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Autore Discussione: Massimo GRAMELLINI.  (Letto 331237 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:50:33 am »

18/5/2011

Italia sì

Massimo GRAMELLINI


Ma quanti voti avrà preso quel Lassini che riempì Milano di manifesti in cui paragonava i magistrati che indagano sul premier alle Brigate Rosse? 872. Ottocentosettantadue. Nonostante il sostegno della Santanchè e nonostante i titoloni con la bava alla bocca del giornale amico della Santanchè. Se ne deduce che fra gli elettori milanesi del centrodestra, decine di migliaia, gli ultrà dell’antigiustizialismo siano appena una manciata: molto meno numerosi di quanti se ne incontrino in certi studi televisivi. Allo stesso modo, gli elettori torinesi di centrosinistra hanno rimediato con un sussulto di buonsenso alla scelta spregiudicata dei loro politici, che avevano messo in lista un reperto archeologico del craxismo come Giusi La Ganga. Nella classifica delle preferenze, La Ganga si è classificato ventitreesimo: praticamente in serie B.

Tutto questo per dire che l’italiano comune non è poi così isterico, ottuso e manovrabile come lo si rappresenta. A furia di diseducarlo all’esercizio della cittadinanza con l’esaltazione quotidiana dei cattivi esempi che provengono dall’alto, ci eravamo convinti che fosse un suddito smanioso soltanto di emulare i suoi padroni. Non è così. Non sempre, almeno. Nel silenzio e nella solitudine dell’urna (forse l’unico luogo dove ancora regnino il silenzio e la solitudine), l’italiano di destra o di sinistra dismette la maschera caricaturale dell’estremista e recupera la sua eterna identità di moderato, disposto più a gettare ponti che ad abbatterli. O a riesumare quelli abbattuti.

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« Risposta #151 inserito:: Maggio 21, 2011, 09:22:18 am »

20/5/2011

Per quanto

Massimo GRAMELLINI

Si rimane sinceramente colpiti dallo sforzo titanico con cui, in queste ore, i partiti moderati cercano di apparire moderati. Da quando hanno appreso, con un certo stupore, che aggredire l'avversario non porta più voti, i Berluscones e i Padanos inaugurano le interviste con un mantra di pace: «Per quanto Pisapia sia un galantuomo». Segue l’attribuzione a Pisapia di un fitto catalogo di sventure: con lui sindaco di Milano ci saranno più drogati, più tasse, più moschee e più sbarchi di clandestini (ma dove, ai navigli?). Però il mantra rende tutto digeribile, persino le scorribande ai confini del paranormale. Come quella del disc jockey Red Ronnie, consulente della Moratti, che ha attribuito all’Effetto Pisapia la cancellazione di un concerto previsto per domani, otto giorni prima dell’eventuale vittoria di Pisapia.

Ma non stiamo troppo a sottilizzare. Se solo potessero liberare i loro istinti, i moderati rivelerebbero al mondo che razza di cattivo soggetto sia il Pisapia. Invece si controllano, altroché. Resta il mistero sul covo in cui tengono imbavagliata la Santanchè e sulla cura di sedativi a cui viene sottoposto, ormai da oltre 72 ore, Stracquadanio. Si favoleggia di una camera di compensazione in cui i penitenti entrano lanciando urla belluine contro il perfido Pisapia e l’indifendibile Moratti, per poi uscirne rasserenati e con una cospicua dote di «per quanto». Purtroppo ieri mi è crollato il Bossi: non ce l’ha fatta più e pare abbia dato a Pisapia del matto. Un piccolo cedimento, lo riconosco. Ma può capitare. Forza ragazzi, ripartiamo col mantra. Per quanto.

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« Risposta #152 inserito:: Maggio 21, 2011, 04:21:12 pm »

21/5/2011

Cattivi esempi

Massimo GRAMELLINI

Il presidente del colosso dell’energia crollato in Borsa dopo il disastro di Fukushima ha convocato una conferenza stampa per chiedere scusa ai giapponesi. Si è prodotto nel classico inchino e ha lasciato la poltrona per sempre, senza pretendere neppure una busta-paga d’addio. Anche il primo ministro ha rinunciato al suo stipendio fino a quando l’emergenza nucleare non sarà superata. Si tratta di reazioni emotive, tipiche dei Paesi meno evoluti. Da noi, per dire, non potrebbero verificarsi. Il capo di un’azienda sull’orlo del fallimento convocherebbe una conferenza stampa per insultare chiunque osasse muovergli una critica. Si atteggerebbe a vittima di un complotto, a capro espiatorio, a benefattore incompreso dell’umanità. Infine si degnerebbe di rassegnare le dimissioni, ma solo dopo aver trattato con il suo successore una liquidazione miliardaria.

Proprio l’aspetto economico, se vogliamo il più prosaico, è quello che alimenta le mie perplessità di cittadino poco evoluto. Non metto in dubbio che l’aggressività, il vittimismo e la maleducazione siano i requisiti del vero leader. Stento invece a cogliere il nesso fra i risultati fallimentari e i riconoscimenti in denaro, specie quando i soldi appartengono ai contribuenti. Non dico di abbassarci al livello del Giappone. Ma (l’esempio, sia chiaro, è puramente ipotetico) se un programma della tv di Stato venisse chiuso per mancanza di pubblico dopo appena una puntata, non sarebbe un comportamento fin troppo evoluto versare egualmente al protagonista del programma la cifra pattuita di un milione di euro?

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« Risposta #153 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:56:07 pm »

31/5/2011

Massimo GRAMELLINI


Ieri in Italia sono finiti gli Anni Ottanta. Raramente nella storia umana un decennio era durato così a lungo. Gli Anni Ottanta sono stati gli anni della mia giovinezza, perciò nutro nei loro confronti un dissenso venato di nostalgia. Nacquero come reazione alla violenza politica e ai deliri dell’ideologia comunista. L’individuo prese il posto del collettivo, il privato del pubblico, il giubbotto dell’eskimo, la discoteca dell’assemblea, il divertimento dell’impegno. La tv commerciale - luccicante, perbenista e trasgressiva, ma soprattutto volgarmente liberatoria - ne divenne il simbolo, Milano la capitale e Silvio Berlusconi l’icona, l’utopia realizzata. Nel pantheon dei valori supremi l’uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi al di fuori di ogni regola, perché solo da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere.

Purtroppo anche il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è destinato prima o poi a implodere. Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l’ambientalismo a sussurrare nuove parole d’ordine, eppure in questo lenzuolo d’Europa restavamo aggrappati a un ricordo sbiadito. La scelta di sfidare il Duemila con un uomo degli Anni Ottanta era un modo inconscio di fermare il tempo. Ma ora è proprio finita. Mi giro un’ultima volta a salutare i miei vent’anni. Da oggi si guarda avanti. Che paura. Che meraviglia.

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« Risposta #154 inserito:: Giugno 08, 2011, 03:59:56 pm »

8/6/2011

Vita della albero L'

Massimo GRAMELLINI

In un cineclub di Bologna hanno proiettato per una settimana «L’albero della vita» di Malick all’incontrario. Prima il secondo tempo, poi il primo. E alla fine, applausi convinti. Pare che il distributore avesse invertito per sbaglio le etichette sui rulli della pellicola.

Sta di fatto che gli spettatori del film vincitore a Cannes non si sono accorti di nulla. Ora, è vero che il protagonista muore all’inizio e rivive durante le ore successive, per cui l’inversione dei rulli ha semplificato la trama. Ma i frequentatori del cineclub - i famigerati intellettuali con barba esisteranno ancora? - hanno ridato fiato al partito di Fantozzi, che li sbertuccia dai tempi della Corazzata Potemkin. Par di vederli, mentre escono dalla sala magnificando la genialità del regista nel mettere la parola FINE al termine del primo tempo, superata solo dall’intuizione di inserire i titoli di testa all’inizio del secondo.

Vorrei prendere le loro difese: intanto il film era in lingua originale e si sa che molti intellettuali dicono di sapere l’inglese, ma restano fermi a «the cat is on the table». E poi c’è il condizionamento del luogo. Nei cineclub, come a certe mostre, si entra con un pregiudizio favorevole nei confronti dell’artista. Davanti al ritratto di un uomo a testa in giù, mi capitò di udire un critico profondersi in gargarismi per il pittore che «aveva denunciato il rovesciamento della realtà operato dal Potere». Stavo riflettendo sulla profondità del messaggio, quando un commesso si avvicinò al quadro e lo mise nel verso giusto, scusandosi per l’errore.

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« Risposta #155 inserito:: Giugno 09, 2011, 05:20:31 pm »

9/6/2011

Astenuti biforcuti

Massimo GRAMELLINI


L’altra sera, guardando Ballarò, mi sono stropicciato gli occhi. L’ecologista Bonelli e il liberista Giannino discutevano di referendum. Ma non come accade di solito in tv. Quei due sapevano di cosa stavano parlando. Tanto da sollevarsi dal tema specifico, l’acqua, alle grandi questioni ideali: quando il Pubblico non funziona, è meglio cambiare il Pubblico o cedere il passo al Privato? Questa è la politica che mi piace. E perciò ho la massima stima di chi domenica e lunedì voterà Sì come Bonelli o No come Giannino. Merita rispetto anche chi si asterrà per disinteresse, sebbene il nucleare, la gestione di un bene primario come l’acqua e l’uguaglianza davanti alla legge siano questioni su cui ogni cittadino dovrebbe cercare di formarsi un’opinione.

Chi invece non sopporto sono gli astenuti biforcuti. Quelli interessati ai referendum. Interessatissimi. Ma che proprio per questo, dopo aver cercato di vanificarli spingendoli alla soglia dell’estate, si asterranno al puro scopo di farli fallire. Per giustificarsi, costoro tirano in ballo la volontà dei Padri Costituenti. Ma chiunque vada a rileggersi i lavori preparatori della Costituzione scoprirà che il quorum del 50% degli aventi diritto al voto fu inserito come clausola di autodifesa contro i referendum di scarsa presa popolare, non come trappola per consentire ai contrari di truccarsi da disinteressati. Questa gherminella viene usata solo in Italia. Ed è anche per infliggere una lezione a certi azzeccagarbugli da strapazzo che domenica e lunedì non andrò al mare.

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« Risposta #156 inserito:: Giugno 11, 2011, 05:16:44 pm »

11/6/2011

La piccola Borghezìa

Massimo GRAMELLINI

Il Borghezio malmenato in Svizzera mentre cerca di ficcare il naso in una riunione di banchieri è la versione caricaturale ma fedele di un nuovo tipo di cittadino che sta crescendo a dismisura in tutta Europa. L’equivalente del «piccolo borghese imbestialito» (così lo definì Gramsci) che nel secolo scorso fornì la base di consenso ai fascismi nascenti. Allora era un reduce della Grande Guerra o un povero cristo impoverito, che nei «pescecani» del capitalismo vedeva gli affamatori e nei socialisti i fomentatori del disordine. Sono cambiati i nomi (adesso i «pescecani» si chiamano «poteri forti»), ma i nemici sono rimasti gli stessi e Borghezio può indifferentemente scagliarsi contro un banchiere o un tunisino: per lui rappresentano le due facce del medesimo complotto globale, ordito da una congrega di finanzieri giudo-pluto-massonici che mirano a distruggere le radici della vecchia Europa, succhiandole i risparmi e invadendola di alieni che pregano Allah.

Questa piccola Borghezìa europea è ostile alle destre e alle sinistre che si alternano al governo, perché le ritiene entrambe alleate dei miliardari. In Italia ha partorito un esperimento ibrido: il miliardario anti-sistema. Ma più la crisi si aggrava, più la piccola Borghezìa si ritrova a dar ragione alla sua nuova icona continentale, Marine Le Pen: «Mi domando come faccia Bossi a rimanere con Berlusconi: uno che accetta l’euro, l’impero americano e il potere delle banche. Se io mi alleassi con Sarkozy, i miei mi volterebbero le spalle». Pare che se lo stia cominciando a domandare anche Bossi.

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« Risposta #157 inserito:: Giugno 14, 2011, 06:17:32 pm »

14/6/2011

Un successo senza padri

Massimo GRAMELLINI


Chi ha perso? Berlusconi, Bossi, l’idea che il Privato sia sempre e comunque meglio del Pubblico, i telegiornali di regime che hanno cercato di abrogare i referendum dalla testa degli spettatori. Chi ha vinto? Una rabbia e una speranza indefinite, il Noi che torna dopo tanto tempo a prevalere sull’Io, migliaia di cittadini riuniti nelle nuove famiglie elettroniche dei social network, dove si va a votare perché ti ha informato l’amico e non il partito. Tra i due elenchi, una differenza salta subito agli occhi. In quello degli sconfitti ci sono dei leader (ancorché anziani), mentre fra i vincitori nemmeno uno. Poteva esserlo Di Pietro, ma è stato abbastanza furbo da fare un passo indietro. Vorrebbe esserlo Bersani, ma appena ha provato a intestarsi il trionfo è stato zittito dal resto della compagnia.

La verità è che se pensi al referendum sul divorzio ti viene in mente Pannella. Se pensi a quelli sulla partitocrazia, Mariotto Segni. Invece le vittorie su acqua, nucleare e legittimo impedimento non possono essere collegate a nessun politico. Al massimo a Celentano e Santoro.

Di solito sono le sconfitte a non avere padri. Ma qui sta succedendo il contrario. Prima le elezioni amministrative di Milano e Napoli hanno premiato due eretici. E adesso i referendum, vinti da cittadini che sono tornati a credere nella politica, ma non nei politici. Un movimento di massa sganciato dai partiti, che sancisce il declino dei due capi-popolo più potenti dell’ultimo ventennio, ma non incorona nessuno al posto loro, perché in nessuno riconosce una figura davvero estranea alla Casta.

Questo movimento è un magma rovente che si condenserà in qualcosa di inedito o di antico, ma solo a patto di incontrare qualcuno capace di dargli uno sbocco. Veniamo da anni di personalizzazione eccessiva, dove ai leader si è voluto delegare anche troppo, trattandoli come anfore luminescenti nelle quali versare tutte le nostre aspettative e i nostri pensieri migliori (o peggiori). Un meccanismo tipico dell’innamoramento. A cui hanno fatto seguito, come in tanti innamoramenti, le montagne russe della delusione trasmutata in rabbia, poi in nausea e infine in una fuga percorsa da volontà di riscossa. Ma non si può restare orfani di padre troppo a lungo. Ogni mutazione sociale ha bisogno di interpreti forti. E perché avvenga dentro i canoni della democrazia, richiede da questi interpreti qualità non solo carismatiche, ma di sostanza: la competenza, la sobrietà, il demone del riformismo. Quel talento del vero leader che consiste nell’anticipare i bisogni profondi dei cittadini, anziché inseguirli lungo la china demagogica dei sondaggi. La fine sfilacciata ma inesorabile del berlusconismo sorprende l’Italia senza padri, a destra e a sinistra. Magari il futuro prossimo ci riserva personalità ancora ignote o sotto traccia. Ma per il momento l’ironia della sorte è che i nomi più appetibili sul mercato - da Casini a Matteo Renzi a Rosi Bindi - sono tutti democristiani. Come se questo Paese non potesse essere nient’altro, nel bene e nel male.

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« Risposta #158 inserito:: Giugno 14, 2011, 11:00:24 pm »

Cultura

06/06/2011 -

150 anni dopo, Cavour resta il politico dei miei sogni

Lo statista nacque a Torino il 10 agosto 1810. Morì a 51 anni non ancora compiuti in seguito a una delle crisi malariche che lo affliggevano da quando aveva contratto la malattia nelle risaie di famiglia del Vercellese

Il 6 giugno 1861 moriva Cavour: stasera la commemorazione al castello di Santena

MASSIMO GRAMELLINI

A quattordici anni avevo tre poster nella stanza: Pulici, i Genesis e il conte di Cavour. Qualcuno troverà innaturale l’innamoramento di un adolescente per un professionista della politica, per di più di idee liberali. I giovani dovrebbero ergere a proprio modello i rivoluzionari e concordare con Dumas, l’inventore dei Tre moschettieri: «Che posso farci con Cavour, io? Cavour è un grande uomo di Stato, un politico consumato, un uomo di genio. Più in gamba di Garibaldi, ma non porta la camicia rossa, lui! Garibaldi è un pazzo, uno sciocco, ma uno sciocco eroico: ci intenderemo benissimo».

Invece la mia indole garibaldina rimase sedotta da Cavour. Forse per la legge degli opposti. O forse perché Cavour è un personaggio romantico che per esserlo non ha bisogno di lanciare proclami da un cavallo bianco. La mia fascinazione fu in gran parte determinata dalla lettura delle sue «bravate» giovanili.

Il disprezzo con cui accolse la nomina a paggio di Carlo Alberto («Non vedo l’ora di togliermi di dosso questa livrea da gambero») e la descrizione che di lui diede il padre, il marchese Michele, in una lettera alla moglie: «Nostro figlio è un ben curioso tipo. Anzitutto, ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate, fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro! Dopodiché mi ha recitato parecchi canti di Dante e le canzoni di Petrarca, passeggiando a grandi passi in vestaglia con le mani affondate nelle tasche». Mi catturò questa bulimia del vivere, la ricerca spasmodica di emozioni forti che farà di lui uno scommettitore spregiudicato, un viaggiatore infaticabile e un amante smanioso di conquiste ma incapace di amori profondi, perché la quiete in cui crescono i sentimenti autentici si scontrava con il perpetuo bisogno d’azione che in lui fungeva da antidoto alla depressione.

Mi identificai con questa sua tara psicologica e ancora oggi, quando salgo al Monte dei Cappuccini per rimirare il panorama di Torino, il pensiero corre al giovane Cavour che non vede sbocchi per il suo talento in un Piemonte asfittico e reazionario, e al culmine di una giornata di pensieri cupi si affaccia al bastione per gettarsi nel vuoto, trattenuto a stento da un cappuccino, fra Valeriano. Che un frate abbia salvato la vita al futuro mangiapreti mi è sempre sembrata un’ironia della Provvidenza. Non nego che da ragazzo il suo anticlericalismo (abbinato però a un grande rispetto per la spiritualità) abbia contribuito a farmi innamorare di lui. Lessi l’articolo del Risorgimento in cui l’ormai quarantenne Cavour raccontava la scena del ricatto subìto sul letto di morte dal suo amico del cuore, Santorre di Santarosa, al quale il prete negò l’estrema unzione, subordinandola all’abiura delle leggi Siccardi. Erano leggi civili, che abolivano odiosi privilegi ecclesiastici nel campo della giustizia e del fisco. Il 7 marzo 1850, il deputato Camillo Cavour le appoggiò alla Camera con un discorso magistrale: «Gli abusi vanno riformati in tempi pacifici, prima che ci vengano imposti dai partiti estremi. Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano, invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza». Era ed è il manifesto del riformismo: l’unica ricetta di progresso sociale possibile, perciò osteggiata dai reazionari che non vogliono cambiare nulla e dai massimalisti che, per la smania di cambiar tutto, finiscono sempre per fare il gioco dei reazionari.

Emozionarsi per il riformismo a vent’anni ha qualcosa di mostruoso, lo ammetto. Ma la colpa o il merito erano di quel formidabile «testimonial». Cavour non era un parolaio né un utopista. Ma quanto coraggio e quanta passione vibravano nella sua politica economica liberale, che abolì i dazi e indebitò lo Stato per costruire infrastrutture all’avanguardia e promuovere consumi e investimenti, proiettando il Piemonte nel futuro. E quanto genio e quanta visione nella sua politica estera. Fu abbastanza sognatore da immaginare l’Italia (almeno quella del Nord) e abbastanza pragmatico per capire che non potevamo costruirla solo con le nostre forze, come avrebbe voluto Mazzini. Così curò il suo alleato, Napoleone III, lo compiacque nelle smanie cospiratrici, nei vizietti d’alcova e finanche nei disegni dinastici, obbligando Vittorio Emanuele II, pover’uomo, a concedere in sposa la renitente figlioletta Clotilde a un parente dell’imperatore. Ecco, se Cavour aveva un difetto, era di essere disposto a sacrificare tutto, compresi gli affetti, agli interessi supremi dello Stato. Ma siamo sicuri che per un politico sia un difetto?

È più semplice innamorarsi di un Garibaldi, di un Braveheart, di un Che Guevara. Ma Cavour è l’Utopia che scende sulla Terra e si fa carne, progetto concreto. È l’eterno bambino che quando gli annunciano che l’Austria ha abboccato al suo bluff e ci ha dichiarato guerra (facendo così scattare la clausola di mutuo soccorso con la Francia) incomincia a saltellare per la stanza, cantando una romanza e steccandola maledettamente. È il despota collerico che, dopo l’armistizio di Villafranca che concede al Piemonte la sola Lombardia, implora Vittorio Emanuele di non firmare e, di fronte alle resistenze del sovrano, gli grida: «Sono io il vero Re!» e se ne va sbattendo la porta.

Non mi fu facile da ragazzo, e non lo è nemmeno oggi, digerire la spregiudicatezza con cui il Conte scalò la presidenza del Consiglio, segando la poltrona su cui stava seduto quel gentiluomo di Massimo D’Azeglio, che pure lo aveva voluto al governo come ministro dell’Agricoltura («Ch’a stago sicur che côl lì, an poch temp, an lo fica an’t el pronio a tuti», «state sicuri che quello lì in poco tempo lo metterà in quel posto a tutti», profetizzò allora il Re, che non lo amò mai, ma seppe intuirne il talento). Anche l’idea del Connubio, l’accordo con la sinistra moderata di Rattazzi, fa storcere la bocca ai puristi, che vi vedono l’archetipo degli «inciuci» parlamentari che da 150 anni sono la nostra croce. Eppure c’è una differenza fondamentale tra Cavour e i suoi pallidi successori. In lui la manovra politica non era mai un fine, ma un mezzo per perseguire obiettivi più grandi, che trascendevano la sua ambizione personale. Il Conte aveva un progetto. E sono i progetti a distinguere gli statisti dai politicanti. «Noi abbiamo fatto l’Italia. E la cosa va», disse sul letto di morte. Una morte prematura, a soli 51 anni. Il triste finale di una storia che rileggo ogni anno nella speranza infantile di un colpo di scena: che Cavour guarisca e, 150 anni dopo aver fatto l’Italia, ci aiuti a fare gli italiani. Lui che di italiano non aveva nulla, se non il genio, se non il cuore.

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« Risposta #159 inserito:: Giugno 16, 2011, 12:11:06 pm »

16/6/2011

Brunetta, il ministro in fuga dalla realtà

MASSIMO GRAMELLINI

L’Italia peggiore è quella che scappa. Dal mondo reale e dalle domande scomode, addirittura prima che siano formulate. Se qualcuno non avesse ancora capito perché la maggioranza dei cittadini ha voltato le spalle al governo, troverà nel filmino «Brunetta e la Precaria» la rappresentazione plastica di uno sfilacciamento arrogante. Siamo a Roma, a un convegno sull’innovazione, e il ministro ha appena finito di parlare quando Maurizia Russo Spena, figlia di un ex parlamentare di estrema sinistra (orrore orrore), va al microfono per porgergli una domanda.

Fa soltanto in tempo a qualificarsi: «Sono della rete di precari al servizio della pubblica amministrazione…» ed è come se a Brunetta avessero infilato due dita in una presa. «Grazie, arrivederci, buongiorno», la interrompe. La ragazza non ha ancora detto il suo nome, ma il ministro è in grado di fiutare una comunista anche a venti metri di distanza controvento. «Arrivederci, questa è la peggiore Italia!» e guadagna l’uscita.

Non è vero, come affermerà più tardi in un videomessaggio, che se ne sia andato dopo aver ricevuto insulti e per la sensazione di essere rimasto vittima di un agguato mediatico. Dal filmato emerge chiaramente che le urla «buffone, buffone» sono successive alla sua fuga ingloriosa, il cui epilogo ha una potenza d’immagini cento volte superiore alla sostanza dell’episodio: si vede il potente che sgomma via in auto blu, mentre un precario strattonato dalla scorta si piazza davanti alla macchina e grida: «Che fa, ministro, mi investe?». Sembra uno spot di «Annozero» sul distacco fra il Palazzo e i nuovi miserabili del panorama sociale italiano.

Brunetta ha poi spiegato che non ce l’aveva coi precari, ma coi provocatori. Come si dice dalle sue parti, «el tacòn xe peso del buso». Infatti il ministro si è dimenticato di ciò che aveva dichiarato la sera prima in tv da Lilli Gruber, quando si era esibito in una tiritera luogocomunista sui giovani che lamentano la mancanza del posto fisso invece di andare a scaricare le cassette di frutta al mercato. Ora, nel vasto campionario del precariato italiano, ci sarà anche una percentuale endemica di fannulloni e di schizzinosi. Ma le storie che piovono ogni giorno sui tavoli delle redazioni raccontano una realtà diversa. Raccontano di laureati costretti ad andare all’estero dopo aver attraversato decine di impieghi saltuari e sottopagati. Raccontano di giovani che invecchiano facendo di tutto, soprattutto i lavori più umili, nella vana attesa di trovare lo sbocco a cui li destinavano i loro studi e le loro attitudini. Raccontano di fallimenti professionali ed esistenziali, dovuti non all’incapacità della persona, ma a un sistema bloccato da troppi privilegi, in cui solo le conoscenze politiche e familiari consentono di ottenere ciò che il merito non basta mai a garantire.

Il centrodestra era stato votato, immagino, per sfasciare con riforme liberali il vecchiume di questo Paese, non per eternarne i conservatorismi. Invece si è smarrito in una rappresentazione della realtà più adatta alle dispute da bar che a un ceto dirigente moderno. I disoccupati non lavorano perché non hanno voglia di farsi venire i calli alle mani (parola di Brunetta e Sacconi, che in un’altra era furono socialisti, forse a loro insaputa). E il popolo di sinistra è bravo a montare scenette spiritose sui siti Internet «perché non ha nient’altro da fare» (parola dell’onorevole Stracquadanio, lavoratore indefesso, a cui per carità di patria ho depurato il linguaggio da trivio).

La parabola del fustigator Brunetta racchiude la storia di questo governo e di questi anni. Il ministro che prendeva gli applausi quando diceva che gli statali erano dei fannulloni, adesso prende i fischi quando afferma che fannulloni sono tutti gli italiani senza un posto garantito, statali precari compresi. In mezzo è cambiato il mondo, ma Brunetta evidentemente non se n’è accorto. In questo assomiglia molto al suo principale.

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« Risposta #160 inserito:: Giugno 18, 2011, 10:27:30 am »

18/6/2011

Viale del tremonti

Massimo GRAMELLINI

No, questo è troppo. Anche per chi lo considera il principale responsabile del rimbecillimento televisivo di alcune generazioni di italiani, il trattamento che il vecchio attore a fine carriera Silvio Berlusconi sta riservando a se stesso è quasi straziante. Dopo aver incolpato Crozza per la sconfitta ai referendum, ieri ha telefonato a un convegno di italoamericani in Calabria presieduto dal fido onorevole Nucara. «Pronto?». La sua voce tristemente allegra ha echeggiato nella sala sgombra. Se n’erano già andati via tutti. Rimaneva solo un drappello di tecnici addetti allo smontaggio, che lo hanno sentito predicare il suo verbo berluscottimista in un deserto di sedie vuote, fili penzolanti e luci ormai spente. Richiamati precipitosamente dal buffet, il Nucara e un riccone italoamericano sono andati al telefono per ringraziare il vecchio attore e illuderlo che dietro di loro ci fosse un pubblico adorante in ascolto. Lui di rimando ha salutato le sedie ricoperte di panno bianco: «Viva gli Stati Uniti d’America, viva la Calabria, viva l’Italia!» e mentre un tecnico sghignazzava con scarso ritegno, io davanti alla tv ho sentito una stretta al cuore.

Per scongiurare la malinconia che mi procurano le uscite di scena ritardate (ricordo Maradona in campo col panzone) ho aperto l’Antologia di Spoon River in cerca dei versi giusti. «Andatevene dalla stanza se perdete, andatevene quando il vostro tempo è finito. E’ vile sedersi e brancicare le carte, e maledire le perdite con occhi cerchiati, piagnucolando per tentare ancora».

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« Risposta #161 inserito:: Giugno 22, 2011, 12:16:31 pm »

22/6/2011
 

 
Massimo GRAMELLINI
 
Per solidarietà coi ragazzi che oggi si cimentano nell’epica impresa, proverò a ripetere, trentadue anni dopo, l’esame di maturità. La seconda volta viene tutto meglio, dicono. Il ministro di allora si chiamava Spadolini, leggeva tre libri al giorno oppure li scriveva, ed era capace di inanellare sette subordinate in un periodo senza tirare il fiato. Come spunto per il tema di attualità, si era ispirato a una frase di Francisco Goya contro le dittature: «Il sonno della ragione genera mostri». Non ricordo più cosa scrissi, ma di sicuro avrò lardellato il mio componimento di auspici. Speriamo, bisognerebbe, è importante che tutti... Ero un auspicatore accanito, all’epoca.

Oggi no. Oggi punterei dritto sul Goya per poi scartarlo con la mossa dell’editorialista provetto: «Ben altro è il problema...». Ben altro infatti è il sonno che ci tormenta. Il sonno della passione. Non che la ragione saltelli garrula nelle teste di certi mostri, che si nutrono ormai soltanto di luoghi comuni. Ma la ragione è la macchina: viene dopo. Prima ci vuole la benzina per metterla in moto. E la benzina è la passione, quell’energia del cuore che sa coniugare i verbi al futuro. «Cosa sarà che ti fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento?», cantavano profetici Ron, Dalla e De Gregori sul palco di Torino, la notte prima della mia maturità. E’ la paura che il mondo, questo mondo, non avrà uno spazio per noi. La paura che genera rabbia, che genera disperazione, che genera mostri. Sarà dura, ma noi non ci arrenderemo, vero? Buona fortuna, ragazzi. Nessun dorma: stamattina e non solo.
 
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« Risposta #162 inserito:: Giugno 23, 2011, 09:53:01 am »

23/6/2011

Il volto del potere

Massimo GRAMELLINI

Conoscere la faccia del Bisignani è un privilegio concesso a pochi. Quei dieci o undici milioni di italiani che gli hanno parlato al telefono non l'hanno mai visto di persona e i cittadini comuni che hanno appreso della sua esistenza solo in questi giorni continuano a vedere la stessa foto, quella con gli occhiali a goccia e il faccino stirato, scattata qualche secolo fa. Paradossale, vero? Il mondo non fa che dirci che esistiamo solo se siamo visibili, ma intanto i potenti veri non li conosce nessuno. Mai visto un banchiere sulle poltrone dei talk show, neanche in America. I burattinai mandano i pupazzi in tv ad agitarsi al posto loro. Forse temono che l'immagine rifratta in migliaia di schermi finisca per prosciugare l'anima. O più banalmente sentono che il potere si nutre di timore. E nulla toglie il timore quanto la familiarità.

Appena un gradino al di sotto degli invisibili, stanno gli audio-potenti: quelli che non vanno in tv però le telefonano, incombendo con voce monologante sugli ospiti effigiati in studio. Scendendo di un gradino ulteriore, ecco il potente distaccato: si fa vedere, ma in collegamento da un'altra sede, ritratto sul maxischermo con le dimensioni di un poster di Mao. Comunque appare, quindi conta già poco. Chi invece non conta proprio niente sono gli habitué. Le marionette abbarbicate alle poltroncine, che si agitano per strappare un primo piano alla telecamera, bofonchiando il mantra «io non ti ho interrotto tu non mi interrompere». Il popolo senza speranza li disprezza e li vota. Il potere senza volto li disprezza e li usa.

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« Risposta #163 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:45:31 pm »

25/6/2011

Il secondo comma

Massimo GRAMELLINI

Invoco la protezione celeste e la nostra umana vigilanza sulla bozza Tremonti per la riduzione dei costi della politica, affinché non cada vittima della maledizione del secondo comma. Se ogni legge italiana avesse soltanto il primo comma, saremmo la nazione più civile della Terra. In esso riposa il principio universale, la regola chiara, il termine inderogabile. Purtroppo il primo comma procede sempre in coppia con un altro che contiene gli appigli a cui ci si potrà aggrappare per vanificare quanto solennemente decretato due righe più sopra. La bozza Tremonti sancisce che i parlamentari non possono essere pagati meglio dei loro colleghi europei: sembra un’ovvietà, invece è una mezza rivoluzione. Poi però aggiunge che l’adeguamento al ribasso scatterà «dalle prossime elezioni».

Campa cavallo. Veniamo alle auto blu. Qui il primo comma è un inno alla sobrietà: «La cilindrata delle auto di servizio non può superare i 1600 cc». Ma è contraddetto dal secondo: «Le auto a oggi in servizio possono essere utilizzate fino alla loro dismissione o rottamazione». Morale: per adesso se le tengono tutte. E i famigerati benefit? Svaniranno «dopo la scadenza dell’incarico». «Durante» no. E vedrete che anche sul «dopo» si troverà modo di aggiungere un comma più ragionevole. Ma il capolavoro sono i finanziamenti alla Casta, che vengono drasticamente «ridotti del…». Qui il ministro, in preda a uno scoraggiamento preventivo, ha lasciato la cifra in bianco. Ben sapendo che i legislatori inseriranno una percentuale pari alla stima che noi nutriamo nei loro confronti: zero

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« Risposta #164 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:44:48 pm »

24/6/2011

L'hit parade dell'amore

Massimo GRAMELLINI

Il dottor Veronesi sostiene che l’amore più puro è quello omosessuale, perché non è finalizzato alla procreazione. Lo sostiene in risposta a quel sindaco che aveva definito l’omosessualità un’aberrazione genetica.

Veronesi mostra di aver letto il Simposio di Platone (il sindaco si è fermato a Playboy). Ma forse l’illustre oncologo ha dimenticato il finale, altrimenti si ricorderebbe che l’amore non prevede classifiche di genere. All’origine, narra Platone, esistevano maschi, femmine e androgini dotati di entrambi gli organi sessuali.

Ma quando gli uomini vollero scalare il cielo, gli dei li punirono spaccandoli in due. Da allora ciascuno cerca la sua metà perduta: i maschi dimezzati sono diventati gay, le femmine lesbiche e gli androgini etero. Nessuno è più puro o aberrante dell’altro. E tutti possono procreare, anche se l’unione fra le due metà dello stesso sesso partorisce solo idee e non corpi.

La differenza, spiega Platone, non la fanno dunque i sessi, ma la qualità dei sentimenti: la «scala dell’amore», che va dalla bellezza fisica a quella divina. L’amore è l’energia dell’universo con cui l’uomo riesce a entrare in sintonia soltanto quando ama. L’oggetto dell’amore non è poi così importante. Può essere un maschio, una femmina, un figlio, un animale, una pianta, una montagna, un sogno, un progetto, un ideale. Quel che conta è la pulsione spirituale che l’amante esprime nell’amare.

Chiedo umilmente scusa al professor Platone se duemilaquattrocento anni dopo non abbiamo ancora imparato la lezione.

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