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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 244744 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Febbraio 25, 2008, 11:01:54 am »

POLITICA

LE MAPPE.

Per orientare le scelte i temi "etici" contano molto meno di questioni come tutela dei salari e sicurezza

Tra marchi nuovi e antipolitica elettori confusi al supermarket

Risultato scontato? Anche nel 2006 sembrava così ma Berlusconi mancò la vittoria per un soffio

 di ILVO DIAMANTI


Le elezioni del prossimo 13-14 aprile hanno un favorito, ma non un vincitore predestinato. Lo suggeriscono i dati del sondaggio condotto da Demos-Eurisko per Repubblica nei giorni scorsi, a cui fa riferimento questo Atlante politico. Il Pdl è davanti al Pd: 41% a 35%. Sei punti. Un distacco chiaro, che si conferma se si considerano le liste apparentate. La Lega e Mpa, da un lato. Dall'altro, Di Pietro e i Radicali (che confluiranno nel Pd, senza marchio).

Su queste basi l'esito della prossima consultazione non può ritenersi scontato. Impossibile dimenticare la lezione di Silvio Berlusconi. Esattamente due anni fa, i sondaggi dei principali istituti demoscopici attribuivano alla Cdl lo stesso svantaggio. Valutavano, per questo, impossibile la rimonta. Berlusconi ha smentito tutti. Le previsioni dei sondaggi e i suoi stessi alleati, che non credevano possibile risalire. In poco più di un mese ha annullato il distacco. Ha perso alla Camera per una manciata di voti, mentre al Senato è stato "tradito" dai collegi esteri.

Oggi, peraltro, la situazione è più incerta e fluida, rispetto a due anni fa. Gli elettori si muovono un po' confusi. Come consumatori in un mercato che propone prodotti nuovi e diversi. Perché le principali etichette di partito sono pressoché scomparse. Sostituite da altri marchi. In tempi troppo rapidi per non generare disorientamento. Non è facile neppure capire come reagiranno, molti elettori, di fronte all'eclissi - o alla definitiva rimozione - del proprio simbolo di riferimento.

1. Si assiste, comunque, a una forte polarizzazione, che, fin qui, ha premiato i due principali soggetti politici, sorti negli ultimi mesi. Pdl e Pd: insieme aggregano circa tre elettori su quattro. Più della Dc e del Pci, ai tempi della prima Repubblica. Sembra, cioè, che gli elettori si siano abituati a votare in modo "maggioritario", nonostante la logica proporzionale dell'attuale legge elettorale. Simmetricamente, gli altri partiti, ancora numerosi, si contendono un settore di mercato elettorale molto limitato. E' interessante, tuttavia, osservare la capacità d'attrazione espressa dai partiti di centro. L'Udc è stimata intorno al 6%. La Rosa bianca all'1%. Riuniti sotto una sola bandiera potrebbero superare la soglia di sbarramento sia alla Camera che al Senato.

Invece, la Sinistra Arcobaleno rivela, per ora, un basso grado di attrazione. D'altronde, l'analisi dei flussi di voto rispetto al 2006, suggerisce che solo il 40% degli elettori dei partiti che hanno dato vita alla "cosa rossa" oggi voterebbero per la Sinistra Arcobaleno. Mentre un terzo di loro si sarebbero già spostati sul Pd. Anche il Pdl, d'altronde, dimostra una notevole capacità di attrazione, che gli permette di guadagnare circa il 4% rispetto al risultato dei partiti fondatori nel 2006. Tutte le altre formazioni raccolgono frazioni di elettori molto esigue. Nessuna pare in grado di arrivare in Parlamento, in assenza di apparentamenti dell'ultimo minuto. Fra le novità, la Lista per la vita, promossa da Giuliano Ferrara, raccoglie pochi decimali.

Il peso assunto dall'Udc, in queste stime elettorali, spinge a destra gli elettori del Pdl. Tanto che il Pd, sull'altro versante, appare più vicino al Centro, e quindi all'Udc. I cui sostenitori, d'altronde, dividono le loro simpatie in modo equilibrato fra i due "oligopolisti" del mercato elettorale. Ciò potrebbe costituire un rischio per l'Udc se, com'è probabile, la campagna elettorale si polarizzasse ulteriormente. Allora, la logica del "voto utile" potrebbe spingere una parte dei suoi elettori verso i partiti più forti. Per questo, la possibilità dell'Udc di consolidare il suo peso elettorale dipende dalla capacità di esprimere "protesta" più che "moderazione". Intercettando la delusione nei confronti del maggioritario bipolare della seconda Repubblica.

2. L'incertezza di questa fase è confermata dal sostanziale equilibrio dei consensi nei confronti dei due principali leader. Se dovessero scegliere il premier, per elezione diretta, fra Berlusconi e Veltroni, gli elettori si dividerebbero in modo pressoché uguale. Anche così si spiega la convergenza di strategie fra i due "avversari". All'insegna della personalizzazione e del reciproco riconoscimento. Da un lato, Veltroni conta di sfruttare il proprio appeal personale per bilanciare lo svantaggio prodotto dall'orientamento politico. Dall'altro, Berlusconi è convinto che il vantaggio del Pdl sia sufficiente a garantirgli il successo, mentre sfrutta la propria immagine per coagulare un elettorato, comunque, fluido e composito. Dubitiamo, tuttavia, che il clima della campagna elettorale rimarrà disteso e civile fino al voto. Soprattutto se l'incertezza dell'esito dovesse crescere ulteriormente. Come, d'altronde suggeriscono altri segnali, particolarmente importanti per decifrare l'orientamento degli elettori italiani.

3. Il voto dei cattolici, anzitutto, che negli ultimi anni si era spostato decisamente a centrodestra, oggi appare più equilibrato. Fra i cattolici praticanti, in particolare, si osserva una distribuzione proporzionata al peso dei partiti. Con un sovrappiù per l'Udc. La cui presenza autonoma sul mercato elettorale pare aver "secolarizzato" il Pdl. Mentre le polemiche accese nel Pd, sul tema, fin qui non sembrano aver prodotto particolari effetti. (Anche se, al momento del sondaggio, l'accordo con i Radicali non era ancora stato siglato).

4. D'altronde, i temi "etici" che hanno agitato il dibattito pubblico negli ultimi mesi (in particolare modo l'aborto), comparativamente, in questa campagna elettorale contano molto poco, nella percezione degli elettori. Mentre, tra i cittadini, è massima l'importanza assunta dai problemi economici legati alla vita quotidiana: reddito familiare e costo della vita. Insieme alla sicurezza.

5. C'è, infine, la questione dell'antipolitica. Quel vento ostile verso i partiti e le istituzioni, che ha soffiato impetuoso, negli ultimi mesi. Chi immagina che il clima elettorale abbia inibito quel sentimento si sbaglia. Ne è prova il consenso di cui gode Beppe Grillo, verso il quale esprime fiducia il 55% degli elettori. Lo testimonia, ancora, l'atteggiamento verso i partiti: tutti uguali, secondo tre elettori su quattro. Si tratta di sentimenti trasversali. Diffusi in tutti gli elettorati. In particolare nella base di due partiti: la Lega Nord e l'IdV di Di Pietro. Tuttavia, la sfiducia nei partiti e la simpatia per l'alfiere del V-Day non sembrano alimentare "astensione": dalla politica e dal voto. Infatti, anche se lamenta che tutti i partiti sono uguali, gran parte degli elettori si schiera: sceglie un partito. Ciò conferma che l'antipolitica costituisce, per molti versi, un sentimento "politico". E' un modo per incalzare i partiti. Per spingerli a rinnovarsi. A moralizzare i comportamenti.

Questo Atlante politico, dunque, tratteggia un'Italia fluida e instabile. Alla ricerca di una nuova geografia elettorale. Ancora incerta e un po' disorientata, perché il paesaggio politico è cambiato e sta ancora cambiando. L'esito del prossimo 13 aprile non è ancora scritto. A chi lo profetizza, rammentiamo che dal 1994 ad oggi tutte elezioni - tutte - hanno spiazzato, a volte sovvertito le previsioni. E che, dal 1996 fino al 2006, tutte le elezioni - tutte - si sono risolte per pochi punti. Talora: frazioni di punto.

C'è da dubitare che questa volta le cose andranno diversamente.

(25 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Febbraio 28, 2008, 12:19:49 am »

Rubriche »

Stampa Sondaggi faziosi, comunisti e casinisti
 

Berlusconi si è molto risentito, nei giorni scorsi, contro il PD e i giornali di sinistra. I quali farebbero, a suo avviso, informazione scorretta perché presentano sondaggi diversi da quelli di cui lui, personalmente, dispone. Che lui personalmente commissiona, visiona e divulga. E i sondaggi che Berlusconi personalmente commissiona, visiona e divulga danno il PdL sopra il PD di 10 punti percentuali. Non 6, come invece indicano i sondaggi artefatti commissionati dal PD e dai giornali di sinistra. (Sospettiamo che in questo giudizio c'entri, in qualche misura, l'Atlante Politico che abbiamo pubblicato su "la Repubblica" lunedì scorso).

In effetti, tutti sanno che Berlusconi non ha mai bluffato, con i sondaggi. Non li ha mai usati come strumenti di campagna elettorale, come profezie che si autoavverano. In fondo, due anni fa, ha avuto ragione lui. I suoi sondaggi "personali", commissionati a una nota agenzia americana, davano la CdL in parità già a metà febbraio. Quando tutti gli altri, invece, la stimavano in svantaggio di 5-6 punti. Come oggi il PD.

Effettivamente, due mesi dopo, fu sostanziale pareggio. Aveva ragione lui, quindi. Ne siamo davvero certi? Aveva ragione lui? Oppure quel sondaggio "profetizzava" ciò che sarebbe avvenuto due mesi dopo? Anche grazie all'incertezza che avrebbe suscitato, riaprendo una competizione considerata, dagli elettori, già chiusa? Chissà... Certo che, dopo il voto, il Cavaliere continuò a polemizzare duramente con gli alleati. Che non gli avevano creduto e non l'avevano sostenuto. (Magari per scelta consapevole). Aveva rimontato da solo, sostenne. Bastava una settimana di campagna elettorale, qualche trasmissione ancora: avrebbe completato la rimonta e realizzato il sorpasso.

Curiosa recriminazione, visto che i "suoi" sondaggi avevano registrato il pareggio due mesi prima del voto. Evidentemente il suo attivismo feroce nelle ultime settimane di marzo, compresa la grande performance all'assemblea degli industriali di Vicenza, l'ultimo faccia-a-faccia televisivo con Prodi, a pochi giorni dal voto (quando aveva scandito: "E infine toglieremo l'ICI. E forse anche la tassa dei rifiuti"). Non gli avevano fatto recuperare nulla. Ma, perfino, perdere qualcosa. In fondo era sul pari già due mesi prima...

Così, nei giorni scorsi, si è indignato. Perché i "suoi" sondaggi lo danno in vantaggio di dieci punti, non di 6 e mezzo. Il che genera, comunque, qualche dubbio. Visto che sabato scorso, al convegno degli amici di Giovanardi, usciti dall'Udc per confluire del PdL, Berlusconi aveva sostenuto che il vantaggio del PdL era di "12 punti". Due punti persi in due giorni. Il rischio è che, fra un paio di settimane, le stime del Cavaliere decretino il pareggio...

Il problema è che il Cavaliere interpreta sempre in modo creativo i "suoi" sondaggi. Che nel 1994 stimavano FI al 30%. Ottenne il 20%, ma pazienza: vinse egualmente. Nel 1996 assicuravano il successo del Polo delle Libertà. Si affermò l'Ulivo. Ma, sappiamo, a volte sbagliano gli elettori, non i (suoi) sondaggi. Nel 2001, invece, prevedevano il trionfo della CdL sull'Ulivo. Con oltre 10 punti percentuali di vantaggio.

Vinse sul serio. Ma con un punto in più, alla Camera.
Non importa. Perché il "senno di poi", nei sondaggi, non conta. Importa il "senno di prima". Le stime in tempi di campagna elettorale. Perché, effettivamente, entrano in campagna elettorale. Condizionano i sentimenti e gli atteggiamenti. Così oggi il Cavaliere si irrita se i sondaggi lasciano intendere che la partita è ancora aperta. Se fanno dubitare agli elettori che "la festa appena cominciata è già finita". Meglio discutere subito dei ministeri e degli incarichi istituzionali, così non perdiamo tempo... Per cui impone la verità dei "suoi" sondaggi. Contro tutti gli altri. Tutti. Non solo quelli del PD e dei giornali della sinistra. Perché Ipsos attribuisce al PD (e ai suoi alleati) 7 punti in più del PD (e liste collegate). Lo stesso, SWG. Peraltro, il Corriere della Sera aveva proposto, nei giorni scorsi, stime elettorali di Demoskopea che davano ragione al Cavaliere: 9 punti di vantaggio per il PdL. Ma la nuova rilevazione di Demoskopea per Sky Tg 24, di oggi, si allinea a sua volta: 7 punti di distacco.

Infine, vediamo il sondaggio di "fiducia" a cui fa riferimento il Cavaliere. La direttrice di Euromedia Research rivela in esclusiva al quotidiano on-line "Affari Italiani" che il distacco fra i due maggiori competitors è "compreso tra gli 8 e i 10 punti percentuali, in quanto è tra il 44 e il 46% la coalizione che indica Berlusconi premier e tra il 36 e il 38% quella che indica Veltroni" ("Affari Italiani", Martedì 26.02.2008, 14:32). Insomma: fra 10 e "8 punti". A metà: tra i sondaggi del Pd e quelli "personali" - nell'interpretazione "personale" - di Berlusconi.

Il problema è che i sondaggi non pre-vedono: vedono e misurano il presente. O, almeno, ci provano. Chi meglio, chi peggio. Possono servire a rilevare la distribuzione dei consensi in un determinato momento. Indicare quanti e chi sono gli incerti. Cosa pensano, cosa potrebbero decidere in seguito. Ma poi, alla fine, contano le elezioni. E, da qui alle elezioni, contano i comportamenti degli attori politici. La campagna elettorale. I media. Naturalmente, gli attori politici e la campagna elettorale occupano principalmente i media. Inoltre, i sondaggi contribuiscono allo spettacolo della campagna elettorale. Quindi, a definire e a modificare l'opinione pubblica. Per cui, quando sono resi pubblici, diventano - anzi, sono - strumenti di campagna elettorale. Indipendentemente dalla volontà e dalla qualità. Per questo suscitano tanta attenzione e tanta reazione. Rischiano di apparire profezie che si auto-avverano.

Berlusconi lo sa bene. Ne è stato, dal 1994, l'interprete più creativo. I sondaggi come forma di "pre-visione". Un modo per orientare "preventivamente" la "visione" e quindi le scelte degli elettori. Per questo è insofferente verso i dilettanti che pretendono di sfidarlo sullo stesso terreno. Verso gli analisti e gli istituti demoscopici che pensano, poverini, che i sondaggi servano solo a "vedere". No. Servono a "pre-vedere". Per cui vanno contrastati, se offrono "pre-visioni" moleste. Sgradevoli e sgradite. Se insinuano il dubbio che la partita non sia ancora chiusa. Se mobilitano gli elettori delusi e scoraggiati. Incerti se votare. Perché, al contrario di due anni fa, sono perlopiù di centrosinistra. Ma lo irritano, soprattutto, se ipotizzano che l'UdC (e la Rosa Bianca) non siano ancora scomparsi. Che abbiano ancora uno spazio elettorale. Anche il 6-7% - stimato dai sondaggi di sinistra e dai complici - è troppo. Perché si tratta di voti sottratti al PdL. L'unico bacino da cui il PdL possa ancora attingere. (A destra è rimasto poco). I suoi sondaggi non lo pre-vedono. In altri termini: alle elezioni "dovrà" ridursi a metà. E Casini sparire del tutto. Per cui, chi oggi vede e pre-vede diversamente: o è in malafede o è un comunista. Pardon: un "casinista".

(27 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 02, 2008, 11:21:34 pm »

POLITICA MAPPE

Il voto all'ombra del muro di Arcore

ILVO DIAMANTI


Colpisce la dimensione dell'incertezza fra gli elettori, in questa fase. Non perché si tratti di un fenomeno nuovo. Anzi. Ma le proporzioni, questa volta, sono inusuali. Superiori al passato recente e, a maggior ragione, di quello più lontano.

Colpisce. Visto che il paradosso dell'elettore incerto, in Italia, è che alla fine vota come sempre. Un elettore fedele che, nel profondo dell'animo, vorrebbe tradire. In Italia, infatti, a dispetto delle apparenze, il grado di stabilità elettorale è molto, molto elevato. Dal punto di vista territoriale ciò è evidente e sorprendente, se confrontiamo le ventisette province in cui i partiti hanno conseguito le performance più elevate nel 2006 e nel 1996.

A dieci anni di distanza: due su tre coincidono, per An, FI e Rifondazione; tre su quattro per la Lega e l'Ulivo. Quattro su cinque, se consideriamo le liste riunite nelle due coalizioni: Unione e Cdl. In altri termini: l'elettorato italiano continua ad essere "congelato" da appartenenze e fratture di lungo periodo. A cui altre, di nuove, si sono aggiunte. L'antiberlusconismo accanto all'anticomunismo. Le stesse indicazioni, peraltro, si ricavano se si valutano i comportamenti degli individui a livello elettorale. La ricerca condotta da Itanes ("Dov'è la vittoria?", Il Mulino, 2006) sottolinea come, alle elezioni del 2006, il tasso di "fedeltà" degli elettori delle due coalizioni sia molto elevato: il 92% nella Cdl e il 94% nell'Ulivo. I limitati spostamenti fra le due coalizioni, peraltro, si compensano.

Il mercato elettorale in Italia, quindi, continua ad essere stabile, diviso in due grandi bacini, largamente indipendenti. E il movimento elettorale avviene, in larghissima misura, tra formazioni politiche della stessa coalizione. Ma soprattutto fra voto e non voto. Si spiega così il risultato di due anni fa. Fino a poche settimane dal voto i sondaggi attribuivano al centrosinistra 5-6 punti percentuali di vantaggio. Dietro a cui si celavano, perlopiù, elettori di centrodestra, delusi dal governo Berlusconi. Incerti. Ma, in cuor loro, disposti a votare. Come prima. Come sempre. Contro i comunisti e per Berlusconi. Attendevano una "spinta". Berlusconi li assecondò. Indossando, nelle ultime settimane di campagna elettorale, i panni del Caimano.

Dunque, l'incertezza non è una novità, ma una costante dell'orientamento elettorale in Italia. A cui corrisponde un comportamento prevalentemente stabile. Il confronto con le precedenti elezioni, però, suggerisce alcune importanti novità, che vanno oltre l'ampiezza degli incerti. Peraltro, molto rilevante: oltre il 40% degli elettori.

1. L'incertezza, anzitutto, in questa occasione è alimentata dal mutamento dell'offerta politica. Come nel 1994. Sono cambiati i partiti. Le etichette. I nomi. Al tempo stesso, è cambiata la meccanica della competizione. Non è più bipolare. Oppone, invece, partiti. Nelle intenzioni dei due soggetti politici maggiori, è bipartitica. E bi-personale. Fra Pd e Pdl. Fra Veltroni e Berlusconi. Il grado di incertezza maggiore, per questo, si rileva fra gli elettori di centro e di sinistra. Fra quanti, nel 2006, avevano votato per l'Udc e per le formazioni che hanno dato vita alla Sinistra Arcobaleno. "Disorientati" perché il loro partito ha cambiato orizzonte. Uscito dall'orbita di Berlusconi, l'Udc. Dall'intesa con l'Ulivo e con Prodi, i partiti di sinistra. I quali, peraltro, hanno un problema ulteriore. La riconoscibilità, visto che hanno rinunciato alla loro specifica etichetta "partigiana" (Rc, Pdci, Verdi), per costruire, insieme, un soggetto politico con un nuovo marchio (Sa). Non ancora noto (né, forse, gradito) a tutti. Elettori incerti perché incerta è divenuta la posizione del loro riferimento politico.

2. Gli elettori sono "incerti" anche perché turbati e disturbati dal dubbio: votare in base all'identità o all'utilità. Scegliere il partito più vicino oppure quello che può vincere le elezioni, conquistando il premio di maggioranza previsto dalla legge.

3. L'incertezza è accentuata dall'eclissi della frattura fra antiberlusconismo e anticomunismo. I "postcomunisti" oggi sono entrati in una aggregazione nuova, che ha perfino rinunciato all'iconografia e ai richiami del comunismo. Liberando il Pd da una eredità ormai sgradita. Berlusconi, in questa fase, ha rinunciato al berlusconismo. Pd e Pdl, Veltroni e Berlusconi, peraltro, hanno evitato, fin qui, lo scontro, preferendo il confronto. Mimano una competizione di tipo presidenzialista. Rigorosamente a due. Per rafforzarsi reciprocamente ed escludere gli altri concorrenti.

4. L'incertezza, infine, è alimentata, come nel recente passato, dalla "delusione" nei confronti del governo. E colpisce, quindi, soprattutto gli elettori che nel 2006 avevano votato per l'Unione. In modo simmetrico e inverso rispetto a quanto era avvenuto due anni fa.
Questi aspetti spiegano non solo l'ampiezza, anomala, dell'incertezza, in questa fase. Ma anche le differenze che segnano le strategie degli attori politici in questa campagna elettorale, rispetto alla precedente.

a) Berlusconi è contrastato. Non può fare il "caimano". Prendersela con i comunisti e con la sinistra. Non solo perché oggi di fronte ha i democratici. Mentre i comunisti e la sinistra stanno "più in là". Ma, soprattutto, perché non ha interesse ad accendere troppo la campagna elettorale. Per timore di "mobilitare" gli elettori delusi, che oggi stanno, in larga parte, a centrosinistra. Fatica, inoltre, a sfruttare il principale argomento che gli fornisce consenso: la sfiducia nel governo Prodi. Perché di fronte, oggi, c'è un leader diverso: Veltroni. Il quale ha fatto del "nuovo" un marchio personale. Per questo il Cavaliere e il Pdl parlano, con insistenza, del "Pd di Prodi". Tuttavia, non è un'operazione facile. Perché il Pd, oggi, è un partito personalizzato, al servizio di Veltroni. Perché Berlusconi stesso evita lo scontro diretto con Veltroni. Lo accusa, semmai, di copiargli i programmi. E invita, anzi, gli elettori a scegliere fra loro due. Berlusconi o Veltroni. Perché oggi il vero nemico per Berlusconi non è il comunismo, ma il "casinismo". La sfida vera, per lui, è contro Casini e l'Udc. I principali freni alla sua crescita elettorale. Per questo insiste nel definire "inutile" il voto a questi "piccoli partiti". Anzi: un sostegno alla sinistra.

b) Veltroni, parallelamente, ha il problema di evitare una campagna retrospettiva. Sfuggire al passato. (In qualche modo: a Prodi). I suoi messaggi, per questo, evocano il "nuovo". Il "futuro". Incitano a non camminare con la testa "voltata indietro". A "guardare avanti". In sintesi: a scivolare da sinistra per avvicinarsi al centro. Il vero terreno di battaglia, oggi. Per entrambi i partiti "nuovi". Per i due candidati Presidenti.

Il problema per Veltroni è di fondare una proposta credibile, un'identità convincente: sfuggendo al passato. Perché le idee senza tradizioni sono volatili. Navi senza ancore.

I problemi per Berlusconi, tuttavia, sembrano più complicati. Oggi è il favorito. Dispone di un vantaggio significativo. Per cui agisce con prudenza. Per non scuotere i delusi e gli incerti. I quali, se abbandonassero l'inerzia, voterebbero per gli altri. Allo stesso tempo, una campagna sottotraccia, moderata come quella che sta conducendo, rischia di regalare spazio al detestato Casini, a Tabacci e alle formazioni di centro.

L'incertezza elettorale di questa fase, però, solleva una questione sostanziale, di grande rilievo non solo per il risultato delle prossime elezioni, ma per il futuro della nostra democrazia.

Se Berlusconi rinunciasse al berlusconismo - e Veltroni all'antiberlusconismo. Si sfalderebbero le fedeltà e le paure che impediscono all'incertezza di produrre cambiamento di voto. Cadesse il muro di Arcore, dopo quello di Berlino: assisteremmo a un grande disgelo.

(2 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 13, 2008, 10:00:35 am »

POLITICA

SONDAGGIO DEMOS

Nell'ex Ulivo e nell'Udc, gli incerti che decideranno la partita

di ILVO DIAMANTI


IL SONDAGGIO proposto dall'Atlante politico di Demos per la Repubblica delinea un orientamento elettorale coerente, ma, al tempo stesso, più fluido rispetto alle scorse settimane. La distanza fra il Pdl e il Pd è immutata. Circa 5 punti percentuali, a favore del Pdl.
Si allarga a 6,7 punti considerando i partiti "apparentati" (grazie al contributo della Lega).

Tuttavia, i due partiti maggiori arretrano un poco. Insieme, il loro peso sul totale degli elettori passa dal 76% al 73%. Se ne avvantaggiano, in parte, le liste che, fino a poche settimane fa, erano alleate mentre ora sono concorrenti. La Sinistra Arcobaleno, da un lato. L'Udc e la Destra, dall'altro. In parte, però, il calo subito dai due partiti principali favorisce gli alleati: l'Italia dei valori e la Lega.

Le ragioni di questa ripresa, per quanto limitata, della "concorrenza" sul mercato elettorale sono diverse.
1. Anzitutto, la presentazione delle liste e il conseguente avvio ufficiale della campagna hanno reso visibile la presenza di altri partiti, oltre ai due principali. Ciò ha allargato la "dispersione" delle scelte, rendendo la competizione un po' più "proporzionale". E'come se i consumatori del (super) mercato elettorale cominciassero a prendere confidenza con i nuovi prodotti.

2. Il calo dei partiti maggiori è, inoltre, dettato dalle difficoltà incontrate nella costruzione delle liste, nel tentativo di attrarre i settori di mercato elettorale più diversi. E, in particolare, i più critici. Così, il Pd ha candidato Massimo Calearo, imprenditore del Nordest, orientato a destra: per intercettare i voti degli imprenditori del Nordest, (largamente) orientati a destra. Mentre il Pdl ha "reclutato" Giuseppe Ciarrapico, noto imprenditore romano, nostalgico e un po' fascista: per drenare i voti romani e nostalgici attratti dalla Destra di Storace. Per conquistare al Senato una regione determinante come il Lazio, dove Ciarrapico pubblica numerose testate locali.
Ha, inoltre, sollevato malumori la collezione di candidati come etichette simboliche. I giovani e le giovani: di varia cultura e professione.
Possibilmente, di bell'aspetto. Per non parlar degli operai. Veri.
Sopravvissuti alle stragi nei luoghi di lavoro.
Ma, soprattutto, all'estinzione della specie.
Quanto al Pd, l'accordo con i radicali ne ha allargato i confini identitari. Ha, inoltre, "incluso" una base di elettori limitata, ma coerente e fedele. Creando, tuttavia, disagio e disaffezione presso l'elettorato cattolico.

3. Il minor grado di polarizzazione, peraltro, è favorito dalla ridotta intensità del confronto fra Pdl e Pd. Almeno, fino a una settimana fa. Il Pdl, in particolare, ha concentrato la polemica sull'Udc. Offrendole visibilità e identità. Anche per questo, sabato scorso, a Milano, Berlusconi ha effettuato uno "strappo" rispetto al profilo basso tenuto fino ad allora. Stracciando - letteralmente - il programma del Pd. Non solo perché sopraffatto dal suo "spirito caimano". Anche per indicare apertamente l'avversario. L'unico, vero "antagonista". Il Pd di Prodi, che Veltroni - l'illusionista - vorrebbe occultare. D'altronde, una campagna così soft, questo dibattito "politicamente corretto", rischiano di indurre gli elettori a votare in libertà, sfuggendo alla logica (secondo alcuni, al "ricatto") del "voto utile". Ma, nella fattispecie, danneggiano principalmente il Pdl. Il cui vantaggio dal Pd resta ampio. Ma non incolmabile.

Veltroni, infatti, continua a tenere testa a Berlusconi, nel confronto diretto. Fra i candidati premier, è quello che riscuote maggior fiducia fra gli elettori. La campagna elettorale, fino ad oggi, pare non averne usurato l'immagine.
Inoltre, il peso degli incerti resta molto alto. Oltre un terzo degli elettori. Tra essi, la quota maggiore è costituita da elettori che due anni fa avevano votato per l'Ulivo. Tentati, in larga misura, dall'astensione.
Incerto, peraltro, è il 30% di quanti nel 2006 avevano scelto l'Udc.

Questi dati suggeriscono che, prima del voto, molto può ancora succedere.
Ma indica anche i due diversi problemi, a cui i partiti maggiori dedicheranno la loro campagna.
Per il Pd: l'area della disaffezione e dell'astensione, in cui staziona un settore molto ampio di elettori di centrosinistra.

Per il Pdl: l'elettorato orientato verso l'Udc (ampio, ma anche molto incerto) e quello attratto dalla Destra (delimitato, ma territorialmente concentrato e in sensibile crescita, nelle ultime settimane).
Per questo riteniamo che la campagna elettorale, nelle prossime settimane, sia destinata ad accendersi, assumendo toni più aspri.
Soprattutto per iniziativa di Berlusconi, che, quando si muove in modo educato e felpato, come in questa fase, appare un po' legato.

Sicuramente più a disagio di Veltroni. Uno specialista nel recitare la parte del "buono". Mentre il Cavaliere dà il meglio di sé quando può liberare il suo "animal spirit". Guardare dritto negli occhi l'elettore. Il "suo" elettore. Dargli del tu.
Parlargli in modo diretto. Da imprenditore a imprenditore, da operaio a operaio, da ottimista a ottimista, da casalinga a casalinga. Da anticomunista ad anticomunista. D'altronde, il Cavaliere, ha già "strappato" rispetto allo stile ovattato delle settimane scorse. Non vuole sorprese. E sembra disposto a risvegliare l'antiberlusconismo. Che potrebbe convincere gli incerti di centrosinistra a "votare". In modo "utile": per il Pd.

Erigendo di nuovo il muro di Arcore, però, Berlusconi rivolgerebbe agli elettori orientati a votare per l'Udc e per la Destra un messaggio esplicito.
Non c'è alternativa possibile, fra il Pdl e la sinistra.
Naturalmente, potremmo sbagliare. La campagna potrebbe riprendere come prima - noiosa e politicamente corretta. Soprattutto se, come dicono i sondaggi commissionati da Berlusconi, la partita fosse davvero chiusa e senza speranza per gli avversari. In questo caso, non ci sarebbe motivo di alzare la voce, spaventare i moderati, gridare al lupo e al comunista. Né di tuonare - ogni giorno - contro i sondaggi taroccati (quelli degli altri).

Per quel che ci riguarda, per rispondere alle polemiche sull'argomento (sollevate non solo da Berlusconi), preferiamo ricorrere alle parole dell'Uomo Comune disegnato da Altan, qualche giorno fa, sulla prima della Repubblica.
Alla richiesta di un sondaggista, intenzionato a intervistarlo, reagisce: "Sì. Ma l'avverto che alla mia risposta non ci credo". Perché i sondaggi non prevedono il futuro. Al massimo il presente. Non anticipano le decisioni degli elettori. Ma solo le intenzioni.


(13 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 18, 2008, 12:20:28 am »

POLITICA MAPPE

Alla destra del padre

di ILVO DIAMANTI


FRA Chiesa e politica il rapporto, da qualche anno, è più complesso e conflittuale. Soprattutto da quando è divenuto Papa Joseph Ratzinger. Attento a marcare i confini dell'identità cattolica, in modo costante.

Nella difesa della famiglia, della vita, nel rapporto fra scienza e morale. Per questo è interessante capire in che misura la "questione cattolica" si rifletta sull'orientamento degli elettori, in vista del voto del 13-14 aprile. Il sondaggio condotto da Demos per "la Repubblica" suggerisce che le polemiche degli ultimi mesi non abbiano provocato fratture evidenti negli atteggiamenti dei cittadini.

La fiducia nei confronti di Papa Benedetto XVI è sullo stesso livello di un anno fa. Anzi: è salita un poco. (Oggi è espressa da oltre il 55% degli italiani. Giovanni Paolo II era 20 punti sopra. Ma è difficile mettere a confronto un Papa-teologo con un Papa-pastore, icona della sofferenza).

Il credito attribuito alla Chiesa: è calato lievemente, negli ultimi due anni (anch'esso si è attestato intorno al 55%), ma è risalito rispetto allo scorso novembre.
L'insegnamento della Chiesa, inoltre, continua ad essere considerato importante, per la morale e per la vita delle persone. Ma si tratta di un riferimento. Che gli individui interpretano e praticano in modo autonomo, in base alla propria coscienza. Ciò conferma la religiosità flessibile degli italiani. Che trattano Dio in modo "relativo". Attribuendogli, però, uno spazio centrale nella loro vita. Nel loro orizzonte di valori. Lo vediamo anche nel rapporto con la politica. Da cui, secondo la maggioranza degli intervistati, la Chiesa dovrebbe tenersi fuori. Limitandosi a intervenire sulle questioni che riguardano da vicino la religione. Gran parte degli italiani ritiene, inoltre, che gli uomini politici si facciano influenzare troppo dalla Chiesa.

Tuttavia, è diffusa anche la convinzione che, oggi, l'intervento ecclesiastico non sia eccessivo. Nell'ambito politico e legislativo. Nell'ambito scientifico e medico. Sui temi stessi che riguardano la vita e la morte. Tutte le materie che tante polemiche hanno sollevato, negli ultimi mesi. Insomma, la Chiesa non dovrebbe "fare politica". Però, secondo gran parte degli italiani, oggi ciò non avviene. L'intervento del Pontefice e dei vescovi su temi di rilievo sociale e morale non è considerato uno "sconfinamento". Se non presso un settore rilevante, ma, comunque, minoritario della società (fra il 26% e il 37%).

Nella realtà, però, gli effetti delle posizioni assunte della gerarchia cattolica si colgono, evidenti, sugli orientamenti dei cittadini. Il 45% degli italiani si dice contrario al riconoscimento delle coppie di fatto, oggetto di due diversi progetti del governo dell'Unione, mai tradotti in legge (ma era il 34% nel 2006 e il 41% un anno fa). Una minoranza, ma molto ampia.
Cresciuta, nel corso degli ultimi anni. Così come è ampia anche la "minoranza" contraria all'eutanasia (anche in questo caso, 45%: un anno fa era il 41%).

Molto più ridotta è, invece, la componente degli italiani (30%) che ritengono giusto modificare l'attuale legge sull'aborto in senso più restrittivo. Le ragioni che hanno imposto questi temi all'attenzione dell'opinione pubblica, contribuendo a modificarne gli atteggiamenti, però, non vanno ridotti alla sola azione della Chiesa. Altri soggetti hanno contribuito a imporli all'agenda politica e dei partiti. (Lo ha ben chiarito Sandro Magister, sull'"Espresso"). Comitati, media, leader d'opinione. In molti casi laici. Come "Il Foglio" e Giuliano Ferrara. Inoltre, gli stessi partiti. Il centrodestra, ad esempio, ne ha fatto un argomento per marcare le distanze dal centrosinistra; e per allargarne le divisioni interne.

Anche per questi motivi il voto dei cattolici si distribuisce in modo diseguale, fra i partiti. Certo, è finita l'epoca della Dc, che ne attraeva una larghissima maggioranza (lo ha rammentato ieri anche Piero Ignazi, sul Sole 24 Ore). Ma è finita anche la fase (1994-2001) in cui i cattolici votavano in modo proporzionale, tra gli schieramenti. Alle elezioni del 2006, infatti, la maggioranza dei cattolici (praticanti) ha votato per il centrodestra. Circa sei su dieci. Oggi, alla vigilia delle elezioni, la tendenza sembra confermata e, in qualche misura, accentuata. Anche se l'offerta politica è cambiata, con la formazione di due nuovi, grandi partiti. Infatti, meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per i partiti che sostengono Veltroni (Pd e Idv), oltre metà per i partiti che candidano Berlusconi (Pdl, Lega e Mpa). Allo svantaggio del Pd e degli alleati contribuisce, come abbiamo detto, l'eredità dei conflitti "etici" degli ultimi anni. Ma conta, in qualche misura, anche l'ingresso, nelle liste del Pd, dei radicali. Ritenuti - dagli elettori - "i più lontani dai valori cattolici". Per quanto abbiano rinunciato al simbolo di partito: la loro identità culturale è troppo marcata. Non hanno bisogno di etichette per ribadirla.

Tuttavia, anche questa "risacca" del voto cattolico, scivolato dal Pd, avviene in modo inerziale. Senza fratture. D'altronde, in questa campagna elettorale, il rapporto con la Chiesa, gli stessi temi etici sono rimasti sullo sfondo. Affidati alla rappresentanza di soggetti politici caratterizzati. Come la "Lista per la vita" di Giuliano Ferrara. Il fatto è che i cattolici (praticanti) oggi - nella società italiana, ma anche nei maggiori partiti - sono una minoranza. Influente, ma comunque una minoranza. Per questo i partiti preferiscono evocarne le domande. Ma senza enfatizzarle. Per evitare divisioni, che si riprodurrebbero anche al loro interno. La Chiesa stessa non ha interesse a fare campagna elettorale a sostegno di una specifica forza politica. Vista la presenza trasversale dei cattolici, nei principali partiti. Preferisce attendere. Per esercitare la sua influenza sul dibattito politico e sul processo legislativo. Dopo il voto.

D'altronde, altri sono i problemi che attirano l'attenzione degli elettori, in questa fase. Le retribuzioni, la disoccupazione, le tasse. La sicurezza. In una lista di dieci tematiche da affrontare, gli italiani pongono "la tutela della vita, contro l'aborto" al nono posto (2,8%). La "difesa dell'identità religiosa" al decimo (2,7%). Fra i cattolici praticanti, questi due obiettivi di valore ottengono maggiore attenzione (li segnala circa il 3,5% degli intervistati). Ma restano, comunque, gli ultimi della lista. Il che, ovviamente, non ne svaluta il significato. Ma la rilevanza "congiunturale", in quanto temi da spendere in questa campagna elettorale. Che non sembra attraversata da una nuova, lacerante "questione cattolica". Ma, sin qui, da questioni e divinità minori. D'altra parte, in tempi come questi, bisogna accontentarsi.

(17 marzo 2008)
 
da repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 22, 2008, 07:29:03 pm »

POLITICA MAPPE

Nella "periferia sociale" allargata nuovi ostacoli alla sfida riformista

di ILVO DIAMANTI


IL DECLINO incombe, sul nostro Paese, da molti anni. Al di là delle misure e delle statistiche economiche (peraltro, poco confortanti). E' un sentimento condiviso. Il "senso del declino": accorcia il futuro, annebbia l'orizzonte. Influenza gli atteggiamenti verso la politica e le istituzioni.

E' emerso all'inizio del decennio. Negli anni del governo Berlusconi è cresciuto, impetuoso. Trasferendosi, violento, nella breve esperienza del governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi. Pregiudicandone il consenso e l'azione. Anche per questo Veltroni ha preferito proiettare la campagna sul futuro. Puntare sul "nuovo". Presentando il Pd e se stesso come elementi di discontinuità. L'Osservatorio sul Capitale sociale curato da Demos-Coop, tuttavia, mostra quanto sia difficile rimuovere il passato. Che lascia tracce indelebili negli orientamenti sociali.

Oltre metà degli italiani, infatti, considera peggiorata la propria situazione economica personale, nell'ultima fase. Nel 2006 questa sensazione veniva ammessa da (circa) una persona su tre. Per contro, oggi solo il 13% ritiene che la propria situazione sia migliorata. Dieci punti percentuali in meno rispetto a due anni fa.

Il declino si riflette, visibilmente, sulla mobilità sociale percepita. Che appare tutta in discesa. Una smobilitazione di classe. Di conseguenza, la componente di quanti si collocano nella "classe operaia" e fra i "ceti popolari" cresce sensibilmente. Fino a raggiungere il 46%. Quasi la metà della popolazione. Sei punti in più rispetto a due anni fa. Coincidono con il parallelo calo dei "ceti medi". Mentre lo strato di coloro che si definiscono classe superiore, oppure borghesia, resta sostanzialmente stabile. Circoscritto al 5% circa. Così, svanisce l'idea di una società in cui le classi "periferiche" si stessero riducendo. A solo vantaggio del corpo intermedio della società. Sempre più gonfio.

Oggi, invece, si assiste a una crescita rilevante dei ceti popolari. Nei quali scivola gran parte degli operai comuni, ma anche qualificati. Inoltre, una parte estesa di pensionati e casalinghe (circa la metà). Infine, settori ampi di artigiani e commercianti. A conferma che il lavoro autonomo nasconde situazioni e condizioni molto diverse. Segnate, in molti casi, da un senso di precarietà reale.

Oltre metà degli italiani guarda il futuro con inquietudine. Lo vede carico di rischi. Non si sente di "investire". Ragionevolmente, visto che le risorse sono scarse. Il potere d'acquisto dei redditi (soprattutto da lavoro dipendente) è stato eroso da un'inflazione crescente.

Di conseguenza, la relazione fra posizione sociale soggettiva, da un lato, e senso del declino, dall'altro, appare stretta. La quota di persone che ritengono peggiorata la condizione economica personale è massima fra quanti si collocano nella classe operaia e fra i ceti popolari (oltre il 60%). Quindi, tra i lavoratori dipendenti del privato, fra i pensionati e le casalinghe. Ma è alta anche fra quanti si definiscono "ceto medio". Mentre, al contrario, quasi un terzo di coloro che si posizionano nella borghesia e nella classe dirigente ritiene di aver migliorato la propria condizione.

Facciamo riferimento, vale la pena rammentarlo, a "percezioni". Che, tuttavia, appaiono coerenti con le indicazioni fornite dalle statistiche sui redditi e sui consumi. Insieme, confermano come in Italia la distanza fra le classi e i ceti sociali sia aumentata. A tutto svantaggio dei lavoratori dipendenti a reddito fisso e del lavoro autonomo più marginale (spesso lavoro dipendente mascherato).

Gli orientamenti di voto riflettono questi sentimenti. Il "senso di declino" deprime il consenso per chi ha governato, negli ultimi anni. Di conseguenza, penalizza il centrosinistra. Soprattutto il Pd. Mentre il Pdl (insieme alla Lega) ne trae slancio. L'analisi del voto in base alla posizione sociale effettiva (attività professionale) conferma con chiarezza questa idea.

Il Pd raccoglie i maggiori consensi nel ceto medio "dipendente". In particolare, nelle professioni intellettuali (gli insegnanti) e tra gli occupati del settore pubblico, dove supera il Pdl di oltre 20 punti. Inoltre, prevale fra gli studenti (di 6 punti). Infine, tra i pensionati (+ 8 punti), come era emerso nel 2006 (lo ha messo in luce Roberto Biorcio, nel volume di Itanes, "Dov'è la vittoria?", Il Mulino, 2006). Sulla spinta dell'insoddisfazione provocata dalla riforma previdenziale varata dal governo di centrodestra. (Rilanciata e, poi, smentita da Berlusconi anche nei giorni scorsi).

Il Pdl, invece, sovrasta il Pd fra i liberi professionisti (di 25 punti), fra i lavoratori autonomi e gli imprenditori (addirittura 35). Ma lo supera anche fra gli impiegati privati (di poco) e perfino (in misura più rilevante: 14 punti in più) tra gli operai. In quest'ultimo caso, si tratta di un ritorno alla normalità, dopo la parentesi del 2006, quando il voto dei lavoratori dipendenti si era distribuito equamente tra Cdl e Unione. Che, anche per questo motivo, era riuscita a vincere le elezioni. Oggi tendono a spostarsi di nuovo a destra (com'era avvenuto in precedenza, fino al 2001), spinti dal senso di declino che li affligge. Infine, il Pdl risulta forte fra le casalinghe (23 punti più del Pd, insieme a Di Pietro). Da sempre "fedeli" a Berlusconi.

Questi dati mostrano come nella base sociale del voto, oggi, coesistano elementi di continuità e di cambiamento, altrettanto evidenti.

1. Le "costanti" del comportamento elettorale riguardano la doppia frattura che, da tempo, attraversa gli elettori in Italia: tra lavoro indipendente e dipendente; fra pubblico e privato. I lavoratori indipendenti (imprenditori, autonomi, liberi professionisti) e quelli del privato (compresi gli operai) sono maggiormente orientati a destra. Mentre votano prevalentemente a sinistra i dipendenti pubblici - soprattutto gli impiegati e le figure "intellettuali". Oltre agli studenti e, da qualche anno, i pensionati.

2. I cambiamenti si collegano, invece, all'offerta politica. Il Pd, infatti, in questa occasione si presenta da solo. Il che ne riduce il consenso nei ceti popolari. A causa della concorrenza della Sinistra Arcobaleno, che esprime un buon grado di attrazione fra gli operai, ma anche fra gli impiegati. Per contro, fra gli operai e i lavoratori autonomi del Nord, è forte l'incidenza elettorale della Lega, stimata fra il 10 e il 14%. L'Udc, infine, appare competitiva soprattutto fra i pensionati.

Osservate con gli occhiali della struttura e della dinamica sociale, queste elezioni delineano un passaggio ancora incompiuto. Il passato non è ancora passato. E il futuro non appare chiaro, agli elettori. Che guardano le novità con interesse e curiosità. Ma, poi, seguono la scia delle continuità. Per cui la base sociale del Pdl riproduce, fedelmente, il calco impresso da Berlusconi, da sempre. Mentre il Pd di Veltroni, che più degli altri ha innovato, fa emergere un profilo sociale ancora incerto. A metà strada, fra passato e futuro. Il Pd. Sconta l'antica diffidenza della borghesia privata - grande e soprattutto piccola e media. Ma subisce lo sconcerto dei ceti popolari: colpiti dal declino, preoccupati dal verbo riformista recitato da Veltroni. D'altronde, le sfide del cambiamento non sono mai facili. Soprattutto quando il tempo a disposizione, davanti, è poco. Mentre il passato di cui ci si vuole liberare: è eterno. Non è ancora finito.

(21 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 23, 2008, 12:14:00 pm »

POLITICA

Il sondaggio Demos&Pi. Trend invertito rispetto alle ultime due elezioni politiche

Per il futuro previsioni "nere". Il 63% dice: staranno peggio dei genitori

Voto, giovani tentati dalla destra

Pdl e Lega avanti di 5 punti

di ILVO DIAMANTI


 Raramente, nel corso delle campagne elettorali, abbiamo sentito parlare, tanto spesso, di "giovani". E di giovinezza, gioventù. Raramente, in precedenza, i "giovani" sono stati esibiti, in modo altrettanto vistoso.

Come vessilli, feticci, bandiere. Testimonial della volontà dei partiti di cambiare. Se stessi. E, più in generale, la società. Incapace di rinnovarsi. Monca del futuro.

I giovani, da parte loro, seguono con attenzione la campagna elettorale sui media. Ne discutono in famiglia e con gli amici. Quasi metà di essi (fra 18 e 29 anni) afferma di interessarsi (molto o abbastanza) di politica, in questa fase. Dieci punti in più rispetto alla media generale degli elettori (indagine Demos, condotta nei giorni scorsi). Non è un caso che il tasso di incertezza elettorale, fra i giovani, sia il più basso, nella popolazione (lo conferma Renato Mannheimer, sul Corriere della Sera).

D'altronde, nell'ultimo decennio, hanno espresso grande capacità di mobilitarsi, su tematiche diverse: la scuola, il lavoro, la pace, la solidarietà. Un'abitudine che sembrano non aver perduto. Visto che, per migliorare la società, considerano utile (sondaggio Demos) partecipare a manifestazioni, impegnarsi nel mondo associativo e, perfino, nei partiti.
Tuttavia, negli ultimi anni il loro orientamento politico pare cambiato. Non rovesciato, intendiamoci. Piuttosto, modificato. Negli anni Novanta, infatti, il voto giovanile si era spostato decisamente a sinistra. In particolar modo (come hanno mostrato, in modo esplicito, le indagini di Itanes), alle elezioni del 2001 e, in misura più limitata, nel 2006.

Oggi, alla vigilia delle elezioni, si assiste a un sostanziale riallineamento tra le diverse posizioni. Fra i giovani (18-29 anni), infatti, prevale - di poco - l'alleanza guidata dal Pdl. Che supera di circa 5 punti quella guidata dal Pd (indicazioni coerenti provengono da sondaggi di Ipsos ed Eurisko). I due partiti maggiori, in effetti, si equivalgono. Per cui la distanza è determinata dagli apparentamenti. La base giovanile della Lega, infatti, è molto più consistente rispetto a quella dell'Italia dei valori. Non va trascurato, inoltre, che, fra i giovani, la Sinistra Arcobaleno - due anni fa alleata dell'Ulivo - dispone di un consenso rilevante: intorno all'8%.

L'esperienza del lavoro, secondo tradizione, sposta l'orientamento elettorale dei giovani verso destra. La condizione di studenti e un titolo di studio elevato spingono, invece, il voto più a sinistra. Ma in misura meno rilevante, rispetto al passato recente (rilevato dalle indagini di Itanes).

Fra coloro che votano per la prima volta, infine, il Pd e la Sinistra risalgono. Le distanze tra Berlusconi e Veltroni si annullano. Ciò suggerisce come lo slittamento a destra riguardi i giovani "più vecchi".
Per alcune ragioni, che proviamo a elencare.
1. Insieme all'età, matura l'esperienza di lavoro. E lavorare (per quanto possa apparire singolare), soprattutto nel privato, induce a votare (maggiormente) a destra. D'altronde, il lavoro nel privato si svolge, ormai, prevalentemente in aziende di piccola dimensione. Inoltre, i giovani passano attraverso esperienze informali, individuali e intermittenti. Lontano dal sindacato. Peraltro, nel lavoro si sono affermati significati, valori e attori esterni alla sinistra: la flessibilità, l'imprenditorialità; Berlusconi.

2. Negli ultimi anni, soprattutto dopo le elezioni del 2006, la società italiana è stata scossa da un vero "collasso del futuro", che ha visto i giovani protagonisti - involontari e controvoglia. Oggi, infatti, quasi due italiani su tre ritengono che i giovani, nel prossimo futuro, avranno una posizione sociale ed economica "peggiore" rispetto ai loro genitori. Quindici punti più di due anni fa. Parallelamente, si è diffusa la (ragionevole) convinzione che la società impedisca ai giovani di occupare uno spazio adeguato alle loro aspettative e alle loro capacità. D'altronde, 7 italiani (e altrettanti giovani) su 10 non ritengono necessario conseguire una laurea per accedere a un'attività professionale remunerativa. La maggioranza delle persone (60%), invece, pensa che per trovare lavoro e fare carriera occorra ricorrere a raccomandazioni. Fra i più giovani questa convinzione è ancor più condivisa (66%). Il senso del declino, che ha investito gli italiani, dunque, opprime i più giovani in modo particolare. Perché hanno il futuro davanti. Ma a loro appare un muro, difficile da valicare. Ciò li ha resi diffidenti verso i partiti. Soprattutto verso il governo di centrosinistra che li ha definiti "bamboccioni". (Anche se per denunciare le colpe degli adulti).

3. L'antipolitica ha investito la politica e i partiti. Tutti. Ma in particolare quelli di centrosinistra, la cui base si è dimostrata, da subito, sensibile alla protesta del V-day. Il cui leader, Beppe Grillo, ottiene il consenso più ampio fra i giovani (soprattutto sopra i 25 anni). Anche per questo il peso degli elettori incerti oppure intenzionati ad astenersi, fra i giovani che nel 2006 avevano votato per l'Ulivo, è molto superiore alla media.
Nel complesso, i giovani, oggi, non stanno a destra e neppure a sinistra. Il loro "spirito radicale" si esprime nell'antipolitica piuttosto che nel voto a partiti antagonisti. Non hanno scelto il riflusso nel privato, ma dimostrano un interesse politico elevato. Non rivelano, come nel passato, più o meno recente, orientamenti di voto distinti. Semmai, indistinti. Magari un po' sperduti, in questa società che rifiuta di diventare adulta. Visto che la giovinezza, secondo gli italiani, finisce a 36 anni. Ma, secondo i più anziani (65 anni e oltre), a 40.
La gioventù diventa, così, una condizione "eterna", che si dilata nel tempo e nella società. E se tutti sono giovani, per sempre, alla fine i giovani diventano un mito. Una leggenda. Una generazione invisibile. Evocata, proprio per questo, in modo incessante. Una razza protetta, a rischio di estinzione. Controllata a vista. Esibita, talvolta (nelle liste). Come i panda.

(23 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Aprile 06, 2008, 10:45:50 am »

POLITICA Mappe

Quanto conta il voto del partito di chi non vota

ILVO DIAMANTI


Alle legislative del 2006, oltre il 15% degli elettori dichiararono di aver deciso per quale partito votare nell'ultima settimana. Il 6% il giorno stesso (indagine postelettorale di LaPolis, Università di Urbino). In pratica, nel tragitto fra casa e il seggio. Magari: in cabina, aprendo la scheda. Perché la scelta di voto non è un atto scontato. Le radicate fedeltà di un tempo, nel tempo, si sono sfaldate. Insieme ai partiti intorno a cui si erano formate. Poi, non bisogna credere che tutte le persone siano egualmente interessate alla politica. Al contrario: è vista dai più con indifferenza e, talora, con fastidio. Per cui, non si deve pretendere che fin dal primo giorno di campagna elettorale tutti gli elettori si chiedano - e sappiano - per chi votare.

In numerosi casi, peraltro, le convinzioni cambiano. Anche quando sembrano solide. L'elettore deciso a cambiare, al momento del voto, spesso ritorna sui suoi passi. Oppure, viceversa: l'elettore privo di dubbi, al momento del voto, di fronte alla scheda decide di svoltare. Un segno e via.

Naturalmente, ogni elezione fa storia a sé. Le politiche del 2006 si tradussero in una sorta di scontro bellico-mediatico, che infiammò la campagna. Così, Berlusconi mobilitò molti elettori di centrodestra, affetti dalla delusione e dall'apatia. Questa volta il discorso è diverso. La campagna elettorale appare più apatica degli elettori. I due principali candidati alla vittoria finale intenzionati a confrontarsi solo a distanza. Degli scontri di due anni fa, oggi, risuonano solo echi lontani. In tivù, ormai, passano perlopiù i candidati degli altri partiti, alla caccia di visibilità. E del quorum.

Per cui è probabile che la quota di coloro che ancora non hanno deciso oppure, più semplicemente, non si sono ancora posti il problema, sia più ampia di due anni fa. Molto più ampia, diremmo. Anche perché, rispetto al passato, è cambiata l'offerta politica. I partiti, le sigle, le coalizioni. Molti elettori non hanno ancora compreso le novità e i cambiamenti di questa fase. Altri, invece, non le hanno metabolizzate; stentano ad accettarle. Per cui, la quota degli incerti, a una settimana dal voto, è alta. Crediamo che si estenda a poco meno di tre elettori su dieci. Non abbiamo dati precisi; ma, soprattutto, non li possiamo dare. Per par condicio. Per cui, ragioniamo a spanne.

Un terzo di questi "elettori in bilico" sono distaccati, estranei alla politica. Non è improbabile che, alla fine, se la giornata è bella - e forse anche se il tempo è brutto - si scordino di votare. I rimanenti "elettori in bilico" si dividono a metà, tra indecisi e (potenziali) astensionisti. In altri termini: fra elettori che non hanno deciso "per chi" oppure "se" votare. In entrambi i casi, prevalgono coloro che, nel 2006, avevano votato per il centro-sinistra. Soprattutto per la lista dell'Ulivo. Ma è significativo anche il peso degli elettori di centro.

Gli elettori incerti, perlopiù, sono orientati da una "certezza inconsapevole". Al momento del voto, in altri termini, esprimeranno la scelta di sempre (lo hanno sottolineato, fra gli altri, Pagnoncelli, Vannucci e Natale). Basta offrire loro una buona ragione. Diverso è il discorso degli astensionisti. I quali, in questa occasione, si presentano in modo parzialmente nuovo e diverso rispetto alle elezioni precedenti. In quanto non si esauriscono nei tipi tradizionali.

Nell'astensionista marginale: estraneo alla politica anche perché socialmente periferico. Oppure nell'elettore indifferente, che, se risvegliato, si colloca perlopiù a destra.

In questa fase, invece, appare particolarmente esteso un atteggiamento di "astensione attiva". Spesso dichiarata. Proclamata. Espressa, ripetiamo, soprattutto da elettori di centrosinistra. Informati, spesso politicamente coinvolti. Facendo riferimento ad alcune indagini condotte in questa fase (da Demos, Ipsos e SWG), possiamo individuare tre tipi principali.

a) I "vaffa". Considerano il Pd uguale agli altri partiti. Perché non ha rinunciato ai privilegi della Casta. Ha mantenuto in lista troppi esponenti della nomenclatura, qualche indagato e molti volti nuovi di cui non si sentiva il bisogno.

b) I "tradizionalisti". Fedeli alle tradizioni politiche più radicate. Ex-comunisti ed ex-democristiani. Oppure: ex-diessini e popolari. Non si capacitano, di fronte a un soggetto politico nuovo, come il Pd. Che, per scelta, ha reciso i legami con il passato. E guarda altrove: all'America, all'Inghilterra di Blair. O, peggio, all'Italia di Berlusconi. A maggior ragione, stentano a riconoscersi nel "melting pot" della Sinistra Arcobaleno.

c) I "radical". Sofisticati, considerano l'approccio del Pd di Veltroni troppo frivolo e mite. Troppo dissociato. Troppo incline alla filosofia del "ma anche". Troppo pop. Meglio: nazionalpopolare. Scarsamente laico. Troppo lib e poco lab. Stressato fra la Binetti e Calearo.
Per gran parte di questi elettori, l'astensione è una scelta. Il "voto di chi non vota" (efficace titolo di un volume curato da Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino, pubblicato anni fa dal Mulino).

Questi tre tipi di astensionisti risultano, tutti, attraversati da un sentimento comune e condiviso. La frustrazione prodotta dall'assenza del Nemico. Dalla scomparsa di Berlusconi dal discorso politico di Veltroni. Che ha rinunciato perfino a nominarlo. Usa perifrasi, come: "il principale esponente dello schieramento a noi avverso". E lo fa in modo aperto e provocatorio. Per marcare la distanza dal centrosinistra passato (più o meno prossimo). Che aveva costruito vittorie e sconfitte sulla figura del Cavaliere. Sull'Antiberlusconismo. Fino a divenirne gregario.

Per cui Veltroni prosegue, senza esitazioni, questa campagna elettorale "irenica", come l'ha definita, con un po' d'ironia, Giovanni Sartori (sul Corriere della Sera). Toni bassi, rinuncia a temi dominanti e laceranti, pluralità tematica. Berlusconi trasformato nel "Cavaliere inesistente". L'Innominato. In questo modo, il leader del Pd, dopo aver eroso (secondo i sondaggi) la base della Sinistra, si rivolge agli elettori moderati. In altri termini: approfittando degli attacchi lanciati da Berlusconi contro l'UdC, in nome del "voto utile", cerca di spingere gli elettori di centro verso il Pd.

In questo modo, però, alimenta la tentazione astensionista, nella sua base. Delusa dall'esperienza di governo, ma anche da una campagna elettorale sottotraccia.

L'esito delle elezioni, domenica prossima, dipenderà, in misura significativa, dal "voto di chi non vota". Il risultato del Pd, in particolare, pare destinato a migliorare quanto più il livello di partecipazione elettorale crescerà, avvicinandosi all'84% raggiunto due anni fa.

Da ciò, un duplice quesito.
1) A Walter Veltroni: se sia possibile dissipare l'incertezza e la voglia di astensione, diffuse nella sua base, senza deviare, nemmeno per sbaglio, il suo viaggio su Arcore. Senza sfidare apertamente il Cavaliere. Come in ogni battaglia - o, se si preferisce, competizione - elettorale che si rispetti.

2) Agli elettori tentati dall'astensione attiva. Ai "vaffa", ai "tradizionalisti" e ai "radical". Se sia davvero inattuale il paradigma montanelliano, che invita a turarsi il naso e a votare il "meno peggio". Per non contribuire, con il loro (non) voto consapevole, a consegnare il governo del Paese nelle mani dell'Innominato.

(6 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 13, 2008, 02:44:13 pm »

POLITICA MAPPE

Siamo stanchi di miracoli

di ILVO DIAMANTI


Riflettere sul voto il giorno in cui si vota rischia di essere frustrante. Per chi scrive e per chi legge. Nel giorno del voto si attende solo l'esito del voto. Il dopo. Sul "prima" è stato detto tutto quel che c'era da dire. Semmai, qualcosa di più. Ma questa volta la frustrazione dell'analista, se possibile, supera le occasioni precedenti. Per due ragioni, almeno.
La prima: si ha l'impressione di assistere al secondo turno delle elezioni del 2006. Che si svolge non due settimane, ma due anni dopo. L'equilibrio sostanziale del voto, alla Camera; la mancanza di una maggioranza reale al Senato: hanno costretto Prodi quasi a "fingere" di governare.

Un tentativo generoso quanto improbabile. Assediato dall'esterno e dall'interno. Dall'opposizione di Berlusconi, che ha continuato a "disconoscere" la legittimità del risultato. E dai sedicenti alleati, mossi da fini particolari e particolaristici, alla ricerca continua di visibilità e distinzione.

La seconda ragione che rende difficile presentare questa consultazione riguarda l'incertezza. (a) Quella degli elettori, che continua ad essere alta. D'altronde, due anni fa il 9% dichiarò di aver deciso per chi votare nelle ultime 24 ore. Il 6% il giorno stesso. E questa volta l'indecisione è accentuata, in parte, dalle novità dell'offerta politica. Partiti nuovi, sigle nuove, alleanze nuove. (b) L'incertezza degli analisti, degli esperti di opinione pubblica, dei pollster (sondaggisti). Mai come in questa occasione i sondaggi sono stati citati, presentati e pubblicati un po' dovunque. Da sigle e figure note e da altre meno note. Alcune perfino ignote. Usati dai candidati in campagna elettorale, come strumenti di persuasione. Branditi come armi di propaganda. O ancora: ripudiati. Sondaggi e sondaggisti. A seconda dell'interesse e dell'opportunità. Anche a prescindere dagli abusi che hanno contrassegnato il ricorso ai sondaggi, è diffusa, fra gli esperti, l'impressione che al fondo della decisione di voto vi sia un fondo difficile da esplorare. Irraggiungibile a ogni tentativo di scavo. Non solo per imperfezioni e imprecisioni metodologiche. Perché, più semplicemente, molti elettori, alla fine, decidono diversamente da come pensavano solo pochi giorni prima. Perché, inoltre, in molti casi oppongono un atteggiamento reticente a chi si propone di sondare la loro scelta. Talora - non di rado - mentono.
D'altronde, diversamente da altrove, in Italia il voto continua a marcare l'identità personale. Un segno di riconoscimento. E di stigmatizzazione.

Per cui, incerti gli elettori, gli analisti e i sondaggisti: l'esercizio di pre-vedere diventa frustrante. Molto meglio, allora, vedere. Dopo che l'esito sarà più chiaro.

Più che riproporre bilanci oppure lanciare appelli (non ne saremmo capaci), dunque, di questa elezione sembra utile sottolineare i numerosi, rilevanti elementi di novità proposti. Insieme alla continuità di fondo che li lega.

1) In queste elezioni si sperimenta la capacità di attrazione di due nuovi partiti "larghi": Pd e Pdl. Due contenitori, in cui convergono identità, componenti sociali, interessi e culture differenti. Due partiti maggioritari e personalizzati. Presidenziali, diremmo. Un modello imposto dal Pd, alle primarie dello scorso ottobre. Dopo un cammino lungo 12 anni. E riprodotto, in fretta, da Berlusconi, un mese dopo, con il Pdl. Non solo per il timore di recitare la parte del "vecchio avanzato"; lui, che, dopo il crollo della prima Repubblica, ha interpretato "il nuovo che avanza". Anche perché, in questo modo, ha potuto allargare il suo "partito personale", facendo confluire, nel medesimo alveo, An accanto a Fi. Senza congressi, dibattiti, confronti. Senza consultazioni né primarie. Così: con un colpo d'ala. Secondo lo stile - e il temperamento - del Cavaliere.

2) Nuovo appare anche l'orientamento della campagna elettorale. Per la prima volta, dal 1994 a oggi, non ha riprodotto i toni e l'andamento di una campagna militare. Anzi, semmai, è apparsa un po' pallida. Sottovoce. Rutilante solo per quel che riguarda le promesse promesse. Tante, troppe. Spesso poco credibili. Comunque, poco fondate. Una campagna sottotraccia. Fino alla vigilia. A una settimana dal voto. Quando il Cavaliere ha ceduto alla sua indole. È tornato il Caimano. In pochi giorni, ha attaccato Di Pietro e i magistrati. Le istituzioni ostili. Ha suggerito (come "ipotesi di scuola", ovviamente) le dimissioni di Napolitano. Si è, finalmente, liberato dell'atteggiamento "educato" verso Veltroni e il Pd. Ultimi eredi - mascherati - della tradizione comunista. Ha permesso, in questo modo, a Walter di smettere, per un momento, il volto sorridente di Obama. E di usare, come un'arma, lo stile politicamente corretto. Marcando la distanza fra Obama e il Caimano.

3) Decisamente nuovi, infine, gli attori. Il confronto personale, infatti, non ha opposto Berlusconi a Prodi. Per la prima volta, dal 1994. Perché, anche nel 2001, quando il centrosinistra candidò Rutelli, si percepiva l'ombra lunga di Prodi. Il leader dell'Ulivo. Ma oggi il professore è fuori gioco. Il leader del Pd è Veltroni. Il che costituisce una novità. Come è nuova la presenza autonoma di altri leader. Casini: fino ad oggi fedele a Berlusconi. Lo stesso Bertinotti. Il cui avversario da battere è la logica del voto utile. Impersonata da Veltroni.

4) Tante novità, tuttavia, avvengono dentro strutture politiche e normative largamente tradizionali, per non dire vecchie. È il paradosso italiano. L'ossimoro nazionale. Per cui partiti maggioritari, partiti personalizzati e quasi personali si sviluppano dentro una legge elettorale proporzionale e "partitocratica". Si assiste a una campagna di tipo presidenzialista, fra due candidati presidenziali: senza presidenzialismo. Alla sfida diretta, quasi "privata", fra Berlusconi e Veltroni: senza neppure un faccia a faccia in televisione. Si mira, esplicitamente, a superare l'antiberlusconismo, ad abbattere il muro di Arcore. Con la presenza e il contributo di Silvio Berlusconi. Inventore della seconda Repubblica; dal 1993, al centro della scena politica e di ogni competizione elettorale.

È proprio vero: noi italiani siamo "strani", come ha rammentato ieri Marc Lazar, sulle colonne di questo giornale. Confidiamo sempre della nostra proverbiale "arte di arrangiarci". Contiamo di cambiare tutto lasciando tutto uguale a prima. Bravi a reagire alle emergenze, noi italiani. A inventare qualcosa di nuovo, quando tutti ci danno per finiti. A sorprendere e a sorprenderci. In attesa di uomini della provvidenza, inviati (e, magari, unti) dal Signore.
Personalmente, però, saremmo stanchi di miracoli.

(13 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Aprile 16, 2008, 11:55:46 am »

POLITICA MAPPE

Sette punti persi dal centrosinistra

di ILVO DIAMANTI


 A leggere i titoli dei giornali di oggi c'è da stropicciarsi gli occhi. Pare di essere tornati indietro di 10-15 anni. Ai trionfi di Forza Italia e della Lega. Una marcia rapida verso il passato. Con la differenza che, allora, Lega e FI erano concorrenti. Alle elezioni del 1994: vinsero insieme, nel Polo delle Libertà. Ma FI cannibalizzò la Lega. Nel 1996 avvenne il contrario. La Lega corse da sola, contro il Polo. E sfondò, nel Nord, realizzando il maggiore risultato della sua storia. A spese di FI.
In queste elezioni, invece, la Lega si è affermata, anzi, ha trionfato alleandosi con FI e AN, confluiti nel Popolo della Libertà. L'ultima invenzione di Silvio Berlusconi. Non un leader, ma, come ha sottolineato Mauro Calise sul Mattino, "il capo". Un accordo vantaggioso per tutti. Il Pdl, nel Centrosud, ha, infatti, ampiamente recuperato i voti "ceduti", nel Nord, alla Lega. Che, peraltro, ha conquistato alla causa comune consensi che vanno molto al di là dei confini di centrodestra. Quanto alle forze politiche di centrosinistra, si tratta di una pesante sconfitta. Al di là delle attese. Disastrosa per la Sinistra Arcobaleno. Per capire perché e come sia avvenuto tutto ciò, conviene precisarne meglio le misure, le dinamiche, la geografia, la sociologia del risultato. In modo sommario e, necessariamente, approssimativo.

1. Il successo di Berlusconi è stato netto. La sua coalizione ha ottenuto oltre 17 milioni di voti alla Camera. Circa 3 milioni e mezzo in più dell'alleanza Pd e IdV, che sosteneva Veltroni. La quale prevale solo nelle regioni rosse (+14 punti percentuali). Inoltre, c'è equilibrio nelle regioni del Centrosud (Lazio, Abruzzo e Molise: +2 punti per il Cavaliere). Mentre nelle altre zone il successo di Berlusconi appare schiacciante: +17 punti nel Nordovest, +19 nel Nordest, +15 nel Mezzogiorno e nelle Isole. Difficile, per il centrosinistra, agitare la "questione settentrionale", questa volta. Perché altrettanto grave, per questa parte politica, risulta la "questione meridionale". D'altronde, nel Sud, la coalizione di Veltroni, rispetto al 2006, è cresciuta di un solo punto, grazie all'IdV.

2. Dal punto di vista territoriale, il Pdl è il primo partito in 67 province, il Pd in 35, la Lega in 6. Il Pd prevale nelle tradizionali regioni rosse (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche). Inoltre, nelle nuove regioni "rosa" del Centrosud: Molise e Basilicata. Mentre crolla in alcune regioni dove, negli ultimi dieci anni, si era consolidato. Fra tutte: la Campania.

3. La Lega si impone ovunque, nel Nord padano. Ma soprattutto nelle sue zone di origine. Nelle zone pedemontane, che hanno conosciuto negli ultimi vent'anni una grande crescita dell'economia di piccola impresa. Supera il 30% in 5 province: Sondrio, Verona, Bergamo, Vicenza e Treviso. Ma in altre 20 va oltre il 15. Da Belluno a Cuneo, passando per Brescia, Como e Varese. La stessa mappa del '92. Che, a sua volta, riassume la propagazione del voto leghista dal 1983 in poi. La sorpresa di chi continua a sorprendersi dei successi della Lega, a intervalli regolari, è, quindi, fuori luogo. Oggi è il partito che ha più storia tra quelli presenti in Italia. Viene da lontano. Ha quasi 30 anni. È radicato. Governa città e province. Nel 1993 (qualcuno lo dimentica) conquistò Milano.

4. Il Pdl è partito più forte in quasi tutto il Mezzogiorno, isole comprese. Soprattutto in Sicilia, dove raggiunge livelli elevatissimi. Ma è forte anche nel Nordovest. Ripercorre e riproduce la geografia e la biografia dei soci fondatori. FI, che, fin dall'origine, ha ottenuto le migliori performance nel Nordovest, lungo l'asse che collega Milano alla Liguria Occidentale; nelle isole, soprattutto in Sicilia; nella fascia tirrenica del Mezzogiorno. An: che ha ereditato e rafforzato il bacino elettorale del Msi, nel Centrosud, lungo l'asse che unisce il Lazio alla Puglia.

5. Malgrado il profondo rinnovamento dell'offerta politica degli ultimi mesi, quindi, la geografia del voto non è cambiata. Le fedeltà politiche territoriali degli italiani appaiono più forti di ogni influenza mediatica. Più vischiose di ogni personalizzazione.
La novità, semmai, è che la Lega, per la prima volta, ottiene un risultato travolgente insieme al centrodestra. Non "sola contro tutti". Probabilmente perché, in questi anni, ha potuto operare all'opposizione. La posizione che sa sfruttare meglio.

6. Infine, l'Udc ha tenuto il suo segmento di voti. Limitato, ma comunque stabile. Le forze politiche della Sinistra Arcobaleno, invece, hanno subito un vero tracollo. Hanno perduto il 7% su base nazionale. Nel 2006, avevano ottenuto oltre il 10% dei voti validi. Alle elezioni dei giorni scorsi, insieme, poco più del 3%. Oltre due milioni e mezzo di voti in meno.

7. Una voragine aperta nel centrosinistra. Che la coalizione guidata da Veltroni ha colmato in minima parte. IdV ha sicuramente ottenuto un buon risultato. Il 4,4%. Quasi il doppio rispetto a due anni fa. Quanto al Pd, se consideriamo insieme i partiti che ne fanno parte (oltre a Ds e Margherita, anche i Radicali e la lista dei Consumatori), rispetto al 2006 si osserva una crescita molto ridotta: meno di 1 punto percentuale. Che si realizza soprattutto nelle zone rosse e nel Centrosud. Mentre nel Nord e nel Mezzogiorno è sostanzialmente fermo. Oppure perde qualcosa. In altri termini: il Pd ha intercettato i voti delle forze politiche che lo hanno promosso. Ma non è riuscito ad attrarre flussi aggiuntivi. Dal centro e soprattutto da sinistra.

8. Così, se consideriamo il bacino elettorale di destra e sinistra delineato dalla Cdl e dall'Unione nel 2006, oggi, il piatto della bilancia pende decisamente a destra. In particolare, i voti delle forze politiche di centrosinistra (l'Unione), rispetto a due anni fa, sono calati di quasi 7 punti percentuali. Esattamente quelli perduti dalla Sa. Finiti, evidentemente, altrove. Insieme a molti socialisti. Se osserviamo i primi flussi elettorali (elaborati da Ipsos su dati aggregati, utilizzando il modello di Goodman), ne abbiamo conferma. Su 10 elettori dei partiti di sinistra radicale, infatti, sembra che meno di 3 siano rimasti fedeli, altri 2 abbiano votato per il Pd e IdV, seguendo il richiamo del voto utile. La metà di essi, invece, si è divisa equamente, fra l'astensione e altre formazioni politiche. In minima parte di estrema sinistra, soprattutto di centrodestra. Per il Pdl, nel Mezzogiorno. Per la Lega, in molte zone del Nord.
Non ci soffermiamo sulle ragioni politiche di questa diaspora. Ci limitiamo, invece, a sottolineare come contribuisca a enfatizzare un problema di rappresentanza e di prospettiva, già evidente in passato. Come hanno mostrato le indagini di Demos, pubblicate su Repubblica nelle ultime settimane, il Pd prevale, sotto il profilo elettorale, fra gli impiegati pubblici e i pensionati. Mentre il Pdl supera, nettamente, il Pd fra gli imprenditori, i lavoratori autonomi e i dipendenti del privato. Infine, tra i giovani (soprattutto se lavorano).

Da ciò l'interrogativo. Quale futuro può attendere una forza politica riformista di centrosinistra asserragliata nelle tradizionali regioni rosse? Straniera nel Nord e spaesata nel Mezzogiorno? Se non riesce a parlare ai più giovani, alle classi produttive? Ai ricchi e neppure ai più poveri?

(16 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Aprile 22, 2008, 12:06:29 pm »

POLITICA

Storia e geografia politica di un mondo che cerca una rivincita contro lo Stato

Quali sono i confini di un luogo che sembra totalmente diverso dal resto del Paese

Nord, tra il malessere e la ricchezza

Successo della Lega e futuro d'Italia

di ILVO DIAMANTI

 

Il Nord, ovviamente, esiste da sempre. In Italia, però, da una ventina d'anni, ne sono cambiate la definizione e la delimitazione. Oltre al significato. Aveva confini più larghi, un tempo. Oltre alle regioni al di sopra del Po, comprendeva l'Emilia Romagna, come, d'altronde, risulta ancora dalle pubblicazioni dell'Istat e degli altri organismi statistici.

Era identificato come luogo dello sviluppo di grande impresa, della metropoli. Per questo, gravitava su Torino. Vertice di un "triangolo industriale", che collegava, inoltre, Genova e Milano. Il resto era periferia. La provincia lombarda e piemontese, l'intero Nordest. Una campagna urbanizzata e industrializzata. Disseminata di piccole città e di piccole aziende artigiane. Prima o poi, sarebbero cresciute, le piccole imprese. Insieme alle piccole città. Avvicinandosi a Torino e alla Fiat. Questo si pensava, trent'anni fa.

Allora il Nord era definito anche in base alla geografia del potere politico. Che aveva il suo centro a Roma. Il Sud, invece, richiamava lo sviluppo arretrato e dipendente. Ma, insieme a Roma, "comandava". Garantiva il consenso elettorale, ma anche la classe politica, alle forze di governo. Da quell'epoca, molto è cambiato, nel Nord.

È cambiata la geografia economica. Torino non è più la capitale. Anche se si è ripresa, insieme alla Fiat. Da cui dipende molto meno di un tempo. I centri dello sviluppo, tuttavia, si sono spostati altrove. A Milano, metropoli di produzione dei beni immateriali (per citare Arnaldo Bagnasco). Nelle province pedemontane, che corrono a Nord del Nord e si tuffano nel Nordest. In vent'anni questa periferia si è industrializzata e urbanizzata come nessun altro posto in Europa. È passata dal prefordismo al postfordismo. Prima e dopo la Fiat. Senza tappe intermedie. Questa periferia è divenuta un centro. Diffuso e nebuloso. Anche l'Emilia Romagna e le altre regioni centrali hanno conosciuto una crescita rilevante dell'economia di piccola impresa. Ma non con la stessa "violenza". Né con lo stesso impatto sulla società e sul territorio. Così, il Nord si è allargato e, al tempo stesso, accorciato. Si è spostato più verso Milano e il Nordest. Ha eletto il Po a frontiera, respingendo l'Emilia Romagna. Perché lo sviluppo del Nord si è espresso in relazione stretta con la politica (e l'antipolitica). Lungo tre assi. 1) La contestazione dei tradizionali centri del potere economico e politico: Torino e Roma. Confindustria, il sindacato e i partiti "romani". 2) L'insofferenza per la politica, come mediazione realizzata dagli specialisti e dalle organizzazioni. Economia e società senza politica. Imprenditori, uomini del "popolo", che parlano come la gente comune. E gliele cantano forte a Roma, ai partiti romani, alla sinistra, al sindacato. Perfino a Confindustria. 3) La rivendicazione autonomista. Che, volta a volta, assume forme e traduzioni diverse: federalismo, indipendenza, secessione, devoluzione.

E' il "nuovo Nord" che pretende di contare. Di conquistare potere ma anche ascolto. A costo di gridare, insultare, spezzare le convenzioni; infrangere le "buone maniere". Gli hanno dato voce e rappresentanza, da tempo, due attori politici molto diversi fra loro. La Lega e Berlusconi.

La Lega, nelle aree di piccola impresa, nel territorio dei distretti. Dove prima c'era la Dc. Alle elezioni politiche di una settimana fa si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni (su circa 4000, al di sopra del Po; Aosta e Bolzano escluse). Soggetto politico comunitario, che ha trasformato la società artigiana e laburista in una frontiera agguerrita. Bossi, fin dai primi anni Novanta, l'ha unificata. Le ha dato un'immagine e un nome: Padania. Patria dei produttori opposti allo "Stato dissipatore e oppressivo". Nel corso degli anni, la Lega si è insediata al governo di centinaia di comuni di taglia piccolissima, piccola. Ma anche media e grande. Come Verona, Treviso, Varese. Così è cresciuta una generazione di amministratori locali. Che recitano diverse parti, a seconda del luogo e del momento. Lo sceriffo, il governatore, il pragmatico, l'irredentista, il negoziatore. Perché nella metropoli sparsa del Nord, insieme alla ricchezza, è cresciuta anche l'inquietudine. Il territorio sta scomparendo. Il lavoro è garantito da centinaia di migliaia di immigrati (il 7% della popolazione, dove la Lega è più forte). Il mondo, in cui sono proiettate le imprese, fa paura. Viene in mente il bel film di Carlo Mazzacurati, La giusta distanza, ambientato in un paese del Polesine. Dove gli stranieri non sono gli immigrati. Ma noi. Quelli del Nordest. Spaesati dal successo.

L'altro volto del Nord è Berlusconi. Quanto di più diverso dalla fisicità della Lega. D'altronde, ha radici diverse. L'impresa immobiliare, il capitale finanziario e assicurativo. I media. Milano. Il suo "populismo" è mediatico. Nella santificazione della propria figura, della propria immagine di "imprenditore" di successo. In quanto tale - per definizione - più adatto di chiunque altro a fare politica. Perché si è fatto da sé, è riuscito in ogni impresa. Figurarsi se non è in grado di "gestire" lo Stato...

Questi due diversi modi di intendere e di rappresentare il Nord (la "megalopoli padana", come la chiama Giuseppe Berta, nel suo saggio appena pubblicato da Mondadori) sono, appunto, diversi. Perché hanno storie, geografie, economie e biografie diverse. Sono destinati, per questo, a rimanere distinti. Talora, a confliggere. Anche se alcuni elementi li attraggono. Li accostano. Il linguaggio, la personalizzazione (fisica o mediatica, non importa). I nemici. Roma, il ceto politico e le organizzazioni di massa. Lo Stato centrale. Da ciò il problema della "sinistra". Oppure del centrosinistra, non importa. Che continua ad abitare le grandi città. Soprattutto del Centrosud. (Ma anche del Nord. Dove vive da separato in casa). La cui base elettorale è radicata nel Centro. Nelle regioni rosse. Lungo l'asse Bologna-Firenze-Siena. Dove lo sviluppo di piccola impresa è incorporato nel sistema politico e nelle amministrazioni locali. Dove il ceto politico (lo hanno rilevato Carlo Trigilia e Francesco Ramella), da qualche tempo, si è progressivamente burocratizzato. Fatica a dialogare con le imprese. E con la società.

Questo Nord non è uno solo. È plurale. Ma è unificato dal linguaggio (im)politico di Berlusconi e della Lega. E ogni tanto "esplode". Nelle zone pedemontane. Quando crescono la sfiducia e il risentimento. Allora, affida alla Lega il compito di gridare il suo malessere. La sua insoddisfazione. La sua "differenza". Dal governo di Prodi, ma anche, preventivamente, da quello di Berlusconi. Il voto leghista, sottratto largamente (anche se non solo) al PdL, a questo serve. Come pre-monizione. O pre-ammonimento.

Il centrosinistra, invece, non ha mai sfidato apertamente la Lega (che, pure, D'Alema ebbe a definire "una costola della sinistra"), né Berlusconi sul loro terreno. Così, è costretto a evocare la "questione settentrionale". Dopo ogni sconfitta elettorale. E, quindi, spesso negli ultimi vent'anni. Senza trarne lezione, peraltro. Perché appare un lamento. Un inno all'impotenza. All'incapacità di capire e di agire. D'altronde, nel governo Prodi non ricordiamo un solo ministro del Nordest. Mentre i sindaci, i governatori del Nord si sono trovati, spesso, soli. A protestare contro Roma, contro il "loro" governo. Quasi fossero leghisti.

Dopo il voto del 14 aprile, Illy (più autonomista della Lega, sicuramente più liberista di Tremonti) è caduto. Cacciari, Zanonato e Dellai appaiono assediati. Neppure Chiamparino, la Bresso e la Vincenzi se la passano tanto bene. Bersani e lo stesso Fassino hanno lo sguardo più triste del solito. Il Nord padano ha ripreso ad allargarsi. Occupando lembi della via Emilia (cantata da Berselli e Guccini). Ma tutti se la prendono con Calearo. Perché è un padrone, per di più, piccolo. Dice cose di destra. È un autonomista e parla come un leghista. (Forse perché, in fondo, lo è). È proprio vero: nel centrosinistra, uno come lui, c'è finito per sbaglio.

(22 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Aprile 24, 2008, 11:44:08 pm »

Rubriche - Bussole

Elezioni, cinque buoni motivi per consolarsi della sconfitta
 
Ilvo Diamanti


Le elezioni suscitano sempre sentimenti opposti, specie in Italia, dove è diffuso il senso di sfiducia reciproco, in base alle appartenenze politiche (e non solo quelle).

Così, dopo ogni consultazione, a seconda del risultato, c'è sempre qualcuno che si prepara alla resistenza oppure alla rivincita. Non importa la posizione sociale. Anche l'uomo della strada è talmente coinvolto che si sente "resistente" oppure "rivendicativo", attraverso l'identificazione nel partito o nel leader di riferimento. Magari, in senso op-positivo, se non positivo. Gli sconfitti, in particolare. Per cui, oggi, gli elettori dei partiti di sinistra si sentono orfani, quelli del Pd delusi. Quelli dell'Udc, più che al centro: presi in mezzo. Quelli che non hanno votato per protesta o per disagio: incazzati. Esattamente come prima.

Tutti si apprestano ad affrontare un lungo inverno. Inquieti e insofferenti. Dovrebbero considerare alcuni motivi di consolazione. Che riguardano, a volte, settori sociali estesi. Altre volte, gruppi limitati oppure singole persone.

1) Gli elettori di partiti di centrosinistra e di sinistra, finalmente, potranno coltivare ed esprimere la propria sfiducia, la propria insoddisfazione senza remore e senza sensi di colpa. Senza sentirsi, in parte, colpevoli e colpevolizzati per aver contribuito a delegittimare il governo della loro parte. O, peggio, per aver fatto "il gioco di Berlusconi". Da oggi, dunque, se "piove, governo ladro". Senza dubbi né esitazioni.

2) Il dilemma dell'asino di Buridano che, da sempre, lacera (letteralmente) il centrosinistra, per un poco, almeno, sarà meno lacerante. Ci riferiamo all'abitudine - frustrante -di invocare, alternativamente, la ragione liberal-liberista, oppure quella social-laburista, a seconda dei momenti. Visto che nel centrosinistra italiano, il linguaggio lib-lab risulta difficilmente utilizzabile e utilizzato. O lib o lab. L'uno o l'altro. Piuttosto, l'uno contro l'altro. Senza compromessi
Da oggi, almeno per qualche tempo, sarà possibile sanare questa contraddizione. I riformisti non dovranno prendersela con i massimalisti (scomparsi letteralmente). I "radicali" non si dovranno più lamentare dei "moderati". Ciascuno a casa propria. Anzi: alcuni (la sinistra radicale) fuori casa.

Questo duplice orientamento, al contrario, tornerà utile, come metodo critico verso l'avversario che governa. Il Centrodestra, Rovesciandogli addosso, a seconda dei casi, accuse di liberismo o laburismo; globalismo o protezionismo; interesse privato oppure indulgenza pubblica.

3) Un altro vantaggio della sconfitta - sicuramente il più benefico per il sistema politico e per le istituzioni - è la semplificazione dell'offerta politica. Ma, soprattutto, la dissoluzione dei "partiti individuali", emersi nel corso della scorsa, breve legislatura. Determinanti ai fini del governo Prodi, ma fattore di ingovernabilità. Soggetti politici, perlopiù, inesistenti sul piano sociale e politico. Partiti individuali senatoriali. Il cui peso, cioè, era dettato dal totale equilibrio di forze che caratterizzava il Senato. E impediva l'effettiva possibilità di decidere, per il governo. L'ascolto, l'attenzione, il potere di cui hanno goduto Pallaro, Dini, De Gregorio. E, ancora, Rossi e Turigliatto. Sono destinati a svanire. Di alcuni di essi ci dimenticheremo. Senza nostalgia.

4) I senatori a vita smetteranno di essere aggrediti perché esercitano le loro prerogative. Cioè: votano. Al loro voto, in questa legislatura, faranno caso in pochi. Rita Levi Montalcini, finalmente, potrà riposare. Pensare a se stessa. Troppo spesso dal suo voto è dipesa la sorte della maggioranza. Da oggi, per fortuna, ogni tanto potrà restarsene a casa; oppure recarsi altrove; partecipare a un convegno; ritirare un riconoscimento. Come non le capitava da due anni.

5) Anche Romano Prodi tirerà il fiato. Sta chiudendo il suo mandato e si prepara a partire, cercando di non dare nell'occhio. Quasi scusandosi della propria presenza. Come avesse fatto qualcosa di male. Come se non fosse l'inventore dell'Ulivo e del Pd. Quello che ha battuto Berlusconi una volta e mezzo. Da domani non farà più da capro espiatorio di ogni problema. Di ogni crisi. Non farà più da parafulmine alla sfiducia e alla delusione. Il puntaspilli degli esorcismi di avversari e di alcuni amici. A Berlusconi, crediamo, mancherà assai presto. Più avanti, molti italiani lo rivaluteranno. Siamo pronti a scommetterci.

Aggrediti dalla depressione, gli elettori di sinistra e di centrosinistra, non avranno più bisogno di dissimulare il loro sentimento. Da ora, si tratterà di un problema per chi governa. Fra un po', cominceranno ad apprezzare le virtù consolatorie della sconfitta; della condizione minoritaria. Dopo due anni di "vita spericolata" (e ansiogena) si dedicheranno a una "vita tranquilla".

A meno che non vogliano davvero cambiare orientamento. Fare sul serio. Esercitare un'opposizione responsabile e "costruttiva". Suggerire, proporre, controllare. Partecipare, comunque. Condividere. Come in una "normale" democrazia competitiva, dove ciascuno cerca di vincere, di battere l'altro. Ma, poi, tutti remano nella stessa direzione. Comunque, immaginiamo che, anche prima di affrontare questa prospettiva, si prenderanno una pausa. Di riposo, più che di riflessione. Una vacanza. Perché, dopo due anni stressanti e faticosi come questi, diventare "normali" da subito: sarebbe troppo.



(24 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Aprile 27, 2008, 11:07:23 am »

POLITICA

Dal '94 c'era un tendenziale bilanciamento tra potere centrale e poteri locali

Ma già le elezioni amministrative di un anno fa hanno piegato l'assetto verso destra

Bipolarismo Milano-Roma in bilico l'onda Pdl non ricompatta il Paese

Dopo il primo turno del 13 aprile il centrosinistra ha mantenuto solo 6 dei 47 sindaci

Se domani cadesse il Campidoglio, il Pd sarebbe confinato nelle ex regioni rosse

di ILVO DIAMANTI

 

IL voto delle ultime settimane sembra destinato a unire l'Italia. E a renderne, al tempo stesso, più profonde le divisioni. Non ci riferiamo tanto agli effetti del voto politico. In questo caso, peraltro, la coalizione "per Berlusconi" ha allargato il suo peso elettorale in tutte le zone del Paese. Ma ci riferiamo all'equilibrio territoriale, fra governo e amministrazioni. Fra centro e periferia.

A partire dal 1994 e fino ad oggi, avevamo assistito a un tendenziale bilanciamento. Chi governava il Paese perdeva potere sul territorio. E viceversa. Con un andamento anticiclico.

1. Nell'autunno del 1993 la sinistra (il Pds e la Rete) aveva eletto i sindaci nelle principali città italiane. Da Venezia a Palermo. Da Torino a Roma. Da Firenze a Bologna a Napoli. Solo a Milano si era imposta la Lega, nel momento in cui proprio in quella città partivano le inchieste giudiziarie che avrebbero decomposto i partiti della Prima Repubblica. Peraltro sfibrati. Alle elezioni del 1994 aveva vinto il Polo delle Libertà. La coalizione del Centrodestra inventata da Silvio Berlusconi. L'anno seguente (quando, peraltro, Berlusconi aveva già concluso la sua prima esperienza di governo) il Centrosinistra aveva conquistato la maggioranza delle regioni italiane. Nel complesso: 9 su 15 (a statuto ordinario).

2. Dopo la vittoria del Centrosinistra (l'Ulivo, collegato a Rifondazione comunusta da un patto di desistenza) alle elezioni del 1996 si era verificato il "movimento" inverso. Cioè: il Centrodestra aveva "conquistato" il territorio. Soprattutto dopo il 1999, quando la Lega, in sensibile declino elettorale, era rientrata nella coalizione "personale" di Berlusconi. Si era, dunque, imposta in numerose città medie, ma anche grandi. Espugnando perfino "Bologna la rossa", capitale storica dell'Italia di sinistra. L'anno seguente, nel 2000, alle elezioni regionali il Polo delle Libertà conquista 10 regioni su 15 a statuto ordinario. Spingendo Massimo D'Alema, che ne aveva fatto un test di rilevanza nazionale, a dimettersi (pratica rara, in Italia). Un risultato che lancia il Centrodestra (divenuto "Casa delle Libertà") alla vittoria nelle elezioni politiche dell'anno successivo, nel 2001. Sempre alla guida del Cavaliere.

3. Da lì un nuovo cambio di ciclo. Caratterizzato dall'espansione del Centrosinistra (nella versione più ampia: Ulivo e Rifondazione). Che, nel 2007, governa, complessivamente, in 15 Regioni su 19. Inoltre, in 79 province contro le 26 amministrate dal centrodestra. Infine, in 396 comuni sopra i 15 mila abitanti, contro i 250 del centrodestra. In effetti, questa crescita si realizza, in larghissima parte, fra il 2003 e le elezioni regionali del 2005.

4. La stentata vittoria dell'Unione alle politiche del 2006 chiude definitivamente il ciclo. Le elezioni amministrative del maggio 2007 segnano il punto di svolta. La Lega e il Centrodestra conseguono successi travolgenti. Strappano al centrosinistra Verona, Monza, Alessandria, Gorizia, Asti. Il vento è cambiato. Un vento freddo e impetuoso. Soffia a Nord. E corre ovunque, nel Paese.

Abbiamo descritto in modo analitico e un poco pedante la successione di risultati che caratterizzano il voto politico e amministrativo nel corso della seconda Repubblica. Perché ci interessa dare sostanza all'incipit: il controcanto fra voto nazionale e locale. Elezioni politiche, da un lato, regionali, provinciali e comunali, dall'altro, hanno, sino ad oggi, seguito direzioni diverse e divergenti. E le elezioni politiche hanno chiuso il ciclo, piuttosto che aprirlo. Nel senso che hanno confermato la tendenza delineata, "prima", dalle amministrative e dalle regionali.

Certo, le consultazioni territoriali (regionali, provinciali e comunali) possono essere interpretate come elezioni di "mezzo termine". Usate dai cittadini per esprimere - in parte - la loro posizione verso l'azione del governo nazionale. E, dunque, per sanzionarlo. Viste le difficoltà incontrate da chiunque abbia avuto la ventura - oppure la sventura - di governare il Paese, vincolato - sempre - da maggioranze incerte, frammentate e divise.

C'è però una ulteriore spiegazione possibile. Non contraddittoria, ma semmai a integrazione dell'altra. La volontà dei cittadini di "bilanciare" i poteri, favorendo la costruzione di maggioranze diverse al centro e alla periferia. Quasi una coabitazione, secondo il modello che ha caratterizzato altri Paesi, nel passato più o meno recente. In Francia, ma anche negli stessi Usa. Dove i Presidenti hanno dovuto confrontarsi, talora, alle Camere (Assemblea Nazionale, Congresso o Senato), con maggioranze di diverso segno politico.

Tuttavia le elezioni recenti fanno emergere uno scenario diverso. Suggeriscono, cioè, la possibilità che i due livelli del potere - centrale e territoriale - possano allinearsi. Che il governo del Paese possa venire "unificato" dal Centrodestra di Berlusconi. Che, al terzo tentativo, dispone di un'ampia maggioranza alle Camere. Ma anche di un largo, crescente numero di amministrazioni territoriali. Potrebbe, quindi, governare senza eccessivi problemi. Se non quelli dettati dalle divisioni interne alla sua maggioranza.

Oltre ad aver vinto largamente le politiche, nell'election day del 13-14 aprile, il Pdl (insieme agli alleati di centrodestra) ha, infatti, ottenuto significativi successi anche nelle altre consultazioni. Alle regionali: ha trionfato in Sicilia. Mentre ha strappato al Centrosinistra il Friuli Venezia Giulia governato da Riccardo Illy. Forse il più autonomista dei governatori, tradito dal vento leghista e antiromano.

Alle municipali, il primo turno ha impresso un segno molto chiaro. Si è, infatti, votato in 71 comuni sopra 15mila abitanti, in 47 dei quali il sindaco uscente è di centrosinistra. Dopo il primo turno ne ha mantenuti solo 6 mentre in 13 ha perduto e in altri 28 casi il suo candidato è al ballottaggio. Parallelamente, dei 22 sindaci di cui disponeva, il Centrodestra ne ha rieletti 8, mentre gli altri 14 sono in ballottaggio. Per cui, il rapporto fra le due parti politiche si è rovesciato: 21 sindaci a 6, a favore del centrodestra. E' possibile che il ballottaggio di oggi e domani modifichi questo bilancio. Ma, sinceramente, ce ne stupiremmo.

Tuttavia, la "conquista politica dell'Italia" da parte di Berlusconi e dei suoi alleati dipende, in gran parte, dal risultato di Roma. Perché Roma non è solo la capitale d'Italia. E' anche la capitale del Centrosinistra. Che la governa fin dal 1993. Mentre perfino Bologna, nel 1999, è "caduta".

La capitale dell'Italia di Centrodestra, nella seconda Repubblica, invece, è sicuramente Milano. Insieme alla metropoli diffusa del Nord Pedemontano. Cuore dell'Italia dell'impresa, dei servizi, della comunicazione. Contesa e condivisa da Berlusconi, Bossi. E Formigoni. Negli ultimi 15 anni la competizione fra queste due città è divenuta continua. E accesa. Un conflitto che si svolge su diversi terreni. Malpensa contro Fiumicino. La "città del cinema" contro Mediaset. Roma contro Inter (e Milan). Il mercato globale della produzione e dei servizi contro il mercato (e il linguaggio) universale dei beni artistici. Anche questo dualismo e questo conflitto potrebbero finire. Mai come in questa occasione il confronto fra i candidati dei due schieramenti - Rutelli e Alemanno - è apparso tanto incerto. Tanto aperto.

Così, domani potremmo vivere in un'Italia unita. Governata da Berlusconi. Al centro e in periferia. Al Nord, al Sud e perfino al Centro. A Milano e a Roma. Il Pd verrebbe confinato dentro il perimetro delle "regioni rosse". Una sorta di "Lega Centro" (la formula è di Marc Lazar). Come i Ds e - prima di loro - il Pci.

Dubitiamo, tuttavia, che la fine del bipolarismo metropolitano pacificherebbe e compatterebbe il Paese. Nell'Italia unita dalla geopolitica, si produrrebbero altre fratture politiche. Più forti. Alimentate da un centrosinistra spaesato. Senza casa. E da un Centrodestra stressato. Stirato. Fra Roma e Milano.

(27 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Maggio 02, 2008, 06:00:29 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Tra Roma e Vicenza

di ILVO DIAMANTI


IL RISULTATO di Roma è troppo significativo, rilevante, netto. E, per il Centrosinistra, traumatico. Perché è la capitale d'Italia. E, fino a ieri, del Centrosinistra. Appunto: fino a ieri. Oggi la geografia politica italiana è cambiata. Soprattutto per il centrosinistra. Due settimane fa aveva riscoperto la "questione settentrionale", ieri, dopo il ballottaggio delle elezioni amministrative, ha riaperto la "questione romana". Quella "meridionale" si era già consumata, visti i risultati delle politiche. Visto l'esito delle elezioni regionali in Sicilia.

Così, si è spezzato anche il bipolarismo metropolitano che aveva caratterizzato la prima Repubblica. Milano e Roma. Capitali delle due Italie. Rispettivamente: di Destra e Sinistra. Oggi il Paese è unito. Milano e Roma, sotto il segno di Berlusconi. Collante e cornice, capace di far coabitare Lega e An. Fino a quando e come non si sa. Ma, intanto, per la prima volta dai tempi della prima Repubblica, le due capitali hanno un governo di segno coerente. Il centrosinistra, rinnovato e riformato, dopo la fine dell'Unione e la "fondazione" del Pd, invece, appare "spaesato". Sperduto. Non ha più casa. A meno che non si consideri tale il rifugio tradizionale e storico delle "regioni rosse" del centro. (Dove, peraltro, qualche scricchiolio si avverte). Gli stessi confini, le stesse roccaforti del Pci, fin dalle origini. Quasi una cittadella assediata. Il Pd, in fondo, era nato per superarne i confini. Per andare "oltre". Per diventare un partito nazionale. In grado di governare l'Italia. Come la Dc nella prima repubblica. Come il cartello PdL-Lega, oggi.

Il processo di "sterritorializzazione" che ha colpito il centrosinistra, in questa fase, è ben descritto dal bilancio dei comuni oltre i 15mila abitanti, in cui si è votato in queste settimane. Fino a due settimane fa il Centrosinistra ne governava 47, il Centrodestra 22. Altri 2 erano amministrati da liste civiche. Oggi, il rapporto si è letteralmente rovesciato. Il Centrodestra ne governa 46 e il Centrosinistra 24. Sta cambiando la geografia politica del Paese. Radicalmente. In senso letterale. Perché intacca il rapporto fra partiti e società "alle radici". E dunque: sul territorio. Dovunque. Per questo, anche i risultati in controtendenza, come la vittoria del centrosinistra in alcuni capoluoghi di provincia del profondo Nord e del Nordest (Sondrio, Vicenza, Udine), rischiano di finire sullo sfondo.

Un "pannicello caldo", l'ha definita, ieri, Massimo Giannini, su Repubblica.it. Visto che le elezioni politiche di due settimane fa hanno celebrato l'eterno ritorno del Nord e della Lega. Tuttavia, non conviene svalutare Vicenza. Dove Achille Variati, candidato del Pd, si è imposto di misura, risalendo, al ballottaggio, di quasi 20 punti percentuali e di 6000 voti. Mentre la candidata del Centrodestra, Lia Sartori, ha recuperato solo 150 voti. Perdendo non solo gli otto punti di vantaggio precedenti. Ma soprattutto le elezioni.

Certo, il successo di Vicenza non può lenire la ferita di Roma, che è profonda e non rimarginabile. Né può mascherare il rapido logoramento dei legami locali del Centrosinistra e del Pd subito in questa occasione. Tuttavia, può servire. Anzitutto, a capire il Nord, senza attendere la prossima ondata leghista. E poi a cogliere il senso delle difficoltà incontrate dal Pd, non solo a livello locale. Ma più in generale: come modello di partito.

D'altronde, nel suo piccolo, anche Vicenza è diventata (suo malgrado) una capitale: del "forza-leghismo". Sede del Parlamento Padano. Il luogo da cui Silvio Berlusconi, nel marzo 2006, in occasione dell'Assemblea nazionale di Confindustria, lanciò la rincorsa a Prodi. Da dieci anni governata da un sindaco (ner)azzurro. Logica la tentazione di spiegare questo risultato come un accidente. O, più semplicemente, di rimuoverlo. Come ogni evento lontano dal "caput mundi". Eppure, un po' di riflessione servirebbe a capire che il "caso", come ovunque, c'entra (tanto più quando si vince di 500 voti). Ma contano di più altre ragionevoli ragioni.

1. Anzitutto, il pregiudizio che disegna il Nord come un porto avvolto nella nebbia. Verdeazzurra. E' un pregiudizio. Per limitarci al Nordest, considerata una "Vandea", il centrosinistra amministra molte realtà fra le più importanti. Da Venezia a Padova. A Udine. Senza dimenticare Trento e Bolzano (province autonome comprese). Fino all'anno scorso anche a Verona. Fino a due settimane fa il Friuli-Venezia Giulia. Quanto a Vicenza, capitale forza-leghista, non è mai stata forza-leghista. Due anni fa, al referendum sulla devolution, la maggioranza dei cittadini ha votato contro.

Cinque anni fa Vincenzo Riboni, candidato dell'Ulivo, al ballottaggio ottenne il 47% dei voti. Gli stessi sondaggi condotti negli ultimi sei mesi a Vicenza, con regolarità (da Ipsos e Demos), delineavano una situazione di incertezza. Perfino una settimana fa (Demos, 17-18 aprile, 1000 casi) i due candidati apparivano perfettamente alla pari. Considerarla perduta a priori era un pregiudizio infondato.

2. L'importanza del candidato e del sistema di selezione. Lia Sartori è stata scelta dall'alto. Tra conflitti e mediazioni che hanno opposto Lega e Forza Italia, anche al loro interno. Un tempo figura d'apparato della sinistra socialista. Oggi "donna forte di Forza Italia". Vicina al governatore Giancarlo Galan. "Una di Thiene", ricca cittadina commerciale, a poca distanza da Vicenza. Lo stesso che candidare a sindaco di Malo "uno di Isola", direbbe Luigi Meneghello.

Invece Variati, cinquantenne, è un candidato vicentino, con una storia vicentina. Già sindaco fra il 1990 e il 1995. Di provenienza democristiana. Allievo di Rumor. Oggi PD. Legittimato, a inizio marzo, dalle primarie, con grande partecipazione popolare e un ampio consenso personale.

3. Il clima d'opinione attraversato da un'insicurezza sociale che riflette ragioni diverse dalla criminalità comune e dall'immigrazione. Piuttosto: dalla vicenda Dal Molin. La nuova base militare americana, concessa dal governo di centrosinistra, con l'accordo preventivo (taciuto per anni) della giunta e del governo precedenti. Ancora oggi "rifiutata" dalla maggioranza della popolazione (contrario il 53 % dei vicentini, sondaggio Demos). Non a caso, una lista ispirata da alcuni comitati contrari alla base ha conquistato il 5% al primo turno. Variati, sindaco neo eletto, ha sempre espresso dissenso nei confronti della decisione - e del centrosinistra nazionale. Per ragioni di metodo, più che di principio. La mancata consultazione dei cittadini, il deficit di confronto con il governo.

4. Infine, Variati e il Pd hanno fatto una campagna elettorale vera, vecchio stile. Porta a porta. Tutti i giorni nei quartieri, nei mercati, insieme a decine di militanti e volontari, giovani e giovanissimi, a volantinare dappertutto, in centro e in periferia. Mentre la sua avversaria quasi non si è vista. La vittoria di Variati, dunque, è avvenuta per ragionevoli ragioni. Al contrario della sua avversaria - ma anche di Rutelli a Roma - la sua candidatura è stata espressa direttamente dagli elettori, con le primarie. Ha fatto una campagna elettorale vera, mobilitando sul territorio un Pd vero. Ha comunicato messaggi condivisi. Egli stesso è apparso, ai cittadini, competente e credibile. Anche agli elettori della sinistra e ai comitati No dal Molin. Che lo hanno sostenuto, nel ballottaggio. Senza accordi. La candidatura di Calearo, inoltre, per quanto controversa, ha aperto una fessura nel rapporto con i settori imprenditoriali e del lavoro autonomo. Così, Variati ha fatto il pieno dei voti di centrosinistra e di sinistra. Intercettando anche molti voti di centrodestra, soprattutto della Lega.

Due settimane fa Ezio Mauro ha scritto che occorre "costruire un Pd del Nord. Per vivere, o almeno per capire". Forzando l'equazione, potremmo sostenere che, per sfidare il centrodestra, occorre costruire il Pd, ma "dovunque". Senza imitare il "modello Berlusconi". E' inimitabile. Più che un "partito personale", a questo fine, serve un "partito di persone", che si radichi sul territorio e nella società. Non solo sui media. Ora che Roma è caduta, può risultare (forse) più facile, al Pd, guardare a Nord senza occhiali deformanti. E, con umiltà, ripartire (anche) da Vicenza.

(30 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Maggio 04, 2008, 11:24:30 am »

POLITICA MAPPE

Radici forti e rami secchi è lo strano albero del Pd

di ILVIO DIAMANTI


IL RISULTATO ottenuto dal Pd alle elezioni mantiene molti margini di ambiguità. Difficile da valutare quel 33%. Forse non deludente. Di sicuro, neppure esaltante. E viceversa. Sostanzialmente invariato, rispetto al 2006.

Mezzo punto percentuale in più se, oltre ai voti ottenuti dall'Ulivo, si considera il contributo dei Consumatori e dei Radicali (presenti nelle liste del Pd). Mentre in questi due anni, la distanza dal Pdl si è ridotta di qualche decimale, rispetto a quella fra Ulivo e Fi-An, considerati insieme. Poco più di 4 punti.

Se si legge la storia elettorale della seconda Repubblica in chiave bipartitica, d'altronde, ciò che colpisce è, soprattutto, la stabilità. L'Ulivo - e prima i Ds e la Margherita oppure i Popolari, considerati insieme - ha sempre ottenuto intorno al 30%. Il minimo nel 1996: 28% (ma il 32% se si considera la Lista Dini, che in seguito entrerà nella Margherita). Il massimo proprio in queste elezioni. Il che definisce la misura della sinistra riformista: meno di un terzo dell'elettorato. Mentre la base del Pdl, calcolata sommando Fi e An, oscilla maggiormente (soprattutto a causa della competizione di Fi con la Lega): fra il 36% (nel 1996) e il 41% (nel 2001). Sempre sopra al Pd, comunque. Anche se la distanza fra i due soggetti politici, in queste ultime elezioni, appare ridotta come mai in precedenza.

Il problema è che la lettura "bipartitica" non permette di capire con chiarezza il senso della competizione elettorale nell'Italia della seconda Repubblica. Perché il Pd e il Pdl, anche nelle versioni precedenti, non si presentano mai da soli. La differenza, dunque, la fanno sempre gli alleati. L'ampiezza delle coalizioni e la misura dei partiti con cui si coalizzano. Fino al limite del 2006. Quando la nuova legge elettorale viene interpretata in senso "aggregativo". Per cui, intorno a Berlusconi e Prodi, si coalizzano tutte le sigle, dalle più grandi a quelle minime. E l'elettorato si ricompone e si divide in due bacini perfettamente uguali.

Questa volta, invece, Veltroni ha scelto la strada della semplificazione, puntando tutto sul Pd. Berlusconi lo ha seguito. Ma la politica delle alleanze, per quanto a corto raggio, ha continuato a pesare. Con esiti asimmetrici. Perché la distanza fra Pdl e Pd, rispetto alle elezioni precedenti, è rimasta inalterata. Non quella fra le coalizioni. Il risultato conseguito dalla Lega, nel Nord, e dal Mpa, nel Mezzogiorno, ha sovrastato quello, rilevante, ottenuto dalla Lista Di Pietro. Per cui il distacco fra le coalizioni che sostengono Berlusconi e Veltroni è più che raddoppiato: da 4 punti percentuali a 9.

Da ciò il rischio, per il Pd: restare minoranza. Influente, ma permanente. Incapace di attrarre, per ora, quel 40% di elettorato potenziale, stimato dai sondaggi. Nato per sottrarsi al ricatto delle alleanze frammentarie, che permettono di vincere le elezioni ma impediscono di governare. Per costruire un polo riformista, in grado di allargarsi al centro e a sinistra. In questa occasione non ci è riuscito. Visto che, rispetto al 2006, è "scomparso" il 7% degli elettori. Oltre due milioni e mezzo di voti. Che, due anni fa, avevano votato per i partiti della sinistra cosiddetta radicale e, quindi, per l'Unione.

Mentre oggi, nel conteggio conclusivo, non ci sono più. Spariti. Fra le pieghe dell'astensione. Fuggiti, in misura limitata, a destra. Confluiti, in piccola parte, nell'alleanza per Veltroni, in nome del "voto utile". Insomma, un problema - forse "il" problema - del Pd sembra essere lo scarso grado di flessibilità. Nonostante la capacità di Veltroni di "personalizzarlo". Di sfidare Berlusconi sullo stesso piano. Per contrastare le resistenze dell'elettorato. Per sottrarsi all'eredità - e al vincolo - del rapporto con il territorio.

Ma forse il problema è proprio lì. Il rapporto con il territorio. Troppo forte e troppo fatuo, al tempo stesso. Il territorio: in cui il Pd appare imprigionato. E che, al contempo, non riesce a rappresentare davvero. Risulta, infatti, evidente, ma anche inquietante, il grado di coerenza e continuità territoriale con la base elettorale della sinistra comunista e postcomunista espresso dal Pd. La cui attuale geografia del voto riproduce, con poche variazioni, quella delineata dai Ds nel 1996, dal Pds nel 1992, fino al Pci nel 1953.

La personalizzazione e la mediatizzazione, imposte da Veltroni, non sembrano aver spostato i confini del voto. Neppure le primarie. Che hanno garantito una grande mobilitazione, ma riproducono ancora, in parte, il peso del passato. Non solo delle tradizioni storiche. Anche delle organizzazioni di partito; dei gruppi di pressione locali. Come dimostra la geografia della partecipazione dello scorso ottobre. Che ha raggiunto i livelli più elevati nel Mezzogiorno (con alcune punte stratosferiche come in Calabria). Superiori perfino alle regioni "rosse". Nel Sud, effettivamente, il Pd è cresciuto. Ma in misura modesta. E molto inferiore al Pdl.

In altri termini, abbiamo l'impressione che il "nuovo" Pd sia rimasto imprigionato dentro logiche vecchie. Che hanno ostacolato anche la capacità di leggere, correttamente, ciò che sta avvenendo sul territorio. Il viaggio di Veltroni attraverso il Nord, ad esempio, ha raccolto grande partecipazione. Ha reso visibile una domanda sociale ampia e generosa. Che, tuttavia, era ed è rimasta minoranza. La richiesta di cambiamento è stata intercettata perlopiù dalla Lega.

Nei pochi luoghi significativi dove ha vinto, peraltro, il Pd "nazionale" è stato colto di sorpresa. Come a Vicenza. Una vittoria inattesa. Considerata un caso fortuito e fortunato. Quasi che recuperare 3 punti percentuali in cinque anni (a Vicenza il centrosinistra aveva ottenuto il 47% al secondo turno, nel 2003) fosse più sorprendente che perderne 20 a Roma in due anni.

Il Pd, in altri termini, ci sembra ancora un progetto incompiuto. Riflette una domanda diffusa. Ha raccolto un ampio sostegno sociale. Riscuote attenzione e curiosità, nei settori moderati e di sinistra. Una "novità" attraente, ma "vecchia" dal punto di vista del gruppo dirigente. Nazionale e ancor più locale. Dove i giovani, le donne, i lavoratori, gli imprenditori, insomma, i "nuovi", quando si affacciano alla politica trovano porte strette. La strategia di marketing, utilizzata da Veltroni per forzare questo limite attraverso candidature simboliche (il piccolo imprenditore, la giovane ricercatrice, l'operaio ecc.), alla fine, si è scontrata con una realtà "radicalmente" (= alla radice) diversa. Dove prevalgono i "vecchi", non solo e non tanto per età. Ma per mentalità e carriera.

D'altronde, i leader del Pd - grandi e piccoli, centrali e locali - sembrano impermeabili a ogni mutamento di sigla, a ogni cambio d'epoca, a ogni sconfitta. (e, sia chiaro, non ci riferiamo a Veltroni). Insensibili al crollo dei muri, delle ideologie e dei partiti. Altrove, negli Usa e in Europa, abbiamo assistito, in questi ultimi anni, al "ritiro" di figure come Gore, Kerry, Schroeder, Aznar, Gonzales, Blair. Battuti di poco. A volte, neppure. In Italia, salvo Prodi (l'unico, peraltro, ad aver vinto una elezione e mezza contro il Cavaliere), nessuno si dimette; nessuno paga le sconfitte subite in città e regioni importanti.

Non solo: gli sconfitti vengono premiati con nuovi incarichi di prestigio. Mentre tutto il gruppo dirigente - ex comunista ed ex-democristiano - ha affollato le liste del Pd, occupando posti di assoluta sicurezza. In centro e in periferia.

Il Pd: è rimasto a metà del guado. Incerto. Fra partito di iscritti e partito elettorale. Fra personalizzazione nazionale e oligarchia locale. Agita le primarie come una bandiera. Ma non le usa per selezionare i candidati alle elezioni politiche; spesso neppure alle amministrative. Mentre, a livello nazionale, fino ad oggi sono servite a confermare leader pre-destinati. Vorrebbe rappresentare il Nord restando Lega Centro. I piedi in Emilia e in Toscana. La testa a Roma.

E' uno strano albero, questo Pd. Le radici salde. Fin troppo. Non riescono a propagarsi. Il fusto fragile. I rami rinsecchiti. Le foglie crescono. Tante.
Ma cadono presto.


(4 maggio 2008)

da repubblica.it
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