Cultura
01/03/2012 -
"Breve riposo dona alla mamma, Signore"
"Fai bei sogni" nuovo romanzo di Gramellini
La vita di un orfano che dopo quarant'anni scopre la verità sulla morte della madre.
A raccontarne la storia è Massimo Gramellini nel nuovo romanzo "Fai bei sogni"
MASSIMO GRAMELLINI
Esce oggi Fai bei sogni, il nuovo romanzo di Massimo Gramellini (Longanesi, pg. 216, euro 14,90). E’ la storia di un uomo che a
quarant’anni di distanza scopre la verità sulla morte della madre. Pubblichiamo due capitoli dalla prima parte del libro.
Quarant’anni prima, l’ultimo dell’anno mi ero svegliato così presto che credevo di sognare ancora. Ricordo l’odore della mamma nella mia stanza, la sua vestaglia ai piedi del letto. Che ci faceva lì? E poi: la neve sul davanzale, le luci accese in tutta la casa, un rumore di passi strascicati e quel guaito di creatura ferita.
«Nooooo!»
Infilo le pantofole nei piedi sbagliati, ma non c’è tempo per rimediare. La porta sta già cigolando sotto la spinta delle mie mani, finché lo vedo in mezzo al corridoio, accanto all’albero di Natale.
Papà.
La quercia della mia infanzia, piegato come un salice da una forza invisibile e sorretto per le ascelle da due sconosciuti. Indossava la giacca da camera color porpora che gli aveva regalato la mamma. Quella con un cordone delle tende al posto della cintura. Si muoveva a scatti, scalciando e contorcendosi. Appena si accorse della mia presenza, lo sentii mormorare: «È mio figlio… Per favore, portatelo dai vicini». Abbandonò la testa all’indietro e urtò l’albero di Natale. Un angelo con le ali di vetro perse l’equilibrio e precipitò al tappeto.
Gli sconosciuti erano muti ma gentili e mi parcheggiarono sul lato opposto del pianerottolo, da una coppia di pensionati.
Tiglio e Palmira.
Tiglio affrontava la vita dietro la corazza immutabile del suo pigiama a righe e con il conforto di una ostinata sordità. Comunicava soltanto per iscritto, ma quella mattina si rifiutava di rispondere alle domande che gli avevo scarabocchiato in stampatello sul margine bianco del giornale.
DOV’È
LA
MAMMA?
HANNO
RAPI-
NATO
PAPA'?
Dei banditi dovevano essere entrati in casa durante la notte… E se fossero stati i due che lo tenevano per le ascelle? Apparve Palmira con le borse della spesa.
«Papà ha avuto un po' di mal di testa, bambìn. Ma adesso sta bene. Quei signori erano i medici che lo hanno visitato».
«Come mai non avevano il camice?»
«Lo mettono solo in ospedale».
«E come mai erano due?»
«I medici del pronto soccorso sono sempre in due».
«Ah, giusto. Così se uno si ammala all'improvviso, l'altro lo può guarire. Dov’è la mamma?»
«Papà l’ha accompagnata a fare una commissione».
«E quando torna?»
«Presto, vedrai. La vuoi una cioccolata calda?»
In mancanza della mamma mi accontentai della cioccolata.
Qualche ora dopo venni preso in custodia dai migliori amici dei miei.
Giorgio & Ginetta.
Non credo di averli mai considerati separatamente. Mamma e papà si erano conosciuti al loro matrimonio, una circostanza che non smetteva di stimolare gli ingranaggi del mio cervellino.
«Mamma, ascolta: se Giorgio & Ginetta si fossero dimenticati di portarti alla festa, saresti stata sempre tu la mia mamma oppure un'altra invitata?»
Avevo una lingua mai esausta, nonostante fosse piena di tagli e di toppe come il grembiule di un artigiano.
«È un miracolo che con un attrezzo simile suo figlio possa parlare» aveva spiegato il pediatra alla mamma.
«Adesso di miracolo ne servirebbe un altro, dottore: riuscire ogni tanto a farlo stare zitto» aveva risposto lei. «Con la parlantina che si ritrova, mi diventerà un avvocato».
Non ero d'accordo. Io volevo smettere di parlare e incominciare a scrivere. Quando mi convincevo che qualche adulto aveva commesso
un’ingiustizia nei miei confronti, gli agitavo una biro sotto il mento: «Da grande racconterò tutto in un libro che si intitolerà Io bambino».
Il titolo era migliorabile, ma il libro sarebbe stato una bomba.
La verità è che avrei preferito essere un pittore. A sei anni avevo già dipinto il mio ultimo capolavoro: La mamma mangia un grappolo d'uva. Il grappolo era alto il doppio della mamma, gli acini sembravano le palle dell’albero di Natale e la faccia della mamma era identica a un acino. Lei lo aveva appeso in cucina e lo mostrava con orgoglio ai parenti di passaggio. Dalle loro facce perplesse avevo ricevuto il primo responso esistenziale: la pittura non sarebbe mai stata il mio talento. Il mondo che avevo dentro avrei dovuto cercare di disegnarlo con le parole.
A casa di Giorgio & Ginetta andò in scena il cenone più triste del mondo. Malgrado i miei tentativi di ravvivare la conversazione, io e il figlio tredicenne venimmo spediti nei letti a castello alle nove di sera, dopo una pastasciutta e una bistecchina, entrambe al burro. Non ci fu verso di ottenere una fetta di panettone e una spiegazione decente. Mamma e papà erano andati a fare una commissione, la stessa della mattina o forse un’altra, ma altrettanto misteriosa. E noi dovevamo filare subito a nanna.
Ricordo il respiro regolare del mio compagno di clausura sopra di me. E i fuochi di mezzanotte che smacchiavano il buio della stanza attraverso le serrande non perfettamente abbassate. Rintanato sotto le coperte, gli occhi accesi e la testa vorticante come una giostra incantata, continuavo a chiedermi cosa avessi combinato di tanto tremendo durante le vacanze di Natale per meritare un castigo simile. Avevo detto due bugie, risposto male una volta alla mamma e tirato un calcio nel sedere a Riccardo, il bambino della Juve che abitava al secondo piano. Non mi sembravano peccati così gravi, specie l’ultimo.
***
Il primo dell’anno Giorgio & Ginetta mi dissero che al ritorno dalle commissioni la mamma si era dovuta fermare in ospedale per alcuni esami. Erano mesi che non smetteva di fare commissioni e di dare esami. Sempre in ospedale, poi. Se almeno fosse venuta a scuola, le avrei insegnato a copiare. La immaginavo alle prese con uno dei problemi che la maestra ci aveva assegnato per le vacanze. Un bambino percorre tre chilometri e ogni due ettometri perde due palline: quante palline avrà perso dopo millenovecento metri? Io detestavo gli ettometri. E quel bambino idiota che perdeva palline da tutte le parti, eppure continuava la sua passeggiata come se niente fosse. Al pomeriggio riapparve papà per accompagnarmi in ospedale dalla mamma. Sembrava tornato la solita quercia.
«Prima passiamo a prenderle dei fiori» proposi.
«No. Prima andiamo a trovare Baloo. Deve parlarci di una cosa importante». Mi impuntai. Baloo era il sacerdote dei lupetti, la sezione infantile degli scout che frequentavo da qualche mese. Lo avrei salutato volentieri, se solo avesse aspettato il suo turno. Ma non poteva tagliare la strada alla mamma. La mediazione di Giorgio & Ginetta propiziò un compromesso onorevole. Saremmo andati in ospedale dopo l’incontro con Baloo, ma i fiori li avremmo comperati prima.
Mi presentai all’oratorio degli scout con un’aiuola di rose rosse fra le braccia. Dall’orso del Libro della Giungla suo omonimo, Baloo aveva copiato i modi goffi e la bontà. Ci accolse nella sala riservata alle riunioni dei lupetti e fece subito una battuta sul campionato di calcio. Nonostante fosse nato a Buenos Aires e vivesse a Torino come noi, tifava per il Cagliari di Gigi Riva. Aveva delle figurine di calciatori da farmi vedere, ma papà lo interruppe: «Gliele mostrerà un'altra volta, Baloo».
Lui sospirò e mi disse di guardare il soffitto: un cielo di gessetti azzurri che avevo contribuito a colorare. Affondò una mano enorme nella mia spalla e con l'altra indicò il cielo a gessetti.
«La mamma è il tuo angelo custode, lo sai. Da tempo chiedeva il permesso di volare lassù per proteggerti meglio e ieri il Signore l’ha chiamata a sé...».
Sentii un cucchiaio di ghiaccio penetrarmi nella pancia e svuotarmela tutta. Mi voltai di scatto verso papà, alla ricerca di qualsiasi indizio assomigliasse a una smentita, ma vidi soltanto che aveva gli occhi rossi e le labbra bianche.
«Andiamo a pregare» disse Baloo.
«L’eterno riposo dona a lei, Signore. Splenda a lei la luce perpetua. Riposi in pace. Così sia».
La voce calda di Baloo risuonava lungo le navate della chiesa deserta. In ginocchio nel primo banco, l’aiuola di fiori rossi serrata sul petto, muovevo le labbra al suo ritmo, ma dal cuore mi sbocciavano parole diverse.
«Breve riposo dona alla mamma, Signore. Svegliala, falle un caffè e rimandala subito qui. È mia mamma, capito? O riporti giù lei o fai venire su me. Scegli tu. Ma in fretta. Facciamo che adesso chiudo gli occhi e quando li riapro hai deciso? Così sia».
da -
http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/444598/