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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 101684 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Febbraio 09, 2013, 04:00:50 pm »

Editoriali
09/02/2013

Un’occasione che dobbiamo cogliere

Mario Deaglio

Dopo oltre ventiquattr’ore filate di trattative difficili, l’Europa ha raggiunto un accordo non scontato in partenza. Il che è certamente positivo. Si è però scoperta sempre più pragmatica e sempre meno idealista, potremmo dire sempre più «democristiana» nel senso che nessuno esulta e nessuno piange, nessuno ha stravinto e nessuno esce da questo confronto veramente sconfitto. Tranne, forse, l’idea stessa d’Europa ormai piuttosto lontana da quest’Unione Europea nella quale il compromesso sembra regnare sovrano, con tutti gli svantaggi che questo comporta in un momento di crisi quando sarebbero necessarie scelte di alto profilo.

I rigoristi tedeschi, per una volta d’accordo con i britannici (un asse Berlino-Londra che di fatto ha sostituito, almeno in quest’occasione, il tradizionale asse Berlino-Parigi) e con l’aiuto di qualche paese nordico, hanno fatto passare il principio che anche il bilancio dell’Unione Europea si può tagliare: la parola «austerità», finora sconosciuta, comincerà ad aleggiare nei palazzi di Bruxelles. I non rigoristi, ossia i francesi, gli italiani, gli spagnoli e molti altri hanno ottenuto che i tagli vengano effettuati in modo da non danneggiare le loro economie. 

 

Si dovrebbe anzi, in molti casi, verificare un miglioramento nel rapporto tra i contributi che questi paesi versano e i fondi che questi paesi ricevono dall’Europa. 

Per ottenere questo risultato, per accontentare tutti, almeno un poco si sono fatte due operazioni distinte: la prima è consistita nel trasferimento a un nuovo fondo, dedicato alla lotta contro la disoccupazione giovanile, di una parte dei fondi per lo sviluppo, il che significa che ciascun paese dovrà contare, più che in passato, sulle proprie forze per far crescere l’economia. Se non si farà attenzione, potremmo avere minore crescita e più assistenzialismo. Non è detto che questo sia necessariamente un male dato l’emergere di dure condizioni di povertà non solo in Italia o in Spagna ma nell’intera Unione, ma sicuramente non aiuta gli europei a cercare di mantenere il peso dell’Europa nel mondo. 

 

La seconda operazione chiama in causa i «residui», ossia il fatto che non tutti i fondi stanziati per i prossimi cinque anni (la rispettabile somma di 960 miliardi di euro, contro 994 del quinquennio 2007-13) saranno effettivamente spesi (il tetto è stato posto a 908 miliardi, il 3 per cento in meno del quinquennio precedente). Che cosa effettivamente sarà speso e che cosa sarà rinviato, lo si vedrà in seguito. Per intanto, l’annuncio del taglio degli impegni fa contenti i rigoristi, la possibilità che i tagli alla spesa effettiva siano minori fa contenti i non rigoristi; e tutti possono tornare a casa con almeno mezza vittoria in tasca. Inoltre, la cancelliera Merkel può segnare al proprio attivo di aver fatto da mediatrice tra il primo ministro britannico Cameron e il presidente francese Hollande. Non a caso, la cancelliera Merkel è leader della democrazia cristiana tedesca.

Sembra far capolino, dietro ai grandi principi, l’esigenza di economie nelle «spese generali» dell’Unione, una vera e propria svolta culturale che coinvolgerà sia la burocrazia europea, molto efficace ma non certo a buon mercato, sia il Parlamento Europeo, piuttosto costoso, con la sua sede «staccata» di Strasburgo, e alla ricerca di un vero ruolo deliberante. Precisamente da questo Parlamento potrebbero derivare ostacoli all’approvazione o quanto meno un senso di fastidio nel dover approvare un accordo in cui non ha avuto molta parte: i leader dei quattro principali gruppi politici (popolari, socialisti, liberali ed ecologisti) hanno subito espresso forti critiche. Ben al di là delle semplici critiche potrebbero spingersi le modifiche quando dai grandi principi si passerà alle disposizioni attuative, scritte in carattere più piccolo: il diavolo, come dicono gli inglesi, potrebbe annidarsi nei dettagli ancora da mettere a punto. 

 

Per l’Italia i risultati sulla carta sono positivi, in quanto il rapporto tra quanto il Paese versa a Bruxelles e quando riceve da Bruxelles pare destinato a migliorare sensibilmente. Attualmente siamo il Paese che contribuisce di più in percentuale del proprio reddito nazionale lordo (0,38 per cento, contro 0,34 per cento di paesi più ricchi e più rigoristi, come Germania e Finlandia) al bilancio dell’Unione e uno di quelli che ricevono di meno. Nel prossimo quinquennio, questo divario dovrebbe essere attenuato o annullato, un successo da non sottovalutare. Anche qui, però, il diavolo si anniderà nei dettagli: l’Italia dovrà «guadagnarsi» i fondi europei. Questa attività compete soprattutto alle Regioni che dovranno presentare progetti e rendiconti adeguatamente documentati secondo le minuziose regole dell’Unione che molte regioni italiane proprio non riescono a seguire. In sostanza, anche in quest’Europa dei compromessi c’è qualche buona occasione per l’Italia. Sempre che l’Italia la sappia cogliere.

 

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/2013/02/09/cultura/opinioni/editoriali/un-occasione-che-l-italia-deve-cogliere-ibCrAoxZcloOeECd7zhBeJ/pagina.html
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« Risposta #166 inserito:: Marzo 06, 2013, 12:26:50 pm »

Editoriali
06/03/2013

La politica che dimentica l’economia

Mario Deaglio


Da circa una settimana, ossia da quando sono stati resi noti i risultati elettorali, tutte le forze politiche si comportano come se l’economia non esistesse: l’attenzione è pressoché totalmente indirizzata a uscire dal vicolo cieco in cui la politica stessa si è cacciata, senza alcuna vera attenzione né per la crisi economica né per le regole e i vincoli di un’economia che, come le altre dell’Unione Europea, non può più dirsi totalmente sovrana, risultando vincolata da regole che non è possibile trasgredire disinvoltamente.

 

Un atteggiamento del genere rischia di distruggere in poche settimane il risultato di un anno e più di sacrifici: l’Italia ha riacquistato credibilità ma deve prendere a prestito quasi un miliardo di euro al giorno solo per rifinanziare il debito in scadenza, un’operazione che già è ridiventata sensibilmente più cara. In queste condizioni il dialogo con l’Europa non può essere condotto burocraticamente; al tavolo devono sedere un presidente del Consiglio e un ministro dell’Economia pienamente legittimati, ossia in grado di impegnarsi sulla base di un sostegno generale espresso dal Parlamento con un voto di fiducia.

 

L’agenda degli argomenti che attende questo presidente del Consiglio e questo ministro dell’Economia è fitta e urgente: il 14 marzo si riunirà a Bruxelles il Consiglio Europeo di primavera, primo di una serie di appuntamenti in cui sarà messa a punto la strategia economica europea per i prossimi 6-12 mesi. E’ naturalmente troppo presto perché l’iter politico italiano sia stato completato ma qualche indicazione dovrà essere chiara: l’Italia proprio non può sedersi al tavolo e far scena muta, deve partecipare a decisioni collettive e usare l’autorevolezza conquistata per fare richieste precise. Queste richieste potrebbero essere tre.

In primo luogo, dovrebbe essere avviato un confronto sulla differenza tra Francia (alla quale si consente di arrivare al pareggio del bilancio nel 2017) e Italia (costretta, per impegni del precedente governo, al pareggio nel 2013). Non si tratta di guadagnare qualche rinvio ma di consentire una rapida messa a punto di strumenti di rilancio della domanda. Un’Italia divenuta più credibile deve ricevere un trattamento più prossimo a quello dei «cugini» francesi che consenta misure di rilancio; e deve sottolineare che l’Europa è ormai attanagliata dalla crisi, la stessa Germania ne è almeno sfiorata e la pazienza politica degli europei non è eterna.

 

Uno dei possibili strumenti di rilancio riguarda il debito dello Stato e degli enti pubblici verso le imprese, nell’ordine di 80 miliardi di euro. Le norme europee lo considerano un debito «commerciale» e pertanto non è incluso nel debito pubblico. Debito commerciale, però, non è più: successivi governi hanno ritenuto comodo non pagare i fornitori per rendere meno brutto il quadro della finanza pubblica. Chi andrà a Bruxelles deve richiedere che almeno una parte di questo debito venga «finanziarizzato», il che consentirebbe a Stato ed enti pubblici di farsi anticipare le risorse per pagarlo dal mondo bancario, per il quale si tratterebbe di un investimento analogo a un Btp o a un Cct. 

 

Il pagamento dei debiti (ex)-commerciali è assolutamente prioritario per evitare il collasso di un gran numero di fornitori dell’amministrazione pubblica: l’immissione rapida nel circuito finanziario di almeno 40-50 miliardi sarebbe uno stimolo sufficiente a far ripartire l’economia, anche se non basterebbe a conservarne lo slancio e dovrebbe essere seguito da altre misure espansive. Una parte di queste risorse tornerebbe rapidamente al settore pubblico sotto forma di maggiori entrate fiscali e potrebbe essere nuovamente utilizzata per sostenere interventi pubblici rallentati o sospesi negli ultimi dodici mesi. L’elenco è lunghissimo c’è solo l’imbarazzo della scelta.

 

Nell’attuale emergenza economica non si può, inoltre, non rimettere sul tappeto il problema delle riserve auree italiane, molto ingenti e contabilmente valutate a circa 40 dollari l’oncia contro un prezzo di mercato di oltre 1500 dollari. La mera rivalutazione contabile (per un valore di circa 150 miliardi di euro) probabilmente indurrebbe i mercati finanziari a giudizi meno severi sull’Italia e a una riduzione dello spread. Com’è noto, spread più basso significa deficit più basso o più alta capacità di spesa pubblica a parità di deficit. L’oro potrebbe poi essere dato in garanzia a un ente internazionale - il miglior candidato è il Fondo Monetario - per ottenere non un nuovo prestito, di cui non c’è bisogno, bensì una linea di credito per fronteggiare attacchi speculativi: una sorta di Fondo Salva Italia, senza passare necessariamente per l’europeo Fondo Salva Stati.

 

Naturalmente per ottenere qualcosa è necessario che al tavolo di Bruxelles l’Italia non mandi degli «zombie» bensì ministri nella pienezza dei loro poteri, appoggiati da un voto di fiducia parlamentare. In ogni modo, la partita europea che si giocherà nei prossimi 2-3 mesi è essenziale perché l’Italia possa rimanere in serie A. Se le Camere e le forze politiche ritenessero di dedicare tutto il loro tempo, in questo periodo cruciale, a parlare dei loro problemi, della riduzione dei costi della politica, di fatto la politica potrebbe uccidere l’economia. E sarebbe inutile che dopo venisse a portare fiori sulla sua tomba. 

da - http://lastampa.it/2013/03/06/cultura/opinioni/editoriali/la-politica-che-dimentica-l-economia-EvwuojxZ7ZCkMiL7s4SzZK/pagina.html
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« Risposta #167 inserito:: Marzo 19, 2013, 11:43:08 am »

Editoriali
19/03/2013

Atene, errore umano a Nicosia diabolico

Mario Deaglio

Errare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. E c’è sicuramente qualcosa di diabolico in un’Unione Europea che non ha imparato nulla dagli errori compiuti con la Grecia. Ha condannato i greci ad almeno dieci anni di dura austerità, con un forte costo finanziario per i Paesi membri. 

Senza peraltro riuscire a risolvere il problema ma anzi mettendo a repentaglio la stabilità dell’euro. E ora supera se stessa con Cipro: grazie alla goffaggine europea, dopo un anno di trattative, i problemi finanziari dei suoi 800 mila abitanti, un po’ meno di quelli di Torino, riescono a innescare una caduta generalizzata delle Borse mondiali, a riportare ombre sull’euro, già in difficoltà per una recessione largamente artificiale, uscita dal laboratorio di Bruxelles. 

Anche ieri, la lentezza dei compassati - e impacciati - comunicati ufficiali e semiufficiali ha fatto da contrappunto alla rapidità con cui i mercati declassavano in blocco l’euro, la seconda moneta del mondo. Cipro è diventato il simbolo dell’incapacità europea con le banche chiuse in attesa del soffertissimo voto parlamentare, chiamato ad approvare (forse) oggi una forte imposta patrimoniale sui depositi bancari, che assomiglia a una taglia medievale. A molti italiani fa ancora venire i brividi il ricordo dell’analoga imposta dello 0,6 per cento sui depositi bancari introdotta dal governo Amato, ma quella era una carezza in confronto al 9 e più per cento che, per taluni tipi di depositi, viene proposto per Cipro. Dimenticando che Cipro è il principale punto di passaggio dei capitali russi in uscita e quindi creando una nuova tensione internazionale di cui non si sentiva proprio il bisogno.

Non vi è nessuna ragione logica per cui le crisi dei Paesi in difficoltà strutturali debbano essere risolte in tempi congiunturali, ossia brevissimi: perché sono stati concessi a Grecia, Cipro, Spagna pochissimi anni per raggiungere il pareggio dei bilanci pubblici, perché l’Italia deve arrivarci entro il 2013 e non il 2014 o il 2015 (il mero spostamento dell’obiettivo libererebbe le risorse per una ripresa e quindi la renderebbe molto più facile da realizzare)? Perché alla Francia si consente invece un pareggio di bilancio al 2017 e attualmente un deficit pari al 4,5 per cento del prodotto lordo, ben al di sopra dei parametri del patto di stabilità? 

Dietro una simile miopia nei confronti dei Paesi mediterranei (per la quale si distingue spesso il commissario finlandese Olli Rehn) e una simile disparità di trattamento non può mancare il sospetto di un occulto senso di superiorità dei Paesi settentrionali nei confronti della supposta pigrizia dei «mediterranei» e magari persino un’invidia sotterranea per il buon clima e il buon cibo. In realtà ciò che sta veramente bloccando tutto è la pigrizia dei capitali e degli imprenditori tedeschi, e, più in generale, nordici: non utilizzano i fiumi di denaro a buon mercato che l’andamento dei mercati sta mettendo temporaneamente nelle loro mani a un tasso di interesse prossimo allo zero per investimenti industriali e finanziari davvero rilevanti nei Paesi deboli. 

Solo così, con un flusso di investimenti paragonabile a quello del Piano Marshall, i tedeschi potrebbero davvero trasformare un predominio finanziario, probabilmente temporaneo, in un primato industriale accettato e condiviso, come fu, a lungo, quello degli americani. Al contrario, si preferiscono investimenti industriali molto vicini alle porte di casa, come in Ungheria, sulla cui deriva autoritaria si preferisce chiudere gli occhi, aspettando di vedere se Angela Merkel sarà confermata alla Cancelleria dopo le prossime elezioni tedesche: non si prendono decisioni vere e si calca la mano su Cipro.

Chi scrive è, come tanti, quasi certamente la maggioranza degli europei, è un sostenitore dell’Europa, intesa come progetto a un tempo civile e culturale oltre che economico. Un’Europa come l’attuale, economicamente frammentata, culturalmente segnata dal ritorno dei particolarismi regionali e linguistici, poco attenta ai problemi di civiltà e libertà sembra invece sentirsi davvero europea solo nel calcio. Non solo non risponde a questo ideale ma non sembra neppure avere un futuro in un mondo globale in cui una struttura portante come la Chiesa Cattolica è diventata, con l’elezione del nuovo Papa, sicuramente meno europea e più universale mentre Paesi un tempo periferici stanno avanzando rapidamente sulla scena. Con il caso di Cipro è appropriato domandarsi se abbia ancora senso un’Europa aggrappata soltanto alla moneta che non sa più guardare avanti, mentre una parte importante del continente sta vivendo una decrescita sempre più infelice. 

Da questo piano inclinato occorre uscire verso l’alto, non verso il basso. E forse una spinta in questa direzione può derivare dalla nuova domanda politica, emersa con clamore nelle recenti elezioni italiane: dietro a un teatrale rifiuto dell’euro è possibile trovare, sia pure con qualche fatica, istanze di un’unione non solo economica. Forse il «precariato», individuato dall’economista britannico Guy Standing come una classe sociale emergente, riuscirà là dove il proletariato ha fallito, ossia nell’imbastire, sulla base delle proprie ragioni, un confronto non distruttivo con il mondo dell’economia. Questo potrebbe forse succedere tra breve in Italia e tra non molto in Europa. Speriamo che non si tratti dell’ennesima occasione perduta. 

 
mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/03/19/cultura/opinioni/editoriali/atene-errore-umano-a-nicosia-diabolico-m3IncFmyGWsd3AJaTHk5DN/pagina.html
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« Risposta #168 inserito:: Aprile 08, 2013, 07:13:15 pm »

Editoriali
03/04/2013

L’economia su un sentiero pericoloso

Mario Deaglio


Ha ragione il presidente Napolitano a definire «surreale» l’atmosfera in cui si sta muovendo la politica italiana: nonostante gli sconvolgimenti elettorali e il profondo senso di disagio civile e sociale impietosamente messo in luce dai risultati delle urne, il mondo politico continua ad occuparsi soprattutto, se non esclusivamente, dei propri problemi interni. Appare sordo e cieco, o quanto meno largamente indifferente, ai segnali di grave pericolo che con sempre maggiore insistenza provengono dal mondo dell’economia. E non è certo che ai saggi - alcuni dei quali, assai poco saggiamente, si sono profusi in esternazioni pubbliche prima ancora di cominciare il proprio lavoro - siano chiare le dimensioni del problema economico-finanziario, la cui evoluzione non può non condizionare, in questo momento, le dimensioni di tipo giuridico-istituzionale. 

 

Il mondo politico sembra essersi di fatto convinto - con un semplicismo sempre più diffuso - che, dopo la riunione del Consiglio europeo del 14-15 marzo, e l’annuncio del presidente del Consiglio della «probabile» (oggi meno di allora) prossima uscita dell’Italia in aprile dalla «procedura di deficit eccessivo», i vincoli alla spesa siano scomparsi.

 

In realtà, da Bruxelles si è avuto solo un esiguo allentamento di questi vincoli, secondo modalità ancora da definire. Il panorama del 2013 è invece ancora dominato dalla prospettiva di un aumento dell’Iva nel prossimo mese di luglio, oltre al nuovo gravame fiscale rappresentato dalla Tares di cui La Stampa ha fornito ieri un ampio resoconto. Continuiamo a rimanere sulla graticola, e, nonostante i buoni risultati di ieri, lo stallo politico ravviva un fuoco finanziario che sembrava prossimo a spegnersi ma continua a covare sotto la cenere. 

 

Questa situazione non è frutto di qualche mente perversa nei palazzi europei del potere, anche se l’Unione Europea si è dimostrata per lo meno scandalosamente miope, come dimostrano le vicende cipriote: è invece la conseguenza di un programma di risanamento strutturale della finanza pubblica italiana, al quale si era impegnato il governo Berlusconi nell’agosto 2011, successivamente messo in pratica dal governo Monti per evitare una crisi finanziaria devastante e fulminante. Il giudizio sul debito pubblico italiano, preannunciato per i prossimi giorni dall’agenzia di rating Moody’s, ci ricorda che ci siamo certo allontanati dal baratro fiscale ma vi ci potremmo riavvicinare rapidamente.

 

Questa griglia finanziaria strettissima è il punto dal quale i saggi dovrebbero partire. Hanno davanti a sé due alternative: la prima è quella di cercare di aprire con l’Europa un nuovo negoziato sul rientro dal deficit, o quanto meno mirare a qualche ulteriore alleggerimento delle condizioni pattuite nell’agosto 2011. Proprio ieri, peraltro, la Commissione europea ha detto duramente di no all’estensione all’Italia dei margini temporali concessi alla Francia, un paese in cui le finanze pubbliche si stanno deteriorando rapidamente. Possiamo quindi realisticamente cercare di aumentare i nostri margini di manovra ma questo sarà possibile solo a piccole dosi e in modeste quantità.

 

La seconda alternativa è quella di mantenersi nel solco prefissato, eventualmente facendo miglior uso di alcune entrate pubbliche, come quelle derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, destinandone una porzione maggiore a obiettivi di crescita o di riduzione delle imposte, e puntare l’attenzione sulla riorganizzazione dei servizi pubblici, finora appena sfiorata. Si potrebbe partire con mutamenti profondi nei meccanismi della burocrazia italiana che attualmente consentono solo molto lentamente di ripagare i debiti commerciali dell’amministrazione pubblica verso i fornitori. Potrebbe esserci anche spazio per una modestissima riduzione del carico fiscale in modo da non soffocare gli esigui, ma incoraggianti, segnali positivi sul fronte della produzione (cinque settori industriali con segnali positivi a gennaio) e dell’occupazione (cinquantamila occupati in più a febbraio, secondo i dati resi noti ieri).

 

Di tutto questo, nel dibattito in corso almeno apparentemente non si discute: si sottolineano problemi sociali che purtroppo tutti conoscono senza proporre alcuna realistica via d’uscita, si invocano «iniezioni di liquidità» trascurando che ogni vero aumento della liquidità non può che derivare dalla Banca centrale europea e che i pagamenti dei debiti pubblici verso le imprese fornitrici saranno impiegati, almeno all’inizio, per ridurre esposizioni insostenibili sia per le imprese sia per le banche e non si tradurranno in uno slancio a nuovi investimenti. 

 

La nostra strada, insomma, continua a essere molto stretta oltre che largamente obbligata. Basterebbe un colpo di vento sui mercati finanziari a farci perdere l’equilibrio: già oggi, i 70-80 punti di maggiore spread accumulati nella fase post-elettorale si traducono in svariati milioni al giorno di maggiori interessi. Questo costo occulto della politica è superiore alle economie programmate nel funzionamento delle Camere. Su questo stretto sentiero non servono geometrie politiche variabili, mentre possono risultare del tutto dannosi rinvii e polemiche. Di rinvii e di polemiche, purtroppo, in queste ore sembra esser costellato il panorama politico italiano: un panorama surreale come quello di un brutto sogno.

 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/04/03/cultura/opinioni/editoriali/l-economia-su-un-sentiero-pericoloso-X29j0OW75YUBvxoPmzJSDM/pagina.html
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« Risposta #169 inserito:: Aprile 09, 2013, 11:24:38 am »

Editoriali
09/04/2013

Semplicismo, malattia italiana


Mario Deaglio

Il trascinarsi della crisi politica e l’aggravarsi della crisi economica sembrano andare di pari passo con la banalizzazione delle posizioni sull’economia: un numero sempre maggiore di persone pensa infatti che la crisi si possa risolvere con facilità. La convinzione che tutto sia facile è una grave malattia che si potrebbe definire «semplicismo». I semplicisti - in questa categoria bisogna purtroppo includere anche buona parte della classe politica - pensano che per invertire la congiuntura negativa, far ripartire la crescita, risanare le finanze pubbliche sia sufficiente qualche piccolo provvedimento da scegliere a piacere tra i seguenti (tutti lodevoli di per sé): ridurre le imposte, colpire gli evasori fiscali, pagare i debiti delle amministrazioni pubbliche verso le imprese, ridurre i costi della politica. 

 

Il semplicista ritiene che, se si adottasse la misura, o una delle misure, da lui preferita, il meccanismo economico italiano si rimetterebbe in moto, come per incanto, e l’economia rifiorirebbe.

 

Le ricette miracolose dei semplicisti vengono spesso espresse in messaggi di «twitter» da 140 caratteri; così che tutti gli italiani dotati di computer le possano leggere in un minuto e commentare al bar nel tempo necessario a prendere il caffè. Tutto ciò non sarebbe un gran male se tracce sempre più consistenti di semplicismo si possono rilevare sui siti e nei blog delle forze politiche, nei discorsi dei leader, negli abbozzi di programma dei partiti che cercano, con scarso successo finora, di dar vita a un nuovo governo. 

 

Le cose, purtroppo, non sono semplici in alcun Paese del mondo; meno che mai il semplicismo può funzionare in Italia, un Paese in cui, anche per la sua intricata struttura sociale, geografica e produttiva, l’economia è una macchina al tempo stesso molto complicata e molto delicata. Eppure l’idea che siano necessarie medicine economiche complesse e ben calibrate, che sono efficaci soltanto in tempi lunghi, non viene neppure presa in considerazione dai semplicisti.

 

Il semplicismo comporta due effetti collaterali piuttosto seri. Il primo è la convinzione che i problemi, in realtà, non esistono, sono soltanto il risultato di montature mediatiche, oppure che sono comunque lievi, complicati dalla cattiva volontà dei politici. La crisi? Non c’è, guardate ai ristoranti sempre pieni, disse non più tardi di due anni fa l’allora presidente del Consiglio, (trascurando, tra l’altro, che al ristorante la gente, per spendere meno, riduceva il numero delle portate). Chi ricorda la ventennale mancanza di crescita dell’Italia, sintomo di declino del Paese, viene spesso guardato con sospetto, fino a poco tempo lo si definiva «sfascista» e gli si rimproverava di credere troppo alle statistiche e di non vedere i successi mondiali del calcio e del «made in Italy». 

 

Il secondo effetto collaterale consiste nel credere che le soluzioni semplici possano meglio essere adottate da un leader che prenda in mano la situazione, forse un riflesso del mussoliniano «uomo della Provvidenza». In tempi brevissimi questo leader potrebbe uscire dall’euro, tagliare gli sprechi, vendere beni pubblici. Ci si dimentica che all’euro l’Italia è legata da un trattato internazionale; che tagliare gli sprechi significa in ogni caso tagliare posti di lavoro e che occorre contemporaneamente incrementare direttamente le spese produttive se si vogliono evitare effetti recessivi; e che la vendita di beni pubblici deve seguire, nella stragrande maggioranza dei casi, una disperante procedura giuridica che può durare diversi anni.

 

Un particolare caso di semplicismo riguarda il recente provvedimento del governo sul pagamento dei debiti alle aziende fornitrici. E’ un’illusione che questi denari – che lo Stato, tra l’altro, metterà a disposizione degli enti debitori solo con il contagocce – possano da soli far ripartire l’economia. Le imprese alle quali saranno accreditati, infatti, vedranno con molta soddisfazione alleggerirsi il colore rosso nei loro conti bancari, alcune emetteranno un sospiro di allievo per essere così riuscite a evitare il fallimento; passerà però come minimo un po’ di tempo perché si mettano a pensare a nuovi investimenti. Le banche creditrici, dal canto loro, saranno liete del rientro dei clienti da posizioni difficili, spesso incagliate, ma solo molto lentamente questa minor difficoltà si tradurrà nella volontà di correre nuovi rischi prestando ad altre imprese. Per usare le parole di un portavoce del commissario Olli Rehn, che ieri ha commentato il provvedimento italiano, «accelerare il pagamento dei debiti non è una bacchetta magica». E si potrebbe aggiungere che sarebbe ora che gli italiani smettessero di credere che le bacchette magiche esistono.

 

In realtà ciò che esiste è un Paese seriamente malato che ha di fronte a sé cure incerte e di lunga durata, un «long, hard, slog», ossia una «sfacchinata lunga e dura», come disse Winston Churchill in un discorso durante la Seconda guerra mondiale che Margaret Thatcher riprese frequentemente nel presentare agli inglesi la sua ricetta di risanamento economico. Probabilmente non abbiamo oggi in Italia alcun bisogno delle ricette thatcheriane, ma la lunghezza e la durezza del percorso dovrebbero essere ricordate dai politici agli italiani; molti dei quali continuano a ritenere che il loro futuro economico, grazie a semplici provvedimenti, sia una piacevole gita fuori porta.

 

mario.deaglio@unito.it 


da - http://lastampa.it/2013/04/09/cultura/opinioni/editoriali/semplicismo-malattia-italiana-T5DEB20BgkNWuYDGx0yZXP/pagina.html
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« Risposta #170 inserito:: Maggio 09, 2013, 11:58:13 pm »

Editoriali
01/05/2013

Adesso serve la fiducia di Ue e mercati

Mario Deaglio

Con il voto di fiducia al Senato, il governo Letta ha completato ieri il suo rapidissimo cammino parlamentare di insediamento, ma questa è sicuramente la parte più facile, quasi scontata, del suo compito. Sulla strada della credibilità lo attendono ora infatti, due altri «voti di fiducia» molto impegnativi e assai poco scontati: quello dell’Europa e quello dei mercati. 

La fiducia dell’Unione Europea deve essere ottenuta in un momento molto difficile, ossia proprio quando i rapporti politici all’interno dell’Europa sono eccezionalmente perturbati a causa dei contrasti sempre più duri tra Francia e Germania.

Il presidente francese Nicholas Sarkozy era riuscito a stemperarli e a sopirli, ma il suo successore François Hollande è stato trascinato dal suo stesso partito socialista in una polemica durissima nella quale la cancelliera tedesca Angela Merkel è stata bollata per la sua «austerità egoista» mentre il portavoce della cancelliera ha stigmatizzato «l’insolenza dei socialisti francesi». 

 

Non è facile trovare, negli ultimi cinquant’anni, toni così accesi ed è proprio su questi carboni ardenti che dovranno passare il presidente del Consiglio Enrico Letta e il ministro degli Esteri, Emma Bonino. 

L’incontro di ieri sera a Berlino del Presidente del Consiglio con il cancelliere tedesco Angela Merkel e quelli che avrà oggi a Bruxelles con il presidente della Commissione Europea e con il Presidente francese sono destinati a essere i primi di una lunga serie in cui toccherà all’Italia di sollevare il problema del difficile – se non impossibile - equilibrio tra austerità e ripresa. Si tratta di incontri preliminari in cui si affermano principi ma si tralasciano dettagli, come è successo, appunto, nel primo scambio Letta-Merkel. Ai dettagli ha pensato invece uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi, il Frankfurter Allgemeine Zeitung il quale, in un duro editoriale, ha rilevato come, da Monti a Letta, il numero dei ministri italiani sia passato da dodici a ventuno.

 

L’Italia cercherà con forza di ottenere quanto è stato garantito a Spagna, Portogallo e Irlanda, ossia uno slittamento di due anni dell’obiettivo del pareggio del bilancio pubblico, ora fissato a fine 2013. Va ricordato che questo termine, che ora appare soffocante, era stato accettato, in forma più o meno ufficiale dall’ultimo governo di Silvio Berlusconi e necessariamente fatto proprio dal governo tecnico di Mario Monti. E’ bene dire chiaramente che, senza uno slittamento di quelle proporzioni, sarà molto difficile, per non dire impossibile, trovare risorse sufficienti per rilanciare l’occupazione, ridurre l’Imu, detassare le imprese e quant’altro. Lo slittamento, invece, porterebbe a una disponibilità pubblica non facilmente determinabile ma nell’ordine di 10-20 miliardi di euro con i quali cercare di sostenere l’economia per farle superare il punto morto in cui oggi si trova. 

 

Oggi l’Italia si trova in una situazione assurda: nel 2012 il Paese ha contribuito in maniera cospicua al Meccanismo Europeo di Stabilità, che ha lo scopo di salvare le economie di altri Paesi, a cominciare dalla Grecia. Le viene però, di fatto, impedito di spendere anche un solo miliardo per rilanciare l’economia italiana. Non si tratta precisamente di una situazione ideale per rendere popolare l’Unione europea che già oggi viene percepita da pressoché tutti gli italiani come lontana, e da molti come potenzialmente ostile. Il presidente del Consiglio dovrà far leva proprio su queste assurdità e sulla necessità della loro rapida rimozione per realizzare quanto ha promesso nelle aule parlamentari.

 

Mentre cercheranno di convincere i colleghi europei, Enrico Letta e il suo governo dovranno anche guadagnarsi la fiducia dei mercati. Apparentemente questa è stata data a piene mani: il famigerato spread è sceso e non ci sono state nelle scorse settimane difficoltà particolari a collocare le nuove emissioni di titoli di stato italiani. Tutto questo però è stranamente accaduto per motivi che hanno poco a che fare con la situazione italiana ma hanno origine in Giappone, un paese lontano che la globalizzazione finanziaria ha reso inaspettatamente vicinissimo. Per motivi interni, il Giappone sta creando una quantità enorme di nuova liquidità, una mossa disperata per uscire da una stagnazione ventennale, che ha l’obiettivo di far cadere il cambio della propria moneta e rendere più competitive le proprie esportazioni.

 

E’ piuttosto difficile che questa manovra abbia successo ma intanto banche e società finanziarie di mezzo mondo stanno prendendo a prestito i nuovi yen a prezzi bassissimi e li reimpiegano in titoli del debito pubblico di vari Paesi. I titoli italiani sono tra i più interessanti perché, almeno nel breve periodo (l’unico che interessa a questi operatori) l’Italia terrà, dal momento che è riuscita a eleggere un Presidente della Repubblica e a votare la fiducia al nuovo governo. Questa buona disposizione dei mercati internazionali potrebbe svanire con la stessa rapidità con la quale si è formata, senza che l’Italia ne abbia colpa. La fiducia dei mercati va riconquistata tutte le mattine, alla riapertura dei listini. 

 

Il nuovo governo dovrà quindi districarsi tra una maggioranza parlamentare sicuramente ampia ma, altrettanto sicuramente, poco entusiasta, un’Unione Europea burocratica, sospettosa e indebolita dai contrasti interni e operatori finanziari che fanno il conto dei decimali e non pensano troppo al futuro. Dalla sua capacità di azione su tutti e tre i fronti può ben dipendere il futuro del paese.

mario.deaglio@unito.it 


da - http://lastampa.it/2013/05/01/cultura/opinioni/editoriali/adesso-serve-la-fiducia-di-ue-e-mercati-J0MEqQWcgejsaOJ9BXVOBL/pagina.html
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« Risposta #171 inserito:: Maggio 18, 2013, 05:27:00 pm »


Società

16/05/2013 - L’INIZIATIVA

La “generazione perfetta” di Deaglio Un dibattito sull’Italia di ieri e di oggi


Ha fatto discutere il racconto-analisi con il quale l’economista ed editorialista de «La Stampa» ha fotografato la realtà dei settantenni nello scenario del nostro Paese. Ora il dibattito si trasferisce sul web, con un blog aperto ai vostri contributi

«Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti»: così Mario Deaglio riassumeva, su «La Stampa» del 5 maggio scorso, la condizione della sua generazione. I nati come lui nel 1943 - spiegava l’economista ed editorialista - hanno vissuto l’Italia del boom economico e hanno conquistato migliori condizioni di vita. Ma oggi guardano avanti con meno ottimismo. 

 

LaStampa.it ripropone ora l’analisi di Deaglio in un blog dedicato proprio alla “Generazione Perfetta”, per allargare la discussione. Nello spazio dei commenti ci piacerebbe raccogliere ricordi di settantenni che si confrontano con le parole di Deaglio, ma anche di giovani (e meno giovani) che abbiano voglia di condividere le loro riflessioni su un grande dibattito generazionale.


Aspettiamo i vostri contributi, certi che ci offrirete spunti per portare avanti il dibattito. Nei prossimi giorni vi segnaleremo le idee e i ricordi più interessanti che sono emersi. 


   
1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni

Scritto da
silver
il  17/05/2013   ore  09:43
Sono del 1947 e come tutti i nati nel dopoguerra ho dovuto combattere e soffrire per avere il necessario.Quando qualcuno punta il dito sul debito pubblico che stiamo lasciando va ricordato – circostanza cui nessuno fa mai riferimento – che il debito pubblico ha cominciato a salire vertiginosamente – dal 50% all’odierno 120% del PIL – dal 1981, anno in cui l’allora governatore Carlo Azelio Ciampi ottenne dal ministro Beniamino Andreatta una legge che esentava la banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i titoli emessi dallo Stato. Con ciò, da allora ad oggi, il ministero del tesoro è stato costretto a rivolgersi soprattutto al mercato controllato dalla speculazione internazionale e i tassi sui titoli anno cominciato a salire, gravando – in modo determinante – sul bilancio dello Stato.

L’ammontare del debito pubblico italiano ha attualmente raggiunto la cifra di 2.000 miliardi di euro – quattro milioni di miliardi delle vecchie lire – che corrisponde esattamente alla somma degli interessi corrisposti dallo Stato italiano sui titoli emessi dal 1990 ad oggi. Non un euro in più, non un euro di meno.

Il "pareggio di bilancio obbligatorio" messa in atto dalla banda Monti & C. fa sì che la somma dei deficit di bilancio accumulati dal 1990 al 2008 corrisponde a 1.092 miliardi di euro, mentre quella degli interessi pagati sui titoli nello stesso periodo a 1.605 miliardi di euro. Cioè, se l’emissione della moneta tornasse nelle mani dello Stato e la gestione dei titoli fosse sottratta al mondo della speculazione finanziaria, non solo sarebbe risolta la questione del debito pubblico, ma si potrebbe arrivare anche ad un attivo di bilancio che consentirebbe il ridimensionamento della pressione fiscale e un aumento degli investimenti pubblici con la conseguente soluzione del problema dell’occupazione e del ristagno economico.
E' quindi inutile addossare alla ns generazione i danni che pochi
intrallazzatori politici dell'epoca hanno causato al paese; il voto è l'unica arma che ha il cittadino, quindi usiamola.

Scritto da
Felix64
il  17/05/2013   ore  09:26
mi sorprende, in questa sua ricostruzione un po' troppo veltroniana, l'assenza di qualsiasi riferimento al rapporto della sua generazione con la questione del debito pubblico accumulato negli anni '70 e '80 ed esploso subito dopo. Negli anni 70-80 la classe produttiva e portante era quella dei settantenni di oggi. Spiace essere brutali, ma un minimo di assunzione di responsabilità da parte di una generazione che adesso guarda i disastri compiuti dall'alto delle sue ricche pensioni maturate in quegli anni, non dispiacerebbe.

Scritto da
fra2k9
il  17/05/2013   ore  09:25
Considerando la gerontocrazia che in Italia imperversa e comanda è stata una generazione socialmente fallimentare, in grado di emanciparsi nel loro presente ma cancellando il futuro di tutte le altre generazioni, con violenza e sopraffazione e una pessima, se non inesistente, educazione trasmessa a figli e nipoti. Non ci lasciate un mondo migliore. Siete stati e siete tutt'ora ladri di libertà.

Scritto da
Max Robur
il  17/05/2013   ore  05:15
Ricordo bene i treni con motrici a vapore, la terza classe con i sedili in legno e l'odore di lisoformio dei vagoni. Poi quando, per democrazia, abolirono la terza classe tutto restò come prima, salvo il numero sul vagone che da 3 passò a 2 e il prezzo del biglietto. Ricordo anche gli inverni freddi, si riscaldavano la cucina e al massimo il soggiorno (quando c'era). Camere da letto gelide e quando diventava impossibile lo scaldino nel letto. Pantaloni corti estate ed inverno fino alla terza media.
A colazione caffelatte, pane e marmellata (fatta in casa). Le vacanze erano dai nonni, che stessero o meno in un luogo gradevole. A scuola si veniva bocciati o "rimandati a ottobre" anche alle elementari. Non esistevano le problematiche giovanili, o si sapeva quello che c'era scritto sui libri e/o diceva a lezione il Maestro/Professore o non si sapeva. Alle elementatari (allora si chiamavano così) ad ogni conato di giustificazione delle proprie svelate inadempienze il Maestro sentenziava: Stultum est dicere putabam" Il nozionismo era considerato la base del sapere e i classici della poesia si imparavano a memoria. Pedagogicamente e politicamente scorrettissimo. Curiosamente io, persona di modesta cultura, oggi vengo considerato un pozzo di scienza dai miei figli, che in effetti hanno forse ricevuto più attenzioni sul piano affettivo-esistenziale che culturale.
Come convinzione personale non credo nel determinismo della Storia. Sono anche perfettamente consapevole che, nonostante il fallimento di fascismi e comunismi e liberismi siamo comunque immersi in un clima di storicismo postidealista per cui l'Uomo "fa la storia", più o meno quello che pensavano Hitler, Mussolini e Stalin. Non ho mai sentito mio padre o mio nonno inveire contro le generazioni precedenti per averli cacciati in due guerre mondiali in rapida successione. "Nessuna strategia resiste ai primi cinque minuti di battaglia" diceva Von Clausewitz e così nessuna progettualità che non sia a breve termine (5-10 anni), in un sistema socio-economico strutturalmente "caotico" ha reali probabilità di realizzarsi.

Scritto da
paolo boffa
il  16/05/2013   ore  20:41
Bellissimo articolo, letto con commozione e condivisione anche se sono di qualche anno più giovane dell'autore.

Mi auguro che lo spirito di questa generazione possa dare ancora qualcosa a questo paese smarrito e mortificato, se non altro in termini di ideali, valori e principi.

Scritto da
Ludwig Maximilian
il  16/05/2013   ore  18:46
Prof Deaglio,

ho letto il Suo articolo e non ho trovato in esso una assunzione di responsabilitá per gli accadimenti degli ultimi settant´anni da parte della Sua generazione o quantomeno una rassegnazione passiva di fronte agli eventi che si sono succeduti. Forse interpreto male...

La guarra non l´avete vissuta (convengo con Lei nel dire: fortunatamente!), ma chi la guarra l´ha vissuta mi sembra abbia una "scorza piú dura" e guardacaso questa generazione ancor oggi guida le sorti dell´Italia dall´alto del Quirinale.

Successivamente, la scelta politica che avevate di fronte era facile: DC o PCI/ destra o sinistra, non frutto di una "sensibilità (e cultura) politica nettamente superiore" (scusi, ma i giovani non sono bamboccioni...), ma forse figlia della guerra fredda.
Semplicisticamente si potrebbe dire che oggi non ci si puó riconoscere in un ideale o in un partito politico perché chi lo rappresenta (l´intera classe politica italiana) rispecchia ció che la vostra generazione non ha fatto: non ha contrastato il ´68, non ha difeso il vecchio esame di maturitá, non ha costruito una successione al proprio ruolo (es. quanti professori universitari hanno oltre 60 anni e non hanno ancora individuato un successore alla propria cattedra o ancor meglio lasciato la cattedra? lo stesso vale per la politica, per l´industria etc...). I politici che ci avete lasciato, o sono indagati o sono inesperti emergenti.

In modo piú articolato credo invece che la complessitá generata dalla globalizzazione, le nuove tecnologie, la facilitá di spostamento (di persone/ capitali) ed il conflitto generazionale in atto/emergente (la vostra generazione ha tutto, quella dei ventenni neanche piú la speranza…) necessitano di una analisi piú attenta o meglio di giudizi piú ponderati.

La mia non vuole essere una critica, ma un grido di dolore, il grido di un figlio verso un padre (che mi permetto di dire, Lei potrebbe essere per me): perché non avete agito? perché non siete stati leader? Perché non ci avete educati e cresciuti?
Forse la Sua generazione ha ancora qualcosa da dare a questa Italia stordita, vi prego, FATELO!

Nel frattempo, inorridito e spaventato, fuggendo alle mie responsabilità e non assumendo un ruolo da leader o di impegno civile nel mio paese, o forse molto piú semplicemente, seguendo l´esempio della Vostra generazione, sono fuggito all´estero e qui crescerò i miei figli.

Con speranza
Ludwig Maximilian

Scritto da
Luis
il  16/05/2013   ore  13:50
Che fortuna ?? Mah io sono nato nel 1958 e senz'altro invidio chi ha 10 anni in più. Li invidio epperò mi fanno anche rabbia perchè come Deaglio sono stati lì al comando (e lo sono ancora in molti ambiti), fanno analisi ma mai che rinunciano ad una "fettina" del bene che è toccato loro.... Diciamo quindi che sono fortunati e non incazziamoci !!
Scritto da
Titta
il  16/05/2013   ore  18:55
Solo che la stessa generazione ha creato il "mostro" di cui si duole. Chi erano i rampanti di 30 anni fa? chi erano i manager di 20 anni fa?
Scritto da
salvo
il  16/05/2013   ore  18:17
la generazione perfetta che non ha pensato ai figli. sta lasciando un mondo con tanti detriti, mi sconforta che nessun governo o forza politica pensi in grande

Scritto da
Antonio Nota
il  16/05/2013   ore  17:52
Si potrebbe chiamare generazione perfetta oppure generazione di cavallette che hanno distrutto il futuro mangiando a sbafo nel presente. E' vero e stata una generazione che fortunatamente ha evitato la guerra ma analiziamo con attenzione le date e confrontiamole con il periodo produttivo di una persona (25-60 anni) e di massima produttività di un individuo che si assume sia tra i 35 -50 anni. Senza stare qui a discutere di teorie economiche quali " il ciclo vitale" di Modigliani, voglio far notare che la sua generazione, caro Deaglio, si è trovata nel periodo 35 anni -50 anni, esattamente negli anni a cavallo tra il 1978 ed il 1993 che guarda caso coincidono con il periodo in cui i deficit pubblici aumentavano a dismisura ( si sono raggiunte le due cifre per diversi anni); sono stati anni in cui i dipendenti pubblici potevano andare in pensione a 36-40 anni, la pensione e'stata a lungo con il metodo retributivo, nonostante segnalazioni di eloquenti economisti negli anni 80 nonchè della corte dei conti. Insomma io di generazione perfetta ne vedo poca. Sa quale è stata la generazione perfetta? Quella dei suoi padri,miei nonni, persone nate a fine anni '20, uscite dalla guerra che negli anni 60 ( a 30-40anni) hanno permesso a lei e altre persone come lei di studiare e le hanno lasciato una società in cui se lavoravi bene eri premiato. La vostra generazione è stata quella delle raccomandazioni, dello svilimento delle individualità e del merito, nonchè quella del debito. Vede l'italia nn ha saputo reagire alla crisi perchè la vostra generazione non ha voglia di cambiare ( la mediana della popolazione italiana è intorno ai 50 anni e lei come economista sa a cosa mi riferisco) e migliorare e si continua a comportare come se dovesse vivere in eterno. Io nel mio piccolo quello che ho fatto è stato andarmene ( ormai da piu' di dieci anni) da un paese che odio dal profondo,un paese che appena laureato mi ha trattato come un figlio di papà ( nonstante sia figlio di impiegati) e nn come una risorsa. Il mio sogno era di migliorare la mia condizione economica rispetto a quella di provenienza ( discreta) e per il momento direi di esserci riuscito ma continuero' a lavorare cercando di insegnare a mio figlio che le azioni individuali hanno effetto anche sulle dinamiche collettive. Lei e la sua generazione questa lezione non l'ha imparata perchè ha creato il sistema in cui adesso l'italia versa.

 Scritto da
sicula
il  16/05/2013   ore  17:51
Vorrei rivolgermi ai 35/40 enni: è vero che abbiamo goduto di un periodo di pace; è vero che “abbiamo respirato il clima fiducioso tra sforzi e risultati”. È vero che lo Stato assumeva e siamo vissuti in un periodo di pace sociale. Ma non ci si può addebitare la tremenda crisi in cui ci dibattiamo tutti; essa viene da lontano, perpetrata da logiche politiche al di fuori della nostra portata (calcoli elettorali, soddisfacimento degli interessi dei rispettivi bacini elettorali, miopia politica ed etica, spartizione del potere, ecc.).
E vorrei aggiungere che:
a) gli over 60 si stanno facendo carico dell’accudimento dei nipoti a tempo pieno ed è impegnativo da tutti i punti di vista, oltre che una grande gioia.
b) La nostra generazione è forse l’ultima che si è fatta carico dell’assistenza dei genitori anziani (cosa che non potremo certo aspettarci dai nostri figli, per le peggiorate condizioni di lavoro, per minore tempo libero, per le distanze geografiche, e forse anche per la minore capacità di sacrificio...)
c) la nostra generazione supporta economicamente i figli .
La nostra generazione è quella che attualmente regge il maggior carico fisico ed economico , trovandosi impegnata tra il fronte dei nipoti, quello dei figli e quello dei genitori non più autosufficienti.
Quindi , per favore, non sparate sugli over 60. Stiamo facendo di tutto per aiutare chi è venuto dopo di noi. Non ci buttate la croce addosso solo perché siamo vissuti in un periodo in cui si viveva meglio di oggi. Abbiamo lavorato, abbiamo dato e continuiamo a farlo. Non permettete che ci nutriamo di fatica e senso di colpa. Non ce lo meritiamo. C.L.N.

Scritto da
lepor
il  16/05/2013   ore  17:08
sono nato nel 1950 e ho vissuto i benefici della ricostruzione economica italiana senza lacci e laccioli fino a quando si è iniziato a regolamentare tutto e la parola d'ordine fu: grande è bello e salutare per l'economia! così ho visto chiudere tutti i negozi della piazza e al loro posto sorgere i centri commerciali: hanno tolto reddito a tante famiglie e hanno ridotto le entrate dello stato perché le grandi imprese trovano sempre la maniera di non pagarle e gli utili vanno ai pochi soci senza che si abbia una effettiva riduzione dei prezzi; anzi si sono formati dei veri e propri monopoli: non solo per i beni, ma anche per le tariffe. Ci stanno ripigliando quello che abbiamo risparmiato e messo da parte: naturalmente a beneficio delle grandi imprese multinazionali che si spostano nei paesi dove è più conveniente senza che la politica intervenga, controllata dalle lobby.
sono pessimista e vedo un futuro di miseria per i nostri figli.

Scritto da
CAMPIA ROBERTO
il  16/05/2013   ore  16:10
Anche se ne comprendo le ragioni, non mi piace pensare a questa nostra societa' come lotta fra generazioni.
I piu' anziani hanno sofferto e lavorato, e ottenuto tutele che ora paiono privilegi agli occhi dei piu' giovani che si trovano a combattere in uno scenario di recessione.
Ma se dobbiamo uscire dallo stallo, e io continuo ad augurarmelo, credo che dovra' perfezionarsi una sorta di collaborazione tra le persone di diversa eta', ognuno lasciando qualcosa sul campo ma tutti potendo offrire le qualita' di cui disponiamo.
Credo fermamente che il nostro paese abbia le risorse umane e materiali per ripartire; mi urta sentire che si puo' solo piu' emigrare e che la partita ( e il lavoro, e le opportunita',...) e' solo piu' scontro tra vecchi e giovani.
Io personalmente conosco (ma credo tutti) persone validissime sia anziane che giovani, cosi' come vedo purtroppo giovani che non vogliono crescere e adulti mai cresciuti.
Mi sforzo piuttosto di dividere la societa' tra persone di buona volonta' a cui posso rivolgermi con fiducia, e persone egoiste e presuntuose, che cerco di evitare.

Scritto da
gratiss
il  16/05/2013   ore  14:14
"Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati"
"Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti)"
"Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita"
Prima di voi c'era "correlazione tra sforzi e risultati" mentre quello che avete lasciato è "la grande crescita dell'Italia era ormai finita", è sbalorditivo quanto male abbia fatto una sola generazione.


da - http://www.lastampa.it/2013/05/16/blogs/la-generazione-perfetta/la-generazione-perfetta-compie-settant-anni-Kc9JijqTRLzOE38K7cKUjM/commenti.html?page=2
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« Risposta #172 inserito:: Maggio 18, 2013, 05:27:49 pm »

 16/05/2013

1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni

 Mario DEAGLIO


I nati nel ’43 hanno vissuto l’Italia del boom economico e hanno conquistato migliori condizioni di vita. Oggi guardano avanti con meno ottimismo

Sono nato settant’anni fa, in un ospedale gremito di soldati feriti. Il mio era stato un parto lungo, difficile, faticoso che aveva tenuto in ansia tutti e, a cose felicemente concluse, i miei genitori offrirono un piccolo rinfresco. I soldati brindarono alla mia salute e mi fecero un augurio speciale: quello di non dover mai vedere una guerra. Negli ultimi decenni i rumori delle guerre si sono fatti sempre più vicini ma per la mia generazione l’augurio si è finora realizzato.

 

Della guerra noi settantenni non abbiamo quasi memoria, il dopoguerra è rimasto un ricordo nebuloso e semi conscio di stufe fumose in inverni freddi, di elettricità che manca improvvisamente, di macerie lungo le strade. Forse alla guerra e al primo dopoguerra dobbiamo una certa mancanza di ottimismo che ci differenzia da chi è nato anche pochi anni più tardi ed è figlio del miracolo economico. Questa carenza, però, è stata a lungo spazzata via dagli entusiasmi del miracolo economico.

 

Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati: accantonate le armi, si lavorava e si migliorava. La Vespa, brevettata nel 1946, è il simbolo di questa fiducia e anche della trasformazione, di biblica memoria, delle spade in aratri e delle lance in falci: deriva, infatti, dalla riconversione a usi pacifici degli stabilimenti e delle energie progettuali utilizzati per costruire un bombardiere Piaggio. Nei ricordi di quasi tutti noi settantenni c’è quello di un giro in Vespa, in piedi, protetti dalle braccia, poggiate sul manubrio, del papà o di uno zio.

 

La Vespa ci accompagnò alle elementari; ne uscimmo con la nascita della Fiat 600, la prima utilitaria del mondo, per andare alle medie inferiori (o all’Avviamento Professionale, una scuola che, pur socialmente discriminante, insegnava con efficacia una serie di mestieri che hanno permesso a molti buone carriere e buoni redditi). Il ciclomotore e l’utilitaria erano rivoluzionari per tutta l’Europa non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista sociale: permettevano a decine di milioni di famiglie di ogni parte d’Europa di muoversi come volevano, un privilegio prima dei soli ricchi. I treni - dove esisteva la terza classe - odoravano ancora di guerra, di tradotte, di percorsi forzati, l’auto e il ciclomotore sapevano di libertà.

 

Alle medie trovammo qualche insegnante che usava la modernissima Lettera 22, la macchina per scrivere portatile dell’Olivetti. E la Lettera 22 rappresentava un’altra forma di libertà: assieme alla penna biro, che si diffuse negli stessi anni, ci sottraeva dalla tirannia del pennino e del calamaio con i quali avevamo riempito innumerevoli quaderni, sporcandoci le dita d’inchiostro (che si puliva con la pietra pomice perché il sapone era troppo caro) e rendeva più immediato il processo pensiero-scrittura cambiando almeno un poco sia il modo di pensare sia quello di scrivere. E di qui, come dagli elettrodomestici, dai grandi stabilimenti tessili, meccanici e alimentari arrivavano i nuovi posti di lavoro, i nuovi redditi. Per ottenerli, milioni di italiani si spostarono dal Mezzogiorno al Triangolo Industriale contribuendo a nuove produzioni che creavano a loro volta nuovi redditi, nuova domanda, nuove migrazioni interne. Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti. Milano era come l’America, non era proibito al figlio dell’immigrato di sognare e di raggiungere i vertici professionali, con lo studio e con il lavoro. Nella nostra storia non era mai stato così.

 

Sogni e progetti di vita si intrecciavano con nuovi consumi. Non lo sapevamo, ma quella in cui siamo stati giovani era forse una «vera» società dei consumi, dove i beni venivano ambiti, gustati, rispettati, apprezzati con una sensibilità merceologica oggi quasi perduta. Il consumatore medio sapeva distinguere al tatto le diverse qualità di lana e al gusto le infinite varietà di frutta e verdura. Oggi molto spesso si guarda al marchio e al cartellino in un consumo sovente banalizzato, in un acquisto sovente fatto per mantenere il proprio status sociale più che per un genuino amore del prodotto, residuo di società povere. Un decennio più tardi la società del consumo divenne società del consumismo.

 

Gli anni Sessanta non erano certo un paradiso, ma per moltissime famiglie italiane rappresentò l’uscita dall’inferno della povertà senza speranza. La guerra era ancora molto vicina e tutti i giorni i giornali ci ricordavano che ci poteva piovere in testa l’atomica. Della guerra, come di politica, si raccontava e si discuteva nelle lunghe sere dell’era pre-televisiva. Per questo, quando eravamo quindicenni-diciottenni la nostra sensibilità (e cultura) politica era nettamente superiore a quella attuale dei quindicenni-diciottenni di oggi. Ci distinguevamo istintivamente in «di sinistra» o «di destra», il fossato tra comunisti e democristiani era profondissimo nella vita di tutti i giorni Le sezioni dei partiti e gli oratori parrocchiali erano molto frequentati.

 

La televisione fu l’elemento dirompente che scardinò questo panorama culturale. Fino a metà anni Sessanta solo pochi l’avevano in casa: la si guardava soprattutto nei bar e nei cinema, che sospendevano gli spettacoli in occasione di partite calcistiche importanti, o anche solo di «Lascia o raddoppia?», mitico programma di quiz. Con la televisione, la Rai cominciò a creare l’italiano parlato (negli anni sessanta, quasi la metà delle famiglie si esprimeva in dialetto quanto meno in casa con i famigliari). La pubblicità entrò, all’ora di cena, anche nelle case di chi non comprava il giornale. Si concentrava in «Carosello», assai più gentile degli aggressivi spot pubblicitari di oggi: chi voleva proporre un suo prodotto doveva costruire una storia di due minuti e aveva a disposizione solo pochi secondi per presentare il marchio e il nome.

 

Siamo stati l’ultima generazione ad aver sostenuto l’esame di maturità con le vecchie regole, su un programma che, al liceo classico, comportava la conoscenza minuta di numerosi testi latini e greci, in poesia e in prosa. Alla fine degli anni Sessanta, quando avevamo 25-30 anni, eravamo quasi tutti «inseriti», che ci piacesse o no, parte di un processo produttivo e di un meccanismo di consumo («il sistema», come si diceva allora). Proprio grazie a questo inserimento fummo, in larga misura, estranei o sostenitori tiepidi delle barricate sessantottine: un diverso modo di percepire e di pensare ci separava nettamente dai nostri fratelli minori.

 

Precisamente nel Sessantotto, per noi, a differenza dei più giovani, la stabilità cominciava a far premio sulla crescita, la normalità sull’innovazione. Una canzoncina della mia gioventù diceva: «Lavoro in banca/ stipendio fisso/ così mi piazzo/ e non se ne parla più». Per questo, ancor più che il Sessantotto, ci scosse la crisi petrolifera: le domeniche senza auto e le città con l’illuminazione semispenta erano la fine di un’epoca. Cercammo affannosamente di riprendercela quando finì l’emergenza petrolifera ma il clima era cambiato: l’onda lunga e forte della crescita continuava a salire ma si era frantumata. Cominciammo a conoscere l’inflazione e la confusione, il personalismo nella politica, l’iperdivismo nel calcio e nello spettacolo, il proliferare delle stazioni televisive. Venivano a mancare obiettivi comuni e la certezza del lavoro cominciò a incrinarsi; il terrorismo cercò di sostituirsi a un’azione politica sempre meno efficace.

 

Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita. L’Italia uscì da molti settori produttivi, facendo progressi nel solo «made in Italy»; il «design» sostituì la ricerca, le campagne pubblicitarie attiravano più energie degli investimenti produttivi. I distretti industriali dei «padroncini» divennero molto popolari, i poli industriali della grande industria non furono più rispettati come fonti di ricchezza ma biasimati come fonti di inquinamento. Una cultura individualista, in cui ciascuno si gioca la propria vita con le proprie forze, si sostituì gradatamente (per fortuna non totalmente) alla cultura basata sul senso di appartenenza e sulla solidarietà. Guardammo con stupore, e un po’ di sgomento, i giovani degli anni Novanta cercare di costruire il proprio successo personale quasi con ferocia, all’ombra del motto «lavoro, guadagno, pago, pretendo»; guardammo con sgomento e un po’ di stupore il diffondersi a macchia d’olio della mafia.

 

L’Olivetti andò in crisi e poi chiuse. La Montedison divenne Edison lasciando perdere la chimica e concentrandosi sull’elettricità. L’Alitalia entrò nell’orbita di Air France. La Borsa fu privatizzata, divenne Borsa Italiana e fu acquistata dal London Stock Exchange. L’Italia cominciava a perdere lentamente terreno, la spesa per la cassa integrazione si sostituiva a quella per nuovi investimenti e il bilancio dello Stato si deteriorò sensibilmente. Il costo del lavoro aumentava, ma il potere d’acquisto dei salari in busta paga stagnava o diminuiva; i laureati migliori presero a cercare (e a trovare) lavoro all’estero. Il tutto in un clima tra il frivolo e lo spensierato, con la politica ridotta a teatrino.

 

Per questo il sussulto di crisi mondiale che ha colpito in maniera durissima l’Italia negli ultimi due anni ha trovato gli italiani largamente impreparati. Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti. In un momento di crisi profonda, però, in quanto estremi portatori di valori che hanno contribuito al successo passato di questo Paese, anche i testimoni del passato servono. Forse questa generazione - ancora largamente in salute grazie ai progressi della medicina - può ancora dare qualcosa a un Paese stordito. Sempre sperando che l’augurio che fu fatto alla mia nascita continui a tenerci lontani dalle guerre.


DA - http://www.lastampa.it/2013/05/16/blogs/la-generazione-perfetta/la-generazione-perfetta-compie-settant-anni-Kc9JijqTRLzOE38K7cKUjM/pagina.html
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« Risposta #173 inserito:: Giugno 09, 2013, 10:44:38 am »

Editoriali
02/06/2013

Qualche idea per usare il tesoretto

Mario Deaglio

Proviamo a fare un esercizio di ottimismo, non fosse altro che per reagire alla malinconia delle statistiche congiunturali. Ammettiamo che, nel lunghissimo tunnel che sta percorrendo, l’economia italiana andando avanti scopra, l’una dopo l’altra, diverse monete; che queste monete tutte assieme costituiscano un tesoretto; che, usato oculatamente, questo tesoretto possa sensibilmente accelerare l’uscita dal tunnel.

Non si tratta di un’ipotesi assurda, dopo che l’Europa ci ha tolto di dosso il macigno della procedura per deficit eccessivo. È vero che Barroso ha gelato la nostra soddisfazione avvertendo che l’Italia «ha ancora un gran lavoro da fare», ma comunque siamo stati promossi e la prima moneta del tesoretto è proprio conseguenza della promozione, della minore rigidità del tetto alla spesa che ne può derivare, dalla possibilità di effettuare qualche investimento non permesso dal regime precedente.

 

La seconda moneta, del valore di qualche miliardo di euro l’anno, potrebbe risultare da un uso più intenso dei fondi di ricerca e dei fondi regionali europei, la terza potrebbe rendersi disponibile in autunno, dopo le elezioni tedesche, e consisterebbe in un trattamento analogo a quello ottenuto da Francia e Spagna, ossia in uno slittamento di due anni degli obiettivi per il bilancio pubblico, il che aprirebbe un polmone valutabile in almeno dieci miliardi di euro l’anno. Dall’eventuale sottoscrizione di un accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani investiti in quel Paese potrebbe provenire un vero e proprio gruzzoletto del valore di qualche decina di miliardi. Non va poi trascurato il notevole risparmio di interessi sul debito pubblico, derivante dalla sensibile riduzione dello spread. 

 

Non si tratta certo di somme straordinarie. In ogni caso, però, grazie all’azione del suo predecessore, e ai sacrifici sopportati da milioni di famiglie italiane, il governo Letta, ha una marcia in più rispetto al predecessore stesso. Non deve (e politicamente non può) limitarsi a una politica difensiva; può, e deve, insieme alle forze politiche che lo sostengono, mettere a punto e realizzare una politica di sviluppo. 

Di questa politica di sviluppo ancora non si vedono tracce sicure. Lo dice chiaramente il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco nelle sue Considerazioni Finali lette, com’è tradizione, alla fine di maggio dinanzi al Gotha dell’economia, della finanza e della vita pubblica italiana. Visco ha respinto vigorosamente la tendenza italiana all’autocompiacimento; pur riconoscendone la validità, ha giudicato insufficienti i progressi sinora compiuti, ha sottolineato la necessità di non disperderli e di consolidarli per avviare la ripresa. Ha parlato di risultati ancora fragili, e la fragilità della struttura economica italiana fa da sfondo a tutto il suo discorso. Ha giustamente messo in risalto il sonno italiano di un quarto di secolo, l’incapacità di rispondere a venticinque anni di cambiamenti «geopolitici, tecnologici e demografici».

 

In questa prospettiva, l’Italia del governo Letta assomiglia a un paziente che risvegliandosi da un lungo coma – nel quale l’ha metaforicamente rappresentata Bill Emmott in un fortunato documentario – si trova in un mondo diverso. Riuscirà a capirlo, a interagire con una realtà globale in movimento che non perde tempo ad aspettarci? La risposta deriverà in gran parte dall’uso che il governo saprà fare di questo non pingue tesoretto che si renderà disponibile gradualmente nei prossimi dodici-diciotto mesi. E nel decidere come usarlo si troverà di fronte a scelte molto scomode perché dovrà tirare da una parte o dall’altra una coperta troppo stretta.

 

Si preferirà ridurre (purtroppo necessariamente di poco vista la situazione delle finanze pubbliche) il costo del lavoro per tutte le imprese, come sostanzialmente chiede la Confindustria, oppure operare in maniera selettiva, aiutando, in maniera più consistente, le sole imprese che compiono determinate azioni «virtuose», ossia che investono e che assumono? Si dovrà cercare genericamente di salvare i posti di lavoro in pericolo, come chiedono il sindacato e una buona parte dell’opinione pubblica, oppure dare la precedenza alla creazione di posti di lavoro nuovi, in settori più efficienti, e favorire la formazione dei lavoratori giovani? Si preferirà ridurre le inefficienze dell’amministrazione pubblica oppure si cercherà di modificarne radicalmente la struttura, a cominciare dalla soppressione di province e tribunali?

 

Da un punto di vista teorico, i risultati migliori in termini di crescita si ottengono con le politiche selettive, che favoriscono i migliori e i più preparati. Quando però dalla teoria si passa alla pratica e ci si trova davanti a un impressionante panorama di decine di migliaia di imprese e di milioni di bilanci famigliari in difficoltà occorre ricordarsi che la politica non si fa a tavolino e che delle eccezioni alla selettività dovranno essere ammesse, anche se questo richiederà un tempo di ripresa più lungo. L’eccezione, tuttavia, non può diventare la regola: e la bilancia deve pendere dal lato della flessibilità, della crescita, dei giovani, del recupero dei venticinque anni perduti.

 

Gli italiani devono rendersi conto che nessun governo è uno sciamano, in grado di curare con qualche formula magica i mali accumulati nel nostro sonno di un quarto di secolo. E che nessun cittadino, nessuna categoria può legittimamente aspettarsi che i sacrifici li facciano solo gli altri. Solo se questa consapevolezza si diffonderà nella classe politica e nell’opinione pubblica avrà senso continuare in un’esperienza di governo all’insegna di un recupero di fiducia, solo così il tesoretto potrà essere speso bene. 

mario.deaglio@unito.it

DA - http://lastampa.it/2013/06/02/cultura/opinioni/editoriali/qualche-idea-per-usare-il-tesoretto-ISeLskijm3HUC2sqfTxgHI/pagina.html
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« Risposta #174 inserito:: Giugno 15, 2013, 08:47:45 am »

Editoriali
13/06/2013

Istanbul è più vicina di Londra

Mario Deaglio

Duramente provati dalla crisi che non passa, gli italiani stanno guardando agli avvenimenti turchi con una sorta di annoiata indifferenza. Forse siamo provinciali, certo non possiamo dirci molto curiosi di quello che accade al di là delle Alpi e del mare, troppo attenti alle vicende di casa nostra. 

 

Perché occuparci dei disordini di Istanbul? Non ci basta la debolezza della nostra economia che le durissime cifre su produzione e occupazione in Piemonte hanno posto in una luce ancora più preoccupante? In realtà, facciamo male, molto male a non guardare oltre al Bel Paese (o a spingerci, al massimo, fino a Bruxelles). E questo perché la Turchia è molto più importante per l’Italia (e per l’Europa) di quanto normalmente si creda e meriterebbe un po’ più di attenzione e forse anche un po’ più di azione. E questo per almeno tre buoni motivi. 

 

Il primo motivo, di rilevanza immediata, destinato ad aumentare negli anni, è che la Turchia è diventata il corridoio energetico da noi preferito per portare in Italia e in Europa, soprattutto attraverso il gasdotto Nabucco, idrocarburi estratti in Asia, necessari per scaldare le nostre case e far funzionare le nostre industrie.

In un futuro non molto distante, incertezze e incomprensioni con Ankara potrebbero tradursi, almeno indirettamente, in incertezze e anomalie nel flusso dei rifornimenti energetici.

 

Il secondo motivo deriva dall’importanza sottovalutata della Turchia per l’economia italiana. Al di là della quantità degli scambi commerciali, tendenzialmente in crescita molto forte, è importante la qualità: la Turchia è uno dei pochi Paesi importanti nei quali l’Italia economica conta davvero. Dal settore bancario a quello alimentare, dagli elettrodomestici alle costruzioni la presenza italiana è massiccia e moderna. E’ proprio grazie alla presenza in Turchia che molte imprese medio-grandi italiane respirano l’aria dell’economia globale e del resto sono molto numerose le imprese turche che rientrano nelle filiere produttive italiane alle quali forniscono soprattutto componenti e semilavorati. 

 

Per tutto il Medio Oriente e per buona parte dell’Asia Centrale (dove si parlano spesso lingue dello stesso ceppo di quella turca) è proprio la Turchia il Paese più vicino in cui si fabbricano frigoriferi, televisori, automobili e i normali oggetti di consumo durevole o semidurevole che sono associati alla vita moderna e dal quale possono essere agevolmente importati. Se la Turchia continuerà in futuro a crescere ai tassi degli ultimi anni, essa costituirà una sorta di trampolino per le imprese italiane che vi si sono stabilite. 

 

Il terzo motivo, più dichiaratamente europeo, è che se le difficoltà politiche della Turchia si traducessero in una permanente debolezza finanziaria (la moneta e la borsa turca hanno perso sensibilmente terreno dopo l’inizio degli scontri di piazza) una nuova ondata di incertezza potrebbe colpire di riflesso la finanza della zona euro, nella quale molte banche sono sostanzialmente esposte nei confronti di Istanbul. Sulla strada della definitiva stabilizzazione della moneta europea potrebbe sorgere così un nuovo ostacolo. 

 

Vi è poi un ulteriore motivo, di carattere non economico: la Turchia è l’unico paese al cui governo siedono esponenti di un islam relativamente moderato e sicuramente aperto alla modernità. Il dialogo con questo islam, la messa a punto di qualche legame di tipo culturale, e non semplicemente utilitaristico, appare importante per un’Europa destinata, non foss’altro che per motivi demografici a perdere terreno nel quadro mondiale dei prossimi decenni.

 

Naturalmente gli avvenimenti turchi ritardano ancora l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, se mai quest’ingresso ci sarà. Alla crescente tiepidezza, che talvolta si traduce in aperta ostilità, di una buona parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica europea si aggiunge ora una mancanza di entusiasmo da parte turca: se così non fosse, la polizia di Erdogan non sarebbe stata così dura nei confronti dei manifestanti di Piazza Taksim e del parco Gezi. L’obiettivo di un rapido ingresso della Turchia nell’Unione Europea è sicuramente spostato in là nel tempo dagli avvenimenti degli ultimi giorni ma questo non significa che qualche forma intermedia di associazione possa essere tentata, in un più vasto orizzonte di dialogo tra i valori europei e quelli dell’Islam moderato. 

 

In termini di distanza geografica, Roma è più vicina a Istanbul che a Londra e a molte capitali dell’Europa settentrionale. Sarebbe già questo un motivo sufficiente perché gli italiani, dedicassero a quanto succede a Istanbul e Ankara un’attenzione non passeggera, magari sottraendo un briciolo di attenzione ai battibecchi tra i grillini e Beppe Grillo, alle polemiche all’interno dei partiti e tanti altri aspetti del teatrino politico nostrano. 

 

mario.deaglio@unito.it 

 DA - http://lastampa.it/2013/06/13/cultura/opinioni/editoriali/istanbul-pi-vicina-di-londra-30R966WAa1k58ZSCwAVUkJ/pagina.html
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« Risposta #175 inserito:: Giugno 18, 2013, 05:43:33 pm »

Editoriali
18/06/2013

Un mostro fiscale divide il G8

Mario Deaglio


Negli Anni Ottanta e Novanta le riunioni del G8 si tenevano nelle grandi città o nelle loro immediate vicinanze: i governi ospitanti erano fieri di mostrare le bellezze di Tokyo, Londra, Venezia, Toronto. Con l’aumento mondiale delle tensioni sociali - e dei divari nella distribuzione dei redditi - queste riunioni tra grandi si svolgono ormai in luoghi isolati, difficili, se non impossibili da raggiungere da parte di manifestanti ostili.
Così è per Lough Erne, incantevole e sperduta località dell’Irlanda del Nord il cui nome, secondo la leggenda, ricorda una bella dama che vi cercò rifugio, terrorizzata da un gigante uscito da una caverna. 

 

Gli otto capi di governo che partecipano all’incontro, nella quiete del lago e dei boschi, sfuggendo alle folle, hanno probabilmente potuto, guardandosi negli occhi, individuare anch’essi una comune paura. 

 

Il «gigante» che sta loro davanti ha contorni indefiniti, talvolta assomiglia a un insorto siriano, dalle intenzioni incerte e insondabili; talaltra a un giovane di un Paese ricco che non riesce a trovar lavoro, non lo cerca più, non studia e non vota; talaltra infine a una grande società che paga somme enormi ai propri dirigenti e somme bassissime al fisco degli Stati in cui opera. 

 

Sulla Siria gli otto grandi non potranno probabilmente far altro che registrare la propria divergenza, specie dopo l’altolà russo all’istituzione di una «no-fly zone» a protezione degli insorti; su disoccupazione e libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea si stanno spendendo nobili parole, intrise di retorica (come i 30 milioni di nuovi occupati in Occidente, promessi dal Presidente Obama) mentre in realtà nessuno sa bene come muoversi; sulla lotta all’evasione fiscale delle grandi società, in particolare quelle finanziarie, invece, è possibile che ci siano sviluppi concreti e importanti, anche al di là dei comunicati ufficiali, tradizionalmente laconici.

 

E questo perché in molti Paesi avanzati si sta verificando un rapidissimo cambiamento di umore popolare contro le multinazionali che fanno uso di «schemi fiscali creativi» ossia, per dirla in italiano schietto, che non pagano le tasse che dovrebbero. La Apple, molto popolare per i suoi prodotti, è accusata di aver sottratto al fisco americano ben 74 miliardi di dollari in quattro anni; una cifra del genere porterebbe l’Italia molto avanti sulla via del risanamento ma nemmeno il governo degli Stati Uniti la disprezza, stretto com’è da vincoli alla spesa stabiliti da un Parlamento ostile. 

 

Alla Apple si contesta che tutte le sue operazioni europee vengono gestite da una società irlandese priva di dipendenti e che il grande produttore dell’iPad paga all’Irlanda – in forti difficoltà economiche – imposte pari ad appena il due per cento degli utili, a seguito di un accordo fiscale. Qualcosa di simile avrebbe fatto anche Google, accusata di aver realizzato in Gran Bretagna utili per 18 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2011 e di aver pagato appena 16 milioni di imposte. Un lungo elenco di altre imprese, che comprende Vodafone, il gigante dei telefonini, e Starbucks, grande catena mondiale di caffè e bar, si trova in situazioni analoghe. Tutti si difendono dicendo di aver rispettato le regole, ma sono proprio le regole a essere scandalosamente inadeguate e dal G8 potrebbe derivare una rapida spinta a un cambiamento coordinato a livello globale.

 

All’elusione/evasione fiscale si intrecciano le pratiche illecite in campo finanziario. Un anno fa si scoprì che il tasso Libor, uno dei cardini del mercato finanziario mondiale, era tranquillamente manipolato da un gruppo di poche grandi banche. L’amministratore delegato della Barclays Bank si dimise subito ma questo non fece altro che togliere il coperchio al vaso di Pandora; un lungo elenco di grandi banche internazionali accusate di frode fiscale o riciclaggio.

 

Naturalmente tutta quest’attività, al limite del lecito o dichiaratamente illecita, fa aumentare i profitti delle grandi imprese globali, il che si riflette sulla retribuzione dei dirigenti e sull’aumento del valore delle azioni, base frequente di calcolo dei «bonus» dei dirigenti stessi. Si comprende così come sia possibile, negli Stati Uniti e in altri Paesi, che singole persone ricevano, in anni fortunati, anche più di un miliardo di euro in pagamento delle loro prestazioni, il più delle volte riuscendo a pagare pochissime imposte. 

 

E ancor di più si comprende come una situazione di questo genere sia intollerabile mentre la disoccupazione si diffonde a larghissimi strati sociali, ai quali si chiede una serie di maggiori sacrifici fiscali: potrebbero sentirsi presi in giro e agire di conseguenza. Ecco allora il premier britannico chiedere un’azione coordinata che conduca a nuove regole anche se gran parte dei «paradisi fiscali» che andranno posti sotto controllo battono bandiera inglese, e il presidente francese annunciare un inasprimento della normativa. 

 

Un coordinamento internazionale della legislazione fiscale che metta un freno a un’anomala distribuzione di redditi di questo tipo è forse l’unico risultato effettivo che ci si può attendere dal G8 convocato sul lago che fu rifugio di una dama spaventata da un mostro. Sempre che i leader di questi otto Paesi siano essi stessi sufficientemente spaventati dai nuovi «mostri» che si agitano a casa loro; il loro spavento sarebbe, in ogni caso, un bene per tutti.

 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/06/18/cultura/opinioni/editoriali/un-mostro-fiscale-divide-il-g-vtAzYQEuvZxOej6Mhx1fRP/pagina.html
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« Risposta #176 inserito:: Giugno 27, 2013, 04:04:57 pm »

 16/05/2013


1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni

 Mario DEAGLIO

I nati nel ’43 hanno vissuto l’Italia del boom economico e hanno conquistato migliori condizioni di vita. Oggi guardano avanti con meno ottimismo

Sono nato settant’anni fa, in un ospedale gremito di soldati feriti. Il mio era stato un parto lungo, difficile, faticoso che aveva tenuto in ansia tutti e, a cose felicemente concluse, i miei genitori offrirono un piccolo rinfresco. I soldati brindarono alla mia salute e mi fecero un augurio speciale: quello di non dover mai vedere una guerra. Negli ultimi decenni i rumori delle guerre si sono fatti sempre più vicini ma per la mia generazione l’augurio si è finora realizzato.

 

Della guerra noi settantenni non abbiamo quasi memoria, il dopoguerra è rimasto un ricordo nebuloso e semi conscio di stufe fumose in inverni freddi, di elettricità che manca improvvisamente, di macerie lungo le strade. Forse alla guerra e al primo dopoguerra dobbiamo una certa mancanza di ottimismo che ci differenzia da chi è nato anche pochi anni più tardi ed è figlio del miracolo economico. Questa carenza, però, è stata a lungo spazzata via dagli entusiasmi del miracolo economico.

 

Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati: accantonate le armi, si lavorava e si migliorava. La Vespa, brevettata nel 1946, è il simbolo di questa fiducia e anche della trasformazione, di biblica memoria, delle spade in aratri e delle lance in falci: deriva, infatti, dalla riconversione a usi pacifici degli stabilimenti e delle energie progettuali utilizzati per costruire un bombardiere Piaggio. Nei ricordi di quasi tutti noi settantenni c’è quello di un giro in Vespa, in piedi, protetti dalle braccia, poggiate sul manubrio, del papà o di uno zio.

 

La Vespa ci accompagnò alle elementari; ne uscimmo con la nascita della Fiat 600, la prima utilitaria del mondo, per andare alle medie inferiori (o all’Avviamento Professionale, una scuola che, pur socialmente discriminante, insegnava con efficacia una serie di mestieri che hanno permesso a molti buone carriere e buoni redditi). Il ciclomotore e l’utilitaria erano rivoluzionari per tutta l’Europa non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista sociale: permettevano a decine di milioni di famiglie di ogni parte d’Europa di muoversi come volevano, un privilegio prima dei soli ricchi. I treni - dove esisteva la terza classe - odoravano ancora di guerra, di tradotte, di percorsi forzati, l’auto e il ciclomotore sapevano di libertà.

 

Alle medie trovammo qualche insegnante che usava la modernissima Lettera 22, la macchina per scrivere portatile dell’Olivetti. E la Lettera 22 rappresentava un’altra forma di libertà: assieme alla penna biro, che si diffuse negli stessi anni, ci sottraeva dalla tirannia del pennino e del calamaio con i quali avevamo riempito innumerevoli quaderni, sporcandoci le dita d’inchiostro (che si puliva con la pietra pomice perché il sapone era troppo caro) e rendeva più immediato il processo pensiero-scrittura cambiando almeno un poco sia il modo di pensare sia quello di scrivere. E di qui, come dagli elettrodomestici, dai grandi stabilimenti tessili, meccanici e alimentari arrivavano i nuovi posti di lavoro, i nuovi redditi. Per ottenerli, milioni di italiani si spostarono dal Mezzogiorno al Triangolo Industriale contribuendo a nuove produzioni che creavano a loro volta nuovi redditi, nuova domanda, nuove migrazioni interne. Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti. Milano era come l’America, non era proibito al figlio dell’immigrato di sognare e di raggiungere i vertici professionali, con lo studio e con il lavoro. Nella nostra storia non era mai stato così.

 

Sogni e progetti di vita si intrecciavano con nuovi consumi. Non lo sapevamo, ma quella in cui siamo stati giovani era forse una «vera» società dei consumi, dove i beni venivano ambiti, gustati, rispettati, apprezzati con una sensibilità merceologica oggi quasi perduta. Il consumatore medio sapeva distinguere al tatto le diverse qualità di lana e al gusto le infinite varietà di frutta e verdura. Oggi molto spesso si guarda al marchio e al cartellino in un consumo sovente banalizzato, in un acquisto sovente fatto per mantenere il proprio status sociale più che per un genuino amore del prodotto, residuo di società povere. Un decennio più tardi la società del consumo divenne società del consumismo.

 

Gli anni Sessanta non erano certo un paradiso, ma per moltissime famiglie italiane rappresentò l’uscita dall’inferno della povertà senza speranza. La guerra era ancora molto vicina e tutti i giorni i giornali ci ricordavano che ci poteva piovere in testa l’atomica. Della guerra, come di politica, si raccontava e si discuteva nelle lunghe sere dell’era pre-televisiva. Per questo, quando eravamo quindicenni-diciottenni la nostra sensibilità (e cultura) politica era nettamente superiore a quella attuale dei quindicenni-diciottenni di oggi. Ci distinguevamo istintivamente in «di sinistra» o «di destra», il fossato tra comunisti e democristiani era profondissimo nella vita di tutti i giorni Le sezioni dei partiti e gli oratori parrocchiali erano molto frequentati.

 

La televisione fu l’elemento dirompente che scardinò questo panorama culturale. Fino a metà anni Sessanta solo pochi l’avevano in casa: la si guardava soprattutto nei bar e nei cinema, che sospendevano gli spettacoli in occasione di partite calcistiche importanti, o anche solo di «Lascia o raddoppia?», mitico programma di quiz. Con la televisione, la Rai cominciò a creare l’italiano parlato (negli anni sessanta, quasi la metà delle famiglie si esprimeva in dialetto quanto meno in casa con i famigliari). La pubblicità entrò, all’ora di cena, anche nelle case di chi non comprava il giornale. Si concentrava in «Carosello», assai più gentile degli aggressivi spot pubblicitari di oggi: chi voleva proporre un suo prodotto doveva costruire una storia di due minuti e aveva a disposizione solo pochi secondi per presentare il marchio e il nome.

 

Siamo stati l’ultima generazione ad aver sostenuto l’esame di maturità con le vecchie regole, su un programma che, al liceo classico, comportava la conoscenza minuta di numerosi testi latini e greci, in poesia e in prosa. Alla fine degli anni Sessanta, quando avevamo 25-30 anni, eravamo quasi tutti «inseriti», che ci piacesse o no, parte di un processo produttivo e di un meccanismo di consumo («il sistema», come si diceva allora). Proprio grazie a questo inserimento fummo, in larga misura, estranei o sostenitori tiepidi delle barricate sessantottine: un diverso modo di percepire e di pensare ci separava nettamente dai nostri fratelli minori.

 

Precisamente nel Sessantotto, per noi, a differenza dei più giovani, la stabilità cominciava a far premio sulla crescita, la normalità sull’innovazione. Una canzoncina della mia gioventù diceva: «Lavoro in banca/ stipendio fisso/ così mi piazzo/ e non se ne parla più». Per questo, ancor più che il Sessantotto, ci scosse la crisi petrolifera: le domeniche senza auto e le città con l’illuminazione semispenta erano la fine di un’epoca. Cercammo affannosamente di riprendercela quando finì l’emergenza petrolifera ma il clima era cambiato: l’onda lunga e forte della crescita continuava a salire ma si era frantumata. Cominciammo a conoscere l’inflazione e la confusione, il personalismo nella politica, l’iperdivismo nel calcio e nello spettacolo, il proliferare delle stazioni televisive. Venivano a mancare obiettivi comuni e la certezza del lavoro cominciò a incrinarsi; il terrorismo cercò di sostituirsi a un’azione politica sempre meno efficace.

 

Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita. L’Italia uscì da molti settori produttivi, facendo progressi nel solo «made in Italy»; il «design» sostituì la ricerca, le campagne pubblicitarie attiravano più energie degli investimenti produttivi. I distretti industriali dei «padroncini» divennero molto popolari, i poli industriali della grande industria non furono più rispettati come fonti di ricchezza ma biasimati come fonti di inquinamento. Una cultura individualista, in cui ciascuno si gioca la propria vita con le proprie forze, si sostituì gradatamente (per fortuna non totalmente) alla cultura basata sul senso di appartenenza e sulla solidarietà. Guardammo con stupore, e un po’ di sgomento, i giovani degli anni Novanta cercare di costruire il proprio successo personale quasi con ferocia, all’ombra del motto «lavoro, guadagno, pago, pretendo»; guardammo con sgomento e un po’ di stupore il diffondersi a macchia d’olio della mafia.

 

L’Olivetti andò in crisi e poi chiuse. La Montedison divenne Edison lasciando perdere la chimica e concentrandosi sull’elettricità. L’Alitalia entrò nell’orbita di Air France. La Borsa fu privatizzata, divenne Borsa Italiana e fu acquistata dal London Stock Exchange. L’Italia cominciava a perdere lentamente terreno, la spesa per la cassa integrazione si sostituiva a quella per nuovi investimenti e il bilancio dello Stato si deteriorò sensibilmente. Il costo del lavoro aumentava, ma il potere d’acquisto dei salari in busta paga stagnava o diminuiva; i laureati migliori presero a cercare (e a trovare) lavoro all’estero. Il tutto in un clima tra il frivolo e lo spensierato, con la politica ridotta a teatrino.

 

Per questo il sussulto di crisi mondiale che ha colpito in maniera durissima l’Italia negli ultimi due anni ha trovato gli italiani largamente impreparati. Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti. In un momento di crisi profonda, però, in quanto estremi portatori di valori che hanno contribuito al successo passato di questo Paese, anche i testimoni del passato servono. Forse questa generazione - ancora largamente in salute grazie ai progressi della medicina - può ancora dare qualcosa a un Paese stordito. Sempre sperando che l’augurio che fu fatto alla mia nascita continui a tenerci lontani dalle guerre.


da - http://lastampa.it/2013/05/16/blogs/la-generazione-perfetta/la-generazione-perfetta-compie-settant-anni-Kc9JijqTRLzOE38K7cKUjM/pagina.html
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« Risposta #177 inserito:: Luglio 04, 2013, 12:01:47 am »

Editoriali
03/07/2013

Dopo la gelata i fili d’erba della crescita

Mario Deaglio


A molti lettori sarà sicuramente capitato di passeggiare su un prato alla fine dell’inverno. E di notare che in quella stagione la terra è una crosta dura, per effetto delle gelate, mentre l’erba che resta è come avvizzita, di un colore quasi marrone. Ripassando di lì, magari la settimana successiva, gli sarà capitato di notare che la terra è diventata più morbida; guardando meglio vi scorgerà dei piccoli fili d’erba verde che hanno rotto la crosta e stanno crescendo. 

 

Questa metafora campestre è molto efficace per descrivere lo stato attuale dell’economia italiana: l’inverno è stato molto lungo e molto duro ma ci sono segnali di ripresa. Come esili fili d’erba, i segni + cominciano a spuntare nelle tavole statistiche, per mesi coperte pressoché unicamente di tristissimi segni –. I dati Istat di aprile mostrano, rispetto a marzo, un pallido +0,2 per cento sia per i beni di consumo non durevoli sia per i beni intermedi. 

 

Sempre in aprile, dei tredici settori in cui l’istituto di statistica suddivide l’industria manifatturiera ben otto (quasi mai tra i maggiori) mostrano un andamento positivo rispetto a marzo.Tra questi vanno segnalati il +4,9 per cento dell’elettronica e il +2,5 per cento dei prodotti petroliferi; anche meccanica e chimica mostrano segni di risveglio. Nel confronto con l’aprile 2012, sono tre i settori industriali (farmaceutica, computer, apparecchi elettrici) con segno positivo. A giugno 2012 non ce n’era nemmeno uno. 

 

Segnali positivi non banali si hanno anche per gli ordini ricevuti da diversi settori industriali, specie quelli legati all’esportazione. Tutto ciò alimenta le speranze di ripresa imminente, espresse ieri a un convegno della Confindustria al Ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni assai più che il pessimismo nero del Ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato che pensa che l’economia italiana sia «al punto di non ritorno» o quello, meno marcato, del Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che sposta a fine anno il momento in cui l’economia comincerà la risalita.

 

Il fatto è che siamo spesso vittime di una sorta di «pessimismo statistico» dei mezzi di informazione che sottolineano quasi sempre il lato negativo, che è naturalmente predominante, impedendo di scorgere segnali di tipo diverso. Questo «pessimismo statistico» rischia di impedire anche a uomini di governo di guardare oltre la crisi.

 

Naturalmente non è il caso di comportarsi come quei tifosi che, per una partita vinta dalla squadra del cuore, sognano già la Coppa dei Campioni. L’erba delle ripresa futura potrebbe smettere di crescere improvvisamente perché bruciata da una gelata esterna, che purtroppo non si può proprio escludere, anche per il rallentamento cinese, o soffocata internamente dalla burocrazia e dalle riforme non fatte. Più modestamente possiamo cominciare a pensare (sottovoce) che non siamo necessariamente condannati alla Serie B, anche se dobbiamo ricordare che il campionato delle economie è ben più lungo di un campionato di calcio. 


mario.deaglio@unito.it 

da - http://www.lastampa.it/2013/07/03/cultura/opinioni/editoriali/dopo-la-gelata-i-fili-derba-della-crescita-uDzDpQ3kl8krxxuEtwRRQL/pagina.html
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« Risposta #178 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:35:18 am »

Editoriali
27/07/2013

A passo lento la ripresa si avvicina

Mario Deaglio

Lo sblocco del «decreto del fare» va nella direzione giusta, anche se le ruote della politica sono rimaste impantanate per giorni nell’ostruzionismo parlamentare. Ed è un fatto ancora più positivo che, in questa situazione politicamente sconfortante, le ruote dell’economia stiano riprendendo a girare, sia pure molto lentamente, per conto proprio. 

 

In tutta Europa, Italia compresa, «si attenua la debolezza ciclica» sostiene il Bollettino Economico di luglio della Banca d’Italia. «Ripresa in vista ma a passo lento» gli fa eco il più recente Rapporto Scenari Economici della Confindustria. 

 

Ripresa economica «imminente» dice il ministro dell’economia; «a partire dal quarto trimestre» sostiene il governatore della Banca d’Italia alla riunione del G-20 di Mosca. Improvvisamente i mezzi d’informazione, da oltre un anno chiusi in un feroce pessimismo che li ha spinti a interpretare al peggio tutti i segnali della congiuntura, sottolineano i miglioramenti degli ultimi mesi. Certo le centinaia di migliaia di imprese in sofferenza da mesi, che non vedono spiragli, nella loro situazione stentano a riconoscersi in questo cambiamento di atmosfera ma anche in economia vale il vecchio detto che non è mai così buio come prima dell’alba.

 

L’attenzione si deve quindi spostare sulla natura, sull’origine e sui limiti di questa possibile nuova alba economica italiana e si può facilmente constatare che la ripresa italiana che potrebbe nascere si inquadra in un panorama europeo meno burrascoso di qualche mese fa. I tedeschi hanno di fatto ridotto la loro pretesa di un’austerità implacabile da parte degli altri paesi, per l’aggiustamento immediato delle loro finanze pubbliche. Per conseguenza, anche il percorso dell’economia italiana, pur continuando a essere in salita, appare sicuramente meno duro di quello dell’anno passato.

 

Per affrontare questo pendio un po’ più leggero, l’economia italiana può contare su quattro diversi «motori economici». Il primo, che non ha mai cessato si funzionare in questi lunghi trimestri di caduta produttiva, è il motore delle esportazioni. Va dato atto alle imprese italiane di aver colto all’estero opportunità che non erano affatto scontate e che riguardano settori – dai vini agli apparecchi medicali - in precedenza non molto presenti oltre confine. L’espansione delle esportazioni riguarda maggiormente il «made in Italy», sembra avere carattere strutturale e quindi non risultare troppo sensibile a eventuali rallentamenti della domanda globale.

Il secondo motore ha invece smesso di funzionare da tempo ed è rappresentato dalla domanda interna. Per una buona parte della popolazione il rallentamento degli acquisti, soprattutto dei beni di consumo durevoli, non è stato determinato dal peggioramento delle condizioni finanziarie famigliari ma dalla paura della crisi, per cui si sono apprestate riserve di liquidità che, proprio perché non spese, non si sono tradotte in fatturato e posti di lavoro. Si è così formata una domanda latente (dai mobili agli elettrodomestici, dalle auto alle calzature) che aspetta soltanto di respirare un po’ di fiducia per cominciare, magari in maniera timida, a ritornare sui mercati. Un’analoga domanda potrebbe manifestarsi per le abitazioni dopo un anno all’insegna della mancanza di contrattazioni.

 

In altre parole, se la domanda estera tiene e quella interna si rafforza anche solo un poco, l’economia italiana è in grado di stare a galla. A spingerla un po’ più su del semplice galleggiamento dovrebbero intervenire altri due motori «ausiliari», ossia di dimensioni più limitate e con compiti specifici. Il primo è naturalmente rappresentato dal pagamento di decine di miliardi di debiti commerciali degli enti pubblici, vergognosamente accumulati negli anni per motivi di «cosmesi finanziaria». La loro liquidazione è tecnicamente complessa (i debitori sono migliaia di enti diversi e i creditori devono dimostrare il loro buon diritto) ma il ministro dell’economia assicura che le cose stanno procedendo bene. Questo denaro dovrebbe servire ad attenuare l’utilizzo di credito bancario da parte di moltissime imprese e a rendere un po’ meno anormali le condizioni del mercato italiano del credito alle imprese favorendo qualche investimento produttivo.

 

Infine, l’Italia dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) poter contare su fondi europei per i quali siamo diventati la favola dell’Europa. Per ottenere questi fondi, la cultura italiana ha spesso posto l’accento sugli appoggi più che sull’assoluta precisione di progetti e preventivi e sull’esattezza delle rendicontazioni. Per questo l’Italia si è vista respingere implacabilmente gran parte delle domande di finanziamento. Per imparare a essere buoni europei è necessario fare i conti all’europea, una procedura pignola, noiosa ma che vale sicuramente la pena di seguire: qualche decina di miliardi di finanziamenti, in particolare per infrastrutture e corsi di qualificazione, potrebbe fare la differenza tra un’Italia che sarà comunque spinta passivamente verso l’alto da una modesta e generalizzata tendenza europea alla crescita e un’Italia che mira a trasformare la piccola spinta congiunturale che forse ci aspetta nell’avvio di un processo di crescita più duraturo. 

 

La stagione delle «grandi vacanze», che ufficialmente si apre in questi giorni, è il primo momento per verificare se la «barca a vela Italia» sarà in grado di cogliere questa leggera brezza di ripresa e di solcare credibilmente le acque oppure se sprecherà l’ennesima buona occasione continuando a occupare le ultime posizioni del campionato della crescita.

 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/07/27/cultura/opinioni/editoriali/a-passo-lento-la-ripresa-si-avvicina-jMoAyEy2IP1meBqr1bR93I/pagina.html
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« Risposta #179 inserito:: Agosto 11, 2013, 05:05:42 pm »

Editoriali
11/08/2013

Dalla crisi un Paese diverso

Mario Deaglio

Sul finire del 2008, mentre le Borse precipitavano e le imprese del suo paese denunciavano perdite stellari, il presidente americano George W. Bush fece di tutto, nei suoi discorsi e nei documenti pubblici, per non usare mai la parola crisi, preferendo termini più blandi e meno allarmistici come «rallentamento produttivo» o «inversione di tendenza». Il che fu negativo, per gli Stati Uniti e per il mondo, in quanto portò a un’iniziale sottovalutazione di quanto stava effettivamente succedendo e determinò un grave ritardo negli interventi per arginare gli sviluppi negativi. 

Nell’Italia (e nell’Europa) di oggi, succede l’esatto contrario: gli operatori della politica e i mezzi di informazione hanno improvvisamente scoperto «la ripresa». Mentre fino a qualche settimana fa si affannavano a raccontare che stiamo vivendo la peggiore contrazione di produzione e consumi dai tempi del dopoguerra, ora la «ripresa», pur indefinita e impalpabile, riempie i discorsi e comincia a colorare di rosa, sia pure di un rosa pallidissimo, aspettative e speranze. 

 

E così come per gli Stati Uniti fu dannoso non parlare mai di una crisi in atto trattandola come non esistente, per l’Italia (e l’Europa) può risultare molto dannoso parlare ossessivamente di una probabile ripresa futura trattandola come già presente.

 

Su queste colonne, più di un mese fa, si pose l’accento sui segnali positivi trascurati dell’economia, i «fili d’erba» che crescevano in silenzio. Questi fili d’erba si stanno moltiplicando e il prato non è di un triste color marrone; si può dire con una certa sicurezza, però, che l’economia «va» non già quando l’erba sta crescendo ma solo quando il fieno è stato falciato e raccolto e ci si prepara a seminare per l’anno successivo. 

Secondo il filone tradizionale degli studi sulla congiuntura, una crisi può considerarsi superata solo dopo tre trimestri consecutivi di crescita del prodotto interno lordo, ossia dopo nove mesi di gestazione. Il che porta a concludere che nel migliore dei casi – se il terzo trimestre 2013 mostrerà un primo (necessariamente timido) segno positivo – solo alla fine di marzo del 2014 potremmo festeggiare la nascita del «nuovo bambino» che viene concepito in questi mesi, ossia della nuova fase espansiva. Di qui ad allora, un aborto, per cause nazionali o internazionali, è purtroppo possibile in qualsiasi momento.

 

Il motivo per cui politici, mezzi di informazione e normali cittadini si affannano a sperare e ad annunziare l’immediata uscita dalla crisi sembra essere di tipo emotivo: è convinzione molto diffusa, aperta o inconsapevole, che, passata la crisi, potremo tornare a spendere come prima: potremo mandare in soffitta la «spending review» e l’Imu, regalarci una riduzione del carico fiscale e quant’altro. L’uscita dalla crisi viene, spesso inconsciamente invocata, come la restaurazione del passato mentre dovrebbe rappresentare l’abbozzo del futuro. 

 

L’Italia del dopo-crisi non potrà quasi mai risuscitare i negozi che sono stati chiusi in questi mesi, dovrà progettare un sistema di distribuzione diverso; non potrà far ripartire un gran numero di fabbriche ormai smantellate ma le toccherà di inventare altri tipi di unità produttive, di maggiore efficienza, in grado di resistere sui mercati mondiali; non potrà tollerare i macroscopici sprechi del settore pubblico, evidenti soprattutto a livello regionale, ma dovrà disegnare in maniera radicalmente diversa il sistema produttivo, il sistema finanziario-creditizio e il sistema fiscale.

 

L’uscita dalla crisi deve necessariamente rappresentare un punto di partenza, non un punto di arrivo, un momento di problematicità, di scommessa, di nuova energia, non certo il recupero di antiche certezze, di antichi «diritti acquisiti», come quelli delle «pensioni d’oro» degli alti gradi della burocrazia, per i quali non esistono più né le basi né le risorse. Se non si farà così il «nuovo bambino» che vedrà definitivamente la luce alla fine dell’inverno potrebbe essere troppo gracile e avare una prospettiva di vita molto breve. 

Per questi stessi motivi la ripresa non porterà a immediate inversioni di tendenza per l’occupazione. 

 

L’economia italiana ha perso competitività per vent’anni rispetto ai suoi partner/concorrenti mondiali; recuperare quella competitività significa, nelle prime fasi di un ciclo espansivo, che da un determinato numero di occupati deve inizialmente provenire una maggiore produzione, in gran parte grazie a nuovi investimenti e nuovi prodotti. Una tendenza durevole all’aumento di un’occupazione negli anni futuri non avverrà per caso ma dovrà essere il risultato del ridisegno di un’intera società, di scelte e di programmi di investimenti nazionali ed europei frutto di riflessioni e dibattiti di cui non si vede traccia. Purtroppo il dibattito politico italiano si è arenato su problemi relativamente secondari come l’entità delle riduzioni dell’Imu e non affronta i problemi principali come le politiche di stimolo dei consumi e degli investimenti.

 

Questo discorso italiano può essere applicato, con le necessarie varianti, a gran parte dell’Europa. Sono largamente carenti riflessioni su ciò che vorrà o potrà essere l’Unione Europea dopo questa ripresa; proprio per la presenza di simili carenze è possibile che la ripresa futura si limiti a essere un piccolo e breve fuoco di paglia. Deve far riflettere l’esperienza giapponese: un ventennio costellato di false partenze. C’è da sperare, per l’Italia e per l’Europa che la prossima partenza, alla quale dobbiamo prepararci da subito, sia una partenza vera.

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/08/11/cultura/opinioni/editoriali/dalla-crisi-un-paese-diverso-Pq3fSwYFfVOcqaVdUXDg5K/pagina.html
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