove, nei primi anni Cinquanta, lo era già la Sinistra comunista. E, dunque, appare tanto più debole dove, invece, era più forte, sul piano elettorale, la Democrazia Cristiana. Così, quasi sessant'anni dopo, il Pd fatica ad affermarsi nel Nord e, in particolare, nel Lombardo-Veneto, presidiato dal Forza-Leghismo.

D'altro canto, dentro al Pd si riproducono tensioni "personali" che complicano l'affermarsi di "un" leader. Il passaggio dall'Ulivo all'Unione, fino al Partito Democratico, non risolve le difficoltà del Centrosinistra-senza-trattino. E il Pd resta un progetto e un soggetto incompiuto. Almeno, fino all'"irruzione" di Matteo Renzi. Il quale è favorito, anzitutto, dal declino di Berlusconi. Che apre un vuoto in-colmabile in un Centrodestra creato a sua immagine. Renzi è, per storia personale, un post-democristiano. Cresciuto nell'Ulivo di Prodi. Nella Toscana Rossa. Si afferma attraverso le Primarie. Dopo aver perduto, dapprima, "contro" Bersani. Cioè: contro l'eredità post-comunista. Nel Pd diventa, così, segretario "contro" il passato. Contro D'Alema e Rosy Bindi. Cioè: contro la tradizione post-comunista e post-democristiana. Così, alle elezioni europee del 2014, per la prima volta, il "suo" Pd supera e scavalca gli antichi confini. E vince dovunque. Ben oltre le regioni rosse. Espugna, infatti, le province del Nordest e della Lombardia. Bianche e anticomuniste. Da sempre. D'altronde, l'antica frattura ideologica è stata rimpiazzata, negli ultimi anni, da una nuova frattura. All'anti-comunismo si è sostituita l'antipolitica. Interpretata da Grillo e dal M5s. Che, per questo, non hanno una geografia specifica. Perché l'antipolitica, l'opposizione alla politica e ai politici "tradizionali" sono trasversali. Da destra a sinistra, da Nord a Sud, passando per il Centro. Renzi è abile a interpretare entrambe le fratture. Quella ideologica ma anche quella anti-politica. Lui, il "rottamatore", non ha vincoli né appartenenze. Inoltre - e soprattutto - fa del Pd un "partito del leader". Centralizzato e personalizzato. Il PdR. Il Partito Democratico di Renzi. Che tende ad evolvere nel PdR, il Partito di Renzi. Soprattutto se il referendum costituzionale di ottobre, trasformato in un referendum personale pro o contro di lui, si traducesse una investitura personale.

Così, vent'anni dopo l'avvento dell'Ulivo, il Centrosinistra sembra approdato a un Partito del Leader, a-ideologico e a-territoriale. Maggioritario, referendario e, tendenzialmente, presidenziale. Resta da vedere quanto sia stabile, questo approdo. Quanto possa resistere al ritorno dei personalismi e delle tradizioni - ben espresse dall'opposizione della Sinistra interna. Quanto possa proseguire senza il sostegno della storia e del territorio. Dell'organizzazione e della società. Quanto e se il PdR si possa affermare, senza il contributo del Pd, com'è avvenuto alle Europee. Non ci vorrà molto a verificarlo. Basterà attendere qualche mese. Le prossime amministrative e il referendum d'autunno ci diranno se davvero l'Ulivo sia divenuto un albero senza radici. Un volto senza storia. O se la sua storia possa continuare, con volti e nomi diversi.
 
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25 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/25/news/dall_ulivo_al_pdr_il_volto_e_le_radici-138394413/
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« Risposta #506 inserito:: Maggio 29, 2017, 08:51:44 pm »

Le amministrative, il primo vero test politico
Le mappe. Comunque vada dal voto ci saranno effetti determinanti sul piano nazionale: potrebbero segnare il tramonto della 'stagione dei sindaci' e dei 'partiti personali'

Di ILVO DIAMANTI
29 maggio 2017

IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato "politico nazionale". Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D'altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L'Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.

Per questo si tratta di un test "politico" importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l'esito stesso dell'imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.

Le elezioni "comunali", d'altronde, hanno assunto un ruolo "politico" particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia "impersonale", lontana dalla società.

Dal 1993 in poi, non a caso, l'elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, "indirettamente eletti in modo diretto", vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è "personalizzata".

Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia - e di rappresentanza - diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader "nazionali". Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.

Infine, le elezioni comunali hanno favorito l'affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un "partito". Magari, un "non-partito". In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà... Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell'anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.

I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall'eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com'è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l'esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d'opinione. Com'è avvenuto l'anno scorso, quando ha, certamente, "lanciato" i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.

Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un "non-partito" che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la "personalizzazione centralizzata". È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista "personale", corrisponda l'insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.

Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha "radici" profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell'equilibrio instabile che oggi caratterizza l'Italia.

La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è "nato", politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all'Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l'aggregarsi del "voto contro".

Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di "elezioni critiche". Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.

E, insieme, dei "partiti personali", che ne sono gli eredi.

Ma anche dei "non-partiti", poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli "antagonisti": i partiti. Personali e impersonali. L'Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.

© Riproduzione riservata 29 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/le_amministrative_il_primo_vero_test_politico-166687417/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
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« Risposta #507 inserito:: Maggio 29, 2017, 08:52:21 pm »

Le amministrative, il primo vero test politico
Le mappe. Comunque vada dal voto ci saranno effetti determinanti sul piano nazionale: potrebbero segnare il tramonto della 'stagione dei sindaci' e dei 'partiti personali'

Di ILVO DIAMANTI
29 maggio 2017

IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato "politico nazionale". Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D'altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L'Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.

Per questo si tratta di un test "politico" importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l'esito stesso dell'imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.

Le elezioni "comunali", d'altronde, hanno assunto un ruolo "politico" particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia "impersonale", lontana dalla società.

Dal 1993 in poi, non a caso, l'elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, "indirettamente eletti in modo diretto", vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è "personalizzata".

Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia - e di rappresentanza - diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader "nazionali". Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.

Infine, le elezioni comunali hanno favorito l'affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un "partito". Magari, un "non-partito". In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà... Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell'anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.

I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall'eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com'è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l'esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d'opinione. Com'è avvenuto l'anno scorso, quando ha, certamente, "lanciato" i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.

Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un "non-partito" che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la "personalizzazione centralizzata". È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista "personale", corrisponda l'insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.

Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha "radici" profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell'equilibrio instabile che oggi caratterizza l'Italia.

La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è "nato", politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all'Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l'aggregarsi del "voto contro".

Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di "elezioni critiche". Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.

E, insieme, dei "partiti personali", che ne sono gli eredi.

Ma anche dei "non-partiti", poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli "antagonisti": i partiti. Personali e impersonali. L'Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.

© Riproduzione riservata 29 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/le_amministrative_il_primo_vero_test_politico-166687417/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
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« Risposta #508 inserito:: Giugno 13, 2017, 05:36:33 pm »


Il paradosso 5Stelle: sconfitti ma radicati. Darli per finiti sarebbe un errore
Il Movimento ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.

Di ILVO DIAMANTI
13 giugno 2017

Meglio essere prudenti prima di dare per “finito” il M5S. Prima di leggere il risultato delle amministrative di ieri come segno, inatteso, di un’inversione di rotta. Il primo passo di un declino inarrestabile. Conviene attendere altri test elettorali. Perché le elezioni amministrative costituiscono un passaggio politico importante, soprattutto quando hanno l’ampiezza di questa consultazione. Ma sono, più di ogni altra elezione, condizionate da ragioni e fattori “locali”. Tanto più dopo il 1993, quando la nuova legge sull’elezione diretta dei sindaci ha “personalizzato” il voto, per restituire legittimità allo Stato e alle istituzioni, dopo il crollo della Prima Repubblica e le inchieste sulla corruzione dei partiti e della classe politica della Prima Repubblica. In effetti, anche l’affermazione del M5S riflette la crisi dei partiti e della classe politica, dopo il crollo del “muro di Arcore”, che aveva segnato i confini della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata “da” e “su” Berlusconi. L’ascesa del M5S era avvenuta proprio cinque anni fa, alle amministrative del 2012.

Quando Federico Pizzarotti, allora sconosciuto ai più, era divenuto sindaco di Parma, nella sorpresa generale. Anche a Parma. Tuttavia, in seguito, il rendimento elettorale del M5s ha seguito un modello preciso. Forte e competitivo in ambito nazionale, molto meno alle elezioni amministrative.

LEGGI LE TABELLE

Per due ragioni, fra le altre. Perché a livello locale contano i candidati. E, in secondo luogo, occorre disporre di tradizioni e di basi organizzative. Per questo il M5S ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.

Per dare un’idea e una misura di questa tendenza bastano poche cifre. Nel 2013, alle elezioni politiche, con oltre il 25% dei voti validi, il M5S diventa primo partito in Italia. Ma, solo due mesi dopo, alle elezioni comunali vince in 2 soli comuni “maggiori” (con oltre 15 mila abitanti) sui 92 nei quali si vota. Successivamente, questo trend si ripete, talora amplificato. Nel 2014 si rinnovano le amministrazioni in 243 comuni maggiori: il M5S ne conquista solo 3. Eppure, alle – concomitanti – elezioni europee, aveva ottenuto il 21% dei voti validi. Secondo, a distanza, dietro al Pd di Renzi (oltre il 40%). La tendenza non cambia neppure nel 2015, quando il M5S vince in 5 comuni, fra i 108 nei quali si vota. Oggi, infine, è al ballottaggio in 9 fra i 160 comuni maggiori al voto.

Così, la vera discontinuità con la breve storia elettorale del M5S, è costituita dalle elezioni amministrative di un anno fa. Nel 2016. Quando il MoVimento ispirato da Grillo conquista la guida di 19 comuni, fra i 143 al voto. Ma, soprattutto, vince a Roma e Torino. Due capitali. Che danno a quel voto un chiaro significato “nazionale”. Anche allora, dunque, il M5S riproduce l’impronta di “partito senza territorio”, apparsa evidente fin dalle elezioni politiche del 2013. Quando risultò primo o secondo partito praticamente in tutte le province italiane. Mentre gli altri partiti maggiori, nella storia della Repubblica, hanno ri-proposto una geografia specifica. La DC e, in seguito, i Forza-leghisti: “impiantati” nella periferia produttiva del Nordest e del Nord, ma anche in molte aree del Mezzogiorno. Mentre le basi elettorali dei partiti della Sinistra – a partire dal Pci e dai suoi eredi – sono sempre state “forti” nelle zone definite, non per caso, “rosse” dell’Italia Centrale. Il M5S, invece, non ha radici né tradizioni territoriali. O meglio: sfrutta quelle degli altri. Perché intercetta i propri elettori dal rifiuto verso i partiti e la politica tradizionali. Canalizza e amplifica il ri-sentimento. Politico e sociale. Contro tutti. Così, spesso, allarga i suoi consensi nei ballottaggi, quando si vota non per il “più vicino”, ma per il “meno lontano”.

Per questo, come abbiamo mostrato in un Atlante Politico di pochi giorni fa, ha basi forti fra i più giovani, fra gli operai, fra gli stessi imprenditori. I più esposti alla globalizzazione. E per questo fatica a rendere stabili le proprie basi elettorali. D’altronde, ha rimpiazzato il territorio con la rete e con il digitale. O meglio: il suo territorio è digitale. E dunque fluido. La sua azione è ispirata alla contro-democrazia, come la definisce Pierre Rosanvallon. La democrazia del controllo e della sorveglianza. Che stenta a sedimentare. A costruire un “popolo” di riferimento. Anche per questo il M5S fatica a “stare sul territorio”, a selezionare e presentare candidati conosciuti e autorevoli. La Rete, a questo fine, non basta. Tanto più perché, a sua volta, è sorvegliata dal Garante. In modo non sempre comprensibile ai “suoi” stessi elettori. Com’è avvenuto a Parma, dove Pizzarotti oggi è un avversario.

Mentre nei “luoghi amici” del fondatore, come a Genova, gli elettori preferiscono rivolgersi altrove. Perché il M5S appare in bilico. Canale di critica e mobilitazione. Ma anche soggetto politico che mira a governare. Visto che nei sondaggi contende il primato al Pd, con quasi il 30% dei consensi. A livello nazionale. Questo è il vero rischio per il M5s. Di apparire, agli occhi degli elettori, un partito come gli altri. E di perdere la sua “diversità”. Mentre per la classe politica dei partiti nazionali il rischio è di considerare la battuta d’arresto del M5S in questo primo turno una svolta.
Irreversibile. Sul piano nazionale. Salvo scoprire, alle prossime elezioni politiche, una realtà molto diversa. Dai propri desideri. Perché, come recita un antico proverbio, è meglio non vendere la pelle di Grillo prima di averlo catturato davvero…

© Riproduzione riservata
13 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/13/news/il_paradosso_5stelle_sconfitti_ma_radicati_darli_per_finiti_sarebbe_un_errore-167964436/
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« Risposta #509 inserito:: Luglio 04, 2017, 05:37:52 pm »

25 giugno 2017
Un appunto per non dimenticare Stefano Rodotà

Ilvo DIAMANTI

Ho incontrato Stefano Rodotà in molte occasioni. Pubbliche e private. A convegni e seminari. Al “Festival del Diritto”, di Piacenza, del quale è stato ispiratore e guida, per tanti anni. Non intendo, qui, ricostruirne i meriti e le qualità, in ambito scientifico e politico. In particolare, sul piano del diritto e dei diritti. Altri - con maggiore competenza di me al proposito - l’hanno già fatto. E altri ancora lo faranno. Perché Rodotà ha lasciato un segno difficile da oscurare.

Al di là delle opere, conta il suo esempio. Conta la sua presenza sulla scena pubblica. Stefano Rodotà. Intellettuale e protagonista di iniziative mai banali. In tempi in cui la banalità incombe sulle iniziative e sulle figure pubbliche. Così, non mi interessa recitarne le lodi proprio oggi. In questa sede, in questa occasione. Anche perché talora –più di una volta – non ho condiviso le sue posizioni. Le sue scelte. Tuttavia, non mi hanno mai lasciato mai indifferente. Mi hanno sempre fatto pensare. Reagire. Anche – e tanto più - quando ero in disaccordo, magari marcato. Proprio questo, però, è il compito di un intellettuale pubblico. Far pensare, reagire. Scuotere l’in-differenza.

Stefano Rodotà, per questo, ci mancherà.  Almeno: “mi” mancherà. La sua voce. La sua presenza. Non lo dimenticheremo. Io, di certo, non lo dimenticherò.
 
© Riproduzione riservata 25 giugno 2017

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/06/25/news/un_appunto_per_non_dimenticare_stefano_rodota_-169096564/
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