Titolo: MARIO DEAGLIO. Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2008, 03:18:09 pm 28/2/2008
Addio pilastro verde MARIO DEAGLIO Da circa sessant’anni, ossia dal secondo dopoguerra, le economie dei Paesi ricchi si muovono in un contesto internazionale che poggia su tre pilastri: il ruolo centrale del dollaro, l’accessibilità delle materie prime energetiche a prezzi tali da non scatenare inflazione, i prodotti alimentari a buon mercato. Il pilastro energetico era stato lesionato negli Anni Settanta e Ottanta, ma successivamente riparato. Nella giornata di ieri, però, tutti e tre i pilastri si sono messi a tremare in maniera preoccupante. Il prezzo del frumento ha toccato livelli da primato, anche perché le riserve mondiali di cereali sono al punto più basso da trent’anni (quando la popolazione mondiale era all’incirca la metà dell’attuale). Il petrolio ha toccato nuovi massimi, consolidandosi poi oltre la soglia psicologica di 100 dollari al barile. Soprattutto, però, la quotazione della moneta americana si è indebolita sotto la soglia psicologica di 1,5 dollari per un euro con un ribasso a velocità crescente: in cinque anni il «biglietto verde» ha perso oltre il 30 per cento del suo valore rispetto alla moneta europea e metà di questa perdita è concentrata negli ultimi mesi. Il dollaro scende nei confronti non soltanto dell’euro ma, sia pure in maniera attenuata, anche dello yen, della sterlina e delle altre monete più importanti. E se un euro che sale troppo è un problema dei soli europei, un dollaro che scende troppo diventa un problema per il mondo intero. Questi tre movimenti sono sufficienti a provocare un deciso disorientamento. Einducono a domandarsi se sia possibile uscire da una situazione del genere con gli strumenti dell’economia di mercato oppure sia necessario un intervento diretto dei governi. La risposta più semplice riguarda il frumento (e, più in generale, tutti i cereali). Lo stimolo dell’aumento del prezzo dovrebbe essere sufficiente, nel giro di un anno o due, a far salire la produzione e a risolvere nel breve periodo la situazione, in assenza di forti anomalie climatiche che, come è successo con le recentissime gelate cinesi, possono causare disastri per i raccolti. Tale risultato sarà più rapido e più sicuro se si utilizzeranno sementi geneticamente modificate, il che può provocare dibattiti gravi e scelte dolorose. In questo periodo di tempo, non è escluso che i governi dei Paesi esportatori cerchino di formare una sorta di «Opec del grano» per tener alto il prezzo e quelli dei Paesi importatori, specie se con situazioni di povertà diffusa, impongano temporaneamente qualche forma di prezzo massimo e/o di razionamento. Per le materie prime energetiche, i Paesi dell’Unione Europea possono certo stabilizzare i prezzi rinunciando a parte delle entrate derivanti da un carico fiscale eccessivo; la vera stabilizzazione, però, può derivare soltanto da una diversa regolamentazione del mercato petrolifero. Dalle contrattazioni, infatti, dovrebbero essere esclusi gli operatori puramente finanziari, i quali contribuiscono all’instabilità dei mercati determinando caratteristiche ondate speculative. Secondo l’Unione Petrolifera, senza le contrattazioni speculative (di scarsa utilità nel quadro globale dell’economia) i prezzi del greggio potrebbero essere del 20 per cento più bassi e si tratta di una stima ragionevole. Il vero problema riguarda però il dollaro, da sempre stella fissa del nostro firmamento finanziario, attorno a cui ruotano tutte le altre monete. È tempo di domandarci serenamente se la moneta americana possa ancora occupare a lungo questa posizione di centralità, di «metro universale» dell’economia mondiale. I ribassi a catena del costo del denaro dello scorso mese paiono motivati più dalla preoccupazione di evitare una recessione nell’anno delle elezioni americane che da una visione lungimirante del ruolo degli Stati Uniti nel mondo: per evitare una recessione, probabilmente di breve durata, gli americani si stanno giocando un predominio durato oltre mezzo secolo. Per molte transazioni finanziarie il dollaro è già oggi utilizzato assai meno di qualche anno fa, pur rimanendo ancora largamente la moneta prevalente. Nella determinazione dei prezzi delle materie prime potrebbe utilmente essere sostituito da un paniere delle principali monete (in cui il dollaro continuerebbe, peraltro, a essere largamente rappresentato). I prezzi espressi in questa nuova unità di misura risulterebbero molto più stabili di quelli espressi in un’unica moneta e rifletterebbero assai meglio l’economia mondiale multipolare che si va delineando con l’irrompere sulla scena mondiale de grandi paesi asiatici. Nell’attuale situazione, una «stella fissa» non può essere sostituita da un’altra «stella fissa». Il nostro universo economico ha «perso il Nord», ossia un punto di orientamento stabile; per evitare il caos servono interventi diretti, accuratamente meditati, preparati e coordinati, dei governi dei singoli Paesi. I problemi del governo dell’economia mondiale non sembrano però interessare i ceti politici dei vari Paesi, che ragionano pressoché soltanto in termini di appuntamenti elettorali, di conquista e conservazione a breve del potere. Un potere politico conquistato o conservato a breve può però valere ben poco in un’economia resa caotica dalla mancanza di interventi appropriati. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Bastasse candidare Inserito da: Admin - Marzo 04, 2008, 11:21:21 pm 4/3/2008
Bastasse candidare MARIO DEAGLIO Le prime fasi della campagna elettorale, con la scelta di liste «bloccate» di candidati, nei confronti dei quali gli elettori non possono esprimere preferenze, sembrano dominate da due illusioni. Le forze politiche sembrano spesso illudersi che sia sufficiente candidare personaggi variamente noti per motivi estranei alla politica per convincere un numero consistente di elettori a votare la lista per la simpatia del personaggio anche se di quella lista non condividono obiettivi e strategie politiche. La seconda illusione riguarda invece questi candidati noti, o addirittura famosi ed è la convinzione che sia facile operare efficacemente arrivando ai vertici della politica, ai seggi di Montecitorio e Palazzo Madama o addirittura alle poltrone di ministro, senza alcuna adeguata esperienza di decisioni pubbliche, di tipo politico e amministrativo; senza, quindi, una «carriera» politica nel senso di esperienze politiche precedenti. L’attrazione della politica è particolarmente forte per esponenti delle cosiddette «parti sociali», imprenditori e sindacalisti, la cui attività all’interno delle rispettive associazioni presenta - per il genere di problemi trattati e per le conseguenze pubbliche delle loro decisioni - caratteristiche non troppo dissimili da quella all’interno delle aule parlamentari e ha portato alla candidatura di due imprenditori molto noti nelle liste del Partito democratico. In realtà, politica e impresa presentano numerosi punti di somiglianza ma, come molte cose assai simili, risultano poi difficili da conciliare alla prova dei fatti. Il declino della cosiddetta Prima Repubblica insegna che non si può ridurre l’impresa a un fatto meramente o prevalentemente politico e precisamente questo tentativo di riduzione ha prodotto una lunga serie di disastri industriali, dalle «cattedrali del deserto» del Mezzogiorno alle disavventure dell’Alitalia (che proprio nei giorni scorsi ha annunciato una drastica riduzione della liquidità disponibile). Per converso, le esperienze della cosiddetta Seconda Repubblica - e in particolare il primo governo Berlusconi - mostrano che non si può ridurre la politica a un fatto imprenditoriale senza compiere gravi errori. Non è quindi sufficiente mettere insieme, all’interno di una forza politica, imprenditori e sindacalisti perché si abbia una sublimazione del conflitto sociale; al contrario, si potrebbe avere un trasferimento di tale conflitto all’interno di un partito o di un governo con un forte freno alla sua capacità di agire. Le vicende dell’attuale governo ne sono una chiara dimostrazione. Ugualmente insoddisfacente appare la soluzione di «affidarsi ai tecnici»: purtroppo è ormai divenuta quasi una tradizione in Italia quella di affidare a un «tecnico» il ministero dell’Economia. Il principale risultato di questa prassi è di aver contribuito potentemente a creare una generazione di politici che non sa leggere il bilancio dello Stato. Questo analfabetismo nei confronti dei conti pubblici, unito alla scarsa esperienza del funzionamento della «macchina» amministrativa, porta a una difficoltà a formulare proposte di governo coerenti con lo stato delle finanze pubbliche. È quanto si evince da un’analisi pubblicata qualche giorno fa da Il Sole 24 Ore, relativa agli effetti sui conti pubblici delle promesse elettorali e con particolare riguardo al programma delle attuali forze di opposizione. Si alimentano così illusioni pericolose di poter risolvere in poco tempo qualsiasi problema con un pizzico di «buona volontà» e qualche breve articolo di legge. Nella foga della campagna elettorale rischiamo di ridurre i programmi alle promesse, in una sorta di menu gratuito mentre l’economia insegna che «nessun pasto è gratis». Il ruolo della politica non dovrebbe essere quello di esprimere buone intenzioni ma quello di contemperare le «istanze» delle parti sociali, come il «decalogo» presentato ieri dal presidente di Confindustria, in modo da dar vita a programmi sostenibili, e non cedere all’illusione che le «istanze» si trasformino in programma quasi per un colpo di bacchetta magica. Questa diversità tra istanze e programma chiarisce la diversità di ruoli tra parti sociali e forze politiche: sta alle prime segnalare ciò che non va, magari suggerendo le vie per eliminare le disfunzioni, alle seconde di predisporre meccanismi e risorse perché le disfunzioni siano eliminate davvero. Sta al sindacato denunciare l’inadeguatezza dei redditi di numerose fasce salariali, alle organizzazioni degli imprenditori chiedere semplificazioni amministrative e potenziamento delle strutture (due punti del «decalogo» sopra citato); sta invece ai politici dare risposte operative su questi punti. La confusione tra istanze e programmi non può non rivelarsi un elemento di disordine: proprio quello che si vuole evitare perché l’Italia ritrovi la via dello sviluppo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO Non basta un'aspirina Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:25:33 am 23/4/2008
Alitalia un ponte sul pozzo MARIO DEAGLIO Un altro «prestito-ponte». Un ponte da 300 milioni di euro al fondo del quale non c’è più un’altra sponda dove Air France è in attesa con il suo progetto industriale duro ma economicamente credibile; c’è la nebbia che cela un probabile salto nel vuoto, nella speranza che misteriosi «cavalieri bianchi» vengano in soccorso della bella Alitalia rifiutata dai francesi. Un estremo soccorso, deliberato «per ordine pubblico» nel palese tentativo di aggirare i divieti europei, che assomiglia più che altro a un accanimento terapeutico per tenere in vita un’impresa decotta che perde ogni giorno da 1 a 2 milioni di euro. In parallelo, dal mondo bancario sono arrivati chiari segnali che indicano che sarà preso in benevola considerazione il finanziamento e l’appoggio finanziario a chi voglia davvero rilevare (con prospettive credibili, naturalmente) la compagnia di bandiera italiana. È forse appropriato ricordare al governo in carica, e a maggior ragione a quello non ancora formato e alle banche che questo «prestito-ponte», questi finanziamenti e quest’appoggio hanno un costo. Per il governo, destinare ulteriori denari pubblici ad Alitalia significa intaccare le scarsissime risorse disponibili per altri scopi in un panorama di finanza pubblica nel quale devono ancora prevalere i tagli; per un istituto bancario assicurare il finanziamento di un’eventuale acquisizione di Alitalia non solo comporterebbe in ogni caso un elevato livello di rischio ma significa di fatto negare finanziamenti di pari entità ad altre imprese che, quasi certamente più di Alitalia e con un rischio minore, sarebbero in grado di generare profitti e nuova occupazione. Si fa davvero il bene del Paese (e quello degli azionisti nel caso delle banche) destinando in tal modo ingenti risorse finanziarie? In tutta questa confusione, nessuno sembra porsi l’interrogativo fondamentale ossia se è proprio necessario gettare altri soldi in quel pozzo senza fondo che è Alitalia o se non sarebbe meglio permettere che Alitalia passi, più o meno dignitosamente, alla storia. Forse sarebbe preferibile la soluzione svizzera con la quale si è lasciata decorosamente scomparire Swissair, almeno tanto blasonata quanto Alitalia, per fondare sulle sue ceneri una compagnia più piccola, Swiss, che ora fa parte del gruppo Lufthansa. E nessuno sembra riflettere seriamente sulle dimensioni, la struttura dei costi e il tipo di posizionamento internazionale che dovrebbe avere una linea aerea italiana in un mondo sempre più concorrenziale nel quale non ci sono più rotte aeree riservate sull’Atlantico, mentre la più redditizia rotta aerea interna, la Milano-Roma, subirà tra circa un anno la competizione dell’alta velocità ferroviaria e quindi una quasi certa diminuzione di passeggeri. È naturalmente possibile una soluzione positiva, con una nuova linea aerea, ovviamente più snella e più attenta alle esigenze di chi viaggia per turismo o per affari (a cominciare da quella della puntualità) ma questi discorsi di profittabilità e di efficienza sembrano lontani dai tavoli in cui si decide il futuro del trasporto aereo italiano. Il problema Alitalia sarà naturalmente uno dei primi e dei più spinosi sul tavolo del prossimo governo e del prossimo presidente del Consiglio, il quale ha più volte evocato una «cordata italiana» in grado di rilevare la compagnia esistente. Questa cordata, questo patriottico drappello che doveva salvare il fortino assediato dai cattivissimi francesi di Air France proprio non si è visto e il fortino si è trovato solo, senza assedianti e i suoi difensori, forse un po’ delusi, hanno scoperto che non li vuole proprio nessuno. Così come nessuno sembra rendersi conto che il rifiuto di Air France di per sé fa ancora diminuire, agli occhi della comunità finanziaria e aeronautica mondiale, il già bassissimo valore di Alitalia. Se toccherà al futuro presidente del Consiglio spiegare perché la cordata non si è ancora materializzata (e, se si materializzerà, a quali condizioni) tocca sicuramente al sindacato spiegare i motivi di quell’assurda, eterna, contrattazione volta a ottenere sempre qualche concessione in più che alla fine ha fatto scappare Air France. E il sospetto è che all’interno del mondo sindacale molti si aspettassero che Alitalia potesse indefinitamente continuare a perdere con il finanziamento di tutti gli italiani. Di fatto, la convergenza tra i giudizi negativi del futuro presidente del Consiglio e il comportamento sindacale al tavolo delle trattative hanno fatto fallire l’unico tentativo industrialmente serio di tenere in vita la compagnia di bandiera italiana. La crisi Alitalia ha portato a livelli ancora più alti la riconosciuta abilità italiana di non decidere mai: il rinvio come stile di vita e arte della politica, il passaggio da un ponte a un altro ponte scansando accuratamente i problemi e non pensando mai ai costi. Nella speranza che, un ponte dopo l’altro, ci avviciniamo al Paradiso; ma c’è anche la possibilità che finiamo all’Inferno. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO Operazione trasparenza Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 11:00:09 am 3/5/2008
Operazione trasparenza MARIO DEAGLIO Le dichiarazioni Irpef come la guida telefonica? Accanto al nome di ogni cittadino, oltre al numero di telefono avremo anche il reddito dichiarato? I milioni di nomi scaraventati su Internet rappresentano il trionfo della democrazia o il colpo di coda di un viceministro, giunto alla fine del suo mandato deluso e con l’amaro in bocca? Su argomenti come questo si toccano, si scontrano, si confondono due dimensioni della libertà, quella individuale legata al rispetto della privacy e quella pubblica della trasparenza. Dalle nobili idealità della trasparenza a un clima generalizzato di sfiducia e addirittura di odio reciproco il passo può essere molto breve. Dal rispetto per l’individuo è facilissimo scivolare nella dissezione dell’individuo, dietro al paladino delle libertà che vuole tutti i redditi in piazza in nome di principi superiori spuntano il guardone, l’invidioso del vicino, o magari il capobanda in cerca di una rapina da organizzare. Del resto, se vanno rivelati i redditi di tutti, perché non mettere in piazza anche le cartelle cliniche? La possibilità di giudizi sommari è tanto più grave in quanto i redditi che figurano nella dichiarazione annuale possono non essere affatto - e senza chiamare in causa l’evasione fiscale - una rappresentazione fedele di quanto effettivamente un individuo percepisce in un anno. Chi dispone di redditi e patrimoni veramente alti può, in maniera del tutto legale, costruirsi uno schermo di società per azioni o altre strutture giuridiche che gli evitano l’esposizione mediatica; gran parte dei redditi di capitale (per esempio gli interessi sui Bot o altri titoli a reddito fisso) non figura in tale dichiarazione; per i liberi professionisti e i commercianti ci possono essere anni buoni e anni cattivi e il reddito di un solo anno non è affatto indicativo. La cifra che viene associata al nome di un contribuente costituisce un primo indizio molto scivoloso, non già un’occasione per fare giustizia sommaria. Per evitare che vengano minate alcune regole basilari della convivenza civile, il principio che sembra più ragionevole (adottato, del resto, in numerosi paesi ad elevato livello di democrazia) è che l’interesse pubblico al reddito dei singoli contribuenti deve essere limitato ai personaggi pubblici o a coloro che intendono diventarlo. E’ ragionevole che sia reso noto a tutti il reddito di un ministro, di un parlamentare, di un sindaco o di quanti aspirano a tali cariche. E’ ragionevole che le autorità facciano indagini mirate per sradicare l’evasione e stanare i furbi. Molto irragionevole andare al di là di questo limite e consentire che ciascun cittadino si faccia «giustizia fiscale» da solo. Ci si può rallegrare che, in questi giorni, La Stampa abbia seguito una simile linea, che non a caso ha riscosso il plauso del garante della privacy e intenda perseverare. Questo significa che i redditi dei «normali» cittadini debbono restare ignoti? Certamente no, ma c’è una notevole differenza tra l’accessibilità di un dato e la sua automatica esposizione a tutti. Una regola possibile è di imporre un’informazione in due direzioni: se deve essere pubblico il reddito di un cittadino, deve ugualmente essere pubblica la richiesta di informazioni su quel reddito. Se il cittadino Bianchi vuol conoscere il reddito del cittadino Rossi lo può fare, a condizione che il cittadino Rossi sia immediatamente informato della richiesta e del suo autore. Basterebbe questa lieve barriera a garantire un uso ordinato e costruttivo delle informazioni sui redditi, tenendo conto che milioni di italiani ogni anno consentono ad altri l’analisi della propria dichiarazione dei redditi: chi richiede un mutuo, chi vuole accedere ai pagamenti rateali del credito al consumo, chi intende affittare un alloggio porta volentieri alla controparte il documento in oggetto e gli consente l’esame di molte informazioni personali, per le quali è di assoluto rigore un uso limitato allo scopo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 10:17:04 am 22/5/2008
Un aiuto alle famiglie MARIO DEAGLIO Chi non ama questo governo dirà che la montagna ha partorito un topolino; chi invece lo ama dirà che il primo Consiglio dei ministri ha affrontato i problemi con sano realismo. La sostanza è la stessa: quando dalle istanze, dai principi, dalle promesse elettorali si passa al funzionamento reale dei meccanismi, terribilmente complicati, dell’economia ci si accorge che i vincoli aumentano e gli spazi di manovra si riducono. Chi è al timone può permettersi di variare anche molto sensibilmente la rotta in materia di immigrazione e sicurezza, dove l'azione del governo rappresenta un distacco netto da quella del governo precedente; per l'economia, si può al massimo correggere le tendenze e gli andamenti di qualche frazione di grado; è possibile accelerare e frenare un poco, ben più difficile abbandonare il solco del passato. Per questo, nei loro risvolti immediati e concreti, i provvedimenti adottati dal Consiglio dei ministri in materia economica non mostrano una particolare discontinuità con quelli del governo precedente: dalla detassazione del quaranta per cento sulla prima casa introdotta dal precedente governo si passa alla detassazione totale, un provvedimento ragionevole che vale però mediamente meno di cento euro per famiglia all'anno e che apre dei buchi molto seri nelle finanze dei Comuni. Certo, questi buchi saranno successivamente turati con altre operazioni della finanza pubblica, ma l'intera vicenda dà un'idea corretta di quanto corta sia la coperta fiscale che viene tirata da tutte le parti e di come un governo che ha il mandato di realizzare federalismo fiscale e riduzione della pressione fiscale debba prendere atto che, almeno nel breve periodo, non si possono realizzare entrambi in una volta sola. Ugualmente ragionevole, in linea con il desiderio di ridurre il carico fiscale su lavoratori e imprese, è la detassazione degli straordinari per i dipendenti delle imprese private, specie se davvero il ministro dell'Economia riuscirà a finanziarla, come ha promesso, con la riduzione di qualche voce discrezionale della spesa pubblica. Contribuirà certamente a sostenere i bilanci familiari e sulla stessa linea si colloca l'accordo raggiunto - sempre dal ministro dell'Economia - con l'Associazione Bancaria Italiana che consente alle famiglie di rinegoziare i mutui per l'acquisto della prima casa a condizioni piuttosto vantaggiose. Quest'ultimo provvedimento sarà particolarmente gradito da un'opinione pubblica che è stata indotta a considerare le banche come «nemiche» che si arricchiscono sulle difficoltà altrui, ma i suoi effetti reali nel sostegno dei redditi non possono che essere esigui. I provvedimenti economici usciti dal Consiglio dei ministri di Napoli paiono quindi tre gradite gocce d'acqua offerte a un assetato che, se fosse possibile, di acqua ne berrebbe a litri. I loro effetti complessivi sui bilanci familiari basteranno probabilmente a compensare i rincari dei carburanti e delle bollette energetiche legati all'attuale choc petrolifero. Devono essere letti soprattutto come una dichiarazione di intenzioni: il programma delineato dal ministro dell'Economia richiede tempi piuttosto lunghi per essere messo a punto in dettaglio e ancor più per produrre effetti veramente rilevanti (se davvero li produrrà, come è bene augurarsi per il Paese, al di là delle preferenze politiche di ciascuno). In campo economico, quindi, ci si trova di fronte a una partenza dal profilo relativamente basso: esso riflette il generale cambiamento di clima economico in Europa e nel mondo verificatosi nei circa due anni che separano il terzo dal quarto governo Berlusconi. Durante questo periodo sembra definitivamente tramontata l'idea che semplicemente detassando i redditi elevati si scatenino energie vitali e iniziative imprenditoriali sufficienti a far ripartire lo sviluppo; la priorità di questo come del precedente governo non può che essere quella di sostenere il potere d'acquisto, sempre più risicato, di fasce di italiani dai redditi bassi e medio-bassi e forse questo allargamento dell'attenzione è stato l'elemento che ha consentito la vittoria della coalizione di centro-destra. Ugualmente svanita è l'idea che i mercati siano in grado di autoregolarsi producendo effetti meravigliosi per tutti; la posizione del ministro dell'Economia, pur non coincidendo con il protezionismo classico, è favorevole a robusti interventi di difesa dei prodotti nazionali. In definitiva, questo governo non dispone della bacchetta magica e lo sa. Questo è un passo avanti rispetto al secondo e al terzo governo Berlusconi, che anch'essi non disponevano di tale meraviglioso strumento ma non lo sapevano. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 10:51:19 am 25/6/2008 - CARTELLI
I falsari dei prezzi MARIO DEAGLIO Scampato al naufragio e giunto senza forze su una spiaggia sconosciuta, Gulliver si risveglia prigioniero dei lillipuziani, una razza di uomini alti appena quindici centimetri; mentre dormiva, l'hanno tutto avviluppato con piccoli lacci e laccioli che non gli consentono di muoversi. L'allegoria settecentesca di queste vicende, narrate nel notissimo romanzo satirico di Jonathan Swift, appare particolarmente adatta a descrivere le condizioni attuali dell'Italia, così come emergono con impietosa chiarezza nella relazione annuale che Antonio Catricalà, presidente dell'Antitrust, ha presentato ieri: l'eroe addormentato e spossato, reduce da un naufragio, potrebbe benissimo essere l'Italia del 2008, mentre i lillipuziani sono le varie corporazioni, i vari interessi incrociati che tengono prigioniero il paese, che, pur potenzialmente molto forte, non riesce a liberarsi. Si prenda a esempio il settore alimentare che tanto interessa la spesa quotidiana: in 267 circuiti alimentari messi sotto osservazione dall'Antitrust nel 2007, il ricarico medio sul prezzo finale è stato del 200 per cento, con punte fino al 300 per cento, assai più che in quasi tutti gli altri paesi avanzati. Il che significa che dal produttore al consumatore il prezzo aumenta esageratamente non per la «cattiveria» di qualcuno ma per la lunghezza della «catena», ossia per il maggior numero di intermediari. Insomma, sulla vendita degli alimentari vive in Italia un numero proporzionalmente maggiore di persone che in altri paesi e la preoccupazione di garantir loro da vivere fa vivere un po’ peggio tutto il Paese. Quello che succede per gli alimentari è solo un caso della vastissima enciclopedia dei nostri orrori economici quotidiani presentata da Catricalà. Sono infatti assai numerosi i settori, in cui i «circuiti» produzione-distribuzione quasi non si fanno concorrenza tra loro, ma intrattengono rapporti fissi e consolidati. Per conseguenza, quando dall'estero importiamo tensioni inflazionistiche, queste vengono semplicemente spostate in avanti sui prezzi perché nessuno ha un vero incentivo a far concorrenza al «collega». Forse se nella realtà italiana ci fossero meno «colleghi» e più «competitori» (una parola che, non a caso, suona strana alle nostre orecchie) dal punto di vista dei prezzi le cose andrebbero meglio. Operando senza farsi una sana guerra commerciale, che rappresenta una delle basi di un sistema di mercato che operi in un paese democratico, è facile che gli operatori compiano delle trasgressioni ai danni dei consumatori. L'Antitrust ha accertato nel 2007 quasi un'infrazione al giorno del Codice del Consumo. Il viaggio tra le oltre 250 pagine di questa relazione narra, tra l'altro, di pubblicità ingannevoli o con informazioni carenti nel settore dei telefoni; di proposte di voli scontatissimi che riguardano solo pochi posti e non tengono conto di tutte le voci di costo; di offerte finanziarie nelle quali non è sempre chiara l'indicazione del tasso da pagare; fino alle imprese della cosmetica, sul cui presunto «cartello» per tenere prezzi alti l'Antitrust sta lavorando da pochissimo tempo. L'Italia, insomma, si scopre paese di intese, tacite o palesi, implicite o esplicite, tra imprese di vari settori che dovrebbero lottare l'una contro l'altra e invece non si fanno concorrenza. Più si sale, più si toccano punti dolenti: dalle banche, forse l'unico settore in cui la sensibilità dell'opinione pubblica si è effettivamente risvegliata in questi anni, alle società di assicurazioni e alle imprese energetiche e petrolifere. Si scoprono così quelli che Catricalà chiama i «cartelli segreti» che negli Stati Uniti aprono le porte della galera. L'Antitrust, ci assicura, sta lavorando a una dozzina di casi. E soprattutto ci sono le «chiusure» al vertice: quasi la metà delle società quotate in Borsa annovera imprese concorrenti tra i propri soci. Incredibilmente quattro su cinque contano tra i loro consiglieri di amministrazione persone che siedono anche nel consiglio dei loro concorrenti. Non fa meraviglia che per un'impresa il modo migliore di crescere non è fare concorrenza ma acquistare un'impresa concorrente che già indirettamente conosce molto bene; che i «salotti buoni» in cui un ceto dirigenziale ritrova la propria omogeneità siano più rilevanti di una buona concorrenza in cui lo stesso ceto sperimenti le proprie differenze. Non è necessario accettare posizioni estreme che vorrebbero ridurre tutto a concorrenza per concludere che nelle forti limitazioni della concorrenza, nell'esistenza di corporazioni e di interessi che dovrebbero essere contrapposti e che invece sono collegati sta uno dei motivi per cui, nel corso della storia, dopo ottime partenze ogni tanto in Italia tutto tende a fermarsi; precisamente come è successo in questi ultimi 15-20, quando l'Italia-Gulliver nata con il miracolo economico è stata gradualmente avviluppata dalle corde dei piccoli e «cattivi» lillipuziani che ne hanno gradualmente limitato la libertà d'azione. Anche senza erigerla a principio generale, qualche dose in più di concorrenza, invocata in linea di principio ma disattesa in pratica, farebbe sicuramente bene, dal settore petrolifero a quello delle libere professioni. Accettare un aumento di concorrenza significa prendersi dei rischi (il che agli italiani non piace quasi mai) ma non accettandoli avremo una grande certezza: quella di precipitare al fondo delle classifiche europee non solo della crescita ma anche della ricchezza, un'isola di strana povertà a Sud delle Alpi che già comincia a formarsi - come mostra il confronto con la più concorrenziale Spagna - e che tra venti-trent'anni gli altri paesi europei guarderanno con curiosità e un po' di compassione. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 05:12:03 pm 2/7/2008
Europillole per il mal di prezzo MARIO DEAGLIO I mezzi d’informazione pongono giustamente l’accento sugli aumenti dei prezzi italiani ed europei, ma ottengono il risultato di spaventare più che quello di informare l’opinione pubblica. Cerchiamo invece di superare la paura che, a ragione, l’inflazione provoca in noi e guardare dentro alle fauci del mostro. Scopriremo allora che la grande maggioranza degli aumenti dei prezzi è concentrata in tre soli settori e cioè i trasporti (carburanti), l’elettricità e i generi alimentari. La concentrazione attuale delle spinte inflazionistiche indica che il processo inflativo è ancora nelle sue prime fasi, come un’infiammazione localizzata che non si è ancora estesa a tutto l’organismo. Se per il calcolo dell’inflazione usassimo il (discutibile) sistema americano che esclude gli aumenti più rilevanti, l’inflazione di base (core inflation) di quasi tutti i paesi europei si collocherebbe tra il 2 e il 3 per cento, ossia a un livello di attenzione e preoccupazione, ma non ancora di allarme rosso. L’inflazione attuale deriva prevalentemente dall’aumento dei prezzi dei beni importati e tale aumento non ha ancora scatenato un’ondata di aumenti salariali, tesi a ripristinare il potere d’acquisto perduto; se e quando quest’ondata si scatenerà, l’inflazione si diffonderà in ogni settore e sarà molto più difficile curarla. Siamo quindi (forse) ancora in tempo per aggredire l’attuale ondata di aumento dei prezzi con rimedi specifici, ossia senza utilizzare misure «pesanti», come l’aumento del costo del denaro che, con ogni probabilità, implicherebbero un brusco arresto della crescita. Per far uso di una metafora medica, l’attuale inflazione italiana ed europea assomiglia a un mal di gola, forse ancora curabile con appropriate pasticche, senza passare subito agli antibiotici che stroncherebbero, sì, il male ma al prezzo di lasciare l’organismo stanco e debilitato. La «cura con le pasticche» si dovrebbe concretare in interventi fiscali mirati, sotto forma di sgravi o altre facilitazioni, per quei settori «sensibili» sul cui costo di produzione incidono pesantemente il prezzo del petrolio e dei suoi derivati, e i cui aumenti raggiungono molto rapidamente il consumo finale. Naturalmente tutto ciò deve intendersi in cambio di un implicito assenso delle imprese di questi settori a non aumentare i prezzi che andranno tenuti attentamente sotto controllo; e non sostituisce la necessità di lungo periodo di modificare in profondità i meccanismi che limitano la concorrenza e quindi favoriscono il semplice trasferimento, a un cliente che non può reagire, degli aumenti di prezzo ricevuti. Tra i settori in questione figurano l’autotrasporto, la pesca e forse anche la panificazione, mentre non si dovrebbe escludere una riduzione generalizzata del carico fiscale sui carburanti, pari a oltre i due terzi del prezzo alla pompa, che compensi gli aumenti sul greggio importato, nel tentativo di mantenere il prezzo finale invariato. Queste azioni, però, esulano di fatto dalle competenze dei singoli governi nazionali, in quanto, se applicate da uno o pochi paesi membri dell’Unione Europea potrebbero essere considerate distorsive della concorrenza e quindi bocciate a Bruxelles. È pertanto un errore cercare di risolvere l’attuale problema inflazione a livello nazionale; a giudicare dal dibattito degli ultimi giorni, le forze politico-sociali italiane rischiano di compiere quest’errore in quanto ritengono di avere come unico o principale interlocutore il governo italiano, mentre, siccome sono necessarie decisioni concordate a livello europeo, bisogna dialogare, prima di tutto, con la Commissione o con l’Ecofin, l’organismo che raggruppa tutti i ministri dell’Economia e della Finanza dei paesi dell’Unione. L’attenzione si deve quindi spostare a Bruxelles ed è doveroso osservare che, in quest’occasione, l’Unione Europea risente duramente dalla mancanza di un ministro dell’Economia, dotato di poteri di coordinamento delle politiche economiche nazionali e della capacità di dialogare con la Banca Centrale Europea, la quale, quando alza il costo del denaro, fa il proprio mestiere senza alcun contrappeso adeguato. È altrettanto doveroso sottolineare che, in questa vicenda, la Commissione ha dato prova di un’incredibile inettitudine. Mentre c’è stata qualche risposta all’aumento mondiale del prezzo dei cereali (autorizzazione alla coltivazione dei terreni a riposo), di fronte alla «crisi annunciata» dell’aumento dei prezzi petroliferi, non sembra, al momento aver fatto proprio nulla se non essersi espressa con qualche buona parola di circostanza. Il suo «memorandum» del 19 giugno e la successiva nota del 24 giugno sono due «lezioncine» di economia, condite di buoni propositi ma sostanzialmente prive di alcuna proposta concreta. Paiono più preoccupate per gli effetti dell’inflazione petrolifera e agricola nei paesi emergenti che per quelli sulla spesa quotidiana dei cittadini europei. Questo distacco dai problemi reali della gente è probabilmente uno dei motivi della disaffezione, se non dell’aperta ostilità, verso l’Unione di una parte crescente degli europei. Sull’attuale inflazione, l’Unione Europea si sta giocando qualcosa di più di qualche punto percentuale di crescita della produzione e precisamente il suo stesso modo di essere e di governarsi. È sperabile che la Francia, che ha cominciato ieri il suo semestre di presidenza dell’Unione, abbia chiaro il carattere cruciale di questo periodo. E non si limiti a chiedere alla Banca Centrale Europea di non alzare il costo del denaro senza offrire in cambio un «pacchetto» di misure che rendano superfluo questo aumento. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO Per favore abolite il G8 Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 09:55:12 am 10/7/2008
Per favore abolite il G8 MARIO DEAGLIO Tutti in tenuta da ufficio a far finta di piantare un albero davanti alle telecamere, per testimoniare il loro impegno per l'ecologia e contro il cambiamento climatico: così, goffi e impacciati, sono apparsi i leader degli otto Paesi economicamente più importanti del mondo ad almeno due miliardi di telespettatori che ne hanno, più o meno distrattamente, seguito le attività. In realtà il loro impegno ecologico e climatico è risultato almeno tanto inadeguato - si potrebbe dire tanto ridicolo - quanto il loro abbigliamento. E se qualcuno aveva ancora dei dubbi, il solito comunicato stampa, denso di buone parole e luoghi comuni ma avaro di fatti, li dovrebbe aver convinti di quanto inutili, per non dire nocivi, siano questi incontri. L’iniziativa del G8 (allora G5) era nata nel 1975 quando di fronte a una crisi grave e del tutto sconosciuta, come il primo choc petrolifero, il presidente francese Giscard d’Estaing ebbe l’idea di un incontro a porte chiuse e a quattr’occhi in cui i responsabili del governo dei maggiori Paesi dell’Occidente potessero dialogare senza testimoni. E tagliando fuori le rispettive burocrazie. Un luogo in cui stare assieme a esaminare problemi, a confrontare strategie, a raggiungere accordi informali ma - sperabilmente - efficaci. Di qui dovevano partire decisioni rapide per contrastare l’aumento dei prezzi delle materie prime, che peraltro continuarono a crescere e ci regalarono il secondo shock petrolifero del 1979. In 33 anni e 34 incontri al vertice, il G8, pur senza diventare un organo formale, si è allargato (con l'ingresso della Russia, limitato però ad alcune materie) e di alcuni Paesi emergenti, invitati a assistere ad alcune sedute; si è anche appesantito, in quanto a livelli più bassi si incontrano, in occasioni separate, i ministri dell’economia, dell’ambiente, della giustizia e altri ancora, e ha perso gran parte di quel carattere riservato che poteva costituirne l’elemento originale. Dopo i gravi incidenti di Genova, si cerca di tenere le riunioni in luoghi isolati, ma il G8 attira sempre giornalisti e contestatori e induce i partecipanti a pietose esibizioni mediatiche, come quella, appunto, di far finta di piantare un albero. I comunicati sono inconcludenti e sull’efficacia delle riunioni si pronunceranno gli storici tra trenta e più anni, consultando archivi che per ora sono segreti. Se i capi dei Paesi più potenti hanno bisogno d’incontrarsi riservatamente, è bene che lo facciamo. Se devono lanciare messaggi comuni che diano all’opinione pubblica un senso di direzione e politica condivisa, è bene che lo facciano. Le due cose assieme, però, non riescono molto bene in quanto la riservatezza del primo obbiettivo si scontra con la visibilità del secondo e ne derivano comunicati inutili e grandi decisioni mancate per cui un vertice G8 può rivelarsi addirittura dannoso. Così forse è stato per la riunione svoltasi sull’isola giapponese di Hokkaido, dove, dietro l’annuncio di obiettivi convenientemente lontani nel tempo, di accordi che non saranno mai portati a ratifica, di impegni che difficilmente saranno rispettati, si intravedono crescenti divisioni trai partecipanti. La prima divisione è, in termini semplici, tra ricchi e poveri. Invitati «a prendere il caffè», ossia a una parte soltanto delle riunioni, quando i grandi discorsi erano già stati fatti, i rappresentanti dei Paesi emergenti si sono rifiutati di sobbarcarsi oneri aggiuntivi nella lotta mondiale al riscaldamento atmosferico; ma c’era da aspettarselo, visto la vibrante presa di posizione in questo senso - al G8 dei ministri dell’ambiente svoltosi qualche mese fa a Heiligendamm, in Germania - del rappresentante cinese, il quale aveva ricordato che l'inquinamento è il risultato di duecento anni di industrializzazione occidentale. L’«accordo» contiene soltanto buone parole, senza vere scadenze in tempi brevi e ciascuno lo leggerà come vorrà. Una seconda frattura, meno visibile e più profonda, è quella derivante dal veto posto dagli Stati Uniti (e dal Canada) all’ingresso a pieno titolo dei grandi Paesi emergenti nell'organizzazione per la scarsa condivisione da parte di questi ultimi di fini generali, che immaginiamo essere la democrazia e l'economia di mercato. In questo modo il G8 rinuncia a essere un vero e proprio «salotto mondiale» ma diventa il «salottino» di una parte sola. Nel 1975, gli attuali membri pesavano per circa i due terzi del prodotto lordo mondiale; oggi il loro peso, tenendo conto del differente potere d’acquisto della medesima quantità di moneta in varie parti del mondo, è di poco più della metà. La ricerca dell’efficacia richiederebbe un allargamento, senza il quale appare illusorio affrontare con efficacia i grandi problemi mondiali. Per il resto, si è confermata la mancanza di soluzioni e di idee per i problemi strutturali emersi nell'ultimo anno, dalla crisi finanziaria alla crisi agricola, per la quale sono stati stanziati pochi spiccioli, e chissà se poi verranno davvero spesi. Sulle colline giapponesi, insomma, c’è stata una conferma in più del fatto che una ricetta magica per uscire dalle crisi molteplici e concatenate di questi nostri anni non l’ha ancora trovata nessuno. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO Borse valori e borsa della spesa Inserito da: Admin - Luglio 16, 2008, 10:14:38 pm 16/7/2008
Borse valori e borsa della spesa MARIO DEAGLIO Gli sforzi delle banche centrali per circoscrivere l’infezione finanziaria che da un anno sta angustiando l’intera economia globale sono falliti. Lo ha riconosciuto ieri, in un’importante deposizione davanti al Congresso degli Stati Uniti, il professor Ben Bernanke, numero uno della Fed, la maggiore banca centrale del mondo. La deposizione di Bernanke è importante perché è la più pessimistica in assoluto da quando, circa due anni e mezzo fa, ha assunto la carica di vertice del sistema finanziario mondiale; perché segna una netta svolta rispetto al tono rassicurante, e spesso minimizzante, di molte delle sue precedenti dichiarazioni; perché sembra accostarsi alla linea, più severa e ortodossa, della Banca Centrale Europea. In ogni caso, sappiamo ormai che la situazione non è sotto controllo, che non esistono ricette collaudate, che governi e banche centrali stanno muovendosi al buio. Quasi per sottolineare che il re è veramente nudo, mentre Bernanke parlava le Borse americane scendevano rapidamente, continuando in quel processo di erosione del listino che ha portato i mercati azionari mondiali a collezionare una perdita del trenta per cento in un anno. E General Motors, impresa-simbolo del capitalismo americano, annunciava un piano che si può definire di sopravvivenza: un quinto dei posti di lavoro tagliati, dividendi annullati, più di metà del patrimonio in vendita. Precisamente con le decisioni di General Motors, da finanziaria la crisi americana si è trasformata in reale. da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO Non basta un'aspirina Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 11:07:55 am 18/9/2008
Non basta un'aspirina MARIO DEAGLIO Per oltre un anno, le banche centrali più importanti del mondo, in particolare l’americana Fed e l’europea Bce, hanno cercato di opporsi alla crisi iniettando liquidità nel sistema. Sostituivano così la liquidità che le cadute di Borsa andavano distruggendo. La Fed provvide soprattutto con un forte taglio del costo del denaro che doveva rendere più facile la vita ai debitori, la Bce con «iniezioni» più mirate, sotto forma di prestiti di breve periodo a banche particolarmente indebitate. Quando tutto ciò non è bastato, la Fed (e in un caso la Banca d’Inghilterra) è intervenuta, direttamente o indirettamente, acquisendo la proprietà - e quindi soprattutto i debiti - delle imprese finanziarie che stavano fallendo. A ogni «iniezione» il mercato ha respirato sollevato, e molti esperti del mondo finanziario hanno proclamato che la crisi era finita, il sistema si era ripulito, tutto poteva riprendere come prima. Il sollievo è però risultato ogni volta di brevissima durata: nel giro di pochi giorni sono regolarmente ricomparse le nuvole nere - ossia le voci, purtroppo corrette, di nuove situazioni pesanti nei bilanci di qualche banca o altra società - che si sono sfogate in temporali finanziari sempre più violenti. Le iniezioni di liquidità, in sostanza, hanno avuto l’effetto delle aspirine quando si cura un malato di polmonite. Un’aspirina può far scendere temporaneamente la febbre, ma non ne cura affatto i sintomi; il suo uso esclusivo e prolungato non impedisce il progresso della malattia e rivela che il medico non sa bene che cosa fare. Le banche centrali hanno, nel loro complesso, dato precisamente l’impressione di essere prive di una strategia, di una cura di lungo periodo; la percezione della loro impotenza è, in particolare, alla base delle forti cadute di ieri quando il salvataggio, da parte dell’americana Fed, del gigante delle assicurazioni Aig è stato letto non più come elemento positivo, ma come conferma della gravità della situazione. In questa situazione la presenza di controlli severi ed efficaci, come sono quelli della Banca d’Italia, può proteggere solo dal contagio primario: le banche italiane hanno in portafoglio pochi titoli della fallita Lehman Brothers, ma che cosa può succedere se questi titoli sono presenti in maniera cospicua nel portafoglio di grandi banche di altri Paesi con cui quelle italiane hanno stretti rapporti? L’ipotesi di un «contagio secondario» non si può certo escludere, e con esso la «crisi di sistema» paventata dal ministro Tremonti. Nel caso di una «crisi di sistema» l’Italia parte probabilmente con qualche posizione di vantaggio, come appunto sostiene Tremonti, grazie ai suoi buoni controlli bancari, ma sarebbe una ben magra soddisfazione se questo vantaggio si manifestasse in un mondo prostrato dalla crisi. La giornata di ieri segna, in ogni caso, il momento in cui ci si rende conto che l’aspirina non basta più e la crisi, a lungo colpevolmente minimizzata e data per risolta, compie un ulteriore salto di gravità. Per essere credibili, i responsabili dell’assetto finanziario internazionale devono, a questo punto, preparare un piano di lungo periodo. E nel fare questo possono seguire essenzialmente una di due strade molto diverse tra loro. La prima strada comporta la sostanziale accettazione dei meccanismi di mercato e quindi la creazione e il rafforzamento di un’autorità internazionale di controllo, dotata di effettivi poteri, tra i quali, soprattutto, quello di ispezionare i conti delle istituzioni finanziarie di ogni Paese, di stabilire regole e di comminare sanzioni a quanti le regole non rispettano. Non deve più succedere che le banche centrali si trovino di fronte a contabilità parallele delle quali non sospettavano neppure l’esistenza. Questa soluzione, alla quale mira l’attività del Financial Stability Forum, un influente gruppo di lavoro presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, è però avversata da molti grandi Paesi, in primo luogo dagli Stati Uniti, i quali non sembrano maturi per accettare che un’autorità «straniera» interferisca con il loro - peraltro debolissimo - controllo bancario. E difficilmente riuscirebbe a evitare un periodo iniziale di crisi. Se non si ritiene di rafforzare il mercato finanziario internazionale con un controllo dei rischi a livello mondiale, occorre imboccare la seconda strada, che è quella di frazionarlo, controllando i medesimi rischi a livello di singoli Paesi o aree finanziarie. Pur di distruggere il tessuto malato, si distruggerebbe così anche una parte di tessuto sano. In questo caso vedremo la proibizione di diversi tipi di operazioni finanziarie il cui rischio risulta difficile da calcolare e qualche forma di protezionismo finanziario; le libertà di movimento dei capitali potrebbero essere frenate, con un impatto differente per i vari Paesi; per i Paesi asiatici e per quelli petroliferi sarebbe forte la tentazione di staccarsi dal dollaro creando due nuove monete di riserva. Per tutti vi sarà la tentazione, almeno altrettanto forte, di sostenere le economie nazionali con nuovi interventi diretti o indiretti dello Stato (che d’altronde cominciano a verificarsi). In altre parole, le discese delle Borse di questi giorni ci fanno entrare in un mondo nuovo, spigoloso, non gradevole, pieno di insidie. Con una situazione di questo tipo abbiamo la non esaltante prospettiva di convivere piuttosto a lungo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Punto di svolta Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 10:31:03 am 26/9/2008
Punto di svolta MARIO DEAGLIO Con ogni probabilità la lunga vicenda dell’Alitalia deve considerarsi definitivamente chiusa, dopo la convergenza, pressoché generale, delle organizzazioni partecipanti alla trattativa su un accordo. Un accordo che si discosta in maniera non essenziale da quello che sarebbe stato possibile raggiungere circa sei mesi fa per un elemento positivo (l’ingresso di imprenditori italiani) e uno negativo (il monopolio di fatto alla nuova compagnia della tratta Milano-Roma, con possibili conseguenze sui prezzi). Ci sarà in ogni caso l’ingresso di una compagnia estera che, sia pure in posizione minoritaria, sarà qualificante dal punto di vista operativo e strategico; e ci sarà un inevitabile e sensibile ridimensionamento degli occupati. La firma di quest’accordo non deve quindi essere occasione per stappare una bottiglia o per discorsi di sonante retorica. È piuttosto motivo per una piccola soddisfazione e per una più grande riflessione: soddisfazione perché le cose potevano andare molto peggio(lo potrebbero ancora se venissero a mancare le firme di alcune organizzazioni), e riflessione su un sistema italiano di trattative che si è rivelato gravemente inefficiente. Per circa centottanta giorni le parti si sono cercate al buio senza che fossero chiari a tutti i termini del problema. Ai lavoratori di questa disastrata azienda sono stati trasmessi segnali distorti: si è fatto loro intendere che l’Alitalia era potenzialmente una miniera d’oro che veniva svenduta mentre è di fatto, con l’organizzazione attuale, soprattutto una miniera di debiti; tutto ciò li ha portati a un’assurda esultanza alla notizia dell’insuccesso (fortunatamente rientrato) di trattative che, dal punto di vista dei lavoratori e di coloro che saranno posti in cassa integrazione, rappresentavano invece un ottimo risultato, data la situazione. Questi centottanta giorni sono costati 250-300 milioni di euro che, in definitiva, ricadranno sui contribuenti. I quali si accolleranno anche le condizioni di favore accordate ai lavoratori in esubero, condizioni che ne fanno, pur nella difficoltà della loro situazione, chiaramente dei privilegiati rispetto agli altri lavoratori cassintegrati che non hanno la fortuna di fregiarsi del marchio dell’Alitalia. Speriamo che tutti questi costi servano a far capire che l’attuale sistema di risoluzione delle vertenze, specie nel settore pubblico, non ha più senso. Per decenni tali vertenze sono andate avanti a suon di trattative notturne, di orologi fermati per poter negoziare ancora, di vantaggi mercanteggiati e «strappati» alla controparte. Fare trattative è diventata una professione che, se si sommano le vertenze, tiene occupate, da tutte le parti del tavolo, migliaia e forse decine di migliaia di persone che stendono testi farraginosi in un Paese che spesso usa le complicazioni normative per creare pretesti di vertenze future. L’attenzione spasmodica ai dettagli, amplificata a dismisura dai mezzi di informazione, fa perdere di vista obiettivi più generali quali le condizioni per la crescita e lo sviluppo e, per conseguenza, per la creazione di nuovo lavoro di buona qualità. In questa come in moltissime altre vertenze che l’hanno preceduta, si è corso il rischio (che appare superato) di porre le premesse per l’inefficienza complessiva di un’organizzazione per salvare qualche centinaio di posti di lavoro. Nelle imprese pubbliche, prive del riscontro immediato del profitto, si è realizzata spesso una «cogestione» di fatto tra dirigenti aziendali e sindacali (oppure organizzazioni professionali come quelle dei piloti) ai quali manca il giusto apprezzamento della produttività e dell’interesse generale. Se l’accordo Alitalia rappresenterà un punto di svolta in questo stato di cose, tutto sommato, i soldi che il Paese ha sborsato e sborserà non saranno stati spesi male e si porranno alcune delle basi necessarie perché questo Paese esca da un decennio di stagnazione di fatto. E va dato atto che un certo decisionismo di questo governo, la sua insistenza nel portare avanti una soluzione - sia pure probabilmente inferiore a quella inizialmente proposta da Air France - può rappresentare l’elemento di rottura di un sistema di relazioni sindacali troppo a lungo cristallizzato. Occorre poi sottolineare che la nuova Alitalia non ha certo il successo garantito: il momento è difficile per tutto il settore dei trasporti aerei e ci vorrà molto lavoro, e anche un po’ di fortuna, per far dimenticare un’immagine diffusa di questa «compagnia di bandiera», disattenta nel servizio ai passeggeri e disattenta nel rispetto degli orari. L’elemento più positivo, in questo contesto, del nuovo piano industriale è il tentativo di riorganizzare l’azienda su sei diverse basi territoriali, cercando di limitare così la «romanità» della sua cultura che l’ha per decenni collocata troppo vicino al potere e troppo lontano dall’efficienza. Sia per la concorrenza esterna sia per questi problemi interni, il cammino sarà arduo. La bottiglia per brindare per il momento lasciamola in cantina; la tireremo fuori tra cinque anni circa se i risultati saranno favorevoli. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Ma qui c'è vigilanza Inserito da: Admin - Settembre 30, 2008, 12:04:25 pm 30/9/2008
Ma qui c'è vigilanza MARIO DEAGLIO Il crollo dell’edificio finanziario americano provocherà anche il crollo dell’edificio finanziario europeo? Se lo domandano oggi milioni di risparmiatori europei, sconvolti dalle notizie di banche in difficoltà e dalle durissime cadute di Borsa. Un mercato ancora largamente immaturo si intreccia con mezzi di informazione impreparati a una tempesta di questo genere, che ne sottolineano i disastrosi aspetti esteriori. Si rischia così non già di suscitare una consapevole presa di coscienza dei rischi, bensì di scatenare un’ondata di panico ingiustificato e potenzialmente molto dannoso. Occorre ragionare a mente fredda e, se possibile, a nervi distesi. Questa crisi nasce negli Stati Uniti, dove hanno avuto origine non solo i famigerati titoli sub-prime ma anche quasi tutti i titoli oggi appropriatamente definiti «tossici»; la loro crescita è stata addirittura incoraggiata fino a quasi un anno fa e ha raggiunto livelli astronomici; il loro valore sui mercati è attualmente pari a zero o prossimo allo zero (e come tali devono essere indicati nei bilanci, dando luogo a perdite ingenti), anche se una parte rilevante sarà regolarmente rimborsata alla scadenza. Negli Stati Uniti la crisi finanziaria ha innescato una forte debolezza dell’economia reale, spesso minimizzata, o addirittura negata, dal governo di quel Paese, e combattuta a lungo, e colpevolmente, con gli strumenti sbagliati, ossia continuando a finanziare i consumi. Il resto del mondo, e in particolare l’Europa continentale, è stato contagiato di riflesso, ossia per aver acquistato, spesso «impacchettati» in altri prodotti, i «titoli tossici». Questi costituiscono, in ogni caso, una parte molto piccola, talvolta trascurabile, del patrimonio delle banche italiane, e comunque piuttosto limitata anche nel patrimonio delle altre banche europee. Molto raramente, e quasi sempre solo per via indiretta, il veleno si è fatto strada nei prodotti finanziari in cui è investita la stragrande maggioranza dei risparmi degli europei. Le banche europee che si sono trovate nelle difficoltà, che hanno suscitato un pronto intervento dei governi dalla Germania all’Islanda, dalla Gran Bretagna ai Paesi Bassi, devono le loro angustie - oltre che a scelte strategiche sbagliate come per la Banca Fortis - all’aver finanziato operazioni di lungo periodo con denaro a breve periodo, il che una volta era vietato e probabilmente tornerà a esserlo molto presto. Sarebbe del tutto fuori luogo trarre da questi avvenimenti indicazioni generali di collasso del sistema europeo, mentre questa conclusione non è irragionevole per il sistema americano. Due elementi giocano a favore dell’Europa, e in particolare dell’Italia. Il primo è quello che, fino a ieri, veniva chiamato «arretratezza finanziaria» e che oggi viene etichettato come «saggezza»; per una serie di motivi, compresa forse una loro non eccessiva capacità tecnica, le banche italiane non sono andate dietro alle ultime mode finanziarie. Gli istituti bancari italiani hanno partecipato in misura ridottissima al gioco di creazione di ricchezza finanziaria priva di basi veramente credibili. Uno dei motivi per cui non hanno «giocato» è rappresentato dal sistema della vigilanza bancaria, ed è questo il secondo elemento favorevole. Negli Stati Uniti questo sistema può ben essere definito una farsa, frutto di un’ideologia che esaltava la capacità di autoregolarsi del mercato e bollava come oppressiva e liberticida anche solo una supervisione attenta e dettagliata delle operazioni da parte della banca centrale. Tale ideologia, che oggi subisce un tempestoso tramonto, non ha mai pienamente attecchito in Europa, e in particolare in quella continentale: mentre il governo della moneta si accentrava nella Banca Centrale Europea, le singole banche centrali non hanno rinunciato, e anzi hanno intensificato la vigilanza sul sistema, con vari gradi di severità. Questa vigilanza è al massimo in Italia, ed è questo uno dei motivi per cui il Governatore della Banca d’Italia è stato nominato presidente del Financial Stability Forum, con l’incarico di proporre nuove regole per ottenere un mercato efficiente. Il sistema bancario italiano può quindi essere considerato una navicella sana che regge bene un mare in gran tempesta, nel quale la nave ammiraglia, ossia il sistema americano, imbarca acqua ed è inclinata sul fianco mentre le altre navicelle europee hanno qualche vela ammaccata. Nessuno sa come la tempesta si evolverà, c’è motivo di molta attenzione in un percorso che non è certo una passeggiata, ma chi istericamente si mettesse a gridare che la nave affonda dovrebbe, finché non torna la calma, essere confinato sottocoperta. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Meno tasse per vincere la paura Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2008, 08:46:28 am 8/10/2008
Meno tasse per vincere la paura MARIO DEAGLIO Pur scuotendo con analoga violenza le Borse e le economie di tutto il mondo, la crisi finanziaria non presenta caratteri uniformi e richiede pertanto diversità di cure. La caduta delle quotazioni appare determinata da cause di fondo profondamente dissimili tra loro in particolare tra America ed Europa. La messa a fuoco di queste differenze è importante per la ricerca di rimedi efficaci. Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano al centro della tempesta, così come sono stati al centro del progetto di economia globale che oggi rischia di andare in frantumi. La crisi finanziaria si accompagna qui a una sempre più marcata crisi dell’economia reale: all’inizio del 2007, i disoccupati americani erano sette milioni, oggi sono nove milioni e mezzo e stanno salendo al ritmo di oltre centomila al mese. Nel 2008 si costruiranno negli Stati Uniti circa novecentomila abitazioni, nel 2007 erano il doppio; il lungo indebolimento del dollaro ha migliorato solo di poco le cifre delle esportazioni. Il Paese è vissuto con il credito concessogli, sempre meno volentieri, dal resto del mondo: come dice una battuta di Wall Street, la principale attività degli americani è (sarebbe meglio dire: è stata) quella di comprare e vendere case tra loro con soldi prestati dai cinesi. In realtà, i soldi prestati dai cinesi, e da quasi ogni altro Paese, hanno anche permesso agli Stati Uniti di compiere i loro controversi interventi militari. Gli europei, per contro, non hanno vissuto con soldi prestati dall’estero ma sono invece reduci da un difficile e doloroso contenimento dei loro deficit pubblici, finanziati prevalentemente con denaro presto a prestito all’interno dell’Europa; la loro economia, per quanto appannata, non presenta forti debolezze strutturali; le imprese industriali hanno generalmente conti in ordine e profitti ragionevoli. Non c’è quindi alcun vero motivo per un collasso delle quotazioni come quello che abbiamo visto in questi giorni se non una sorta di crisi collettiva di nervi determinata da monumentali errori di coordinamento e di comunicazione dietro i quali si individua una classe politica che, non solo in Italia, non capisce più la gente e non riesce a farsi capire dalla gente. Affrettandosi a garantire in toto i depositi dei risparmiatori, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha fatto sorgere nell’opinione pubblica il sospetto che soltanto quest’impiego fosse sicuro. Tale convinzione, diffusasi subito in tutta Europa, è stata una delle molle della caduta dei prezzi delle azioni: moltissimi hanno venduto per depositare in fretta il ricavato, non importa se con perdite ingenti, sotto l’ombrello dei conti correnti. Da queste profonde diversità si può concludere che la risposta alla crisi, pur coordinata a livello mondiale, dovrà essere differenziata: gli americani dovranno curare energicamente la loro economia reale - e questo sarà probabilmente il principale compito del nuovo Presidente - in Europa si dovrà curare soprattutto il settore finanziario. I guai americani sono inestricabilmente legati alla politica e alla posizione degli Stati Uniti nel mondo, i guai europei derivano anche dall’assenza di una politica, ossia dalla mancanza di coesione interna e da una non chiara posizione internazionale. L’ostinazione a concentrarsi unicamente sugli aspetti tecnici della caduta delle Borse, senza collocarli in un più vasto contesto storico e geopolitico, è uno dei motivi dell’inefficacia delle cure fin qui adottate. Che cosa dovrà quindi fare l’Europa in questa situazione turbolenta? Nell’immediato, dalle istituzioni europee, e cioè dall’Eurogruppo, dall’Ecofin, dalla Commissione e dalla Banca Centrale, dovrà uscire un messaggio chiaro e coordinato di sostegno temporaneo alle banche e alle altre istituzioni finanziarie che venissero a trovarsi in crisi di liquidità, indipendentemente dal loro assetto futuro più o meno «nazionalizzato». Tale sostegno non potrà che essere accompagnato da un’immediata e sensibile riduzione del costo del denaro prima che l’aumento dei tassi interbancari soffochi, oltre a quelli delle banche, i bilanci di decine di milioni di europei i cui mutui a questi tassi sono legati. In tempi appena un po’ più lunghi è necessaria una maggiore elasticità nell’applicazione del patto di stabilità che aumenti, sia pure di poco, il limite consentito dei deficit pubblici. Si tratta di una misura da usare con cautela e con forti limiti, in quanto potenziale fonte d’inflazione, ma della quale oggi appare impossibile fare a meno. Almeno per l’Italia, l’uso migliore di questo margine d’azione non sta certo nell’aumento della spesa pubblica ma nella riduzione delle entrate: andrebbero detassati i redditi più bassi, in modo da sostenere la domanda di questa folta categoria di cittadini, che oggi è, più delle altre, preda della paura di redditi insufficienti e incline al pessimismo. Infine andrebbero corrette alcune assurdità delle nuove regole contabili che si sono dimostrate veicolo non trascurabile della crisi. La risposta venuta tra sabato e ieri dalle riunioni di Lussemburgo e di Parigi è un passo nella direzione giusta, ma di per sé esitante e insufficiente. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Garanzie in cerca di fiducia Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2008, 10:30:33 am 9/10/2008
Garanzie in cerca di fiducia MARIO DEAGLIO La giornata di ieri finirà nei libri di storia. Tre grandi temi hanno scandito le ore nervose e preoccupate di governi, operatori finanziari e cittadini. Il primo tema è largamente positivo e riguarda il successo del tentativo di coordinamento planetario. La concertazione, mancata sabato al vertice europeo di Parigi, emersa poi in maniera assai pallida all’Ecofin di martedì a Lussemburgo, è stata trovata, a livello mondiale, mercoledì quando in Europa era ora di pranzo. Otto banche centrali, compresa quella cinese, hanno messo da parte esitazioni e gelosie e deciso una riduzione importante e coordinata nel costo del denaro. Per la Banca Centrale Europea si è trattato di un’implicita ammissione che l’aumento dei tassi, deciso non più tardi di tre mesi fa, era sbagliato, o comunque superato. Poco importa se gli effetti immediati sono stati irrisori o addirittura negativi, le Borse avranno modo di metabolizzare questa importante riduzione nei prossimi giorni. La riduzione concertata dei tassi costituisce un forte segnale di discontinuità rispetto a un atteggiamento di relativa indifferenza e minimizzazione, prevalente ancora poche settimane fa: la crisi finanziaria è passata al primo posto nella lista dei problemi mondiali, con la prospettiva, avanzata ieri dal Fondo Monetario, di un arresto della crescita dell’economia globale. In questa linea si colloca il secondo tema della giornata, ossia la rapida convocazione di una conferenza internazionale, forse preceduta da una riunione europea. Il G-8, proposto dal primo ministro inglese Brown, non è forse la sede migliore, in altre occasioni le sue riunioni hanno prodotto essenzialmente banalità, ma ogni segnale di svolta è importante. Le regole non potranno non andare nel senso di una revisione restrittiva dell’operatività internazionale degli enti finanziari, con l’eliminazione o la riduzione di operazioni finanziarie particolarmente a rischio, l’aumento dei poteri di controllo da parte di autorità nazionali e internazionali e con un maggiore equilibrio tra ricchi e poveri: è infatti essenziale che anche i maggiori Paesi emergenti (che detengono, tra l’altro, la grande maggioranza delle riserve monetarie e delle riserve petrolifere) siano invitati a partecipare a quello che dovrebbe essere il germe della «nuova Bretton Woods», da sviluppare poi nel 2009 quando a Washington ci sarà una nuova amministrazione nella pienezza dei suoi poteri. Il terzo tema riguarda gli interventi di singole autorità nazionali europee. Quasi tutti i Paesi si sono affannati a dare solenni garanzie sui depositi bancari. Così si è mossa anche l’Italia, dove peraltro le garanzie erano già elevatissime. Naturalmente la speranza è che il solo fatto di sapere che i suoi depositi sono garantiti tranquillizzi il depositante - traumatizzato da un’informazione sconsideratamente allarmistica -, lo induca a non ritirare i suoi depositi e quindi non richieda alcun esborso finanziario. L’intervento è mirato non già a tappare buchi che, quanto meno nel caso italiano, non esistono ma a contrastare una psicosi collettiva. Accanto alle garanzie sui depositi si collocano le garanzie, quasi soltanto verbali, di continuità di credito alle imprese, soprattutto a quelle piccole. Le garanzie ai depositanti sperabilmente non comporteranno alcun esborso, i salvataggi e il sostegno alle banche invece sì. Ancora una volta è la Gran Bretagna il Paese con gli sviluppi più rilevanti, anche perché le sue banche, maggiormente immerse nel processo di globalizzazione, sono quelle in peggiori condizioni finanziarie; il governo è intervenuto con una parziale «nazionalizzazione», ossia con un sostegno rappresentato da nuove azioni, prive però di diritto di voto. Dal canto suo, la Germania è intervenuta salvando la Hypo Real Estate con 35 miliardi di euro mentre la Francia, dopo aver iniettato tre miliardi di euro nella Dexia, una banca franco-belga, ha garantito che nessuna banca sarà lasciata fallire. In questo contesto si collocano anche le misure annunciate relative alle banche italiane. Sostenendo le banche, e intervenendo in vario modo nella loro operatività, i governi europei si assumono un forte rischio finanziario per evitare un rischio politico. Il rischio finanziario deriva naturalmente dal fatto che i fondi per questi interventi sono a carico del debito pubblico, il rischio politico è rappresentato dalla prospettiva di caos economico e sociale derivante dalla corsa ai depositi. La Gran Bretagna, dove il debito pubblico è basso e il pericolo di caos è considerato elevato dal governo, può permettersi questi interventi assai più facilmente dell’Italia, il cui debito pubblico è già elevatissimo mentre la solidità delle banche è sicuramente maggiore. L’azione del governo sarà quindi oggetto di grande attenzione, in Italia e all’estero, per i suoi possibili riflessi nei delicati equilibri della proprietà di queste istituzioni-chiave. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Ma chi pagherà? Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2008, 09:50:43 am 13/10/2008
Ma chi pagherà? MARIO DEAGLIO Come terapia d’urgenza, niente male. I punti sensibili del mercato finanziario saranno stretti con dei lacci per evitare ulteriori emorragie; le ossa rotte delle banche saranno accuratamente ingessate; e ci vorrà molto tempo (minimo un anno, si dice, ma possiamo tranquillamente prevedere tempi superiori) perché il paziente torni a camminare con le sue gambe. Se il paziente collaborerà (ossia se, a cominciare da questa mattina, risparmiatori e operatori finanziari smetteranno di vendere in preda al panico), i tempi della sua ripresa si accorceranno. Detto tutto questo, è doveroso elencare quattro interrogativi che pesano su questa cura. Il primo è legato precisamente alla collaborazione del paziente: gli esborsi di denaro necessari per sostenere le banche fino a tutto il 2009 saranno minori se la gente darà retta ai governi e scompariranno le vendite dettate dal panico. Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli appelli dei capi di governo alla calma o addirittura, più esplicitamente, a non vendere le azioni. Il successo dipende quindi dalla fiducia del pubblico in questi appelli. Ma quale fiducia hanno davvero i cittadini dei Paesi ricchi nei loro rappresentanti politici? Il problema della fiducia si aggancia immediatamente a quello del costo. E qui nasce il secondo interrogativo. Garantire il mercato interbancario va benissimo; addossare al settore pubblico le perdite legate all’emergenza del sostegno finanziario è purtroppo indispensabile, come per i danni di guerra. In definitiva, però, chi pagherà? La risposta, che non viene mai apertamente enunciata, è chiarissima: una parte del costo, più o meno grande a seconda dei Paesi ma comunque assai rilevante, sarà rappresentata da un aumento del debito pubblico. Il sollievo immediato potrebbe così risultare l’anticamera di una stagnazione futura di una finanza pubblica schiacciata da troppi salvataggi, espliciti o impliciti, di privati. L’unica crisi finanziaria simile a questa è quella giapponese dei primi Anni 90: la situazione fu controllata e i depositanti garantiti, ma seguirono una dozzina d’anni di stagnazione e un fortissimo aumento del debito pubblico. Vedremo se gli Stati Uniti sapranno far meglio; l’Europa, meno colpita, ha maggiori possibilità di ripartire, magari da sola. Terzo interrogativo. Riusciranno i nostri governanti a contenere in pochi anni la loro presenza nel capitale delle banche, oppure dovremo rassegnarci a un’altra esperienza tipo Iri (doveva durare 18 mesi, durò settant’anni)? Il rifinanziamento «provvisorio» delle banche in difficoltà annunciato dall’Eurogruppo potrebbe facilmente trasformarsi in permanente. Le risposte le daranno, con le loro decisioni, tutti i cittadini in quanto risparmiatori, ossia titolari di depositi bancari, proprietari di strumenti finanziari di ogni genere con le loro decisioni di vendere o di tenere una ricchezza finanziaria che è diventata bollente la settimana scorsa e che ora dovrebbe sfreddarsi. E le daranno a partire da questa mattina. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La crisi può portare giustizia Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2008, 12:13:42 pm 22/10/2008
La crisi può portare giustizia MARIO DEAGLIO Il rapporto dell’Ocse sulle disuguaglianze economiche dei Paesi avanzati conferisce un’altra dimensione alla crisi finanziaria mondiale e alla recessione che, come hanno ricordato proprio ieri il governatore della Banca d’Italia e il Fondo monetario internazionale, incombe sulle famiglie dei Paesi ricchi in questo autunno già eccezionalmente perturbato dal punto di vista finanziario. Le disuguaglianze dei redditi sono sensibilmente aumentate negli ultimi 10-15 anni, in uno scenario mondiale di crescita - pur interrotto da momenti angosciosi e crisi profonde - ormai definitivamente alle spalle. A seconda della matrice ideologica dei governi, tale crescita è stata tollerata oppure guardata con favore o addirittura favorita ma in nessun caso ostacolata. I motivi di questa benevolenza sono stati essenzialmente due. Il primo motivo per tollerare o addirittura favorire la disuguaglianza dei redditi, - si ricollega al pensiero liberista classico e quelli che Keynes definì «spiriti vitali» degli imprenditori ed è stato largamente seguito negli Stati Uniti da Reagan a George W. Bush, in Gran Bretagna da Thatcher a Blair, in Italia dal secondo e terzo governo Berlusconi (mentre l’attuale governo Berlusconi ha molto attenuato la sua posizione in materia). Si riteneva che i ceti sociali con redditi elevati fossero dotati di maggiore capacità di iniziativa e che queste capacità non solo andassero genericamente «premiate» ma potessero davvero svilupparsi solo con riduzioni del carico fiscale. Lasciare nelle loro mani una parte maggiore delle risorse significava iniettare adrenalina nelle vene dell’economia, imprimere una spinta alla crescita che sarebbe andata a beneficio di tutti perché avrebbe aumentato il dinamismo dell’economia, creato ricchezza. In maniera più o meno marcata, si procedette quindi quasi ovunque alla detassazione di questi redditi, giustificando il risultante «bonus fiscale» con la necessità di compensare chi era disposto a rischiare in proprio. Queste misure venivano anche proposte come reazione all’appiattimento ugualitarista di matrice socialdemocratica: occorreva andar contro a una società «noiosa» che appiattiva gli animi oltre che i redditi. Per non essere noiosa, per non essere pianificata dalla culla alla bare a opera di qualche «grande fratello», per crescere di più e meglio, la società non doveva solo consentire una maggiore disuguaglianza dei redditi, doveva anche essere associata a una forte mobilità sociale ed è questo il secondo motivo per cui furono tollerate o favorite le disugualianze: una società poteva essere anche fortemente diseguale purché ci fossero dei meccanismi che permettevano ai singoli di superare queste disuguaglianze, di compiere un «salto» di classe di redditi, di passare dalla parte degli ultimi a quella dei primi. Nei Paesi anglosassoni, questa società veniva ritenuta preferibile a quelle europee continentali, meno diseguali ma immobilizzate nelle loro disuguaglianze da una serie di «paletti» e stratificazioni sociali che rendevano molto più difficile questo «salto»: società in cui chi nasceva povero sapeva che sarebbe anche morto povero. L’esperienza di questi anni non ha dimostrato la validità di questi motivi in favore della disuguaglianza. Lo spirito di iniziativa dei ceti dotati di redditi più elevati non è stato certo eccezionale, in molti Paesi, tra cui l’Italia, la crescita è stata scarsa o quasi nulla, e, se si eccettua un numero limitato di casi, non vi è stato un aumento del benessere collettivo. Il benessere collettivo è anzi diminuito in molti suoi aspetti, dalla fruizione gratuita di importanti partite in televisione o di un certo numero di prestazioni negli ambulatori. In Italia, i maggiori redditi sono stati dovuti soprattutto a rendite di posizione, ad attività finanziarie con scarsi agganci con il meccanismo generale dell’economia e non a profitti sudati in mercati concorrenziali, a grandi investimenti e innovazioni. La mobilità sociale è stata frenata dal forte potere delle corporazioni: per mettersi in proprio in quasi ogni attività c’è bisogno di un «patentino», di un «esame di abilitazione». Il peggioramento italiano nella graduatoria della disuguaglianza dei Paesi ricchi appare frutto delle deliberate politiche di favore per i redditi medio-alti senza che i «paletti» corporativi siano stati ridotti. Non va poi trascurato il «fattore Mezzogiorno»: il dato italiano è una media tra un Nord-Centro in cui i divari sono sostanzialmente a livello «europeo» e quelli del Sud, che sono a livello «messicano» (il Messico è il più diseguale tra i Paesi esaminati dall'Ocse). È ben difficile che il federalismo migliori questa situazione, potrebbe anzi peggiorarla. Il divario è inoltre maggiore tra i giovani mentre gli anziani, i cui interessi sono ben rappresentati in Parlamento, si difendono abbastanza bene. La minaccia di recessione legata alla crisi finanziaria offre un’occasione per cominciare a rimediare a queste storture: l’allentamento del patto di stabilità, che si profila dopo i recenti vertici europei, consente ai singoli governi una maggiore libertà d’azione sul piano fiscale, in una situazione in cui bisogna detassare per sostenere i consumi e alleviare la (possibile) prossima recessione. Se gli sgravi fiscali non saranno più indirizzati ai redditi medio-alti ma a quelli medio-bassi, si otterranno contemporaneamente due benefici: sostenere il livello dei consumi, tenendo lontana la recessione, e diminuire il rischio di spaccatura sociale. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Se i media fanno il tifo per il crollo Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 10:27:19 am 10/11/2008
Se i media fanno il tifo per il crollo MARIO DEAGLIO La rapidità con cui le spinte recessive si stanno diffondendo nell’economia mondiale hanno sorpreso tutti gli osservatori: ai primi di settembre si parlava di crescita ridotta, ora si parla di cassa integrazione e comincia a comparire quell’espressione temutissima: recessione mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale ha frettolosamente rivisto in netto ribasso le sue previsioni ancora fresche di stampa e lanciato un Sos che ha fatto nuovamente tremare i mercati azionari, già sufficientemente traumatizzati. Perché questo cambiamento così brusco, che la dice lunga sull’attendibilità degli strumenti utilizzati per le previsioni economiche? Forse il motivo principale è la paura che, nei paesi ricchi, si è impadronita di decine di milioni di famiglie, operatori economici e finanziari e imprese. Pur potendo spendere sostanzialmente come prima, non spendono nel timore di tempi peggiori; pur potendo investire non investono; pur non avendo alcun bisogno di vendere titoli, se ne disfano in perdita nel timore di perdite maggiori in futuro. Questi timori sono così divenuti un elemento determinante nel peggioramento dello scenario economico, e di conseguenza i consumi scendono o ristagnano, gli investimenti languono, le Borse sono molto nervose con tendenza a scendere ancora. Ci si può legittimamente domandare quali siano le ragioni di queste paure e della loro rapidissima diffusione dopo interventi di proporzioni mai viste a sostegno all’economia da parte dei governi dei principali paesi; e per quale motivo tali interventi sembrano aver ottenuto un effetto opposto a quello che si proponevano. Per cercare di rispondere a questa domanda è inevitabile spostare l’attenzione sul modo in cui le notizie economiche vengono presentate al pubblico dai mezzi di informazione, i cosiddetti media. Un esame del trattamento della crisi finanziaria da parte dei media dei paesi ricchi consente di mettere a fuoco tre diverse debolezze. La prima debolezza è la scarsa aderenza del linguaggio - soprattutto nei titoli - all’entità dei fenomeni. Basta un esame sommario dei media dei principali paesi occidentali per verificare che le quotazioni di Borsa non «scendono», non «calano», non «scivolano»: vanno semplicemente «a picco» oppure «crollano»; e basta un piccolo rimbalzo perché si dica che «volano», magari con una crescita del 2%. Se non «crolla» e non «vola», la Borsa non fa notizia. Di qui la tendenza alla drammatizzazione che porta a descrivere il mondo dell’economia in bianco e nero, trascurando il prevalente (e sicuramente noioso) colore grigio, e fornisce inevitabilmente un quadro deformato. Se il giornalismo sportivo fosse ugualmente poco aderente alla realtà dei fatti, ci sarebbe una rivolta; le rubriche radiofoniche in materia sportiva sono dense di interventi di ascoltatori che contestano i giudizi dati dai conduttori di quelle trasmissioni. La stessa cosa non si verifica in materia economico-finanziaria perché il normale cittadino è assai meno competente in economia e finanza che in questioni sportive; proprio per questo dovrebbe esserci una maggiore consapevolezza della necessità di fornire notizie che non si prestino a conclusioni affrettate. La seconda debolezza è una pesante sottolineatura negativa nella descrizione dell’attuale momento economico. Le Borse «bruciano» sempre centinaia di miliardi di euro quando scendono e non «creano» mai nulla quando salgono; si fanno accuratissimi calcoli sul peso che, a seguito dell’aumento del prezzo della benzina, graverà sui bilanci famigliari, non si fa alcun calcolo dello sgravio che la diminuzione (da giugno il prezzo alla pompa è diminuito di 20-30 centesimi) comporta per gli acquirenti. Proprio perché influenza un enorme numero di decisioni individuali, tale atteggiamento concorre a rendere più pesante una situazione di certo non brillante: è una previsione che si autoavvera e che contribuisce a spingerci nel gorgo della crisi. Anche in questo caso è appropriato un paragone con il giornalismo sportivo: un simile atteggiamento farebbe scattare immediatamente l’accusa di parzialità, di «tifare» per la «squadra della crisi». I media danno spesso per scontato che la crisi abbia già vinto, il che contribuisce non poco a farla vincere davvero. La terza debolezza consiste nell’uso di collegamenti logici impropri o esagerati. Quando si dice, o si lascia capire ai telespettatori e ai lettori, che «le banche sono deboli e quindi i tuoi risparmi sono a rischio», si tralascia di ricordare che questo rischio, pur effettivamente esistente, è molto limitato ed è solo una delle tante alternative possibili e che contro una simile evenienza si sono già adottate misure importanti. I rischi aumentano proprio perché la grande maggioranza dei risparmiatori si è convinta, leggendo i giornali e guardando i telegiornali, che sarebbero aumentati; successe proprio così poco più di un anno fa alla banca inglese Northern Rock, presa d’assalto da migliaia di depositanti terrorizzati i quali poco si curavano delle garanzie totali fornite dalla Banca d’Inghilterra e dal governo di Londra. Questo portò a perdite ingenti per il sistema finanziario britannico e internazionale e determinò la nazionalizzazione della banca, che si sarebbe potuta benissimo evitare. Se è vero che ci aspettano tempi non facili, è altrettanto vero che le difficoltà possono, almeno in parte, essere tenute sotto controllo. Occorre che chi scrive, o trasmette, notizie economiche, così come chi le legge, mantenga una giusta freddezza e non si lasci trasportare dall’emotività. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Germania frenatrice d'Europa Inserito da: Admin - Novembre 19, 2008, 06:05:17 pm 19/11/2008 - I NO DI BERLINO SULLA RIPRESA
Germania frenatrice d'Europa MARIO DEAGLIO La bufera delle Borse ha avuto ieri, almeno in Europa, un momento di sosta; e per l'Italia le statistiche, che giorni fa avevano costretto a pronunciare la temuta parola «recessione», hanno rivelato, almeno fino a settembre, una tenuta abbastanza buona delle esportazioni italiane sia a livello di Unione Europea sia nel più vasto orizzonte mondiale. Per conseguenza, questo è forse quindi il momento giusto per riflettere sull'improvvisa gelata che si è abbattuta nelle ultime settimane sull'economia mondiale - e quindi anche su quella italiana - sorprendendo molti per la sua durezza e facendo drasticamente peggiorare le prospettive per i prossimi trimestri (per i prossimi anni, secondo alcuni). Una delle poche misure credibili per contrastare questa situazione è rappresentata dal gigantesco programma infrastrutturale cinese, con i suoi 586 miliardi di dollari da spendere in due anni. Per quanto straordinariamente rapidi siano i cinesi, tuttavia, i due anni basteranno ad aprire i cantieri ma non certo a chiuderli e l'effetto di stimolo si rivolgerà soprattutto alle imprese cinesi e di altri Paesi asiatici e si ripercuoterà sul resto del mondo in maniera ritardata, indiretta e attenuata. La Cina ha comunque dato il buon esempio. Perché mai l'Europa non la segue? La risposta occorre cercarla a Berlino: di fronte a Francia e Italia disponibili a un rilancio europeo il cancelliere tedesco, signora Angela Merkel, è rimasto come impietrito e impaurito. Per conseguenza la Germania, ossia la vera locomotiva europea, sta frenando invece di accelerare, timorosa di essere trascinata nel gorgo dell'inflazione da alleati nei confronti dei quali riaffiorano vecchie paure e diffidenze. La Germania si è opposta a un fondo europeo per le situazioni di crisi (salvo provvedere in maniera sostanziosa alle situazioni di difficoltà di alcune istituzioni finanziarie tedesche) e al progetto di finanziare progetti europei con l'emissione di obbligazioni della Banca Europea degli Investimenti e sta frenando su un'interpretazione meno «ingessata» del Patto di Stabilità: se tutti i Paesi portassero il loro deficit pubblico in prossimità del 3 per cento (o lo superassero temporaneamente di poco) il rischio inflazione sarebbe minimo e la ripresa quasi una certezza. Vedremo alla riunionedel 26 di novembre della Commissione Europea se ne verrà fuori qualcosa di buono o soltanto il tradizionale cocktail di alti principi, buone parole e pochissime misure concrete. Tutti preferirebbero aspettare che il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, li tolga d'impaccio tirando fuori dal cappello presidenziale un piano economico già bell'e pronto. Il suo slogan elettorale non era forse «Yes, we can!», «Sì, lo possiamo fare», e non ha forse detto dopo le elezioni che gli Stati Uniti sono il Paese in cui l'impossibile riesce? Aspettando il piano Obama - che necessariamente tarderà e non sappiamo quanto potrà essere efficace - la crisi sta mettendo in ginocchio l'economia di tutto il mondo, dai cinquantaduemila bancari licenziati dall'americana Citigroup al sistema delle piccole, efficienti aziende semiartigianali su cui si regge l'economia italiana; dall'American Express, gigante delle carte di credito, che chiede affrettatamente di diventare banca per accedere al credito facile della Federal Reserve americana, alle piccole e medie imprese italiane nei cui confronti le banche nostrane, senza peraltro dire apertamente di no, si mostrano improvvisamente reticenti ed evasive e rinviano concessioni di credito che prima delle ferie si sarebbero prese con una rapidità molto maggiore. I piani dei governi europei non sembrano tenere conto del velocissimo peggioramento della situazione dell'economia reale e appaiono tali da cominciare a produrre effetti solo in tempi lunghi. Le misure annunciate per l'Italia, peraltro non ancora note in sufficiente dettaglio, rientrano in questa categoria e sembrano soprattutto riorganizzare fondi europei sui quali in larga misura si poteva già far conto; inoltre intendono finanziare con un aumento (presumibilmente immediato) delle tariffe autostradali dei lavori autostradali che realisticamente inizieranno sul terreno non prima di 12-18 mesi, il che avrebbe un effetto di freno alla domanda, opposto quindi a quello che si vuole ottenere. Rischia di essere, secondo una nota espressione inglese, «troppo poco, troppo tardi». Non è questa la ricetta che serve oggi. Parafrasando uno slogan caro all'attuale ministro dell'Economia, oggi serve «mettere del denaro nelle tasche degli italiani» delle fasce di reddito più basse; se non lo si vuol fare in nome dell'equità sociale, lo si faccia almeno in nome della ripresa dell'economia. E non basta una «mancia» che integra la tredicesima, per finanziare i regali di Natale di un popolo che, a ragione o a torto, si sente impoverito, né una «social card» che dà a chi la usa la patente ufficiale di povero: è necessario un flusso aggiuntivo su cui contare per un tempo indefinito che deriva da una riduzione delle aliquote fiscali sulle categorie dal reddito più basso. Naturalmente oggi il ministro dell'Economia non ha le risorse per un'operazione del genere e il discorso torna così al piano di rilancio europeo che dovrebbe essere presentato dalla Commissione il 26 novembre. E' l'ultimo treno per evitare che le (finora modeste) spinte recessive si rafforzino fino a travolgere un'Europa che non ha i giganteschi problemi strutturali degli Stati Uniti e potrebbe puntare i piedi per resistere alla crisi. Per questo sono necessari un po' più di coraggio a Berlino, una visione meno burocratica a Bruxelles e misure rapide, vicine ai veri problemi nelle altre capitali, a cominciare da Roma. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il minimo necessario Inserito da: Admin - Novembre 27, 2008, 03:45:19 pm 27/11/2008
Il minimo necessario MARIO DEAGLIO Quanto meno l’Europa ha smesso di impiccarsi con le proprie mani: il sofferto riconoscimento da parte della Commissione Europea che il Patto di Stabilità deve essere trattato in maniera «elastica», come previsto dai trattati europei, rappresenta una vittoria. Una vittoria necessariamente parziale - ed è bene che sia così - dei «politici» sui «grandi burocrati» di Bruxelles. Naturalmente nessuno vuole tornare alla finanza allegra ma sarebbe irrazionale, per questa paura, togliere l’ossigeno alle imprese e alle famiglie. Il che è tanto più difficile da sopportare in quanto, in quasi tutti i Paesi, contemporaneamente si mettono a disposizione somme assai grandi per il salvataggio delle banche, ammesso che ne abbiano realmente bisogno. Gli storici del futuro si chiederanno come mai abbiamo aspettato tanto, perché un insieme di persone indubbiamente intelligenti siano rimaste così a lungo schiave di tabù assurdi (il rapporto deficit/pil sempre inferiore, qualsiasi cosa accada, al tre per cento e il rapporto debito/pil inferiore al sessanta per cento) e continuino, probabilmente senza rendersene ben conto, a scherzare con il fuoco della recessione. E intanto tutti continuiamo a domandarci come mai, in una situazione che peggiora a vista d’occhio, la Banca Centrale Europea, avendo finalmente riconosciuto l’esigenza di un taglio dei tassi, non senta il bisogno di convocare una riunione d’urgenza e aspetti tranquillamente una quindicina di giorni per rispettare la data in calendario. Il rispetto del protocollo, insomma, pare irresponsabilmente più importante della gravità della crisi. Con le decisioni di ieri, l’Unione Europea ha fatto il minimo indispensabile, il che è al tempo stesso un sollievo e un cruccio. Dietro alla soddisfazione giustificata, ma anche alla retorica di facciata, del presidente Barroso ci sono i contrasti irrisolti tra Francia e Germania, mentre il Regno Unito continua ad andare per conto proprio, c’è la debolezza di molti Paesi dell’Europa Orientale, emersa clamorosamente nelle ultime settimane, c’è l’incertezza di Italia e Spagna. Di fatto, pur nella fragile cornice di un accettabile disegno di fondo, ciascun Paese andrà per la sua strada e non si può proprio dire che le politiche di «rilancio», che in realtà sono politiche di contenimento della crisi, risulteranno davvero strettamente coordinate tra un Paese e l’altro. Quasi nessun Paese, con la possibile eccezione della Francia, sembra aver inteso la gravità della situazione industriale che sta venendo in luce in queste settimane. Gli europei possono ancora evitare il collasso della domanda interna dei beni di consumo nel periodo natalizio e post-natalizio, iniettando - meglio se con una modifica permanente degli scaglioni e non con un’erogazione una tantum - una cospicua quantità di denaro liquido nelle buste paga di quei lavoratori dipendenti e nei bilanci di quei lavoratori autonomi che si trovano a bassi livello di reddito. In questo senso, il «consumate, consumate» del presidente del Consiglio non centra il problema; un’affermazione così generale, così lontana dalla realtà dei conti familiari, fa sì che i milioni di italiani con redditi insufficienti, o diventati tali negli ultimi sei mesi, abbiano ragione di offendersi. Ciò che gli italiani dovrebbero fare è invece qualcosa di più specifico, ossia non rinunciare, per un irrazionale senso di paura e non per difficoltà oggettive, a consumi già previsti nei bilanci familiari. A molti governi, compreso quello italiano, non sembra poi del tutto chiara la distinzione tra sostegno immediato della domanda, basato su sconti fiscali, e sostegno a più lungo termine dell’offerta, basato su investimenti in infrastrutture il cui effetto congiunturale si vedrà come minimo tra sei-diciotto mesi. Le due misure hanno logiche e ambiti diversi: se si vuole attenuare l’ondata negativa e la domanda va sostenuta prima che possano partire i cantieri, se mai partiranno. Infine, la social card. Come molte altre volte, va dato atto al ministro Tremonti di aver inventato uno strumento brillante e - se davvero non ci saranno intoppi tecnici - sicuramente efficace nel suo ambito limitato per stabilire una piccola rete aggiuntiva di sicurezza per le condizioni più dolorose di povertà. La social card, però, spezza l’unità dei cittadini, li distingue in individui di classe A e di classe B. Si era combattuto a lungo perché avessero tutti pari dignità, il che significa che a nessuno la povertà doveva essere attaccata addosso come un marchio; questa era la base ideale, sicuramente sofferta, sicuramente difficile da realizzare, dello Stato sociale. La social card rischia invece di diventare precisamente un marchio, sinonimo di perdita di dignità e oggetto di vergogna. «Due scellini alla settimana sono il prezzo di un’anima» recitava una nenia inglese degli anni della Grande Depressione, alludendo al magro sussidio di disoccupazione su cui campava una parte importante della popolazione britannica; i due scellini di allora rischiano di trasformarsi nei quaranta euro al mese della social card. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il freno di Bruxelles Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 09:52:21 am 29/11/2008
Il freno di Bruxelles MARIO DEAGLIO Nelle misure governative non c’è la «svolta» richiesta da Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, per revocare lo sciopero generale indetto per il 12 dicembre. Del resto, Epifani, come tutti gli altri, sapeva benissimo che, date le decisioni adottate in sede europea, questa svolta non poteva esserci. Le misure vanno infatti nella direzione giusta, ma non bastano a garantire il superamento della recessione. Tale superamento sarebbe possibile con una maggiore flessibilità sui deficit stabiliti dai trattati, ma non se ne farà nulla finché non ci si deciderà a pensionare quanto meno il commissario europeo Joaquín Almunia, responsabile degli Affari Economici e Monetari dell’Unione; si tratta di una degnissima persona che abita un pianeta in cui l’economia reale non ha più posto, rigoroso custode di un’«ortodossia» inflessibile dei trattati che toglie respiro a ogni velleità di crescita. Avendo accettato i limiti di Almunia, i governi europei non hanno comunque in mano munizioni sufficienti per rispondere in pieno all’assalto della crisi; riusciranno quanto meno ad alleviarla, a evitarne le punte più acute. In una simile situazione, il governo italiano si è mosso con relativo buon senso, con un insieme di provvedimenti ragionevoli, sufficientemente calibrati, anche se sicuramente risulta stonata la rivendicazione del presidente del Consiglio del «primato» italiano nella risposta alla crisi: l’Italia è il paese avanzato il cui profilo previsivo è peggiorato più sensibilmente nel corso delle ultime settimane ed è appena logico attendersi che il suo governo reagisca con reattività maggiore. L’effetto dei provvedimenti sulle infrastrutture e dei «Tremonti bonds» per facilitare il credito è non solo difficile da valutare ma relativamente remoto nel tempo. Il «bonus» alle famiglie, invece, arginando sperabilmente la caduta dei consumi fin da febbraio-marzo, potrà avere un impatto quasi immediato sulla produzione: equivale allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo e attenuerà un poco la caduta produttiva prevista per il 2009. Nel loro complesso, i provvedimenti di carattere sociale paiono al momento attuale soltanto abbozzati ma distribuiti in modo abbastanza rispettoso della mappa del disagio sociale che sta prendendo forma nel paese. La tendenza dei precedenti governi di centrodestra a tenere in particolare conto le esigenze dei redditi alti e medio-alti sembra ormai sostituita con quella per le esigenze dei redditi bassi e medio-bassi (e con la tenuta generale del sistema). Per effetto di queste misure, nonché del brusco mutamento del panorama inflazionistico italiano e mondiale, dominato dalla forte caduta dei prezzi delle materie prime energetiche, l’orizzonte economico delle famiglie con bassi redditi appare, se non schiarito, almeno non così buio come risultava un paio di mesi fa. Ai minori costi, rispetto al previsto, di benzina ed energia, si aggiungono le provvidenze per i mutui a tasso variabile, la sospensione degli scatti automatici delle tariffe autostradali, il blocco di quelle ferroviarie per i pendolari, tutte misure che paiono riflettere, oltre al resto, un tentativo di evitare lo sciopero generale indetto dalla Cgil. Tutto questo non è bastato - e non poteva bastare - né alla Cgil né alla Confindustria di fronte alla forte caduta della produzione industriale e alle allarmanti prospettive di aumento della disoccupazione. Si è costruita una trincea contro l’assalto della recessione e non si può non sperare che questa trincea tenga o allevii l’urto; non si è costruita alcuna politica di ripresa. Ma in questo caso, l’interlocutore di Cgil e Confindustria non è più Roma ma Bruxelles; per usare una vecchia metafora, Roma, come Parigi, Berlino e tutte le altre capitali, può mettere ordine alle sedie sul ponte del Titanic, e non lo sta facendo male, ma non può variare la rotta del Titanic, decisa a Bruxelles e destinata a passare in pericolosa prossimità di un iceberg. Sarebbe ora che le grandi impostazioni europee di politica economica venissero considerate oggetto di discussione politica, e quindi di possibile contestazione, e non pronunciamenti di una casta superiore. Se si raggiungesse questo risultato, non solo la congiuntura italiana, ma il funzionamento complessivo dell’Unione Europea avrebbe fatto un passo avanti. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il gorgo americano Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2008, 10:01:00 am 6/12/2008
Il gorgo americano MARIO DEAGLIO Negli Stati Uniti non si vedono ancora file di disoccupati in coda per la minestra, come negli Anni Trenta, ma le statistiche sono senza pietà e lasciano poche illusioni: quasi due milioni di posti di lavoro sono stati perduti nei primi undici mesi dell’anno, oltre mezzo milione dei quali, in un impressionante crescendo, si sono polverizzati nello scorso mese di novembre. Il periodico rapporto della Fed, la banca centrale americana, mostra una crisi che si estende a velocità mai vista, che tocca tutti i comparti dell’economia americana e la cui virulenza non promette affatto di diminuire nei prossimi mesi. Non a caso, il presidente eletto, Barack Obama, ha dichiarato che la situazione è destinata a peggiorare. Per gli Stati Uniti, nel breve periodo, c’è ben poco da fare. Vissuti per quasi due decenni in una cultura che aveva rimosso l’idea stessa di crisi, gli americani risultano tecnicamente e psicologicamente impreparati a subirne una. Non esiste alcun bottone magico da schiacciare, alcuna misura semplice perché gli Stati Uniti possano uscire in tempi brevi da questa pesantissima situazione; la riduzione del costo del denaro ha frenato temporaneamente la spinta depressiva ma, nell’attuale situazione, non crea alcuna spinta positiva; gli interventi di salvataggio finanziario ingessano il malato ma non bastano a rimetterlo in piedi. A questo punto è indispensabile che gli europei si domandino se sono necessariamente costretti a essere risucchiati nel gorgo della caduta americana. Molti pensano di sì: in Germania, la Bundesbank, prevede per il 2009 le peggiori condizioni economiche da 16 anni; il pessimismo è molto profondo in Gran Bretagna, la Spagna combatte a fatica contro una violenta crisi edilizia. E tuttavia la «variante europea» della crisi è nettamente meno virulenta di quella americana e potrebbe risolversi con una caduta produttiva più ridotta e più breve. Che cosa rende l’Europa meno vulnerabile dell’America? Il risparmio delle famiglie. Le famiglie americane sono state abituate da due generazioni a spendere oggi i soldi che presumono di incassare domani; per anni i consumi delle famiglie americane sono stati alimentati dai guadagni di Borsa, ora la riduzione dei consumi è determinata anche dalle perdite del listino; le loro carte di credito non hanno più credito residuo, i conti in banca sono quasi sempre in rosso. Non si può quindi far conto su un sussulto della voglia di consumare che non sarebbe accompagnata, sempre nel breve periodo, da alcuno strumento finanziario per soddisfarla. L’Europa non è così. Quando spendono, o, viceversa, decidono di non spendere, gli europei - con l’eccezione degli inglesi - spendono o non spendono soldi propri. Per questo in Europa una molla importante per la tenuta dell’economia è in mano ai risparmiatori-consumatori che, per parafrasare un detto di Einaudi, sono dotati di memoria di elefante (che li ha portati subito a ricordare gli Anni Trenta) cuore di coniglio (che li induce a non prendere alcun rischio) e gambe di lepre (che li hanno fatti scappare dai supermercati come dai mercati finanziari). Ma sono anche dotati di un conto in banca quasi sempre in nero anziché in rosso. Questa situazione, così diversa da quella americana, raggiunge la sua massima peculiarità in Italia, come si ricava dal 42° Rapporto Annuale del Censis, reso noto ieri, più della metà delle famiglie italiane non ha veri problemi finanziari. Il Rapporto ritrae un paese impaurito più che indebitato, capace di tenuta «trasversale», sul quale una modesta ridistribuzione a favore delle fasce di reddito più basso potrebbe sostenere i consumi più che in altri paesi. Non si tratta, naturalmente, di «consumare per consumare» ma di non rinunciare a consumi abituali per paure irrazionali, oggi molto diffuse; si può così costituire uno «zoccolo duro» di tenuta nei prossimi mesi sul quale provare a costruire una ripresa, magari con nuovi prodotti più a buon mercato e - per dirla con Giuseppe De Rita, che del Censis è da anni l’animatore - più «frugali», più adatti allo spirito dei tempi. Occorrerebbe aggiungere che proprio questa situazione di emergenza può rappresentare l’occasione perché si formi un consenso sociale attorno a molte delle riforme da troppo tempo tenute nel cassetto. In questa terribile tempesta dell’economia mondiale, insomma, rischiano assai di più i paesi simili a moderni velieri costruiti per le regate che una chiatta, pesante, assai lenta ma molto stabile come è l’economia italiana. Non basta però che la barca italiana corra meno rischi e che derivi un vantaggio dall’essere vecchia. Occorre che questo vantaggio venga sfruttato; se è vera l’analisi di De Rita, i consumi natalizi faranno registrare soltanto una flessione relativamente modesta e il momento della verità verrà dopo Natale quando milioni di famiglie, e l’élite politica che le governa, dovranno prendere decisioni che vanno dai bilanci famigliari ai bilanci pubblici. Se in Europa e in Italia prevarranno i «cuori di coniglio», se tutti giocheranno a un «taglia, taglia» indiscriminato, seguiremo l’America nel baratro di una crisi incerta e di lunghezza indeterminata. Quanto più saremo, a tutti i livelli, razionali e responsabili, tanto meno lunga e dura risulterà la crisi. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Quanto costa l'accordo Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2008, 05:04:41 pm 13/12/2008
Quanto costa l'accordo MARIO DEAGLIO Nel pomeriggio di ieri è sembrato a tutti che per un momento il mondo andasse a rovescio. Gli europei, tradizionalmente indecisi e litigiosi, avevano raggiunto un accordo sia sul clima, argomento sul quale si era sfiorata la rottura la vigilia, sia su un grande piano di stimolo dell’economia, sia infine su un nuovo referendum irlandese destinato, secondo le speranze di tutti, a ribaltare le conseguenze negative del precedente «no» di Dublino al Trattato di Lisbona e adottare così una sorta di surrogato della mancante Costituzione europea. Nelle stesse ore gli americani, tradizionalmente compatti nelle grandi emergenze, avevano visto il Senato silurare gli aiuti all’industria dell’auto facendo sorgere lo spettro di milioni di ulteriori disoccupati, e Presidente in uscita, che ormai dovrebbe solo più preoccuparsi di salutare, cogliere tutti di sorpresa con l’idea di «dribblare» il voto parlamentare dirottando verso i colossi automobilistici in crisi una parte dei fondi già previsti per il salvataggio dei colossi della finanza. Sull’accordo climatico l’Europa non è andata leggera con la retorica e l’autocompiacimento. Il Presidente francese, e Presidente europeo pro tempore, ha parlato di «momento storico», il Presidente della Commissione lo ha definito «il più ambizioso del mondo» e molto si è giocato sullo slogan del «20x20x20 entro il 2020» (ossia la riduzione del 20 per cento delle emissioni di gas serra, l’aumento del 20 per cento dell’efficienza energetica, e il conseguimento del 20 per cento dell’energia prodotta da fonti alternative) quasi avesse un significato cabalistico. Se però si guarda nelle pieghe di questo accordo si scopre che ci sono «concessioni», «deroghe», «clausole di revisione» che pongono in posizioni particolari le industrie italiane, numerosi settori industriali tedeschi, il carbone polacco e che sono state il prezzo del voto all’unanimità, in un contesto di complicazioni e cavilli che costituisce purtroppo la normale realtà dell’Europa di Bruxelles. Il principio che le imprese devono pagare per l’inquinamento che producono è al tempo stesso riaffermato e indebolito da una serie di limitazioni e di eccezioni. In questo senso il presidente del Consiglio italiano può essere sicuramente soddisfatto, da politico attento ai risultati di breve periodo, in quanto ha giocato abilmente, ha raggiunto i suoi obiettivi e ha risposto alle attese immediate di un’industria già in difficoltà; l’Europa va probabilmente verso un disinquinamento abbastanza radicale ma con velocità diverse e con scarsa trasparenza; ed è scontato il giudizio negativo delle associazioni ecologiste mondiali, alle quali si uniscono numerosi scienziati, per i quali le misure non bastano ad arrestare il surriscaldamento del pianeta. Lo stesso contrasto tra una facciata smagliante e una realtà meno edificante si registra per il referendum irlandese (per la sua ripetizione è stato pagato un prezzo pesante, ossia il diritto per i piccoli Paesi di continuare ad avere un commissario ciascuno) e soprattutto per il «piano di rilancio». Definito «ambizioso e coordinato» dal primo ministro inglese, in realtà non è né una cosa né l’altra; si tratta semplicemente delle misure concordate già più di due settimane fa a Bruxelles. In questi quindici giorni l’orizzonte congiunturale europeo si è vistosamente appesantito e le misure sono rimaste le stesse, anche se riverniciate perché abbiano l’aspetto di un piano mentre in realtà si tratta di poco più di una giustapposizione-armonizzazione di programmi nazionali in cui sono state inserite numerose misure già previste prima. Quella che poteva essere una medicina complessivamente sufficiente basterà così solo ad attenuare i guasti della recessione. La difesa della congiuntura europea avrebbe richiesto più coraggio: il coraggio di sforare più decisamente, e sia pure temporaneamente e sempre in maniera controllata, i «tetti» che ingabbiano l’Europa per sostenere la spesa per consumi nell’inverno che sta per cominciare e il coraggio di impostare la ripresa a più lungo periodo attorno a finanziamenti comunitari per le infrastrutture e altri programmi di medio-lungo periodo in cui ciascun Paese membro avrebbe dovuto accettare di trovarsi - magari solo temporaneamente - nella posizione di finanziare investimenti di altri Paesi membri. Questa prospettiva si è scontrata con la ristrettezza di orizzonti di alcuni Paesi, prima tra tutti la Germania, tra l’altro ancora traumatizzata dal ricordo della grande inflazione di ottant’anni fa. Mentre i capi di Stato e di governo europei tornavano a casa a festeggiare un Natale di recessione, il conflitto istituzionale americano rianimava le Borse di New York che recuperavano una parte del terreno perduto oscillando tra -0,5 e +0,2 per cento; quelle europee chiudevano con perdite generalmente comprese tra -2 e -3 per cento. Ci si chiede spesso perché, nelle ultime settimane, mentre la caduta produttiva degli Stati Uniti si fa più dura, le perdite delle Borse europee siano maggiori di quelle americane. Ciò che è avvenuto nella giornata di ieri può costituire una, sia pur parziale, e certo non esaltante, spiegazione. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Alitalia, costano troppo bandiera e geografia Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 05:12:05 pm 9/1/2009
Alitalia, costano troppo bandiera e geografia MARIO DEAGLIO Qualcuno poteva sperare che l’avvio della nuova compagnia aerea nazionale fosse motivo di una sia pur modesta soddisfazione; si poteva provare a stendere un velo su illusioni e disillusioni, errori e sproloqui e prepararsi a stappare furtivamente una bottiglia di buon augurio. E non sarebbero stati pochi gli italiani che, nonostante tutto, avrebbero potuto anche commuoversi alla prospettiva che gli aerei con i colori nazionali continuassero a solcare i cieli del mondo, sia pure su un minor numero di rotte. Gli avvenimenti degli ultimi due giorni hanno reso tutto ciò più difficile e questo per due motivi. Il primo è un clamoroso dissidio al vertice sulle scelte strategiche (il tira e molla su Air France e Lufthansa, su Fiumicino e Malpensa), il secondo è un parallelo e altrettanto clamoroso conflitto alla base tra lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato. Tale conflitto è sfociato, al di fuori degli schemi sindacali, nella rivolta delle «tute verdi», ossia degli addetti alla pulizia e ai bagagli che rischiano il lavoro a seguito della riorganizzazione aeroportuale. La bottiglia augurale deve quindi essere rapidamente riposta e occorre invece riflettere sui segnali negativi che da questa deludente vicenda derivano sulla possibilità di tenuta dell’Italia. Alcuni di questi segnali sono purtroppo di carattere strutturale. Ha ragione Umberto Bossi quando afferma che, se Malpensa non sarà uno hub, ossia uno scalo centrale, al quale faccia capo un gran numero di voli, Alitalia correrà un forte rischio di fallimento; ma è purtroppo anche vero che né la nuova Alitalia né l’Italia hanno le dimensioni necessarie per permettersi due hub. In base a considerazioni puramente economiche, un paese come l’Italia dovrebbe avere un solo grande hub delle dimensioni di Parigi ma, data la geografia, le localizzazioni produttive e quelle turistiche, questo semplicemente non si può fare. Per conseguenza, un sistema aeroportuale che riservi un ruolo importante, a livello europeo e mondiale, sia a Fiumicino sia a Malpensa, non può che operare in perdita: rappresenta quindi un costo aggiuntivo per il «sistema Italia» e per il contribuente italiano che possiamo chiamare il «prezzo della geografia». E non appare corretto da parte leghista invocare da un lato il regionalismo e l’autonomia, ossia il lato vantaggioso della geografia, e dall’altro reclamare che di fatto sia il governo centrale ad accollarsi il più che prevedibile deficit di Fiumicino-Malpensa. Se dal sistema del trasporto aereo si passa a esaminare la struttura della proprietà della compagnia di bandiera, la situazione non appare molto più rosea. Con il senno di poi, da un mero punto di vista finanziario, sarebbe stato preferibile accettare la prima proposta di Air France, caldeggiata dal governo Prodi, osteggiata dall’attuale presidente del Consiglio in campagna elettorale e respinta di fatto, ai primi di aprile 2008, dal mondo sindacale: la rinuncia a tale progetto fu un grave errore non foss’altro perché da allora le condizioni del trasporto aereo mondiale sono incredibilmente peggiorate. La nuova Alitalia parte infatti nel pieno di una riduzione storica del traffico mondiale delle merci (a novembre -14,5 per cento) e passeggeri (-4,5 per cento), mentre sono azzerati o fortemente ridotti i profitti di colossi come British Airways e Lufthansa; Air France ha mantenuto il volume passeggeri ma presenta una fortissima riduzione del traffico merci e i suoi aerei cargo, pur ridotti di numero, viaggiano mezzo vuoti. Ovunque sono all’ordine del giorno tagli ai voli, all’occupazione, all’operatività degli aeroporti; con la sua posizione assolutamente tiepida nella vicenda, Lufthansa potrebbe quindi ottenere il massimo dei vantaggi, ossia dirottare sui grandi voli intercontinentali in partenza da Francoforte e Monaco un numero di passeggeri italiani sufficiente a colmare i buchi causati dal calo del numero di passeggeri tedeschi. Air France impegnerà probabilmente cifre assai inferiori nella nuova compagnia rispetto a quanto era disposta a fare otto mesi fa; a questo si aggiungono i costi pubblici dell’accordo (a cominciare dalle condizioni di assoluto privilegio della cassa integrazione dei dipendenti Alitalia rispetto agli altri lavoratori, fino al danno, non certo lieve, che deriva al turismo italiano da disservizi come quelli di ieri). Il tutto è controbilanciato dall’aver mantenuto il controllo della società in mani italiane e può essere considerato il «prezzo della bandiera». A questo punto, l’italiano medio potrebbe cominciare a fare qualche conto e concludere che la somma del «prezzo della geografia» e del «prezzo della bandiera» è francamente eccessiva. Anche perché la situazione attuale non pare caratterizzata da una pura e semplice socializzazione delle perdite accompagnata da una privatizzazione degli utili: l’Alitalia non è mai stata un gioiello ma piuttosto un oggetto dal luccichio ingannevole. Gli imprenditori che fanno parte della cordata della nuova compagnia rischiano in proprio e le prospettive di ottenere un profitto su questo investimento si spostano in avanti con l’avanzare della crisi. Anche a seguito della crisi finanziaria, per motivi di costo siamo stretti in una morsa. Se vogliamo due grandi aeroporti, non possiamo permetterci una grande compagnia; se vogliamo invece una compagnia adeguata alle nostre dimensioni economiche dobbiamo rinunciare a uno degli aeroporti. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Una strada comune Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:20:52 pm 23/1/2009
Una strada comune MARIO DEAGLIO Chi vuole tenere a galla l’economia deve tenere a galla l’industria dell’auto. Questo principio, apparentemente semplicistico, che prescinde dalla maggiore o minore simpatia culturale nei confronti dei veicoli a motore, appare particolarmente appropriato alla luce di due notizie recentissime: la pubblicazione dei risultati del gruppo Fiat (buoni, ma non tali da suggerire la distribuzione di un dividendo tranne che alle azioni di risparmio) e quella del Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea con il suo giudizio durissimo e sconsolato sulla crisi in corso, della quale non promette una rapida fine mentre lucidamente ne mette a fuoco l’effetto negativo sulle generazioni future. Nella loro aridità le cifre dell’auto sono molto eloquenti. Il valore aggiunto del gruppo Fiat si aggira sui 13 miliardi di euro, di cui almeno 7 realizzati in Italia. Se a questo si somma il valore aggiunto dei fornitori (il cosiddetto «indotto») e delle attività a valle, come le assicurazioni e i finanziamenti, si arriva a una cifra di almeno 30 miliardi di euro, all’incirca il 2% del prodotto lordo italiano. Una situazione analoga, con percentuali sostanzialmente simili si registra in Germania, Francia, Giappone e anche in Svezia e in Spagna; per gli Stati Uniti la percentuale è solo leggermente inferiore. Questo significa che aumenti o diminuzioni (queste ultime generalmente previste per il 2009) del fatturato del settore automobilistico del 10-20% provocano aumenti o diminuzioni nell’ordine dello 0,2-0,4% del prodotto interno lordo di gran parte di questi Paesi. Se in Italia, per ipotesi, si riuscisse a mantenere il fatturato dell’industria dell’auto nazionale agli stessi livelli del 2008 la pressione produttiva del 2009, oggi prevista nel 2%, si ridurrebbe all’1,6-1,8%, con un salvataggio significativo di posti di lavoro. Può sembrare paradossale che il sostegno ad un’industria ormai tradizionale come quella dell’auto possa costituire la misura di politica industriale più efficace per sostenere la congiuntura dell’economia avanzata. Forse proprio per questo paradosso, e per la scarsa simpatia che l’auto oggi riscuote nei Paesi ricchi, in quanto ritenuta responsabile di gran parte dell’inquinamento e della congestione, l’idea si è fatta strada solo molto gradualmente. I principali paesi produttori, però, si stanno ormai muovendo lungo questa strada, e anche l’Italia si appresta a percorrerla nel corso della prossima settimana; probabilmente si giungerà a misure di sostegno coordinate per tutti i paesi dell’Unione Europea. Se il sostegno si limiterà a misure tradizionali (bonus fiscali alla rottamazione e simili) il risultato sarà limitato alla congiuntura e costituirà soltanto una, sia pure importante, boccata d’ossigeno. Occorre invece pensare ai sostegni dell’industria dell’auto in un’ottica di cambiamento che tenga conto di fattori a un tempo tecnici e culturali. I fattori tecnici sono ben noti e si ricollegano alle tematiche del riscaldamento globale; si potrebbe forse aggiungere che non ha molto senso proporre autoveicoli in grado di viaggiare tranquillamente a velocità che superano i limiti fissati nei vari Paesi oppure veicoli sempre più grandi i quali incontrano difficoltà di parcheggio sempre maggiore. I governi nazionali dovrebbero sostenere le innovazioni che vanno nella direzione di evitare questi inconvenienti e i relativi costi sociali, pur nei limiti ristretti consentiti dai bilanci pubblici. I fattori culturali sono di più difficile definizione. È però ormai chiaro che in tutti i paesi ricchi l’auto - spesso simbolo estremo dell’individualismo - non gode più di quel prestigio, di quel valore emblematico sul quale si è costruita la sua espansione nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Il recupero dell’auto come fattore positivo di qualità della vita passa attraverso un ripensamento radicale del suo ruolo; in questo senso potrebbe a buon diritto inquadrarsi nel programma del neo presidente americano di far nascere un settore economico «alternativo» tutto da inventare ma incentrato su un diverso uso e su nuove forme di energia, su una vivibilità di tipo nuovo. L’ingresso della Fiat nell’americana Chrysler, un’impresa reduce da un «matrimonio» fallito con la tedesca Daimler, potrà dar luogo a un progetto valido che saprà inserirsi in una simile ottica di ripensamento del prodotto e di riflessione sulle società alle quali il prodotto spesso si indirizza. E i sostegni nazionali e internazionali all’industria dell’auto acquistano validità non solo se daranno una boccata d’ossigeno alla congiuntura ma soprattutto se si inseriranno in un progetto più generale di ridisegno economico e sociale che riesca a smentire le fosche previsioni della Banca Centrale Europea sul futuro nostro e dei nostri figli. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Economisti contro politici Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2009, 11:40:50 am 31/1/2009
Economisti contro politici MARIO DEAGLIO La riduzione del prodotto lordo americano nell’ultimo trimestre del 2008 è la peggiore da ventisei anni, ma per valutarla in maniera appropriata occorre correggere ancora al ribasso questo dato perché una parte considerevole di quanto l’industria americana ha prodotto non è stata acquistata da nessuno ma giace nei magazzini. Secondo un calcolo sommario, nel corso della settimana lavorativa che oggi si chiude, la crisi ha distrutto all’incirca un milione di posti di lavoro nei Paesi ricchi (più di 50 mila nella giornata di mercoledì tra le sole grandi imprese americane) e un numero imprecisato, ma sicuramente maggiore, di lavoratori è passato dal lavoro a tempo pieno al lavoro a tempo parziale. Il presidente degli Stati Uniti ha parlato di un «disastro che non accenna a finire» per le famiglie dei lavoratori americani. Di fronte a una situazione di questo genere c’è poco da disquisire, il politico con responsabilità di governo è come un medico di fronte a una grave emorragia: deve prima di tutto cercare di bloccarla. Poco importa se la cura può avere effetti collaterali dannosi perché l’alternativa è che il malato muoia. Non ci si deve quindi stupire che, in un modo o nell’altro, i governi di tutti i Paesi stiano mettendo da parte i principi del libero mercato e interferiscano apertamente con gli ingranaggi più delicati dell’economia, fino a due mesi fa considerati intoccabili. Molte volte lo fanno controvoglia, sono dei «socialisti riluttanti», secondo la definizione coniata trent’anni fa dallo studioso americano Michael Novak. L’elenco di queste interferenze è lunghissimo; si va dal piano Obama per lo stimolo fiscale (uno stimolo che dovrebbe derivare da denari che non ci sono) per il quale il neo-presidente degli Stati Uniti ha esplicitamente chiesto la collaborazione dei sindacati, al finanziamento francese di cinque miliardi alle esportazioni di Airbus, un sostegno appena velatamente mascherato; dai massicci e generalizzati sussidi per il settore automobilistico in quasi tutti i Paesi produttori, all’abbozzo di specifiche misure protezioniste, come quella con cui gli Stati Uniti vorrebbero impedire l’utilizzo di acciaio importato per il gigantesco programma di infrastrutture pubbliche che la nuova amministrazione di Washington sta preparando. Ovunque, quando ce n’è bisogno, le grandi banche vengono salvate con imponenti iniezioni di denaro pubblico e talvolta persino ufficialmente nazionalizzate; il salvataggio negato, in nome dei principi del libero mercato, alla banca americana Lehman Brothers ha peggiorato la crisi rendendola assai più difficile da controllare. Quasi sempre, nei casi di sostegno pubblico a istituti bancari si afferma solennemente la natura privata e l’autonomia degli istituti di credito ma è certo che nessuna banca nei fatti seguirà una politica contraria a quella indicata da un governo «salvatore». In altre parole, mentre si proclama solennemente che il sistema di mercato non cambierà, la natura del sistema è di fatto già cambiata. Dal liberismo siamo già passati a una forma di post-liberismo, dal sistema di mercato, così come si è venuto sviluppando negli ultimi 15-20 anni, siamo già passati a un incerto «post-mercato». Gli oltre duecento economisti americani, tenacissimi sostenitori di un liberismo intransigente, che hanno firmato un manifesto di critica al piano Obama forse vivono in un ambiente scientifico troppo astratto per percepire le difficoltà e le complessità delle situazioni reali e forse per questo sono piuttosto lontani dai problemi umani, oltre che economici, che la crisi finanziaria ha cominciato a porre con grande urgenza. La difficoltà di far convivere principi e necessità appare evidente nel discorso pronunciato ieri dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel al World Economic Forum di Davos, l’ormai tradizionale luogo d’incontro tra i vertici delle imprese, della finanza e dei governi, quest’anno, non a caso, un po’ sotto tono. In un intervento di largo respiro, quale raramente si sente in un’Europa tutta ripiegata sui propri problemi contingenti, Merkel ha parlato di un «capitalismo diverso» e ha delineato un intreccio tra pubblico e privato, tra mercato e non mercato ben diverso da quel capitalismo americano arrogante e aggressivo che è rimasto di fatto sepolto sotto la montagna di titoli «tossici» che ha esso stesso creato. Naturalmente, la posizione di Merkel, come quelle di Obama e Sarkozy è piena di contraddizioni, ma tutti i governanti devono muoversi con fatica in una realtà contraddittoria; il Cancelliere tedesco ha inneggiato alla libertà d’iniziativa ma il suo governo non ha avuto alcuna esitazione a salvare istituti bancari in crisi e a lanciare imponenti misure di sostegno per i settori in difficoltà come l’auto. Il fatto è che i capi di Stato e di governo non devono scrivere saggi scientifici ma cercare di far funzionare Paesi molto complicati. La speranza di oggi sta nel pragmatismo dei politici che può alleviare una crisi di entità sconosciuta; per i saggi scientifici ci sarà tempo dopo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Una mano ai consumi Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 03:45:51 pm 7/2/2009
Una mano ai consumi MARIO DEAGLIO I provvedimenti approvati dal governo a favore dei settori industriali in crisi vanno nella direzione giusta. Se infatti la grave e imprevista riduzione della domanda di beni durevoli dovesse protrarsi ancora per qualche mese, non solo la struttura industriale ma anche la finanza pubblica subirebbero danni molto gravi. La mancata produzione provocherebbe, oltre alla disoccupazione di qualche centinaio di migliaia di lavoratori dell’industria, anche una forte caduta delle entrate pubbliche a causa delle imposte non incassate, dei contributi sociali non versati e del forte aumento delle uscite dalla cassa integrazione guadagni. Ne sarebbe sconvolto l’intero assetto della Finanziaria, che si basa su un deficit pubblico tenuto sotto controllo, sia pure con molta fatica, e il Tesoro avrebbe molta difficoltà a trovare sui mercati finanziari internazionali le risorse aggiuntive per turare un ulteriore «buco fiscale» di grandi proporzioni che non era né previsto né prevedibile 3-4 mesi fa. In ogni caso, le dimensioni del debito pubblico fanno sì che l’Italia non possa permettersi interventi di sostegno dell’entità di quelli realizzati in queste settimane da Francia e Germania, paesi il cui livello di indebitamento pubblico è all’incirca la metà di quello italiano. Occorre considerare che il «bonus fiscale» almeno in parte si pagherà da solo come è già successo con analoghe esperienze del passato in quanto dalle maggiori vendite deriverà un maggiore introito per il fisco. Rappresenta inoltre una misura di rapida attuazione e di rapido effetto ed è associato a un apprezzabile obiettivo generale, quello ambientale, in quanto le nuove auto oggetto di «bonus» andranno a sostituirne altre più inquinanti. Ci si può attendere che le diverse centinaia di migliaia di italiani che, tra settembre e gennaio, hanno rinunciato a cambiare l’auto, il ciclomotore, il frigorifero e il televisore perché impauriti dalle prospettive di un calo dei loro redditi riesaminino la loro decisione. La riduzione dell’inflazione, del prezzo della benzina e delle rate dei mutui a tasso variabile hanno complessivamente portato qualche sollievo a milioni di bilanci famigliari. Si può allora sperare che un po’ di linfa torni a scorrere nelle vene disseccate del sistema industriale, evitandone così l’atrofia. Tutto ciò non elimina però la necessità di una riflessione più profonda sulla struttura, sulla posizione internazionale e sul futuro del sistema industriale italiano. Per essere veramente valide, le misure attuali devono rappresentare l’inizio di una politica industriale di lungo periodo. A rendere più urgente questa riflessione occorre ricordare che il dibattito politico-economico che ha accompagnato la difficile stesura di questo provvedimento ha posto in luce un senso di ostilità, di carattere culturale prima ancora che economico, nei confronti della grande industria. Esponenti di rilievo della maggioranza hanno fatto dichiarazioni di netta chiusura e neanche l’opposizione, che pure ha partecipato in maniera sufficientemente costruttiva al dibattito, sembra essere pienamente consapevole della necessità che in questo Paese permangano e crescano grandi strutture imprenditoriali. Solo sindacalisti, dirigenti industriali e imprenditori di medie e grandi dimensioni, a contatto diretto con la pesante realtà industriale di queste settimane, si sono mostrati pienamente consapevoli della gravità della situazione e dell’urgenza di un’azione del governo. Si sta ampliando rapidamente nell’opinione pubblica un senso di fastidio e persino di antipatia nei confronti delle poche grandi imprese che ancora (r)esistono nel Paese; e questo parallelamente al crescente apprezzamento dei distretti industriali, costituiti di un gran numero di piccole e medie imprese. Un simile atteggiamento comporta spesso l’esaltazione del «piccolo è bello» e del «locale è bello» per cui le imprese dei distretti vanno bene solo se non crescono troppo e rimangono a livello di piccola città o di provincia. I distretti industriali hanno certo dimostrato negli ultimi anni una notevole vitalità e rappresentano complessivamente un pilastro dell’economia italiana. Il sistema economico italiano non può però reggersi su un pilastro solo. Se vuol veramente continuare a contare qualcosa, l’economia italiana che è ancora la settima del mondo, e che si è sempre retta sui due motori delle piccole e delle grandi imprese, non può diventare soltanto un’economia di aziendine. Per questo il sistema va sostenuto nel suo complesso in una crisi mondiale senza precedenti per pericolosità, ampiezza e violenza con gli scarsi mezzi a disposizione. Basti ricordare che la perdita annuale annunciata nel giorno stesso del varo dei provvedimenti italiani da una sola grande impresa automobilistica mondiale, la mitica Toyota, è pari ben a 2,9 miliardi di euro, ossia più del totale delle misure italiane di sostegno. A questo punto agli italiani non resta che farsi reciprocamente gli auguri e guardare con maggior simpatia le poche grandi imprese italiane rimaste. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Chi pagherà il conto della crisi Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 03:04:48 pm 15/2/2009
Chi pagherà il conto della crisi MARIO DEAGLIO Il comunicato stampa conclusivo della riunione dei ministri economici dei G7, ossia dei responsabili delle sette maggiori economie del mondo contiene una lunga litania di ovvietà. Vi si afferma infatti che la crisi è grave. Che è necessario ristabilire la fiducia dei mercati, sostenere crescita e occupazione, evitare l’eccessiva volatilità dei cambi. Vi è una rituale condanna del protezionismo anche da parte di rappresentanti di governi, come quello francese, che hanno firmato pochissimi giorni prima provvedimenti che vengono generalmente ritenuti protezionisti. Non è stata annunciata alcuna nuova specifica azione «ammazzacrisi» ma i ministri hanno notato, con malcelato autocompiacimento, di aver posto in atto misure «sollecite, vigorose, risolute». Poche righe più sopra, però, avevano ammesso che queste politiche non hanno finora prodotto risultati e che la «dura recessione ha già provocato importanti effetti negativi sull’occupazione» e «si prevede che continuerà per gran parte del 2009». Questa incongruenza tra l’entità delle misure e la scarsità dei risultati, del resto, è tipica delle difficoltà del momento. Non bisogna, del resto, dimenticare che i venti della crisi hanno acuito le difficoltà di molti governi: da quello giapponese, ormai debolissimo, a quello britannico, alle prese con una crisi che sta incrinando alle fondamenta le prospettive di crescita del Regno Unito, che ha puntato quasi tutto sulla sua posizione centrale nella finanza internazionale. E infine a quello del neopresidente americano, le cui misure anticrisi sono state adottate controvoglia, proprio alla vigilia del G7, da un Congresso riluttante e sono state accolte da ulteriori, gravi cadute di Borsa. Inserendosi nella linea di una lunga serie di analoghi comunicati, che hanno suggellato le numerose riunioni inconcludenti degli ultimi due anni, le contraddizioni di questo documento dimostrano una verità che forse preferiremmo non conoscere: non abbiamo, per il momento, una ricetta vincente, questa crisi è troppo diversa da tutte le precedenti per cercarla sui libri di testo o nell’esperienza storica. In altre parole, «il re è nudo», o, se si preferisce, come ha scritto su queste colonne Domenico Siniscalco, ci manca la «pallottola d’argento», l’unica veramente in grado di uccidere il vampiro che succhia le risorse delle nostre economie. Tale «pallottola» dovremo costruirla noi, nei prossimi mesi (o anni?) scordandoci la beata illusione di ripristinare tutto come prima con poche misure risolutive. Per fortuna, pur in questa non lusinghiera prospettiva, la riunione di Roma presenta qualche spunto di interesse e indica che qualcosa comincia a muoversi. Vi sono frequenti sottolineature sulla necessità di azioni comuni e una nuova urgenza nell’invocare la riforma del Fondo Monetario Internazionale (che proprio i governi dei paesi ricchi, e soprattutto degli Stati Uniti, hanno finora di fatto osteggiato); si parla di riforma delle regole, un passo avanti rispetto alla rigidità su questo punto della precedente amministrazione americana; si loda apertamente la politica cinese, in quella che è corretto leggere come un’apertura al grande paese asiatico. La Cina, tra l’altro, detiene la maggior parte delle riserve valutarie del pianeta e, come altri giganti del mondo emergente, continua incomprensibilmente a essere tenuto fuori da queste riunioni, il che ne riduce molto l’efficacia. E non si dimentichi il cambiamento d’opinione del Presidente del Consiglio italiano, contestuale alla riunione di Roma, l’unico tra i capi di governo a minimizzare, fino all’altro ieri, la gravità della situazione. Qualcosa comincia quindi a muoversi nel mondo ingessato di queste riunioni e può darsi che la diplomazia economica del paese ospitante, ossia dell’Italia, ne abbia qualche merito. Ma perché la crisi venga veramente affrontata è necessario ben altro; a Roma si è fatta strada la convinzione che questa crisi, visto che non può essere annullata con qualche misura miracolosa, deve essere gestita. In quest’ottica, i ministri economici del G7 - che, dopo tutto, sono uomini politici - dovrebbero porsi la fondamentale domanda politica che ci occuperà nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni. Questa domanda è molto semplice: chi pagherà per questa crisi? Saranno solo gli azionisti delle banche americane e inglesi fallite, nazionalizzate o tenute in piedi dal sostegno pubblico o i loro manager superpagati? Saranno i risparmiatori che hanno investito in una Borsa che ha mediamente dimezzato le loro risorse finanziarie? Saranno i lavoratori di tutto il mondo, e non solo quelli americani, con la perdita dei posti di lavoro? O non si tratterà, più in generale, dei cittadini del mondo ricco, travolti da una possibile, forse probabile, ondata di inflazione generata dal fortissimo indebitamento pubblico legato ai salvataggi e ai sostegni di questi mesi? I ministri economici delle maggiori economie sviluppate del mondo, e, a maggior ragione, i capi di stato e di governo che tra qualche mese si riuniranno al G8 della Maddalena dovrebbero cercare di rispondere a queste domande che saranno con noi nel prevedibile futuro. A giudicare dai risultati della riunione di Roma, il cammino da compiere è ancora molto, molto lungo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Una doccia fredda dalla Cina Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 05:22:10 pm 6/3/2009
Una doccia fredda dalla Cina MARIO DEAGLIO Pensavamo di aver ormai visto di tutto in questa crisi finanziaria ma evidentemente ci eravamo sbagliati. Le Borse mondiali che pendono dalle labbra del primo ministro cinese, l’economia globale che aspetta trepidante la salvezza che arriva da Pechino è uno spettacolo assolutamente inedito e induce a riflettere sulla rapidità e profondità con cui, al soffio della finanza malata, stanno cambiando le cose di questo mondo. Due giorni fa sui mercati finanziari americani ed europei si era diffusa la speranza che, nel discorso di apertura della seconda sessione dell’XI Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, il primo ministro Wen Jiabao avrebbe annunciato un incremento del già gigantesco piano cinese di investimenti anticrisi (585 miliardi di dollari su un arco di due anni) per collaborare alla ripresa mondiale. Questa speranza, unita al lieve miglioramento di un indice congiunturale cinese, aveva contribuito a far ripartire i mercati: Wall Street attendeva impaziente le notizie di Pechino, gli intransigenti sostenitori del capitalismo di mercato si aspettavano la salvezza dagli effetti sull’economia mondiale di un piano «socialista» di investimenti. Un piano che trae largamente la sua filosofia e le sue origini dal socialismo reale. E per settimane il governo di Pechino era stato «corteggiato» da inviati del presidente Obama; il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, vi si era recata con molti sorrisi e molto pragmatismo (e nessun accenno ad argomenti spinosi come il Tibet e i diritti umani). Ieri è arrivata la doccia fredda. Wen Jiabao non ha aggiunto neppure un dollaro al suo piano, già assai complesso e di difficile realizzazione, dimostrando così un realismo maggiore di quello manifestato dalle grandi Borse. L’illusione della possibilità che la Cina possa ribaltare la congiuntura mondiale negativa deriva infatti da una scarsa comprensione, in ambienti finanziari, della struttura dell’economia mondiale: questo piano, infatti, potrà semmai aiutare i Paesi africani, asiatici e latino-americani dai quali la Cina compra materie prime in grandi quantità ma avrà comunque effetti secondari per le sofisticate economie occidentali. I cinesi dispongono largamente di tutte le tecnologie necessarie per rinnovare le loro infrastrutture di trasporti e costruire una rete sanitaria di base e dalla loro domanda aggiuntiva non potranno derivare molte grandi commesse per le industrie europee o americane; tanto più che, nel generale clima di protezionismo che oggi si respira, non sarà difficile a Pechino dare la precedenza alle imprese di casa propria. Dal discorso di Wen Jabao si può concludere che la Cina si ritiene fortunata se riuscirà a salvare se stessa. I numeri cinesi fanno impallidire le brutte cifre delle economie occidentali. Terminato il periodo di vacanze legate al capodanno cinese, in queste settimane milioni di lavoratori stanno tornando dalle loro campagne alle fabbriche, che in parte non riapriranno. Un settimanale economico cinese, il China Economic Weekly, ha stimato in 6,7 milioni i posti di lavoro «ufficiali» già perduti per effetto della crisi e a questi bisogna aggiungere un numero imprecisato ma rilevante di lavori «non ufficiali». Secondo l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, per dare occupazione a tutti quelli che la stanno cercando la Cina dovrebbe creare nel 2009 ben 33 milioni di nuovi posti di lavoro, una parte notevole dei quali dovrebbe andare a giovani in cerca del primo impiego e tra questi ci sono non soltanto gli operai non specializzati, ma diversi milioni di laureati e diplomati. Sono queste le premesse per un piano che prevede una crescita dell’8 per cento nel 2009 che a noi sembra straordinaria (l’Italia l’ha a malapena realizzata in un decennio) ma che rappresenta una netta flessione nella velocità di espansione degli ultimi anni. L’obiettivo dell’8 per cento di crescita è considerato il minimo indispensabile per mantenere il «patto sociale» non scritto che tiene insieme la Cina; equivale, in questo senso, all’ancora imprecisato obiettivo italiano di decrescita (-2 per cento?). È pertanto curioso ma comprensibile che Wen Jabao e Giulio Tremonti abbiano usato ieri quasi gli stessi termini per parlare delle prospettive economiche del 2009: entrambi hanno dichiarato che saranno più difficili di quelle del 2008. Proprio per questa difficoltà, il governo cinese prevede con molta calma un periodo di agitazioni e di forti tensioni sociali, che peraltro già hanno cominciato a manifestarsi. E non senza un brivido nella schiena si è potuta leggere su La Stampa di ieri una corrispondenza da Londra di Francesca Paci in cui si dà conto della previsione di un’estate densa di disordini e sommosse nelle città britanniche, che preoccupa non solo la polizia ma anche l’esercito. La morale di tutto ciò è purtroppo una sola: non ci sono né soluzioni facili, né tempi brevi, né ipotetici aiuti cinesi né, purtroppo, idee chiare. Il primo ministro cinese, il presidente americano, i ministri europei dell’Economia, i banchieri centrali che ieri hanno ancora una volta tagliato il costo del denaro (una misura ritenuta indispensabile ma quasi certamente inefficace nel breve periodo) guardano tutti impotenti le economie che rallentano e le Borse che calano. La quotazione di Citigroup, l’orgogliosa nave ammiraglia del capitalismo finanziario degli Stati Uniti, è scesa ieri sotto il livello di un dollaro: due anni fa le stesse azioni si cambiavano a 50 dollari, un anno fa a 25 dollari. In queste semplici cifre sono racchiuse le dimensioni del problema che stiamo vivendo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. I paletti allo stato Inserito da: Admin - Marzo 18, 2009, 10:36:36 am 18/3/2009
I paletti allo stato MARIO DEAGLIO Nelle ultime settimane, il dibattito sui rimedi alla crisi finanziaria ha subito due importanti evoluzioni parallele. La prima riguarda il ruolo delle banche: man mano che la prospettiva di un sostegno pubblico al capitale delle banche - tramite i cosiddetti «Tremonti bonds» e gli analoghi strumenti di altri Paesi - si è fatta più concreta, gli obblighi ai quali le banche dovrebbero sottostare per avere accesso a questa fonte di finanziamento (piuttosto cara, visti gli attuali andamenti dei tassi) sono diventati sempre più gravosi e più lontani dalla normale attività bancaria: si è arrivati, nel dibattito politico, a ipotizzare semplicisticamente l’obbligo per le banche di riservare quote predeterminate del credito alle piccole e medie imprese sotto il controllo dei prefetti. Se ne deve dedurre che il compito del banchiere non sarebbe più quello di compiere una valutazione, di cui è personalmente responsabile, del rischio connesso alla concessione di credito alle singole imprese bensì quello di adempiere un dovere burocratico-amministrativo, con il prefetto che lo incalza. Elo potrebbe, al limite, sanzionare se non raggiungesse una certa «quota» di credito erogato. L’immagine di un banchiere libero nel suo operare che presta denari non suoi ed è tenuto a non perderli perché li deve restituire ai depositanti aumentati di un, sia pur minuscolo, interesse sembra così perdere di consistenza. La seconda evoluzione riguarda la posizione delle piccole e medie imprese. Si è fatta strada l’idea che, anziché il risultato di una convergenza della libera volontà di una banca e di un’impresa, il credito sia un «diritto» per le imprese, specie se piccole e in difficoltà, in base a valutazioni esterne largamente sganciate dalla loro produttività, dai loro prodotti, dai loro programmi. A leggere alcune dichiarazioni di politici si deve concludere che il credito verrebbe «erogato» quasi automaticamente come si «erogano» i vaccini durante un’epidemia. Queste tendenze sono emerse, in maggiore o minor misura, in un gran numero di Paesi. Il presidente degli Stati Uniti ha incluso misure che facilitano il credito alle piccole imprese nel suo «pacchetto» di rilancio con l’obbligo per le banche di trasmettere informazioni in merito alla loro attuazione. Dall’Australia alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Germania, la mobilitazione delle piccole imprese per avere condizioni creditizie e fiscali di favore si sta, del resto, sviluppando con una forza imprevista, forse superiore alla mobilitazione dei lavoratori delle grandi imprese per salvare il proprio salario. Il tutto potrebbe convergere, certamente al di là delle intenzioni di gran parte dei proponenti, e in maniera sicuramente imprevista, verso soluzioni di tipo «sovietico», ossia verso un pesante dirigismo di tipo amministrativo riferito al credito bancario, una forma parzialmente inedita di protezionismo. Questa concezione del ruolo di banche e imprese si è rivelata particolarmente forte in Italia, per l’incidenza assai alta di imprese piccole. Ed è toccato al governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua audizione di ieri alla Commissione Finanze della Camera, chiarire i limiti entro i quali interventi amministrativi sul credito possono essere accettabili. Rimasto silenzioso di fronte agli «sconfinamenti» sul terreno bancario del governo e in particolare del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, Draghi ha risposto con il linguaggio misuratissimo dei banchieri centrali sottolineando la fondamentale solidità delle banche italiane. Grazie a questa solidità, gli interventi di sostegno al capitale decisi dal governo non sono forme di salvataggio di chi sta per annegare ma semmai dei ricostituenti per sostenere la corsa. Ha rivendicato «la forza patrimoniale della banca centrale italiana» che ha consentito interventi rapidi e di ammontare significativo senza mettere a rischio gli equilibri del bilancio (altrettanto non si potrebbe dire, tra l’altro, della banca centrale degli Stati Uniti). Ha denunciato senza mezzi termini la possibilità di pressioni a livello locale, il «pericolo di interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi». Sarebbe errato ridurre a un contrasto personale Tremonti-Draghi la differenza di opinione tra un governo «interventista» e una Banca d’Italia tesa a preservare la caratteristica del credito come «attività imprenditoriale». Lo scontro è, semmai, tra due modi di intendere il ruolo delle banche centrali e del sistema bancario in genere: subordinato, non solo secondo il governo italiano ma più in generale secondo «i governi» dei Paesi ricchi, a più generali esigenze nazionali; libero e imprenditoriale secondo i governatori delle banche centrali. Per cui può anche succedere che governi, come quelli attuali di gran parte dell’Occidente - Italia naturalmente compresa e, anzi, in prima linea - partiti con istanze di difesa del mercato e delle libertà economiche, finiscano per intervenire in senso non precisamente confacente ai principi di questo mercato e queste libertà. È chiaro che in questa crisi perdurante - sulla cui rapida fine neppure il governatore Draghi ha dato alcuna speranza - il pendolo si sta spostando dal mercato verso lo Stato; ma occorre porre dei paletti. E uno di questi, forse il più importante, deve essere la libertà di decisione e di azione di banche economicamente sane. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. L'America e gli altri Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 03:56:28 pm 2/4/2009
L'America e gli altri MARIO DEAGLIO È difficile prevedere come finirà la riunione del G20 che si apre oggi a Londra, la cui vigilia è stata caratterizzata non solo da violente manifestazioni, ma anche da forti differenze d’opinione tra i partecipanti. È però già possibile dire che cosa non succederà: da questa tempestosa conferenza non verrà fuori, come per colpo di bacchetta magica, la soluzione della crisi in atto. Nel migliore dei casi, a un accordo sui principi farà seguito una fase, più o meno lunga, di messa a punto tecnica di provvedimenti concordati, destinati a rimettere in pista l’economia globale. Questo scenario è però di difficile realizzazione. Il problema, infatti, non è quello di gonfiare allegramente la spesa pubblica americana nella speranza (flebile) che un simile gonfiamento basti da solo a far ripartire l’economia mondiale senza provocare un’inflazione globale; si tratta invece di decidere se sia possibile e desiderabile la continuazione del primato finanziario del dollaro. Si è voluto paragonare la riunione di Londra alla conferenza di Bretton Woods del 1944, ma allora la conferenza monetaria era funzionale al nuovo ordine mondiale che gli eserciti alleati stavano costruendo. Oggi invece, molti, soprattutto a Washington, vorrebbero cambiare il sistema monetario lasciando invariato l’ordine mondiale. Per l’interazione di motivi economici e politici il vertice si presenta articolato a diversi livelli. Il più importante è quello dell’incontro-scontro tra Stati Uniti e Cina: tra il maggiore debitore del mondo e il suo maggiore creditore, due accaniti avversari che competono per la supremazia economica (e politica) ma che si trovano sulla stessa barca e devono cooperare perché la barca non affondi. Gli Stati Uniti non possono fare a meno dell’impegno della Cina a non vendere i titoli in suo possesso emessi dal Tesoro di Washington e a sottoscriverne altri; per continuare a crescere con l’elevata velocità di cui ha bisogno, la Cina, dal canto suo, difficilmente può fare a meno delle esportazioni verso gli Stati Uniti, destinate a essere pagate in dollari. Basterà quest’interesse comune a farli andare d’accordo? È molto difficile dirlo. Gli Stati Uniti danno per scontato che il dollaro continui a essere la stella fissa dell’universo delle valute, i cinesi hanno già fatto sapere che vorrebbero sostituirlo con una «moneta artificiale», una sorta di «paniere di monete», delle quali il dollaro rimarrebbe la più importante, perdendo però le sue caratteristiche di unicità. Una nuova moneta per gli scambi dell’economia globale sarebbe forse la soluzione migliore per cancellare il recente passato monetario, i mutui subprime e i titoli tossici. Rappresenterebbe però un’evidente riduzione del potere finanziario americano ed è molto dubbio che il neo-presidente degli Stati Uniti possa accettarla. Dalla definizione di questi rapporti complessi sapremo se esistono davvero le condizioni politiche per un’uscita dalla crisi, senza le quali gli esercizi dei tecnici della finanza paiono di scarsa utilità. La risposta, però, non l’avremo dal comunicato stampa ma dal comportamento concreto dei governi e delle banche centrali nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Il secondo livello è quello delle regole per la finanza mondiale. Come unico Paese veramente «sovrano» gli Stati Uniti sono molto riluttanti ad accettare che un organismo internazionale possa estendere i suoi controlli alle banche americane, così come resistono all’idea che i tribunali internazionali possano giudicare cittadini americani. Su questo punto insistono gli europei, e in particolare i francesi, forse nel tentativo di mostrare che gli Stati Uniti sono «un Paese come gli altri», forse per giustificare, in caso di un «no» americano, l’adozione da parte dell’Unione Europea di misure protezionistiche. Questa spaccatura di fondo potrebbe risultare paralizzante e costituisce il maggior rischio di fallimento del vertice. Esiste poi il livello dei problemi specifici, marginali in questo convegno ma fondamentali per gli equilibri del pianeta, in cui i progressi sembrano meno difficili: per essere efficaci, le politiche ambientali ed energetiche devono poter contare su una solida base di finanziamenti internazionali; settori molto diversi, da quello della farmaceutica a quello della musica, necessitano di normative mondiali sui diritti d’autore; l’emergenza africana non può essere affrontata con successo in ordine sparso. Qui le convergenze appaiono maggiormente possibili e contribuiscono a non far perdere le speranze. Settantasei anni fa, nella stessa Londra, si svolse un’analoga conferenza, a pochi chilometri dalla sede di quella attuale, convocata per porre rimedio ai guasti della crisi mondiale iniziata nel 1929. Essa fallì, perché gli Stati Uniti del presidente Roosevelt rivendicarono, anche allora, l’«eccezionalità» americana. E i partecipanti, lasciata la capitale inglese, imboccarono ciascuno la via del proprio protezionismo; una via che contribuì a portarci alla seconda guerra mondiale. I capi di Stato che si riuniscono oggi dovrebbero avere sempre davanti gli occhi questo precedente storico. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Solidarietà e referendum Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 05:05:54 pm 16/4/2009
Solidarietà e referendum MARIO DEAGLIO Il finanziamento della ricostruzione dell’Aquila pone una serie di problemi complessi che vanno dalla politica economica alla lotta politica e che partono da un’osservazione fondamentale: i soldi per la ricostruzione non possono essere spesi tutti subito ma, per i tempi tecnici della spesa - ai quali si spera che non si debbano aggiungere ritardi anomali della burocrazia - dovranno essere «spalmati» su un certo numero di esercizi finanziari, diciamo 3-4 anni nel migliore dei casi. Sarebbe appropriato che il prossimo Consiglio dei Ministri indicasse, sia pure a grandi linee, non solo l’ammontare della spesa complessiva ma anche la sua probabile scansione temporale. In ogni caso, se si accetta per buona la stima sommaria di 12 miliardi di euro, l’entità della spesa equivale all'incirca a una manovra finanziaria. Anche se tale spesa sarà diluita in qualche anno, occorre domandarsi come possa digerire una medicina così pesante un paziente qual è l'economia italiana, già appesantito da un pesantissimo fardello di debiti e deficit. E in qualunque modo si affronti la questione, l'Europa gioca, in maniera sia diretta sia indiretta, un ruolo importante nella risposta. Direttamente, è legittimo attendersi lo stanziamento di fondi speciali europei per aiutare la ricostruzione e l'abbuono all'Italia di versamenti dovuti all'Unione Europea in questo e nei prossimi 3-4 anni. E questo perché siamo di fronte alla maggiore calamità naturale di un Paese dell'Unione Europea nel nuovo secolo e il Trattato di Maastricht prevede esplicitamente (all’articolo 103 A) un'«assistenza finanziaria comunitaria» allo Stato membro qualora questo si trovi in «gravi difficoltà» a seguito di «calamità naturali». L’aiuto dell’Unione Europea può inoltre essere indiretto in quanto all’Italia sia consentita una modifica del piano di rientro dal debito e dal deficit che era stato concordato prima del terremoto. Il che darebbe via libera al reperimento sul mercato della parte maggiore dei fondi necessari. Ci si può ragionevolmente attendere che questa «dimensione europea» del finanziamento giunga a coprire, su 3-4 anni appunto, più della metà della somma necessaria. Che fare per la parte restante? È inevitabile che si concorra con una pluralità di fonti, ciascuna di entità relativamente modesta ma dal notevole valore pratico e simbolico. Si potrebbe cominciare con qualche vendita di oro, il prezioso «metallo giallo» di cui l'Italia detiene una quantità spropositata (è al quarto posto nella classifica delle riserve auree) nel rispetto degli accordi internazionali che limitano questo tipo di operazioni. Anche se in passato analoghe proposte si sono scontrate con un’incomprensibile ritrosia, questo è il momento di metter mano, sia pure in piccola parte, ai gioielli di famiglia. Non sarebbe irragionevole pensare di ricavare, in tempi brevi, circa 400-500 milioni di euro dalle vendite delle quantità relativamente modeste di oro delle nostre riserve. Sarebbe ugualmente non irragionevole la richiesta di un contributo specifico ai parlamentari e anche a chi ricopre cariche elettive a livello regionale o locale, oltre che agli eletti al parlamento europeo: si tratterebbe, certo, solo di poche decine di milioni di euro ma sarebbero prova tangibile di solidarietà da parte di chi gode di numerosi trattamenti di favore, spesso nettamente superiori a quelli in vigore in altri Paesi europei per le medesime cariche. Un contributo specifico dal mondo della politica avrebbe senso in un contesto in cui si pensasse a un'addizionale sui redditi elevati (sopra i centomila euro lordi annui), già colpiti da aliquote marginali superiori a quelle degli altri redditi. Si tratta complessivamente di poche persone (poco più di centomila, i «soliti noti») in un Paese in cui i redditi da capitale vengono tassati separatamente, il che riduce legalmente la visibilità fiscale dei «grandi redditi» e potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 400-500 milioni di euro. Sempre che si tratti di un’imposta una tantum e non, come è stato purtroppo frequente nella storia fiscale di questo Paese, di un’addizionale che da straordinaria diventa ordinaria. Si potrebbe anche cercare di far pagare un poco gli evasori devolvendo alla ricostruzione abruzzese una quota dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale che, in quest’occasione, potrebbe essere ancora potenziata. In questo contesto di attenta e risicata ricerca di risorse non avrebbe senso, ma sarebbe anzi un insulto alla solidarietà nazionale emersa spontaneamente in questi giorni, che una somma di poco inferiore al gettito dell’eventuale addizionale una tantum venisse scialacquata in pochi giorni con le spese per un referendum che, per i capricci o i calcoli politici della Lega, non si vuole accorpare con le altre consultazioni elettorali dei prossimi mesi. E non avrebbe senso, in un momento in cui si chiedono sacrifici «mirati» a categorie specifiche di italiani, cercare risorse offrendo vantaggi ad altre categorie, come sarebbe il caso di un nuovo «scudo fiscale» per chi rimpatria capitali dall'estero. Il Consiglio dei ministri di venerdì dovrà muoversi con ragionevolezza in questo insieme di scelte intricate se non vorrà sciupare il «capitale politico» che la gestione della prima fase dell’emergenza terremoto gli ha indubbiamente procurato. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Torino sulla linea del fuoco Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 05:10:47 pm 18/4/2009
Torino sulla linea del fuoco MARIO DEAGLIO Dopo essere rimaste a lungo immobili, le ruote della storia industriale hanno ripreso a girare vorticosamente. Meno di dieci anni fa, Fiat Auto pareva sul punto di diventare una semplice consociata di General Motors; ora, con nuovi modelli, nuovi motori e quote di mercato in crescita, è sul punto di acquisire una partecipazione determinante in Chrysler, un altro grande del mercato mondiale dell’auto. Quest’inversione a U del gruppo torinese è naturalmente dipesa da molti fattori ma quello più tipico lo potremmo chiamare «fattore L», ossia «leadership». Non c’è dubbio che l’amministratore delegato Sergio Marchionne abbia fatto da elemento catalizzatore del molto di buono che si celava all’interno della Fiat e che abbia esercitato con estrema efficacia e ottimi risultati il suo mandato di ridisegnare il sistema di decisione e di operazione del gruppo. È precisamente la presenza congiunta di questo «fattore L» e delle nuove tecnologie della Fiat a convincere molti americani, a cominciare dal loro Presidente, della bontà di un collegamento patrimoniale e operativo - se saranno superate non trascurabili complessità di tipo finanziario e organizzativo - tra Fiat e Chrysler. A rendere economicamente ragionevole una simile combinazione è il radicale e improvviso mutamento strutturale dell’industria dell’auto. Con la disastrosa caduta mondiale delle vendite iniziata nell’autunno-inverno sembra essersi spezzata una molla psicologica che da molti decenni poneva l’acquisto dell’auto in cima alle priorità della famiglia media in tutti i Paesi avanzati. La domanda di auto sta ora tornando in Europa verso livelli normali, ma con modalità diverse: si richiedono, oltre a formule finanziarie flessibili e «leggere», auto più piccole, motori più puliti, costi più contenuti. E proprio in questi aspetti oggi importanti della produzione la Fiat può vantare al suo attivo sia una lunga tradizione sia un importante (e spesso trascurato) impegno di ricerca; quest’ultimo aspetto dovrebbe indurre a un certo ripensamento chi ritiene che dalle università italiane e dai laboratori delle industrie italiane non esca ormai più nulla di importante. Le nuove tecnologie fanno sì che per produrre un’auto sicura, ecologica e di prezzo contenuto, i componenti base debbano essere comuni a molti modelli e che i costi fissi debbano essere spalmati su milioni di esemplari. Questo ha indotto lo stesso Marchionne, in un’intervista di qualche mese fa (dal titolo significativo: «La festa è finita») a stimare in 5,5-6 milioni di auto all’anno la dimensione minima per una valida presenza industriale; questa dimensione lascerebbe in vita solo sei produttori mondiali. Non è detto però che produzione e proprietà coincidano perfettamente: l’orizzonte dell’auto dei prossimi decenni non sembra più dominato da grandi imperi industriali, rigidamente governati dal centro, ma piuttosto da un sistema di alleanze, dotate di una certa flessibilità e caratterizzate, al di là della dimensione tecnologico-produttiva, da un rilevante grado di autonomia dei partecipanti. Qualcosa di simile, del resto, si è già visto con l’intesa, raggiunta dieci anni fa, tra la francese Renault e la giapponese Nissan. In questo ridisegno strutturale dell’industria mondiale dell’auto, è significativo che un ruolo importante spetti al sindacato che, alla Chrysler, ha ancora una sorta di un diritto di veto sull’accordo stesso. L’intesa nuovo management-sindacato, così come l’intesa nuovo management-proprietà (che, in questo caso, implica indirettamente il governo degli Stati Uniti) appaiono essere le due strutture portanti necessarie per qualsiasi accordo che consenta di eliminare le molteplici inefficienze produttive del colosso americano. Del resto alla Fiat Marchionne si è mosso in questo senso, con una ricetta che implica poca retorica e impegni concreti e rispettati, e così aveva fatto anche nel suo precedente incarico ad Alusuisse che implicò una difficile intesa con il potente sindacato tedesco IG Metall. Essere il «cuore» di una nuova grande alleanza industriale a livello mondiale non potrà certo modificare le prospettive immediate di Torino e delle industrie fornitrici dell’auto in Italia; allarga però in maniera inaspettata i loro orizzonti di attività. Se poco cambierà nei prossimi trimestri, le prospettive dei prossimi lustri - e quindi le prospettive di vita dei giovani, soprattutto di quei neolaureati che faticano a trovar lavoro di questi tempi - saranno radicalmente migliorate. Non certo nel senso che ci sia dietro l’angolo una vittoria certa ma nel senso che c’è ancora una partita da giocare e che, se si vince questa partita, si rimane in Serie A. La stretta finale per il possibile accordo Fiat-Chrysler avviene mentre altre grandi imprese italiane si proiettano su un orizzonte mondiale. Sarà stata una sorpresa per molti scoprire tra le notizie di questi giorni che le Generali sono il primo assicuratore in Cina, mentre Eni, Enel e Finmeccanica intessono una fitta rete di accordi mondiali e molte imprese medie stanno percorrendo il medesimo cammino. Siamo di fronte a un rivolgimento imprevisto nella grande «battaglia industriale» che ha fatto seguito al tramonto del primato indiscusso degli Stati Uniti e all’apertura di un nuovo fronte in cui molti Paesi, Stati Uniti compresi, si trovano a cercare di trovare nuovi equilibri. Tutto ciò sta proiettando improvvisamente sulla linea del fuoco, con un’arma carica in mano, chi sembrava destinato a rimanere nelle retrovie. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Vestiremo alla cinese Inserito da: Admin - Aprile 24, 2009, 10:35:46 am 24/4/2009
Vestiremo alla cinese MARIO DEAGLIO Dietro le cifre delle previsioni aride e molto imprecise delle previsioni economiche globali per il 2009 si cela, dal lato dell’offerta, un rapidissimo cambiamento del peso e del potere economico dei grandi Paesi e un profondo ridisegno del quadro produttivo del mondo. Dal lato della domanda, si delinea invece un cambiamento di capacità e modelli di spesa, di priorità, di gusti individuali e familiari. Se anche la crisi passerà abbastanza rapidamente, ossia nel giro di 4-6 trimestri - come viene ufficialmente sostenuto, sia pure con una convinzione sempre minore - questi mutamenti della domanda sono destinati a diventare permanenti. Si ripercuoteranno sul modo di consumare di 2-3 miliardi di abitanti di Paesi poveri che diventeranno un po’ meno poveri nonostante la crisi, e degli abitanti dei Paesi ricchi che potrebbero diventare un po’ meno ricchi. I gusti e le capacità di spesa della famiglia Smith, della famiglia Dupont o della famiglia Bianchi, oggi alle prese con una crescente precarietà di reddito, stanno diventando meno importanti dei gusti e delle capacità di spesa delle (molto più numerose) famiglie Hu, Singh o dos Santos le quali, pur partendo da livelli bassissimi, hanno alle spalle ormai diversi decenni di allargamento di orizzonti e di crescita dei redditi, e un futuro in cui probabilmente tale tendenza sarà destinata a continuare, sia pure a un ritmo un po’ inferiore a quello del recente passato. Per conseguenza, mentre il numero dei giovani cinesi, indiani e brasiliani che andranno all’università è destinato ad aumentare, il numero dei giovani americani che si recheranno al college si ridurrà in quanto l’istruzione superiore negli Stati Uniti non è gratuita e molte famiglie, prive delle risorse finanziarie necessarie, non possono più ricorrere all’indebitamento. Contemporaneamente continuerà a crescere il numero di abitanti dei Paesi emergenti che possono permettersi cure mediche avanzate; negli Stati Uniti, in attesa che la riforma sanitaria proposta dal presidente Obama possa essere attuata, saranno sempre più numerosi gli americani non più in grado di pagare l’assicurazione sanitaria. E noi europei dovremo tenerci ben stretto l’«ombrello assistenziale» che ci ripara - a un costo molto elevato per le finanze pubbliche - dai costi della nostra salute e che ha già subito parecchie limature. Se vorranno sopravvivere e prosperare, le imprese, grandi e piccole, che producono i beni di consumo per un mercato mondiale, dovranno adattarsi a questa domanda diversa; e l’innovazione di prodotto proverrà sempre più da direzioni insolite. L’auto meno cara al mondo è stata recentemente presentata da un’impresa indiana e negli Stati Uniti si guarda con un interesse che un tempo sarebbe stato del tutto inusuale alla Cinquecento e ai motori europei a basso consumo di carburante. Nei ristoranti fast food del mondo emergente sono presenti più piatti a base di cereali che hamburger. L’ondata di impopolarità nei confronti delle categorie manageriali potrebbe rapidamente trasferirsi in impopolarità dei consumi vistosi con cui queste categorie spesso si sono identificate in Occidente. Anche se ancora non si intravedono chiaramente le alternative, il tramonto del «modello americano» di consumo potrebbe essere il risultato più duraturo dell’attuale crisi. L’illusione, diffusa soprattutto tra gli operatori finanziari, che la crisi sia un fastidioso intermezzo, destinato a diventare tra breve un ricordo di cui liberarsi rapidamente per riprendere i giochi e i comportamenti di prima è, appunto, un’illusione: quando l’economia mondiale tornerà a una crescita sostenuta e uniforme, non solo la geografica produttiva e la mappa del potere economico mondiale saranno radicalmente diverse ma anche le priorità personali e i parametri del gusto saranno mutati e risentiranno assai più di oggi di una componente asiatica, o talora russa, latino-americana o islamica. Già oggi, come aveva osservato lo storico e politologo americano Samuel Huntington, è solo la nostra miopia che ci fa definire «globali» prodotti che sono più semplicemente «occidentali». È inevitabile quindi che i nuovi prodotti globali vengano configurati in maniera crescente secondo gusti asiatici e per questo sono frequenti i casi di grandi società che lanciano le loro novità sul mercato cinese e localizzano in Cina o in India centri di design, stile e ricerca. Questa mutazione qualitativa indica abbastanza chiaramente la direzione verso la quale deve muoversi l’industria italiana. Uno dei suoi punti di forza è, da sempre, la rapidità con la quale sa adattare i propri prodotti al mutare delle condizioni esterne; quando lo shock petrolifero del 1974-75 mise nelle mani degli «sceicchi» un inusitato potere d’acquisto, i mobilieri della Brianza prepararono velocemente nuovi prodotti di gusto arabeggiante; lo stile dei gioielli italiani già oggi riflette fortemente il gusto di compratori extraeuropei. La maggiore reattività, la capacità di interpretare culture e gusti diversi, la flessibilità produttiva sono le armi migliori con cui le imprese italiane possono combattere la crisi attuale. Non bastano, infatti, i pur necessari sostegni finanziari e gli sgravi fiscali che le imprese chiedono al governo. Una sfida analoga a quella attuale, e cioè trovare prodotti nuovi per un mondo nuovo, fu vinta dall’Italia del dopoguerra che propose al mondo lo scooter, una forma nuova di motorizzazione di massa, le macchine per scrivere portatili, il cioccolato a basso costo, i frigoriferi piccoli che entravano anche nelle case dei poveri e tante altre cose ancora. Per sopravvivere e prosperare, le imprese italiane devono svolgere la medesima funzione storica per il mondo che uscirà dalla crisi attuale. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il contagio può colpire l'economia Inserito da: Admin - Aprile 28, 2009, 05:54:44 pm 28/4/2009
Il contagio può colpire l'economia MARIO DEAGLIO La febbre suina non rappresenta solo una grave emergenza sanitaria; si tratta di un evento totalmente imprevisto, un «fattore S» (dove S può stare per «suini», «sanità» e «sorpresa») comparso d’improvviso con il quale occorre fare i conti, oltre che sotto il profilo medico anche sotto quello delle già incerte prospettive di ripresa economica mondiale. Lo si è visto nella giornata di ieri quando le prime notizie sulla febbre suina hanno immediatamente determinato su tutte le Borse del mondo forti perdite per i titoli legati ai viaggi e al turismo mentre le quotazioni delle imprese farmaceutiche, soprattutto quelle che producono vaccini, sono fortemente salite, una reazione cinica ma purtroppo realistica dei mercati tesi a individuare subito chi guadagna e chi perde di fronte a una situazione nuova. Crisi sanitaria e crisi finanziaria hanno molti aspetti in comune. Il primo è appunto la mancanza di un rimedio già pronto: niente vaccini contro la febbre, nessuna ricetta valida per bloccare i danni legati all’insuccesso dei mutui subprime. Il secondo è la rapida mutazione della causa iniziale: ci hanno già informati che il vero pericolo, tutto sommato, non è il virus suino nella sua forma attuale ma la elevata probabilità di mutazioni più gravi e aggressive. Partendo dal solo settore delle abitazioni «povere» degli Stati Uniti, il virus finanziario dei mutui subprime ha subito in due anni diverse mutazioni, estendendosi all’intera edilizia abitativa di quel Paese; di lì si è insinuato nei bilanci delle banche che avevano prestato soldi su garanzie immobiliari e ha provocato enormi perdite contabili e indotto negli operatori finanziari il sospetto reciproco. Si è così arrivati nella primavera-autunno del 2008 a una vera e propria paralisi del mercato interbancario con la necessità di imponenti interventi pubblici; e infine il virus ha superato, con una violenza e una rapidità vista poche altre volte nella storia, la barriera che lo separava dall’economia reale, determinando le attuali, massicce cadute produttive e occupazionali. Di fronte a questa incredibile avanzata, i regolatori dell’economia non hanno saputo bene che cosa fare e hanno ripetutamente, nel corso del 2007 e del 2008, trasmesso messaggi di fiducia, come se i problemi fossero in via di soluzione, che si sono rivelati gravemente errati. Auguriamoci che i responsabili della sanità mondiale riescano a prendere in mano la situazione, dal momento che dispongono di procedure consolidate e hanno esperienza di altre crisi simili, come quella, tutto sommato assai ben gestita, dell’influenza aviaria. Sul loro successo, l’informazione giocherà un ruolo importante e difficile: come per le vicende delle Borse, anche per le epidemie tra l’informazione corretta e l’allarmismo la distinzione può essere molto tenue. Al livello sanitario mondiale le procedure sono consolidate alla luce di precedenti epidemie e pandemie, ma differenze apparentemente piccole nell’atteggiamento concreto dei singoli governi possono provocare pesanti ripercussioni. Il presidente Obama ha tenuto a dichiarare ieri che la febbre suina è «motivo di preoccupazione» e non già «motivo di allarme», una distinzione che può sembrare speciosa; ha però ricordato di aver dichiarato uno «stato di emergenza» relativo alla salute pubblica, sia pure a titolo precauzionale. Sembra un giocare con le parole non troppo dissimile da quello del suo predecessore che si rifiutava di usare la temutissima parola «recessione» e preferiva il meno allarmistico «inversione di tendenza» (downturn). Da oltre Atlantico arriva quindi una cautissima tendenza a ridimensionare, ma da Bruxelles la cipriota Androulla Vassiliou, commissario europeo alla Sanità, non ha fatto tanti complimenti e ha consigliato agli europei di evitare qualunque viaggio non essenziale negli Stati Uniti e in Messico, un invito di gravità eccezionale che lascerebbe supporre la presenza di elementi di preoccupazione non ancora resi pubblici. Da Bruxelles si è poi ristretto il consiglio alle aree in cui si sono registrati casi del morbo, che comprendono però la città di New York, dove in un liceo almeno otto studenti sono risultati infetti. Un alto funzionario della Sanità americana ha però definito «ingiustificato» questo consiglio dato agli europei. Dietro a queste differenze di opinioni c’è forse il maggior grado di preparazione della sanità pubblica europea, con un’ampia serie di reti di sicurezza mentre questo settore non ha certo rappresentato in anni recenti una priorità per gli Stati Uniti, dove non solo si è sostanzialmente abolita l’obbligatorietà dei vaccini, ma si è giunti, in taluni casi, a negarne la gratuità agli immigrati irregolari e ai loro figli in nome del mercato, della libertà e della responsabilità individuale. Nella vecchia Europa, il mercato fortunatamente non è giunto a simili estremi e l’«ombrello» pubblico dovrebbe risultare più efficiente. In definitiva, in un mondo in cui si pretende giustamente la «trasparenza finanziaria» ci starebbe bene anche un poco di «trasparenza sanitaria»; il cittadino ha l’impressione che, nella sanità come nella finanza, qualcosa gli possa essere celato. E non è con le reticenze che si esce dalle crisi né di un tipo né dell’altro mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La rivincita del lavoro italiano Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:30:19 pm 1/5/2009
La rivincita del lavoro italiano MARIO DEAGLIO E’ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato. Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita. E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa. Il tutto avverrà - dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale - in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato. Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali. In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi. Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La nuova impresa dei nostri tempi Inserito da: Admin - Maggio 06, 2009, 06:00:13 pm 6/5/2009
La nuova impresa dei nostri tempi MARIO DEAGLIO I tempi dell’economia sono talora vorticosi. Non è ancora asciutto l’inchiostro sull’accordo Fiat-Chrysler che già si prospetta una «partita» Fiat-Opel, secondo tempo della possibile costruzione della prima impresa industriale a carattere globale del XXI secolo. Se nel caso Fiat-Chrysler le sinergie erano ovvie, legate alla sostanziale estraneità di un partecipante all’altro per quanto riguarda sia i modelli sia i mercati, nella seconda sono assai più complesse sia perché i partecipanti operano sullo stesso mercato sia perché gli interessi in gioco sono più vari e più intensi. Essi presentano quattro diverse dimensioni in quanto riguardano il lato tecnico e quello sindacale, la posizione dei governi e quella della proprietà. Dal lato tecnico occorre notare che gran parte dei modelli attuali di Fiat e di Opel hanno la loro origine nel periodo di stretta collaborazione tra Fiat e General Motors che di Opel era ed è proprietaria (ancora per poco, vista la sua situazione fallimentare e la sua necessità di disfarsi comunque del ramo europeo). Tanto per fare un esempio tra molti, la Fiat Punto e la Opel Corsa hanno lo stesso pianale e il medesimo motore nella versione diesel. Questo implica che, nel breve-medio periodo, una collaborazione organica tra le due aziende possa comportare sensibili economie di scala che si potrebbero tradurre in riduzioni altrettanto sensibili dei prezzi di vendita; in periodi più lunghi da qui e dalle sinergie con Chrysler può nascere la prima auto veramente mondiale. È verosimilmente questo il «Paradiso tecnologico» evocato da Marchionne. Per arrivarci bisogna però passare attraverso una fase di transizione, un Purgatorio, nel quale, presumendo stabilità sostanziale nelle quote di mercato e domanda statica in Europa, l’attuazione delle sinergie implica che ci si trovi di fronte a una parola che non si vorrebbe mai sentir pronunciare: la parola «esuberi». Precisamente questo Purgatorio chiama in causa i governi, in primo luogo quello tedesco ma anche quelli inglese e svedese che questa transizione dovranno in qualche modo finanziare; e li chiama in causa con urgenza, sia che la proposta della Fiat venga accettata sia che venga respinta. Il più che probabile fallimento di General Motors, proprietaria di Opel, oltre che dell’inglese Vauxhall e della svedese Saab, fa sì che queste tre aziende debbano essere vendute molto rapidamente (o addirittura chiuse se non si trovasse un’impresa che se ne assuma il carico) anche se la situazione è scomoda per scadenze elettorali relativamente prossime in Germania e in Gran Bretagna. Che si accetti o no l’offerta Fiat o quella di altri possibili concorrenti, un esborso consistente di denaro pubblico in questi Paesi appare inevitabile, oltre che doveroso, per evitare pesanti conseguenze economico-sociali e nell’ottica di un ritorno all’economicità in tempi brevi. Naturalmente non bastano i soldi dei governi, occorre anche la collaborazione sindacale in Paesi in cui il sindacato stesso ha una vasta e strutturale presenza sociale ed economica e una parallela influenza sulla politica. Ai lavoratori attuali delle aziende interessate non può non essere fornita ogni possibile garanzia nel caso in cui la ristrutturazione degli impianti li lasci, temporaneamente o definitivamente, senza lavoro. L’obiettivo condiviso dovrebbe comunque essere quello di raggiungere - in un futuro non immediato ma neanche molto lontano - un livello di occupazione almeno pari a quello attuale, in presenza di un prodotto innovativo e meno caro in grado di generare una forte corrente di acquisti nel quadro di un rinnovamento sostanziale dell’auto. Tale livello non va calcolato per quanto riguarda i grandi stabilimenti ma, più in generale, per l’occupazione del settore, senza trascurare - come ha ricordato ieri Luciano Gallino su la Repubblica - le conseguenze sull’indotto, il cui numero di occupati è prevalente rispetto ai dipendenti diretti delle case automobilistiche. La partnership sindacale nella scommessa può implicare la presenza del sindacato negli organi di governance e forse, come è previsto per Chrysler, nel capitale della nuova impresa. Si tratterebbe quindi di una presenza attiva, di una condivisione di rischi in un mondo comunque rischioso anche al di là della formale e un po’ ossificata presenza sindacale nei consigli di amministrazione delle società tedesche. Il problema del consiglio di amministrazione sposta l’attenzione sulla proprietà di questa nuova impresa e sul possibile scorporo di Fiat-Auto che diventerebbe Fiat-Opel-(Chrysler) ed è questa la quarta dimensione del caso Fiat-Opel. Sulla falsariga di quanto si è verificato nel caso Fiat-Chrysler ci si potrebbe trovare in presenza di una diluizione dei gruppi proprietari nonché di ingressi, più o meno permanenti, accanto al mercato, di capitale pubblico e del sindacato. Sembra confusamente prender forma un nuovo tipo di capitalismo imprenditoriale, erede di quello famigliare italiano tradizionale e di quello «renano», con grande importanza del mercato ma senza l’esclusione di altri interessi. Il «Paradiso tecnologico» di Marchionne implica, in definitiva, una molteplice scommessa innovativa che va al di là delle tecnologie e comprende innovazioni - naturalmente ancora tutte da mettere a punto nella loro specificità - nel coinvolgimento pubblico, in quello sindacale e in quello dei governi. Per progettare e vendere con successo un nuovo tipo di auto, ci vuole, insomma, un nuovo tipo di impresa, con un nuovo tipo di rapporto con la società. È questa la sintesi della scommessa che di fatto si trova sul tavolo non solo del governo tedesco ma anche di tutta l’Europa. L’Europa vanta spesso la sua capacità di forgiare nuove idee e nuove istituzioni, e non solo nuovi prodotti; ora ha la possibilità, e forse il dovere, nell’ambito di una nuova economia globale, di non replicare il passato. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La vittoria di Roma Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 12:02:36 pm 14/5/2009
La vittoria di Roma MARIO DEAGLIO Gli ultimi dubbi sono caduti. I lombardi che vorranno andare in America e in Cina non potranno più partire dal loro «aeroporto di casa». E anche per recarsi in molte destinazioni europee dovranno «cambiare» a Fiumicino, o, se preferiscono, a Francoforte, Parigi, Londra. Come fanno da anni i piemontesi, i liguri, i veneti, gli emiliani che hanno visto tagliare i collegamenti in partenza dai loro scali aerei verso molte destinazioni importanti. Optando per Fiumicino, l’Alitalia (e possiamo dire l’Italia, perché sarebbe difficile pensare che una decisione simile non sia stata presa senza un previo assenso governativo di massima) ha comunque compiuto una scelta difficilissima. Si trattava di individuare il male minore, in termini di conto economico e di perdita di traffico, un percorso obbligato dal punto di vista economico ma sicuramente non scontato dal punto di vista politico: quella di presentarsi sullo scenario del trasporto aereo mondiale con un unico grande hub, ossia aeroporto centrale di riferimento. Due hub, Malpensa e Fiumicino, l’Alitalia non se li poteva proprio permettere, come non se li può permettere nessun’altra compagnia delle sue dimensioni e la scelta è stata, tutto sommato, logica: si è optato per lo scalo più grande, anche se così si perderanno molti passeggeri (che comunque fino ad ora sono quasi sempre stati trasportati in perdita). Il messaggio va però molto al di là delle logiche aziendali. L’Italia ha superato una paralisi decisionale che l’ha fermata per molti anni e ha ribadito di voler giocare sullo scacchiere dei trasporti internazionali come sistema economico organicamente unito e non con sottosistemi semiautonomi che difficilmente possono raggiungere l’economicità. La centralità della Pianura Padana nell’ambito euro-mediterraneo, da molti sostenuta con argomenti non banali, fa un passo indietro: Roma sta legando a sé Milano anche con la linea ferroviaria ad alta velocità e ribadisce così il proprio ruolo centrale. In questo decisionismo, Roma si è rivelata piuttosto «milanese» mentre Milano si è scoperta «romana». Nel corso degli ultimi mesi, infatti, Roma si è, nel complesso, dimostrata «imprenditoriale», i poteri locali si sono evidentemente dati da fare perché si arrivasse alla decisione annunciata ieri da Alitalia, e in questo senso va interpretato anche l’accordo parallelo di Alitalia con Aeroporti di Roma. Milano, al contrario, ha sostanzialmente atteso gli eventi; forse ha sperato che i ministri lombardi dessero una mano o che la Lega ponesse dietro Malpensa il suo considerevole peso politico, facendo della sua valorizzazione un elemento di irrinunciabilità. Probabilmente, però, la Lega ha orizzonti diversi. Per Milano ci sono i fondi Expo, più in generale sul piatto c’è il decreto sicurezza con il suo tempestoso passaggio parlamentare, e dietro l’angolo il federalismo. Non occorre essere degli incalliti dietrologi per immaginare la possibilità e la ragionevolezza, dal punto di vista degli strateghi del partito di Bossi, di uno scambio politico, anche se tale scambio non risulterà molto gradito ai numerosi elettori del Carroccio che vivono in provincia di Varese e che comunque vedono prossima l’istituzione delle «ronde» di cui hanno fatto una priorità. Non si può in ogni caso non provare un certo senso di delusione per non aver visto maggiori energie di imprenditori settentrionali dedicate al tentativo di creare una credibile compagnia aerea incentrata su Malpensa - come sembra voler fare Lufthansa con la consociata Lufthansa Italia - mentre proprio Alitalia ha ricevuto dal Nord un consistente apporto di capitale. La sconfitta di Malpensa, per molti versi prevista, rilancia la possibilità che l’Italia Settentrionale provi ad organizzarsi con una rete di piccoli e medi aeroporti, il che ridimensionerebbe ulteriormente lo scalo milanese; e sicuramente lascia l’amaro in bocca a molti di coloro che fecero fallire l’offerta di Air France che, a suo tempo, con l’appoggio del governo Prodi, avrebbe probabilmente garantito a Malpensa un futuro meno incerto di quello che deve affrontare oggi. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La rabbia e la favola Inserito da: Admin - Maggio 18, 2009, 04:56:08 pm 18/5/2009
La rabbia e la favola MARIO DEAGLIO Un declino annunciato: la scivolata dei salari medi italiani è un’ulteriore conferma del lento affondare della nostra economia, poco presente nei settori avanzati, dall’elevata produttività che consente alti salari, soffocata da una tassazione molto pesante, peraltro necessaria per far fronte all’elevato debito pubblico e da contributi sociali da record, indispensabili per pagare le pensioni a un Paese sempre più composto da vecchi. Questa situazione difficile si colloca su un contesto di tensioni e sfilacciamento sociale messo in luce dalle notizie degli ultimi due giorni. Sabato a Torino, di fronte alla storica palazzina del Lingotto, il segretario generale della Fiom veniva tirato giù dal palco da militanti dello Slai Cobas davanti a 15 mila operai - i quali, in tempi non lontani, avrebbero reagito vigorosamente - preoccupati per il loro posto di lavoro; poche ore più tardi, nella stessa Torino e nella centralissima e ancora più storica piazza San Carlo, una folla stimata in almeno tre volte tanto si accalcava a un «evento» di Mediaset realizzato per illustrare la nuova televisione digitale incentrata sul programma «Amici», una competizione in grado di aprire ai vincitori le porte del successo televisivo. Sempre nella stessa piazza, nella giornata di ieri coloro che aspiravano a partecipare alla trasmissione «Grande Fratello» (anch’essa considerata una scorciatoia a fama, celebrità e successo mediatico) formavano una coda lunga circa mezzo chilometro. Le vicende parallele e apparentemente diversissime del Lingotto e di piazza San Carlo rappresentano due facce della stessa moneta: si tratta di due risposte, irrazionali e prive di progettualità, a una crisi che, se raggiunge le sue punte più visibili nell’economia reale e nella finanza, si configura ogni giorno di più come crisi di valori e di sistema e contro la quale i rimedi razionali si sono sinora dimostrati inadeguati o insufficienti. Non si tratta, del resto, di un fenomeno soltanto italiano, anche se i dati salariali sull’Italia mostrano che proprio da noi raggiunge punte molto elevate. Di fronte alle prospettive sempre più incerte e alle minacce sempre più concrete di perdere il lavoro, in tutto l’Occidente le due risposte estreme sono quelle di un ricorso alla violenza e di un ricorso alla fortuna che porti un successo improvviso o, quanto meno, all’evasione in un mondo di favola, lontano dalle asprezze e dalle incertezze della vita di tutti i giorni. C’è chi reagisce cercando di buttar giù tutto con una spallata, magari anche il palco di una manifestazione sindacale, e chi cerca di reagire con una risata, che spesso suona un po’ innaturale, a un evento televisivo o cerca l’onda della fortuna grazie a questo evento. In Francia, la protesta assume le forme, ormai note, del «sequestro dei manager»; ad Atene quelle della rottura delle vetrine dei negozi di lusso. Nello stesso giorno del Lingotto, a Berlino sono sfilati centomila manifestanti con striscioni su cui era scritto «Sozial statt Kapital!», ossia «Il sociale al posto del capitale!», un’evidente impossibilità economica ma un buon termometro delle istanze di chi vede a rischio non solo il proprio posto di lavoro ma anche il proprio modello di vita. Parallelamente cresce la popolarità di programmi che assicurano ai partecipanti notorietà e redditi elevati e continua la fortuna, anche su Internet, di chi costruisce mondi artificiali in cui evadere di fronte a una realtà che non si riesce più a sopportare. Coloro che cercano soluzioni efficaci di tipo razionale a una situazione economico-sociale che sembra scivolare fuori di ogni controllo devono tener conto di questi bisogni profondi, di quest’insoddisfazione radicale; non basta controllare i deficit pubblici, risanare i tessuti malati dell’economia, sfornare ricette teoriche di rilancio. Dai dati dell’Ocse si ricava che è indispensabile, ma non sufficiente, far sì che questo Paese sia in grado di pagare salari più elevati grazie ad attività più produttive. L’insoddisfazione, però, in Italia, ha radici più profonde e, se non se ne tiene conto, i rimedi dei tecnici paiono destinati al fallimento; ci vorrebbe una grande visione politica che, per il momento, proprio non si profila all’orizzonte non solo in Italia ma neppure nel resto del mondo (dopo la «fiammata» iniziale di Obama, ormai largamente esauritasi, come spiegava su queste colonne qualche giorno fa Enzo Bettiza) e una massa di persone incerte che si sentono trascurate dall’economia e ignorate dalla politica. E potrebbero risultare sempre più inclini a travolgere i palchi delle manifestazione serie e ad accalcarsi attorno a quelle che promettono facili evasioni. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il gatto è fuggito dal sacco Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:19:52 am 25/5/2009
Il gatto è fuggito dal sacco MARIO DEAGLIO Il possibile declassamento del debito pubblico britannico pesa come un macigno sulle incerte prospettive della finanza mondiale nella settimana che si apre oggi. Le prime notizie sono circolate giovedì e hanno subito bloccato la timidissima ripresa delle Borse mondiali, fatto scendere la sterlina (che però ha recuperato) e soprattutto il dollaro (che non ha recuperato) e provocato un rialzo nel prezzo dell’oro. Certo, il debito a carico del governo di Londra non è al livello spazzatura, ma l’indebolimento della sua valutazione è altamente significativo sia dal punto di vista simbolico, sia in una prospettiva pratica. Dal punto di vista simbolico non si può non ricordare che, per il Paese di Margaret Thatcher, patria del liberismo moderno, l’azzeramento del deficit di bilancio e la forte riduzione del debito hanno rappresentato la sconfitta, che si credeva definitiva, dello statalismo. Ora, invece, a essere sconfitta è l’economia di mercato che andrà tutta ripensata per poter davvero significare qualcosa in questo turbolento XXI secolo. In una prospettiva pratica, va osservato che, per un lungo periodo, il governo inglese aveva contratto prestiti netti assai bassi e addirittura dal 1998 al 2001 aveva operato una restituzione netta di parte del debito. Poi è cominciata la pressione della spesa, per bisogni sociali trascurati, ai quali si è aggiunta la necessità di utilizzare denaro pubblico per salvare/nazionalizzare quasi tutte le più importanti banche del Paese. Nel 2008-09 il deficit britannico è stato pari al 6 per cento del prodotto interno lordo e nel 2009-10 dovrebbe risultare del 12 per cento, ossia circa 3 volte quello previsto per l’Italia, frutto di quella che The Economist ha definito «la Finanziaria della disperazione» approvata un mese fa. Nel 2013 il debito pubblico britannico dovrebbe raggiungere livelli «italiani» e collocarsi al 100 per 100 del prodotto lordo. Sono cifre di eccezionale gravità perché anche altri governi, e in particolare quello degli Stati Uniti, stanno perseguendo la strada dell’indebitamento a tappeto. Tra gli altri, Germania, Francia e Spagna (e probabilmente il Giappone) contano di fare ampio ricorso al mercato. Per conseguenza, una valanga di titoli pubblici è destinata a rovesciarsi sui mercati internazionali alla ricerca di compratori; non è detto che le banche centrali di Cina, Giappone e Corea del Sud, tradizionali acquirenti di questi titoli, riescano, e vogliano, farvi fronte perché l’attivo delle loro bilance commerciali è fortemente diminuito. Nelle scorse settimane negli Stati Uniti si è proceduto a fare lo «stress test», una simulazione delle possibilità di tenuta finanziaria in condizioni estreme di mercato, alle principali banche. Occorrerebbe fare un analogo «stress test» al mercato finanziario mondiale, per verificare le sue possibilità di reggere alla prevedibile ondata di domanda; servirebbe, naturalmente, un’organizzazione internazionale che non esiste e che dovrebbe essere dotata di vasti poteri d’indagine. Si tratta di un argomento appropriato per l’ormai imminente riunione del G8. Per convincere il resto del mercato all’acquisto sarà probabilmente necessario alzare l’attuale, bassissimo livello dei tassi di interesse. Un rialzo dei tassi, tuttavia, accentuerebbe le difficoltà dell’economia reale, il che rinvierebbe ancora la sospirata ripresa, annunciata con insistenza nelle ultime settimane ma sulla quale pesano fortissimi dubbi. E questo perché il panorama dell’economia reale sembrava essersi schiarito dopo il G20 tenutosi a Londra ai primi d’aprile, anche a seguito di una lunga serie di dichiarazioni rassicuranti dei responsabili dell’economia dei maggiori Paesi, forse concordate a quel vertice. I dati sull’andamento del primo trimestre si sono invece rivelati disastrosi con cali produttivi impressionanti come quello del Giappone (-15 per cento rispetto al primo trimestre del 2008), o comunque molto gravi come quelli degli Stati Uniti e dei maggiori Paesi europei. C’è quindi da domandarsi se i responsabili delle maggiori economie del pianeta abbiano davvero il polso della situazione o non siano essi stessi spiazzati da una crisi che presenta modalità di propagazione e di espansione almeno in parte nuove. Un ulteriore interrogativo è se continuare a dar credito a «proiezioni» degli andamenti futuri dell’economia, formulate a livello internazionale e nazionale, che vengono regolarmente superate dagli avvenimenti. A complicare ancor più la situazione contribuisce il prezzo del petrolio. I produttori sono apparentemente riusciti a coordinare le limitazioni della propria offerta e il prezzo è cominciato a salire, nonostante la domanda sia bassa perché molte fabbriche sono chiuse o non lavorano a pieno regime. L’aumento del prezzo rischia di introdurre un ulteriore elemento inflattivo in un quadro economico sufficientemente perturbato. In altre parole, si pensava - parafrasando una nota espressione inglese - che i governi fossero riusciti a «mettere nel sacco» il gatto della crisi. Questo gatto, però, è sfuggito ancora una volta, e più che un ottimismo di maniera serve un rinnovato impegno a cercare un modo appropriato per catturarlo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Dopo Gm il capitalismo non sarà più lo stesso Inserito da: Admin - Giugno 02, 2009, 11:34:56 am Dopo Gm il capitalismo non sarà più lo stesso
MARIO DEAGLIO Dopo il fallimento della General Motors, gli Stati Uniti non saranno più gli stessi. E forse il capitalismo non sarà più lo stesso. In 77 dei suoi 101 anni di vita, questo colosso dell’industria è stato il maggior produttore di auto al mondo, al tempo stesso pilastro e simbolo del benessere americano, al punto che, negli Anni 50, il suo presidente di allora, Charles Wilson, divenuto ministro della Difesa, candidamente affermò che gli interessi dell’America coincidevano perfettamente con quelli della sua maggiore industria automobilistica. La General Motors è stata affondata precisamente da questa sua convinzione di essere indispensabile, insostituibile e comunque centrale, punto di riferimento fisso in un mondo e in un’industria che stavano invece mutando rapidamente. La sua storia degli ultimi trent’anni è una lunga sequela di errori strategici, di problemi individuati correttamente e di soluzioni che hanno mancato il segno, di strategie mal eseguite, della difficoltà dei grandi e potenti di autocriticarsi, della facilità a cadere in una forma di arroganza. Le pensioni come i salari: l’accordo insostenibile Il colosso di Detroit comprese il carattere profondamente innovativo del modo di produzione giapponese che stava rivoluzionando il settore dell’auto ma non riuscì ad assimilarlo, limitandosi quasi sempre a un’imitazione superficiale: un tipico errore nelle prime fasi della «rincorsa» ai costruttori nipponici, pionieri nell’uso dei robots, fu di mettere troppi robots sulle linee di montaggio creando confusioni e ritardi. Sovente eccellente nella ricerca, non riuscì a trasferire pienamente alle sue consociate americane le innovazioni tecnologiche introdotte sulle auto che produceva in Europa e il suo innovativo «progetto Saturno» non ha mai prodotto auto di grande diffusione. La General Motors è anche esempio e simbolo di altri due più generali fallimenti americani. Il primo riguarda il lavoro: il sindacato americano dell’auto, che colse negli stabilimenti di Detroit i suoi successi maggiori, è rimasto impotente e, tutto sommato, indifferente di fronte al chiarissimo declino degli ultimi trent’anni, preoccupato solo di conservare un accordo, in realtà insostenibile, che garantiva ai suoi membri in pensione aumenti di reddito commisurati agli aumenti dei salari, una formula pesantissima che ha contribuito fortemente al tracollo finanziario. Il secondo fallimento riguarda il capitale e, più in generale, i meccanismi di governo delle grandi società: la General Motors, infatti, rappresenta uno degli esempi più chiari di frammentazione della proprietà, tipica del modello delle public companies. Con azioni diffusissime, nessun azionista contava molto; il titolo d’altra parte non contava molto nel patrimonio dei risparmiatori e dei fondi di investimento; per conseguenza, il potere si è concentrato nelle mani di un’élite manageriale che non temeva l’opposizione nelle assemblee e di fatto non rispondeva a nessuno. Ciò che era bene per la General Motors non era forse necessariamente bene per l’America, ma ciò che oggi è male per la General Motors è sicuramente una grossa e difficile sfida che l’America non può vincere guardando semplicemente a parametri finanziari e a un rinnovamento strategico e tecnologico. E non è solo l’America che deve meditare su quello che sta succedendo a Detroit: si comincia oscuramente a comprendere che la società che sta uscendo da Internet non vuole adattarsi all’auto e che sarà l’auto a doversi adattare alla società di Internet. Sull’America l’onda d’urto del colosso che affonda Nei paesi ricchi, l’automobile non è più come una volta un simbolo di status sociale, per cui il tipo di auto che hai individua abbastanza esattamente quale è la tua professione e quale è il tuo reddito; l’auto è sempre più spesso intesa come un anonimo e sostituibile cavallo da tiro che deve costare il meno possibile, risultando per giunta assolutamente sicuro ed ecologico, e al quale non ci si affeziona più di tanto. E i colossi dell’auto non saranno più imperi industriali dai confini rigidamente determinati e ordinati gerarchicamente, ma potranno assomigliare a coalizioni flessibili, spesso legate a singoli progetti, attorno a nuclei centrali di eccellenza tecnologica e organizzativa. Al di là di questi effetti di lungo periodo, l’onda d’urto della General Motors che affonda non potrà non lasciare la sua impronta negativa sulla già difficile congiuntura americana. Pur nella sua attuale fase terminale, la società di Detroit (che è scesa in America a una quota di mercato inferiore al 20%, invece del suo tradizionale 40-50%) conta più di 250 mila dipendenti e nel 2008 ha prodotto 8 milioni di autoveicoli con 14 marchi diversi in otto Paesi, totalizzando un fatturato di quasi 150 miliardi di dollari; al suo fondo pensioni sono iscritte quasi mezzo milione di persone che dipendono da General Motors non solo per il loro reddito mensile ma anche per l’assistenza sanitaria. Nel 2008 ciò che ha venduto a 100 le è costato 120. La chiusura di ulteriori impianti e un difficile periodo post-fallimentare si riverberano su quasi ogni comparto dell’economia americana. Per la rinascita di quest’economia, alla quale tutto il mondo guarda con attenzione e con ansia, occorre partire - e non solo con formule finanziarie - con un progetto di industria, economia e società. Di un simile progetto per ora non si vedono molti segnali. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Statistiche per la fiducia perduta Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:32:43 pm 6/6/2009
Statistiche per la fiducia perduta MARIO DEAGLIO Fino a tempi recentissimi nessun presidente del Consiglio si sarebbe permesso di contestare le informazioni statistico-economiche fornite dal governatore della Banca Centrale. E di affermare che non corrispondono alla «conoscenza della realtà» del presidente stesso e che quindi implicitamente sono errate. Il dato statistico prodotto da fonti ufficiali era sacro, super partes, indiscutibile; e un contrasto istituzionale sui dati, o sulle elaborazioni di questi dati, sarebbe stato impensabile. Tra i tanti segnali dell’imbarbarimento in atto, uno dei più importanti e dei più trascurati riguarda le statistiche: da un lato sempre più difficili da produrre, dall’altro sempre più deformate e stiracchiate, sempre meno analizzate nel dettaglio. Si tratta di un fenomeno che investe tutta l’economia globale: basti pensare che la crisi attuale ha rivelato l'esistenza di enormi flussi finanziari pressoché sconosciuti alle autorità che dovrebbero controllarli. Per restare in Italia, le organizzazioni dei consumatori rifiutano i dati dell’Istat sull’inflazione e, per qualche tempo, hanno perfino cercato di produrre indici dei prezzi alternativi; il numero delle famiglie in povertà viene variamente misurato da diverse fonti; ci sono controversie sul numero degli abitanti relative alla stima degli immigrati clandestini; e perfino il numero dei morti è da considerare in discussione, dal momento che, secondo una «leggenda metropolitana», gli immigrati cinesi ufficialmente non muoiono mai perché chi muore viene fatto sparire e il suo documento di identità viene utilizzato da qualcun altro. Il fenomeno ha caratteristiche generali: sempre più spesso, quando una statistica non ci piace tendiamo a dire che non rispecchia la realtà. Per questo, la crisi può essere considerata dal presidente del Consiglio soprattutto come uno stato d’animo da curare con un’iniezione di ottimismo e dall’opposizione come un processo che sta spaccando la società italiana da curare con sostanziosi interventi economici. La perdita della fiducia condivisa nell’imparzialità e nella credibilità delle statistiche ufficiali ci sta privando rapidamente di un bene pubblico molto prezioso. In una società basata sui numeri, l’indiscutibilità delle statistiche ufficiali è uno dei fondamenti dell’accordo sociale che deve tener assieme il Paese. Metterle in discussione genera una crescente barbarie statistica nella quale il «valore notizia» di un dato passa largamente davanti alla sua affidabilità statistica. Invece di essere analizzate, le statistiche vengono banalizzate e sacrificate sull’altare del sensazionalismo. Le statistiche ufficiali sono la base della «realtà ufficiale»; e se un Paese non crede alla propria «realtà ufficiale», perde una parte importante di se stesso. Il suo conoscersi e riconoscersi, la sua stessa identità sono legati all’accettazione generalizzata delle statistiche nazionali e dei metodi di rilevazione. La perdita di questa dimensione della realtà è presente in misura minore anche in altri Paesi, ma il venir meno di quest’accettazione è uno degli aspetti più pericolosi dello sfilacciamento italiano. In luogo dei dati ufficiali ci costruiamo statistiche alternative, «sondaggi» e «previsioni» alle quali chiediamo di rassicurarci di un futuro radioso dietro l’angolo. La conoscenza oggettiva della realtà difficile e complessa delle economie delle società attuali sfuma rapidamente ed è possibile per tutti, a cominciare dai politici, costruirsi un Paese immaginario, pur basato sui numeri. Il fatto è che, purtroppo, i politici devono governare un Paese reale, del quale conoscono sempre meno e sempre peggio le misure. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La gelata sui sogni di ripresa Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 04:16:45 pm 16/6/2009
La gelata sui sogni di ripresa MARIO DEAGLIO All’inizio d’aprile, la primavera dell’economia mondiale sembrava davvero sul punto di sbocciare. Dopo il G-20 di Londra, analisti e commentatori hanno frugato tra statistiche di ogni genere alla ricerca di germogli che lasciassero presagire il ritorno di un radioso futuro. Ministri e commentatori non si sono stancati di ripetere che ormai il peggio era passato e che la ripresa era dietro l’angolo, anzi era già arrivata. A Londra, i governi di venti Paesi avevano posto il loro sigillo sul salvataggio delle grandi banche americane e inglesi (oltre ad alcune tedesche e olandesi) da parte dei rispettivi governi, mettendole tranquillamente a carico, mediante aiuti pubblici di dimensioni mai viste, dei contribuenti del futuro. Perché quindi continuare a preoccuparsi? Tempo qualche mese, i germogli sarebbero fioriti. Il salvataggio dei giganti bancari era forse un percorso inevitabile, se si accetta l’idea che alcune di queste banche erano troppo grandi per essere lasciate fallire, ma non altrettanto inevitabile era la conclusione che l’economia fosse pronta a ripartire, in quanto le banche salvate sono ora, nel migliore dei casi, convalescenti e fragilissime. Eppure le Borse di tutto il mondo si entusiasmarono all’idea e risalirono dai minimi; siccome partivano da livelli molto bassi, la salita sembrava molto alta. L’indice Dow Jones, una sorta di «termometro» del capitalismo finanziario, era sceso a fine marzo a quota 6500; ai primi di giugno aveva recuperato circa 2000 punti, con una crescita di quasi il 30%; eppure restava sotto di quasi il 30% alla quota 12 mila alla quale si trovava un anno fa. Il prezzo del petrolio è tornato a crescere, spinto quasi esclusivamente da una domanda finanziaria di tipo speculativo. Tutto questo sembra finito. Fin dai primi giorni di giugno, una serie di dati negativi provenienti dall’economia reale ha bruscamente gelato questa primavera finanziaria. E ieri le Borse europee hanno perduto pesantemente terreno; quella italiana è arretrata di oltre il 2,5%. L’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, disegna, giorno dopo giorno, il ritratto di un’Europa che non solo assomiglia sempre più agli Stati Uniti nella disoccupazione - con quasi due milioni di posti di lavoro perduti nei primi tre mesi di quest’anno - ma li batte ampiamente nella caduta produttiva. Nel primo trimestre del 2009 il prodotto lordo dell’Unione risultava inferiore di quasi il 5% rispetto al primo trimestre del 2008 mentre la produzione industriale europea di aprile era inferiore di circa il 20% a quella dell’aprile 2008. Dall’altro lato dell’Atlantico, la finanza non è affatto tranquilla, con ampi segnali di nervosismo sul debito pubblico americano, dopo che la domanda internazionale di titoli del Tesoro americano da parte di Cina, Giappone e Russia si è nettamente ridotta, proprio mentre gli Stati Uniti si apprestano a chiedere somme enormi in prestito sul mercato finanziario mondiale. Ancora una volta le istituzioni economiche hanno dato prova di non avere il polso delle economie che dovrebbero controllare e sono state costrette a una frettolosa marcia indietro rispetto ai loro precedenti accenni d’ottimismo. Il Fondo Monetario afferma che il peggio della crisi non è ancora superato e la ripresa americana diventerà «solida» solo di qui a un anno; il segretario al Tesoro americano, Geithner, come il suo predecessore Paulson, deve compiere autentiche acrobazie verbali per non dare messaggi negativi. E quindi sposta in avanti ancora una volta la sospirata data della «svolta» e aggiunge che la ripresa sarà lenta. Lo sforzo di dare sicurezza ai mercati con qualche forzatura mediatica sembra essersi infranto contro gli scogli di un’economia reale in ritirata per la quale non si sta facendo abbastanza. L’Italia è rimasta finora in una zona di relativa calma della tempesta mondiale, ma questo non è una garanzia per il futuro. Le «Note Regionali», frutto della nuova rete di rilevazioni e studi statistici, che la Banca d’Italia sta diffondendo in questi giorni, mostrano profonde debolezze strutturali, da tempo intuite ma mai così chiaramente messe in luce. La Campania ha il tasso di disoccupazione più elevato d’Europa e il calo produttivo del 2,8% «rappresenta un salto indietro di sette anni»; l’economia dell’Umbria nel 2008 «si è contratta in tutti i settori»; in Piemonte «l’urto della crisi potrebbe essere particolarmente significativo per le imprese in condizioni strutturali di fragilità finanziaria». Non si può dar torto al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che invoca misure incisive da attuarsi in cento giorni; perché questo sia possibile, le forze politiche dovrebbero spostare maggiormente la loro attenzione sull’economia, alquanto dimenticata per argomenti più immediati e forse più futili, rinunciando magari alle ferie estive. Il rischio sembra diffondersi in tutti i settori e riguarda soprattutto la fascia delle imprese medie che sono meno esposte di quelle grandi ai riflettori dell’attualità e i cui bilanci semestrali cominceranno ad arrivare in luglio. Qualche forma di garanzia che non ricada direttamente sulle finanze dello Stato ma che veda in primo piano, tra gli altri, la Cassa Depositi e Prestiti, può oggi ancora risultare efficace e stimolare un’adeguata risposta tra le banche. Tra cento giorni, potrebbe non esserlo più. Il pericolo che i germogli di ripresa (per la verità assai pochi nel nostro Paese) possano essere tutti uccisi dall’attuale ondata di gelo è molto più reale di quanto normalmente si crede. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La salvezza dell'Africa è anche un buon affare Inserito da: Admin - Luglio 05, 2009, 10:53:06 am 5/7/2009 (7:51) - VERSO IL G8
La salvezza dell'Africa è anche un buon affare L'economista: serve una combinazione di commercio e aiuti MARIO DEAGLIO Prendete una carta geografica sulla quale siano rappresentate l’Europa e l’Africa e rovesciatela. Con l’Africa in alto e l’Europa in basso, i due continenti acquistano un profilo assai poco familiare: la sterminata massa africana sembra quasi schiacciare un’Europa striminzita. Questo rovesciamento non è una stranezza ma il tentativo di uscire dalla nostra gabbia concettuale che, quasi «naturalmente», colloca l’Europa in alto e l’Africa in basso. Con la carta girata così, è più facile rendersi conto di che cosa significa che gli africani siano circa novecento milioni e diventeranno quasi due miliardi nel giro di qualche decennio, mentre gli europei rimarranno all’incirca cinquecento milioni. A questo punto non è neppure necessario un (auspicabilissimo) senso di solidarietà umana per concludere che non è nell’interesse dell’Europa ignorare un vicino di casa così grosso, così giovane, così privo di tutto. Se agli africani viene negata la prospettiva di raggiungere un livello di vita ragionevole, la «fortezza Europa» con la sua vecchia popolazione e la sua antica ricchezza non può resistere all’onda d’urto di un’Africa giovane, povera e disperata. Molti lettori saranno sicuramente d’accordo ma si chiederanno che cosa è possibile fare. Il pensiero economico dell’ultimo mezzo secolo ha messo a punto due ricette, spesso considerate, probabilmente a torto, alternative. La prima va sotto il nome di «trade» (commercio), la seconda sotto il nome di «aid» (aiuto). La ricetta commerciale richiede l’abolizione delle barriere doganali e in questo Europa e Stati Uniti hanno mostrato una buona dose d’ipocrisia. Apparentemente il commercio internazionale è molto più libero perché i dazi doganali sono diminuiti; i dazi, però, sono spesso stati sostituiti da altre, forse più impenetrabili, barriere, in particolare da sussidi ai produttori. Il sussidio americano a circa 150 mila coltivatori di cotone consente a questi ultimi di praticare, a spese dei contribuenti, prezzi così bassi da mettere fuori mercato, e, in pratica, condannare alla povertà, milioni di produttori africani di cotone. Ancora: è molto facile per gli africani vendere in Europa e in America il loro caffè verde e il loro cacao, assai meno facile – per una serie di dazi specifici e di normative tecniche – vendere il caffè tostato e il cioccolato. L’apertura commerciale ai Paesi poveri ha un costo per l’agricoltura dei Paesi ricchi. Se importati liberamente, vino sudafricano, riso egiziano e olio d’oliva magrebino, a esempio, con i loro bassi prezzi riducono lo spazio per gli analoghi prodotti dell’agricoltura europea. Gli agricoltori europei vanno sostenuti non perché possano abbassare i prezzi ma perché diversifichino la loro produzione. Nel lungo periodo, gli africani, diventati meno poveri, «ripagheranno» acquistando una maggiore quantità di prodotti europei. Anche la seconda ricetta, quella degli aiuti, dev’essere aggiornata. Troppo spesso europei e americani sono andati in Africa pensando di di avere in tasca la formula sicura della crescita economica. Questa forma di colonialismo culturale ha fatto soprattutto disastri ed è necessaria un’iniezione d’umiltà: abbiamo relativamente poco da insegnare e molto da imparare assieme agli africani. Occorre quindi un «mix» di nuove aperture commerciali e nuove forme di aiuti. Se l’Africa raggiungerà così un ragionevole livello di benessere, gli imprenditori e i consumatori africani non saranno semplicemente la copia degli europei o degli americani. Come mostrano le esperienze della Cina e dell’India, daranno origine a varianti autonome del sistema attuale. Aspettiamoci perciò una variante africana che potrebbe essere legata a una particolare dimensione familiare anziché all’individualismo esasperato. Come ha scritto Visay Mahajan, professore di Business all’Università del Texas in Africa Rising, un libro che finalmente fornisce una visione positiva di questo continente, l’Africa è ben di più di un’occasione per aiuti umanitari, è un’opportunità di mercato. Ma il mercato globale con novecento milioni di africani in più sarà un mercato diverso da quello di oggi e – possiamo sommessamente sperare – anche un mercato migliore. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Lo sciame sismico della crisi Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 10:24:35 pm 9/7/2009
Lo sciame sismico della crisi MARIO DEAGLIO Un documento ad amplissimo raggio, frutto di mesi di lavoro delle maggiori diplomazie mondiali e approvato rapidamente dai vertici del G-8; un impegno, solenne ma generico, a risolvere pressoché tutti i problemi del pianeta, dall’inquinamento alla povertà. Buone parole, senza dubbio pronunciate con più determinazione del passato, che lasciano spazio a maggiori speranze; per il momento, però, solo buone, bene auguranti parole. Intanto il Fondo Monetario continua nel valzer delle previsioni con cifre che, come le precedenti, saranno cambiate di qui a pochi mesi o a poche settimane e che mostrano semplicemente che la ripresa, che si spera arrivi presto, è comunque spostata un po’ più in là, al 2010. C’è qualcosa di un po’ irreale in ogni riunione del G8 ma particolarmente in questa che vede i leader delle maggiori potenze del pianeta riuniti a convegno in una città in cui la terra non smette di tremare per parlare di un’economia globale che non smette di sobbalzare. Questi sussulti paralleli accentuano una sensazione generale di incertezza e proprio l’incertezza economica globale costituisce, nei suoi vari aspetti, la nota unificante del vertice dell’Aquila. Il primo aspetto dell’incertezza economica riguarda naturalmente la congiuntura. Lo «sciame sismico» del grande terremoto produttivo - che nel periodo ottobre-marzo ha fatto aumentare di oltre quindici milioni il totale dei disoccupati dei paesi ricchi - è ben lontano dalla fine. I geologi avevano previsto che all’Aquila la terra avrebbe continuato a tremare per molti mesi; il Fondo Monetario e le altre organizzazioni internazionali avevano formulato previsioni molto più ottimistiche per l’economia che hanno dovuto essere duramente riviste al ribasso e vengono ora ritoccate. Ora sappiamo che l’economia continuerà a tremare per parecchio tempo e la ripresa sarà più lontana, meno rapida, più incerta. E che il mondo sarà diverso. Le istituzioni internazionali e quelle americane non hanno saputo prevenire la crisi, limitarne la diffusione, prevederne gli effetti secondari. I recenti salvataggi pubblici hanno richiesto somme gigantesche e concentrato sulla Banca Centrale americana buona parte del rischio normalmente diffuso nel sistema finanziario degli Stati Uniti. Non è quindi concepibile che tutto continui come prima. Gli Stati Uniti oggi importano ogni giorno merci e servizi dal resto del mondo per due miliardi di dollari in più di quante ne esportano e il resto del mondo fa loro credito. Questa situazione va radicalmente corretta, anche se in maniera graduale, per evitare un nuovo e peggiore collasso che non sarebbe nell’interesse di nessuno. La crisi non potrà quindi essere archiviata come un semplice sussulto ma segna la fine di un indiscusso primato monetario-finanziario americano che durava al termine della seconda guerra mondiale. Dovrà portare a una diversa organizzazione economico-monetaria mondiale e la natura di quest’organizzazione è il secondo aspetto dell’incertezza economica che caratterizza il G8 dell’Aquila, al di là dei comunicati. Gli Stati Uniti devono trovare un accordo con i loro creditori (principalmente cinesi, giapponesi, coreani e altri asiatici); e in particolare con la Cina. L’accordo dovrà garantire che chi detiene riserve in dollari non le smobiliti, ma anzi che, per scongiurare un ulteriore collasso, continui a investire nella valuta americana almeno una parte di eventuali nuove riserve, nel quadro di un’ordinata transizione in cui il potere degli attuali paesi ricchi deve attutirsi e stemperarsi. Anche se l’Aquila sarà solo una tappa di questo processo, il dollaro sarà affiancato da altre monete internazionali e potrebbe diventare esso stesso una parte - per il momento la più importante - di una nuova unità di conto internazionale nella quale potrebbero essere espressi i prezzi di molte materie prime, a cominciare dal petrolio. Il governo italiano ha promesso di dare ai terremotati dell’Aquila un tetto sopra la testa nel giro di pochi mesi. Nessuno può fare, in maniera credibile, simili promesse per l’economia mondiale, e in particolare nessuno sa in quanto tempo chi ha perso il lavoro a seguito della crisi (e, purtroppo bisogna dirlo, chi lo perderà nei mesi prossimi) sarà in grado di recuperarlo. L’inizio della ripresa slitta sempre un po’ più in là e ora per gran parte dell’Europa si parla dell’estate prossima; per conseguenza, il tempo per recuperare i livelli di occupazione precedenti al settembre 2008 si misurano, nel migliore dei casi, in un paio d’anni. Per conseguenza sarebbe un illuso chi ancora sognasse una ripresa indolore, che avesse inizio tra pochi giorni, quando i leader lasceranno L’Aquila tra sventolii di bandiere e discorsi d’addio. Con la fine del vertice avrà inizio un duro periodo di negoziazioni e di trattative, la cui prossima tappa, ben difficilmente definitiva, sarà la riunione annuale di settembre del Fondo Monetario Internazionale che si tiene a Washington. La ripresa avrà bisogno di un edificio finanziario internazionale ben diverso da quello di oggi, solcato dalle crepe e pericolante che dovrà essere, almeno in parte, abbattuto e ricostruito. Sarà un gran risultato del G8 dell’Aquila se su questo abbattimento e questa ricostruzione si raggiungerà, senza troppi litigi, un accordo di massima; e se anche l’economia, come il terreno dell’Aquila, smetterà di tremare, ci vorrà del tempo prima che le macerie del vecchio sistema economico mondiale vengano rimosse e le istituzioni finanziarie internazionali vengano ricostruite. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. E ora il processo al sistema Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 07:47:50 pm 30/6/2009
E ora il processo al sistema MARIO DEAGLIO Chiaro. Limpido. Indiscutibile. Un truffatore perfido, uomo di successo, con una faccia da attore di successo. Una condanna colossale, 150 anni di galera, assurdi a orecchi europei, per una truffa colossale, assurda anch'essa nella sua semplicità con cui sono stati gabbati per decenni alcuni tra i più preparati investitori del mondo, le autorità di vigilanza, gli analisti, i guru, i media, i controllori, molte banche. Un giudice che parla di crimine diabolico e un imputato-diavolo che faceva il benefattore, era membro dei consigli di numerose istituzioni benefiche. E viene denunciato dai figli, terrorizzati dall’entità della frode. Quest’imputato-diavolo chiede il permesso di essere presente - impassibile - alla lettura della sentenza in camicia bianca, giacca e cravatta che, per il duro regolamento del carcere in cui sarà rinchiuso, probabilmente non indosserà mai più, o meglio indosserà tra 150 anni. Ex ricchi che si mettono a piangere, pubblico che applaude, un imprigionamento che diventa un atto liberatorio per un’America che vuole condannare, ripartire, dimenticare e continuare a fare finanza. Fine del discorso. Fine della scena. Seconda scena in Italia. È fin troppo plateale il confronto tra una giustizia americana che ti scova il malfattore l’11 dicembre, lo rimanda agli arresti domiciliari dietro una cauzione gigantesca, lo riarresta in gennaio, imbastisce il processo in febbraio-marzo e te lo condanna con tutte le cerimonie, praticamente in maniera definitiva, il 29 giugno. Nessuna scarcerazione in attesa di gradi ulteriori di giudizio, dei quali, d’altra parte, ci sono pochissime possibilità; nessuna ricusazione di giudici, nessuna lotta per arrivare all’archiviazione per decorrenza dei termini. Nessun affidamento ai servizi sociali, nessun occhio di riguardo perché l’imputato ha più di settant’anni. Prevedibili dichiarazioni di politici. Di giudici. Di esperti. Forse accordo sulla necessità di riforma per i crimini economici. Chissà, magari qualche progetto di legge; è persino possibile l’istituzione di una commissione parlamentare. Fine della scena. Ebbene, né l’una né l’altra scena sono soddisfacenti. I 150 anni di condanna non possono sostituire 150 o più processi o indagini non ancora partiti su come è stato possibile tutto ciò; su come venivano fatti i controlli; sul perché nessuno abbia dato retta a Harry Markopolos, un esperto che dieci anni fa si era rivolto alle autorità di controllo perché persuaso che fosse matematicamente impossibile che le società di Madoff realizzassero i profitti che dichiaravano di realizzare; sul perché per questi dieci anni uomini finanziariamente astutissimi (Madoff si è rifiutato di fare qualsiasi nome) sulle due rive dell’Atlantico continuassero a consegnargli un fiume di denaro. Spente le luci sul processo, molti interrogativi restano. La distanza tra Stati Uniti e Italia rimane altissima, ma non è che oltre Atlantico tutto sia chiarissimo. La scena si deve spostare in avanti. Magari all’Aquila, al G8, visto che tutto ormai sembra rotolare verso questo vertice al di fuori del normale in un anno economicamente al di fuori del normale. Potrebbe essere questa la sede buona per affrontare una volta per tutte il problema dei mercati finanziari; che è poi il problema di quanti Madoff siano in attività nel mondo e di quanti possano sorgere in futuro. Se c’è una cosa che il caso Madoff mette in luce, è l’inutilità di controlli nazionali - e anche di sistemi giudiziari nazionali per crimini economici legati ai circuiti finanziari globali - e la necessità di un loro rapido superamento in favore di un'autorità internazionale di controllo. Che possa ficcare il naso nei libri contabili e fare domande di ogni tipo, in ogni Paese del mondo. Che gli americani hanno sempre avversato e che forse oggi avverserebbero un po’ meno. Madoff, insomma, deve essere un punto di partenza, non un punto d’arrivo. Non dimenticato fino a quando defungerà come il prigioniero matricola 61727-054 del Metropolitan Correction Center di New York in cui è detenuto, ma sempre presente nelle prossime mosse dei procuratori di giustizia. Si potrebbe anche suggerire che chi si occupa di crimini economici si tenga sempre una foto di Madoff sulla scrivania o appesa sul muro dell’ufficio. Per ricordargli che deve capire davvero come ha fatto; per convincere collaboratori e vittime a raccontare tutto. Per evitare che si faccia un processo, per quanto sacrosanto, a una persona anziché un'indagine a tappeto, sicuramente necessaria, sul funzionamento di un sistema. da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Per uscire indenni Inserito da: Admin - Luglio 24, 2009, 08:00:49 pm 24/7/2009
Per uscire indenni MARIO DEAGLIO Mentre si apprestano a partire per ferie un po’ più brevi e un po’ più ansiose di quelle del passato, molti italiani si stanno indubbiamente chiedendo a che punto siamo con la crisi. Sta davvero passando, come si sente dire con fiducia da più parti, oppure il peggio deve ancora venire come continua ostinatamente a ripetere qualche pessimista? La risposta onesta è che non lo sappiamo. I tempi e l’intensità delle reazioni degli attuali sistemi economici - nei quali dall’industria deriva solo un quinto del prodotto totale, mentre quasi tutto il resto è «produzione invisibile», sempre più effettuata e fruita istantaneamente con supporti elettronici - sono molto diversi da quelli del passato e gli economisti sono come dei medici che stanno visitando un paziente nuovo o, quanto meno, un paziente che è molto cresciuto dall’ultima visita. Per conseguenza, nessuno aveva previsto una caduta così forte della produzione dei paesi ricchi tra l’ottobre 2008 e il marzo 2009, nessuno dispone di sufficienti argomenti per poter affermare con certezza come e quando verrà innescato il meccanismo della ripresa e bisognerebbe essere molto più cauti circa la sospirata data di una ripresa troppe volte rinviata. A livello mondiale le uniche cose certe sono che la Cina, l’India e il Brasile sono colpiti dalla crisi in maniera leggera; che gli interventi di salvataggio delle grandi banche e società finanziarie americane (e di non poche europee) si sono rivelati efficaci nell’immediato ma hanno trasferito il rischio sulle banche centrali, specie sulla Fed americana, che ora devono impegnarsi per mantenere la propria credibilità; che, anche in conseguenza di ciò, il dollaro è strutturalmente debole e, soprattutto in Asia, comincia a essere sostituito da altre monete in alcune transazioni commerciali. I tentativi di rilancio implicano un consistente indebitamento aggiuntivo da parte dei governi dei principali Paesi con rischi di una risalita dei tassi di interesse (che «ammazzerebbe» la ripresa) o di pressioni inflazionistiche (che «ammazzerebbero» il debito pubblico mondiale, ossia ne ridurrebbero il valore). Tra questi due opposti pericoli, governi e banche centrali devono navigare senza bussola e inviano all’opinione pubblica una serie di messaggi, dal tono tra il preoccupato e il rassicurante, che assomiglia a una doccia scozzese. Sappiamo ancora che la scintilla della ripresa globale ben difficilmente deriverà da un’improvvisa risalita dei consumi americani, che hanno trainato per decenni l’espansione mondiale, in quanto le famiglie americane sono fortemente indebitate e un loro significativo ulteriore indebitamento appare estremamente difficile; non verrà, se non in piccola parte, dalla domanda cinese, pure in crescita, a soddisfare la quale contribuiranno soprattutto le imprese cinesi o di altri paesi asiatici. L’altro pilastro su cui provare a costruire un’espansione produttiva è rappresentato dai grandiosi piani di investimento dell’amministrazione Obama ma, come sempre succede per la spesa pubblica, questi piani richiedono molto tempo per partire. In questa situazione difficile ci saranno naturalmente miglioramenti nei conti di buona parte delle istituzioni finanziarie americane, alleggerite dai titoli tossici grazie agli aiuti pubblici ma è difficile che questo miglioramento, oltre a provocare l’attuale modesta euforia delle Borse, si estenda all’economia nel suo complesso. Ci potranno essere segni di alleggerimento delle cadute produttive dei trimestri passati ma chi immagina che tutto sia tornato come prima solo perché la produzione di qualche settore cade di meno o accenna a un piccolo rimbalzo fa lo stesso errore di chi ritiene il paziente guarito solo perché ha la febbre a trentanove anziché a quaranta. In questo contesto, l’Italia presenta un’anomalia positiva, derivante dalla situazione finanziaria delle famiglie, dotate di patrimoni mediamente molto superiori a quelli delle famiglie di altri paesi tali da controbilanciare il pesantissimo debito pubblico italiano. Certo, aumentando le loro spese, le famiglie sarebbero in grado di contrastare gli elementi negativi della congiuntura ma sull’economia italiana pesa come un macigno la contrazione della domanda estera, stimata attorno al venti per cento. Se si pensa che le esportazioni rappresentano all’incirca il venti per cento della produzione italiana, si deve concludere che dall’estero deriverà una spinta alla contrazione del prodotto pari a circa il quattro per cento. A contrastare una simile spinta non basta l’(eventuale) buonumore dei consumatori. Invece che da misure generali, un contrasto di qualche efficacia alla crisi potrà derivare da misure specifiche che pongano un rimedio, almeno temporaneo, ad alcune debolezze strutturali italiane. Il tessuto dell’economia avrà giovamento dall’accelerazione dei pagamenti relativi agli acquisti pubblici, da sempre in grave ritardo, sempre che si riesca tecnicamente a realizzarla; e il credito bancario a quell’ampio settore di piccole e medie imprese la cui situazione di rischio si è deteriorata potrà essere mantenuto se si troverà il modo di fornire alle banche qualche forma di garanzia da parte del settore pubblico, a esempio mediante la Cassa Depositi e Prestiti. I pochi soldi che l’Italia, con il suo fortissimo debito pubblico, potrà mettere in campo dovrebbero andare in queste direzioni. In definitiva, non dobbiamo illuderci di poter uscire indenni da una crisi mondiale di questa portata che non è ancora stata veramente avviata a soluzione ma qualche carta da giocare l’abbiamo. E soprattutto, invece di cercare di esorcizzare la crisi, di chiudere gli occhi sperando che vada via, dovremo attrezzarci per gestirla al meglio, come occasione per correggere le storture di una lunga stagione di non crescita. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Chiudere gli occhi non basta più Inserito da: Admin - Agosto 06, 2009, 03:41:44 pm 6/8/2009
Chiudere gli occhi non basta più MARIO DEAGLIO Alle nazioni come agli individui succede spesso di chiudere gli occhi di fronte a un problema nella speranza che il problema scompaia, e di riaprirli per trovarlo irrisolto e ingigantito. Così ha fatto l’Italia con la questione meridionale: per quindici anni il Paese l’ha sostanzialmente rimossa, nella speranza che, grazie al mercato e alla globalizzazione, il problema dell’arretratezza del Mezzogiorno si risolvesse da solo. Ora che la crisi finanziaria ha dimostrato che mercato e globalizzazione non fanno miracoli, l’Italia scopre che la questione meridionale non è scomparsa ma si è, anzi, aggravata; che il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno nei redditi per abitante (e in quasi tutti gli altri aspetti della qualità della vita) è ai livelli massimi da almeno trent’anni, con la tendenza a crescere ancora; che, per quanto riguarda una vasta gamma di indicatori economici e sociali, il Mezzogiorno è stato superato o sta per esserlo da quasi tutti i Paesi dell’Europa mediterranea. Ma anche da un buon numero di Paesi dell’Europa centro-orientale diventando l’«ultimo della classe» nell’Unione Europea. Di fronte alla nuova virulenza di questo male grave e antico dell’Italia, la classe politica italiana sembra capace di proporre soltanto rimedi già sperimentati e di provata inefficacia. Si punta infatti su infrastrutture, intese più come stimolo produttivo nel momento della costruzione che come strumento di crescita nel lungo periodo; sulla spesa pubblica più per assorbire disoccupati che per rimuovere arretratezze strutturali; su una Banca del Sud, idea senz’altro lodevole, che rischia però di diventare una seconda Cassa del Mezzogiorno, ossia un veicolo di nuovi finanziamenti a pioggia con scarsa attenzione alla redditività. E intanto il Mezzogiorno rimane pieno di strade non completate che non portano da nessuna parte - triste metafora della sua condizione generale -, di dighe prive dei necessari allacciamenti idrici, di ospedali costruiti con sabbia al posto del cemento, come nel caso di Agrigento che movimenta le cronache di questi giorni; l’immondizia delle sue città viene accantonata da qualche parte per il ritardo nelle tecnologie di smaltimento, con la minaccia latente, come nel caso di Palermo, che venga lasciata marcire nelle strade; i suoi boschi vengono dati alle fiamme da «piromani» che distruggono un patrimonio secolare spesso con la speranza di essere pagati cifre modeste per spegnere i roghi da loro stessi appiccati. In questi aspetti patologici, Campania, Calabria e Sicilia si distinguono per la gravità della loro situazione. Non fa meraviglia la riluttanza crescente del Nord nel convogliare nuove risorse (e quindi nel pagare imposte sensibilmente più alte di quelle del resto d’Europa) per un progetto non chiaro di crescita che non offre alcuna speranza di un rapido decollo. Per uscire da questa situazione, che rende sempre più difficile parlare di un «sistema economico italiano», non bastano le ricette degli studiosi o i programmi, largamente carenti, dei politici. Il vero ingrediente mancante è il coinvolgimento dei meridionali e non servono partiti nuovi, espressione di una classe politica vecchia che ha difficoltà a gestire le risorse in funzione della crescita. Cari meridionali, potrebbero legittimamente dire gli altri italiani, non limitatevi a constatare che nel Mezzogiorno c’è molta povertà e molta disoccupazione e a chiedere che «lo Stato provveda»; individuate le carenze non dell’intervento pubblico ma di un sistema politico-sociale che ha finora reso vano, in termini di sviluppo e crescita economica relativa, qualsiasi intervento pubblico. Sta prima di tutto agli abitanti del Mezzogiorno delineare come dovrebbe essere il Mezzogiorno nei prossimi vent’anni. La prospettiva di una crescita trainata dall’industria tradizionale dovrebbe essere ormai tramontata, visto che l’industria tradizionale conta sempre meno nella produzione di ricchezza delle economie avanzate, eppure gran parte delle richieste riguarda precisamente l’apertura - o la non chiusura - di «fabbriche». La prospettiva turistica può rappresentare almeno una parte della risposta al problema, e lo stesso si può dire per certe produzioni agricole e per certe «nicchie» artigianali da reinterpretare in senso moderno, ma i progetti, talora coraggiosi e promettenti, naufragano regolarmente nelle pastoie di una burocrazia insensata. La strada dell’alta tecnologia pare la più allettante ma richiede forti investimenti in capitale umano, in marcato contrasto con la perdurante debolezza delle università meridionali, alimentate da un sistema scolastico con altissimi tassi di abbandono, i cui diplomati mostrano un livello di preparazione sempre più lontano non solo dai livelli europei ma anche da quelli raggiunti da numerosi Paesi emergenti. E’ tempo, quindi, di un vero dibattito sul Mezzogiorno, incentrato sulle compatibilità economiche in tempi lunghi e tale da coinvolgere non solo la classe politica ma la società civile meridionale. In assenza di tale dibattito si continua a privilegiare «il mattone», ossia la costruzione di infrastrutture, e a vagheggiare di «una banca». Da almeno un secolo il binomio mattone-banca si è rivelato inadatto al decollo del Mezzogiorno ed è difficile che rappresenti la soluzione ideale nel mondo tecnologico di oggi; così come il decollo è difficile quando l’ufficio stampa di una Regione meridionale occupa più persone di un centro di ricerca e quando un usciere della stessa Regione è pagato di più di un ricercatore universitario. I contributi esterni non possono essere risolutivi se il Mezzogiorno non prende in mano il proprio destino; se non lo fa, nonostante nuovi partiti e (forse) nuovi fondi, il suo allontanamento dal resto d’Italia è destinato ad aggravarsi. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il pericolo delle illusioni Inserito da: Admin - Agosto 22, 2009, 11:24:53 am 22/8/2009
Il pericolo delle illusioni MARIO DEAGLIO La Borsa sale del 2-3 per cento? Evviva, la crisi è finita! La Borsa scende del 2-3 per cento? Orrore, la crisi continua! Le (abbastanza normali) convulsioni agostane dei mercati finanziari sono state semplicisticamente adottate da numerosi analisti e mezzi di informazione di molti Paesi avanzati quale unico, o largamente prevalente, indicatore di un fenomeno molto complesso, con risvolti che vanno al di là dell’economia, com’è, appunto, la crisi che stiamo vivendo. All’ansia di trovare nell’andamento di Borsa un unico, facile «termometro», si accompagna la tendenza a leggerlo in maniera semplicistica e distorta pur di ottenere il sospirato responso di esserci liberati della crisi. In realtà, i «termometri» dovrebbero essere molti e se si guarda all’economia reale si trovano, per ora, segnali piuttosto contrastanti rispetto agli incrementi dei listini degli ultimi giorni. Nell’esame delle Borse si rischia poi di cadere in quella che potrebbe essere definita l’«illusione aritmetica»: immaginiamo che, prima della crisi, un indice di Borsa valga 100 e poi perda il cinquanta per cento del suo valore, precipitando a quota 50. Immaginiamo poi che, a questo punto, risalga del 50 per cento raggiungendo quota 75. Il tripudio sarà generale ma solo parzialmente giustificato perché il nostro indice è ancora inferiore del 25 per cento al valore precedente la crisi. La stessa «illusione aritmetica» traspare da numerosi commenti su produzione industriale, prodotto lordo e moltissimi altri indicatori economici. Essa rischia di portarci a stappare la bottiglia molto prima del tempo. In realtà potremo farlo solo quando non solo ci saranno stabili aumenti sui periodi immediatamente precedenti (variazioni congiunturali positive) ma anche aumenti rispetto ai livello pre-crisi (variazioni tendenziali positive). Se ci liberiamo dall’«illusione aritmetica» dobbiamo constatare che, almeno per quanto riguarda l’economia reale, non solo non siamo ancora usciti dalla crisi ma che non abbiamo ancora neppure cominciato a uscirne. E solo quando disporremo dei dati di settembre-ottobre potremo capire se questo processo di uscita è stato davvero avviato. Per ora i dati americani sono incerti, con qualche accenno positivo e uno sforzo di vedere una luce in fondo al tunnel, manifestata nel discorso di ieri del governatore Bernanke, che deve ancora essere pienamente confermata dai fatti; quelli francesi e tedeschi (molto) debolmente positivi; quelli giapponesi assai dubbi (il Paese ha avuto sei o sette «false partenze» negli ultimi quindici anni); quelli cinesi enigmatici anche per le notizie di un crescente disagio sociale. E l’Italia? Occorre dire tranquillamente una verità scomoda: non è vero che, dal punto di vista esclusivamente produttivo, il Bel Paese stia sopportando meglio degli altri i colpi della crisi. Le cadute degli indici italiani di produzione sono tra le più marcate di tutti i paesi avanzati e l’Italia si salva grazie alla sua flessibilità sociale, alle varie reti di solidarietà, a cominciare da quella famigliare, e probabilmente anche perché una parte della produzione ufficialmente perduta viene in realtà «sommersa»: quando gli affari non vanno bene, un gran numero di piccole e piccolissime imprese sono tentate di farsi pagare parzialmente in nero e di pagare parzialmente in nero i propri dipendenti. La perdita ufficiale di produzione è così superiore alla realtà, ma non c’è da rallegrarsene: queste distorsioni salvano l’Italia dalle sofferenze più evidenti ma ne impediscono o rallentano la crescita. Lo dimostra il fatto che sono circa quindici anni che l’Italia si limita a galleggiare e viene lasciata indietro dagli altri paesi avanzati. Le conclusioni che se ne possono trarre sono che non si esce da questa crisi con poche giornate di (dubbio) sole in Borsa e che tali giornate devono essere confermate da qualche mese di sereno nei tradizionali comparti produttivi; che le analisi devono essere meno immediate e più complete; e che in ogni caso il raggiungimento dei livelli pre-crisi non sarà rapido. Se, come appare da numerose analisi di settore, in molti Paesi, tra cui l’Italia, la risalita dei consumi comincerà solo nel 2010, tale raggiungimento non può essere previsto nello stesso 2010 ma deve essere spostato al 2011 o forse a un anno successivo. In queste condizioni diventa ogni giorno più illusorio pensare che tutto possa tornare «come prima». Necessariamente cambieranno sia le strutture produttive sia la distribuzione dei redditi e dovranno essere rivisti meccanismi fiscali e ombrelli sociali: che lo vogliamo o no, la crisi è un importante laboratorio economico-sociale, forse anche politico. Alla vigilia di un rientro dalle ferie che - come ha ricordato recentemente, tra gli altri, la presidente di Confindustria - si preannuncia difficile e problematico, occorre trovare l’energia di progettare il dopo-crisi invece di limitarsi a subirlo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Le banche non devono essere buone Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:32:44 am 9/9/2009
Le banche non devono essere buone MARIO DEAGLIO A sentire le loro dichiarazioni sulle responsabilità delle banche nella crisi, si potrebbe pensare che Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi non appartengano allo stesso governo. Domenica a Cernobbio Tremonti - che ha anche puntato il dito contro i banchieri a livello mondiale, addossando loro la responsabilità principale della crisi - ha accusato, con notevole pesantezza, i banchieri nazionali di non fare gli interessi del Paese, tra l’altro per la loro riluttanza a sottoscrivere i cosiddetti «Tremonti bonds». Una forma di finanziamento pensata per i salvataggi delle imprese che, nelle mutate condizioni di oggi, può risultare relativamente cara e poco maneggevole. Ieri a Milano, Berlusconi ha invece preso una posizione diametralmente opposta, asserendo che non si può dare la croce addosso ai banchieri, che «solo una percentuale minima di imprese non ha ricevuto risposte dal nostro sistema bancario» e che, poiché si utilizzano i soldi dei risparmiatori, non bisogna fare del «cattivo credito». Più che una vera e propria spaccatura, contrasti d’opinione così plateali segnalano sicuramente una certa confusione di idee e l’assenza di riferimenti intellettuali forti sui quali impostare la strategia economica. Non si tratta di un problema soltanto italiano: in maniera più discreta, differenze non dissimili stanno venendo a galla, tra i governi e dentro i governi dei Paesi del G20, a due settimane dalla riunione di Pittsburgh. Questa riunione non dovrebbe limitarsi a raggiungere un faticoso accordo su qualche tecnicismo ma dovrebbe definire una linea comune nei rapporti tra mondo politico e finanza, essenziale per evitare il ripetersi di crisi distruttive. Non sembra che nessuno, compresi naturalmente Berlusconi e Tremonti, abbia idee precise su come ciò andrebbe fatto mentre tutti guardano con preoccupazione a un possibile ulteriore indebolimento dei consumi, soprattutto negli Stati Uniti, sotto il peso dell’aumento del numero dei senza lavoro. Il divario di opinioni tra Tremonti e Berlusconi va quindi interpretato, prima di tutto, come la variante italiana della confusione e della carenza mondiale delle idee su questo punto fondamentale. Vi sono però particolarità italiane che richiederebbero maggiore coordinamento a livello di governo e anche un maggiore apporto dell’opposizione. Mentre infatti negli altri Paesi ricchi, con pochissime eccezioni, gli Stati hanno relativamente poco debito mentre le famiglie sono relativamente molto indebitate, in Italia succede il contrario: lo Stato italiano è tra i più indebitati (in rapporto al prodotto interno lordo), mentre le famiglie italiane hanno pochi debiti e consistenti saldi attivi e le imprese (le cui finanze spesso non sono ben separate da quelle delle famiglie dei piccoli imprenditori) sono relativamente poco capitalizzate. Il mondo bancario italiano, che sarebbe arduo accusare di un forte profilo politico, almeno in anni recenti, si trova quindi sottoposto al tiro incrociato di tre diversi soggetti. In primo luogo un pubblico di risparmiatori, tradizionalmente abituati a un interesse reale relativamente elevato, derivante da impieghi considerati piuttosto sicuri: in secondo luogo le imprese con la loro richiesta che le banche siano «buone» nei loro riguardi per compensare un mondo che è diventato «cattivo»; e infine il governo che vorrebbe che le banche diventassero prima di tutto lo strumento di una politica economica di stabilizzazione che evitasse il collasso temuto di centinaia di migliaia di piccole imprese. Per conseguenza, oggi è facile additare alla pubblica esecrazione i banchieri dal cuore di pietra, che negano o riducono il fido alle imprese in difficoltà ma domani si tratterebbero in maniera molto più dura gli stessi banchieri se, essendo diventati troppo teneri, avessero perduto i soldi loro affidati dalla gente. In una situazione di rischio in aumento, trasferire - per di più a parità di costo - una parte di questo rischio dalle imprese alle banche con finanziamenti «di buon cuore» può compromettere una struttura bancaria complessivamente molto sana che rappresenta uno dei principali punti di forza del Paese per sostenere imprese sovente piuttosto malate. Se infatti si eccettuano alcuni casi singoli e importanti, sui quali dovrebbe essere fatta maggior luce, il sistema bancario italiano è soprattutto una (complessivamente buona) cinghia di trasmissione del risparmio delle famiglie, che viene indirizzato verso le imprese, lo Stato e i governi locali. Una cinghia di trasmissione non può generare impulsi duraturi di ripresa, il suo compito è quello di trasmetterli in modo rapido ed efficace. La sua efficienza può naturalmente migliorare ma gli impulsi devono nascere altrove. Un’azione determinata del governo per mettere a posto la propria tesoreria e pagare con maggiore celerità i propri fornitori avrebbe probabilmente effetti più incisivi di un credito che, magari con un’interpretazione «buonista» dei «Tremonti bonds», venisse distribuito a pioggia; e gli imprenditori italiani, dal canto loro, dovrebbero tener presente che la creatività, l’energia e la freschezza innovativa che li caratterizza a livello mondiale devono accompagnarsi a un altro tratto tipico delle imprese in ogni parte del mondo, ossia l’accettazione di una buona dose di rischio finanziario, senza la quale è difficile, al giorno d'oggi, fare molta strada. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il timoniere ha le mani legate Inserito da: Admin - Settembre 23, 2009, 06:00:44 pm 23/9/2009
Il timoniere ha le mani legate MARIO DEAGLIO In tempi non certo lontani, l’approvazione della manovra finanziaria era il momento culminante dell'attività ordinaria del nostro Parlamento. Lo occupava, letteralmente giorno e notte, con sedute interminabili, un susseguirsi di ostruzionismi, colpi di scena, «imboscate», dalla fine di settembre alla pausa natalizia; nobili programmi economici e meno nobili interessi di bottega si confrontavano e si scontravano in una vera e propria guerra a colpi di emendamenti fino alla vigilia di Natale quando i parlamentari esausti approvavano un documento quasi sempre molto diverso rispetto a quello originario e talora snaturato. Quella che viene presentata quest’anno è una Finanziaria più che dimezzata, il cui testo consiste di appena tre cartelle e il cui ammontare (3-4 miliardi di euro) è circa un quinto delle manovre tipiche di questi anni, una lieve correzione rispetto alla strategia approvata a luglio nel documento triennale che diventa il punto di riferimento della politica governativa. Il che è un bene perché indica una manovra più coerente, meno influenzata da interessi immediati delle categorie e dei poteri locali, di singoli parlamentari. Dietro a questo risultato positivo emerge però una situazione di relativa impotenza del governo. Il ministro dell’Economia è infatti come un timoniere con le mani legate: non può modificare la rotta - alla quale non mancano elementi di ragionevolezza - se non in qualche dettaglio. In primo luogo, non può proporre un aumento delle imposte ordinarie, se non in qualche nicchia, dal momento che tale aumento andrebbe contro non solo alla filosofia politica di questo governo ma anche, in un momento di crisi, alla logica economica. In secondo luogo, non può ricorrere ampiamente a nuovi debiti: è pressoché impossibile per l’Italia eccedere i livelli concordati in sede europea non tanto per un veto di Bruxelles, quanto perché sarebbe difficile raccogliere risorse finanziarie in grandi quantità sui mercati: l’Italia, che prima era uno dei principali emittenti di debito pubblico del mondo, è ora affiancata da Francia, Germania e Gran Bretagna, oltre che dagli Stati Uniti. Il mercato preferisce i titoli dei governi di questi Paesi, il cui debito attuale è molto più basso. Infine, se è difficile aumentare il debito pubblico è ancora più difficile tagliare la spesa pubblica. I governi del nuovo secolo hanno cominciato scaricando brutalmente il peso dei tagli sugli enti locali, lesinando loro le risorse; questo governo ha affrontato il problema dei costi dell’amministrazione statale ma forse comincia a rendersi conto che, anche se gli obiettivi di maggiore efficienza e minor costo non sono affatto irragionevoli - pur se presentati spesso in maniera inutilmente provocatoria dal ministro per la Pubblica Amministrazione - non possono certo essere realizzati con la velocità del fulmine. La macchina burocratica ha i suoi tempi fisiologici, anche quello per la riduzione dei costi, che si valutano in anni, non in mesi o trimestri. Il nostro timoniere non può quindi muovere il timone se non in maniera minima. E ricorre allora, non irragionevolmente, a manovre non convenzionali; agisce con imposte «una tantum» quali sono quella dello «scudo fiscale» e quella della regolarizzazione delle colf o ad azioni indirette che facilitano in vario modo la spesa delle famiglie, le quali, in un confronto internazionale, sono relativamente ricche e poco indebitate mentre lo Stato è relativamente povero e pieno di debiti. Ecco allora i bonus per l’acquisto di determinati beni di consumo e la detassazione permanente delle ristrutturazioni edilizie che avranno un’indubbia azione di stimolo sulla domanda interna. Sono tutte cose sensate. Nulla potranno, però, sulla domanda estera, con le esportazioni scese del 20 per cento, il che da solo implica una riduzione della produzione italiana di quattro punti percentuali. Il governo potrà forse sostenere i consumi interni e rilanciare qualche investimento; non sarà in grado di intervenire sulle cause esterne, predominanti, della caduta produttiva. Il governo potrà altresì tentare azioni indirette di rilancio «spendendo» la garanzia dello Stato nella speranza di non dover mai sopportare alcun esborso. Così di fronte a una crisi di nervi dell’opinione pubblica di fronte alla solidità delle banche, poco meno di un anno fa, l’estensione della garanzia pubblica sui depositi fu sufficiente a calmare gli animi. Qualcosa di analogo potrebbe essere realizzato con l’emissione di fideiussioni, o altre analoghe forme di sostegno, per imprese che hanno difficoltà ad accedere al credito bancario: in Francia, la Caisse des dépôts, sulla quale si è modellata la nostra Cassa Depositi e Prestiti, svolge una simile funzione. Si tratta, in ogni caso di azioni minori. Diciamolo francamente: di fronte ai quasi 400 mila posti di lavoro perduti nel secondo trimestre di quest’anno, il governo non ha cure efficaci, come del resto non ne ha alcuna forza politica, tanto che si prevede che l’emorragia di posti di lavoro continui. Il timoniere deve quindi rimanere fermo e aspettare che la tempesta passi, o meglio che i governi di altri Paesi riescano a farla passare. Lo stato di passività in cui si trova la politica economica italiana, con la sua incapacità a reagire agli stimoli negativi come fanno altri Paesi è il risultato di un lungo degrado dell’economia italiana, iniziato all'incirca quindici anni fa. La navicella Italia è lenta, segue la corrente e purtroppo è principalmente costretta a sperare nello «stellone» che ha spesso aiutato le vicende di questo Paese. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Più realismo per uscire dalla crisi Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 04:06:55 pm 2/10/2009
Più realismo per uscire dalla crisi MARIO DEAGLIO La recessione globale sta finendo» è il prudente titolo d’apertura del recentissimo Rapporto del Fondo Monetario sull’economia mondiale. Nella conferenza stampa di presentazione di Olivier Blanchard, capo economista dello stesso Fondo Monetario, il messaggio diventa un po’ meno prudente: «La ripresa è già cominciata». Esperti, governi e organizzazioni internazionali sembrano impegnati in una snervante «danza della pioggia», amplificata dai media, e invocano una ripresa che è sempre dietro l’angolo. La pioggia, però, tarda ad arrivare e dalle tabelle del Rapporto appare chiara la poco rosea realtà che non viene ben trasmessa dai comunicati e dalle conferenze stampa. La ripresa produttiva mondiale promessa per il 2010 è un fatto quasi soltanto aritmetico, derivante dalla continuazione e anzi dall’accelerazione della favolosa crescita delle economie dinamiche di quello che una volta chiamavamo Terzo Mondo e da una «stabilizzazione» su livelli bassi e inaccettabili (ancora nettamente inferiori a quelli del 2008) delle economie avanzate. Va detto che una vera e propria crisi le economie emergenti non l’hanno mai avuta, essendo state toccate solo brevemente e di striscio dalla caduta produttiva (quest’anno la crescita cinese viene stimata all’8,5 per cento e quella indiana al 5,4 per cento). Un boom asiatico e una «stabilizzazione» di Europa, Stati Uniti e Giappone non fanno ancora una ripresa mondiale; segnalano semmai il pericolo di una frammentazione del tessuto economico unitario che per circa un quarto di secolo ha coinvolto tutte le principale aree del pianeta. Certo, qualche goccia della sospirata pioggia comincia a cadere ma finora non ce n’è abbastanza, come dice un vecchio proverbio agricolo, per bagnare la polvere, ossia per far ripartire davvero le nostre economie; ai timidissimi segni positivi di varie economie occidentali si contrappongono i segni negativi provenienti ieri dagli Stati Uniti. Parlano di ripresa industriale inferiore al previsto, di spesa dei consumatori che aumenta solo grazie al programma pubblico di rottamazione delle auto, di un altro mezzo milione di nuovi disoccupati. Forse sarebbe meglio smettere le danze propiziatorie, guardare all’economia senza deformanti occhiali rosa, prendere misure più realistiche dell’uscita dalla crisi. A un simile sguardo spassionato, anche ammettendo che tra poco ricominci a piovere, ossia che l’economia riprenda a crescere, la crisi risulta più lunga e più complicata: ormai ci si rende conto che, almeno in termini di occupazione, il peggio non è certo passato, come hanno detto francamente, tra gli altri, esponenti del governo americano. In tutti i Paesi avanzati si annunciano alcuni trimestri con le Borse (forse) in crescita e l’occupazione (quasi certamente) in diminuzione, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di divari sociali interni. Alla gestione economico-finanziaria si deve affiancare una gestione sociale della crisi che potrebbe rivelarsi più difficile per tutti e richiede parametri di riferimento che spesso non paiono molto chiari a nessun governo. L’Italia risulta particolarmente toccata da questo quadro di difficoltà economiche. Sempre secondo il Rapporto del Fondo Monetario, il 2009 vedrà una contrazione della produzione di oltre il 5 per cento, una delle peggiori tra i grandi Paesi avanzati, il che fa sembrare nettamente fuori luogo le affermazioni circa una «buona tenuta» dell’Italia in questa crisi. Per il 2010 è previsto solo un modestissimo recupero (0,2 per cento, inferiore alla media europea). Se, dopo il 2010, l’economia tornerà a crescere alla velocità «normale» degli ultimi anni, che ha fatto dell’Italia la tartaruga del mondo avanzato, potrebbero essere necessari ben 6-7 anni per risalire ai livelli precedenti la crisi, ossia a quelli della metà del 2008. Per gli altri Paesi europei e per gli Stati Uniti, la cui velocità «normale» di crescita è più elevata, il tempo necessario è all’incirca pari alla metà di quello italiano. L’Italia rischia quindi di essere più penalizzata degli altri Paesi nel recupero, ammesso che questo cominci veramente nei prossimi mesi. E alla fine di questo periodo, per un naturale aumento della produttività si tornerà a produrre la stessa quantità del 2008 con un numero nettamente minore di lavoratori. Come si fa a uscire da questa trappola? Mentre è ragionevole adottare misure per la gestione delle emergenze dovute alla crisi in questi mesi, da maggioranza e opposizione c’è un assordante silenzio su quello che bisogna davvero fare nell’arco di qualche anno. È come se il Paese si fosse addormentato nella contemplazione del «made in Italy» come principale o unica strada per il futuro, senza vere analisi sulla sostenibilità di questa prospettiva. Il che contrasta con progetti di politica industriale messi a punto e in pratica in Paesi come la Francia e la Germania e che anche gli Stati Uniti di Obama sembrano voler realizzare. Senza una presa di coscienza delle evoluzioni di lungo termine, dietro alla crisi si potrebbe realizzare un cedimento strutturale ben più grave, in grado di portare all’irrilevanza internazionale un Paese che ne è stato, e ne è ancora, un attore non trascurabile. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: Enrico Deaglio: storia di un eroe scomodo Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 05:05:36 pm Enrico Deaglio: storia di un eroe scomodo
Venerdì 27 novembre 1998, a Milano, nella sede della Fondazione Feltrinelli si presentava un libro: Il guardiano. Marek Edelman racconta, di Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn, edito da Sellerio. Era presente il protagonista. Nella sala saremo stati più o meno in ottanta: pochi. Nessun esponente della città a salutarlo. E dire che, se noi non siamo stati sommersi - ognuno di noi che oggi vive, e vive bene - è perché poggiamo i piedi sulle spalle di Marek Edelman. Così si è raccontato nel libro di Assuntino e Goldkorn: «Sono nato nel 1921 a Homel, oggi Bielorussia. I dodici fratelli di mia madre erano socialisti rivoluzionari, per i bolscevichi, nemici mortali. Un giorno i comunisti, credo che fosse l’anno della mia nascita, li hanno fucilati tutti e dodici. Si salvò solo mia madre, che andò a stare a Varsavia. Mia madre era un’attivista del Bund, di professione infermiera. È morta che ero ragazzo, nel 1934». Nessuno (o solo pochi studiosi) sa che cosa fu il Bund, per una ragione tanto semplice quanto tragica: i suoi membri sono stati tutti uccisi, quel popolo non esiste più. Il Bund era il partito socialista dei sei milioni di ebrei della Russia, della Polonia e della Lituania, dello «yiddish dal Don alla Vistola». Era un partito forte: organizzava colonie e sanatori per i tubercolotici, scuole, sindacati tra i facchini e gli ambulanti, squadre di autodifesa dai pogrom. Il Bund avversava il sionismo e voleva la propria autonomia culturale in Polonia. Autonomia che voleva dire, per esempio, permettere in tribunale a un imputato ebreo di esprimersi in yiddish: negli anni Trenta, a Varsavia, città di unmilione di abitanti, trecentomila ebrei parlavano yiddish. Il Bund, il primo maggio sfilava a Varsavia insieme al partito socialista polacco e cantava il suo inno: «Il nostro oceano salato di lacrime umane, questo oceano noi lo svuoteremo». I ragazzi del Bund apprezzavano il socialista francese Leon Blum, sapevano che il socialista italiano Giacomo Matteotti era stato ucciso dal fascista Mussolini. Il Bund non andava per niente d’accordo con i bolscevichi e i suoi due più importanti dirigenti, Alter e Erlich, rifugiati aMoscanel 1941, Stalin li fece ammazzare. Poco dopo l’invasione della Polonia nel 1939, i nazisti crearono a Varsavia il ghetto: nel 1942 vi viveva mezzo milione di persone e cinquemila morivano di tifo ogni mese. Giorno dopo giorno, seimila persone vennero radunate sul piazzale di trasferimento - l’Umshlagplatz - e caricate sui treni, destinazione i campi di sterminio di Treblinka, con tre filoni di pane eunvasetto di marmellata. La voce del ghetto diceva: «Non è vero che ci mandano a morire, altrimenti non ci darebbero da mangiare».Marek Edelmanaveva allora ventun anni e lavorava come portantino di ospedale. Militante clandestino del Bund era uno dei pochi ebrei ad avere il permesso di recarsi nella parte ariana di Varsavia. Sapeva quel ragazzo che cosa stava succedendo? Sì. Il Bund lo scriveva a ciclostile nel ghetto. «Trasferimento uguale morte, ribelliamoci». Sapeva il mondo quello che sta succedendo nel ghetto di Varsavia? Sì. Londra ne era stata informata, nei dettagli, fin dalla fine del 1941. L’ospedale in cui lavorava il giovane Edelman era vicino al piazzale dell’Umschlagplatz. Lì medici eroici distribuirono anche zollette di cianuro a malati e bambini e qualche volta, dalle finestre dell’ospedale, si riuscì a far volare a terra un grembiule bianco e chi – nella fila – riuscì prenderlo e a metterselo, scampò al rastrellamento.Edelman ricorda il colossale, quotidiano, silenzio («al massimo si sentiva il pianto di qualche bambino, ma mai ho sentito un’invocazione di pietà») con il quale gli ebrei andavano a morire. Vecchi, adulti e giovani, poderosi facchini del Bund resi fragili dalla fame, madri con i loro figli. All’età di 22 anni, Marek Edelman, quando ormai nel ghetto vivevano solo sessantamila persone, è stato il vicecomandante della Zob, Organizzazione Ebraica di Combattimento. Capo era «Marian » Anielevski, 24 anni. La Zob era composta di 220 ragazzi e ragazze che, con alcune migliaia di dollari paracadutati a Varsavia dal Joint Distribution Committee, erano riusciti a raccattare dai contrabbandieri un pugno di pistole, due mine, cinque granate, dieci fucili. Cominciarono a combattere nella primavera del 1943 e tennero testa alla Wehrmacht e alle SS, il più potente esercito del mondo, per cinque settimane. Operarono dai tetti e con le molotov, impedirono ulteriori razzie, uccisero decine di soldati tedeschi. Una militante della Zob si suicidò, ma ci mise sei colpi di pistola per centrarsi la tempia: Edelman ha ricordato che piansero la compagna, ma anche i i cinque proiettili sprecati. Furono il primo esempio – appena dei ragazzi, e per di più reduci da tre anni di sfinimento – di resistenza armata all’esercito nazista in Europa. In un pomeriggio di battaglia un drappello di SS addirittura si presentò a trattare con una bandiera bianca. Non venendo a capo della resistenza, decisero la distruzione totale del ghetto. In dieci giorni dell’inizio del maggio 1943 con bombe, lanciafiamme, bombardamenti aerei, tank, granate e gas, le SS al comando del generale Juergen Stroop rasero al suolo il ghetto di Varsavia. Dei combattenti della Zob, molti si suicidarono, alcuni si salvarono passando per le fogne e sbucando – neri e orribili – nella parte ariana. Marek Edelmanè l’unico sopravvissuto tra di loro. Nonesistono fotografie di Edelman da giovane, ma lui un giorno si è ricordarto che nelle settimane dell’insurrezione indossava un bel maglione rosso, d’angora, che aveva rubato nella casa di un ricco ebreo. Portava le bretelle incrociate sul petto e, nei pantaloni, due revolver. Ora è tempo di guardare la sua faccia: Marek Edelman, settantasettenne cardiologo ancora in servizio all’ospedale municipale di Lodz, è un uomo di media statura, di corporatura spessa, che ha mantenuto tutti i suoi capelli. La sua faccia è, allo stesso tempo, soffusa e intrisa di rughe: è stata la sua vita, certo, a costruirla, ma a quest’opera hanno contribuito anche le Gauloise, la vodka e il whisky. Tra l’indice e il medio dellamanodestra, il vecchio dottore ha il giallo della nicotina. Il suo vestito è polacco: inutile quindi descriverlo; la sua camicia bianca è di terital. La sua bocca, che è piccola, si piega il più delle volte verso il basso. Anche le mani sono piccole, e – ahimè – non sono secche. Ma gli occhi sono ancora grandi. Se un tempo furono innamorati, imperiosi, rapidi, oggi quegli occhi ancora neri appaiono, in qualche maniera, buddisti: ne hanno la lunghezza, il languore e la serietà. Tutta la geografia e la memoria dei sentimenti, il volto diEdelman l’ha trasferita sotto gli occhi, depositandola indue grandi borse che lo segnano: zac e zac, due colpi alla Ricasso. Marek Edelman, una volta uscito dalle fogne, ha combattuto nell’insurrezione di Varsavia del 1944, si è laureato in medicina ed è diventato cardiologo all’ospedale di Lodz. Nel 1968, quando Gomulka lanciò una campagna antisemita, gli tolsero il posto in ospedale, ma il personale costrinse le autorità a reintegrarlo. Negli anni Settanta e Ottanta difese il Kor, il gruppo di dissidenti comunisti di autodifesa degli operai, poi partecipò a Solidarnosc. Trattò con il potere, venne arrestato da Jaruzelski, messo in cella, liberato per le pressioni internazionali. Gli chiesero di trasferirsi in America o in Israele e non l’ha fatto. Portò la sua solidarietà a Sarajevo assediata. Rivide il generale Stroop nel 1946, al processo che poi avrebbe deciso la sua impiccagione. Quando Edelman entrò a testimoniare, Stroop si alzò, sbattè i tacchi e disse – e non si capì se eraunadichiarazione o un’implorazione – «Keine Rache», nessuna vendetta. «Avrà avuto una cinquantina d’anni, i capelli grigi e corti. Più che un militare Stroop era un politico, un burocrate. Rispondeva ai suoi superiori su quanti ebrei riusciva ad ammazzare. Bruciò il ghetto per la sua carriera, non per altro... Ma queste sono storie vecchie. Voi italiani chiedete sempre dei sentimenti! Cosa provo quando passeggio per Varsavia? Niente, la mia gente non c’è più... Il Bund neanche c’è più, tutti lo vogliono dimenticare. Tutto l’archivio dove avevamo scritto tutto, le relazioni giorno per giorno, i rapporti da tutti i paesi della Polonia, è andato perduto. Lo conservavamo nel ghetto, in un palazzo che venne sbriciolato dalle bombe. Poi lì, dopo la guerra, costruirono. Oggi è la sede dell’ambasciata cinese a Varsavia. Bisognerebbe scavare lì sotto, ma non lo faranno ». 06 ottobre 2009 da unita.it Titolo: MARIO DEAGLIO. La verità che nessuno vuole sentire Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:30:14 am 14/10/2009
La verità che nessuno vuole sentire MARIO DEAGLIO L’attenzione del mondo politico e dell’opinione pubblica risulta così terribilmente schiacciata sul presente, così interessata alle minuzie della polemica spicciola da respingere o mal tollerare prospettive più ampie. E così un’osservazione pressoché ovvia dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso della sua lezione tenuta ieri al Cerp-Collegio Carlo Alberto ha scatenato un putiferio. Parlando sui «motivi dell’assicurazione sociale», il Governatore ha osservato che, con l’aumento della durata della vita, le pensioni erogate dal sistema pubblico - ossia principalmente dall’Inps e dall’Inpdap - saranno più basse rispetto ai salari, di quelle erogate finora. Come previsto dalla riforma, si tratta di pensioni eque da un punto di vista attuariale, ossia corrispondenti all’ammontare complessivo dei contributi versato da ciascun lavoratore commisurate alla durata attesa della vita al momento del pensionamento. La loro diminuita consistenza in rapporto al salario dovrebbe essere evidente perché, se si vive più a lungo, i versamenti effettuati durante tutto l’arco di una vita di lavoro di durata invariata devono essere spalmati su un numero maggiore di anni di pensionamento; come dovrebbe essere evidente, anche se è scomodo ricordarlo, che le categorie anziane, in pensione con l’attuale sistema di transizione, ricevono una parte di pensione in più di quella a cui avrebbero «diritto» sulla base dei versamenti effettuati e della loro probabilità di sopravvivenza. Draghi ha poi tratto la naturale conclusione di questa premessa che gli italiani preferirebbero non sentire mai e che per i politici è come un brutto sogno che preferiscono rimuovere subito: «Per assicurare prestazioni di importo adeguato a un numero crescente di pensionati è quindi indispensabile un aumento significativo dell’età media effettiva di pensionamento». Il ragionamento non fa una grinza e con la matematica è bene non scherzare. Del resto, l’allungamento della vita lavorativa è una tendenza non solo italiana ma comune a tutti i Paesi avanzati le cui popolazioni sono in fase di invecchiamento; la Gran Bretagna porterà l’età di pensionamento a 66 anni entro il 2020 e addirittura a 69 anni entro i tre decenni successivi; la Germania ha già deciso il pensionamento a 66 anni; la Francia si sta muovendo nella stessa direzione. L’allungamento della vita lavorativa, del resto, corrisponde a un certo concetto di equità: in media, chi va in pensione adesso vive qualche anno in più (e con un livello di salute migliore) di quanto era previsto quando ha cominciato a lavorare. Perché tutto questo bonus di vita deve andare al pensionamento, ossia a una fase inattiva della vita a carico della collettività, e perché invece una parte non dovrebbe essere dedicata al proseguimento della vita lavorativa per ripagare il costo della pensione che gli anni bonus comportano? Eppure l’idea di toccare un caposaldo della società italiana ha unito per miracolo destra e sinistra nella difesa dell’esistente. Da parte governativa, il ministro del Lavoro, cui si è associato il presidente dell’Inps, assicurano che «il sistema tiene». Certo, il sistema tiene, ma precisamente con pensioni che saranno, rispetto ai salari, sensibilmente più basse delle attuali, a regime del 15-20 per cento, una scomoda verità che non viene quasi mai esplicitamente spiegata a chi ha meno di quarant’anni. Al momento in cui si ritireranno dal lavoro, questi lavoratori - a meno di una pensione aggiuntiva, pagata con minori consumi di oggi - vedranno i propri redditi ridursi in misura molto maggiore dei lavoratori di oggi. Da parte sindacale si invoca un «tavolo per risolvere tutti i problemi», indubbiamente un tavolo che dovrebbe avere proprietà taumaturgiche se riuscirà a non toccare l’età pensionabile e che potrebbe servire più facilmente a rinviare tutto. Sarebbe bene che questo Paese ponesse più attenzione alle proprie prospettive. Nel 2030, una scadenza poi non tanto lontana, un italiano su quattro avrà più di 65 anni e di questi la metà sarà ancora in vita vent’anni più tardi se uomini, ventiquattro anni se donne. E circa cinque milioni di italiani (su una popolazione di poco più di sessanta) saranno ultraottantenni, il doppio dei valori attuali mentre i giovani sotto i 14 anni saranno appena 7-8 milioni. E tutto questo nell’ipotesi di un’immigrazione netta di circa 200 mila persone l’anno che attenuerà un poco l’effetto dell’invecchiamento. Nessuna politica di crescita di lungo termine è realmente tenibile in una situazione del genere se non si prevede la disponibilità di nuove forze di lavoro, il che in Italia significa maggiore occupazione femminile e più elevata età di pensionamento. Può sembrare paradossale in un momento di crisi come questo, in cui i posti di lavoro si stanno purtroppo rapidamente riducendo; ma i governi e le forze politiche dovrebbero avere la capacità di guardare oltre le crisi. E mentre per altri Paesi l’orizzonte del dopo-crisi, quando finalmente verrà, è quello di una ripresa abbastanza sicura della crescita, per l’Italia la situazione è molto più problematica. Stiamo tutti aggrappati al nostro attuale piatto di lenticchie, attentissimi a non farcene portar via neppure una e rischiamo così una rinuncia inconsapevole, ma non per questo meno grave, ad avere un futuro. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Niente sarà più come prima Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2009, 10:32:02 am 30/10/2009
Niente sarà più come prima MARIO DEAGLIO Il prodotto interno lordo italiano è caduto al livello di dieci anni fa, la produzione industriale italiana, con il suo balzo all’indietro del venticinque per cento rispetto al marzo 2008, è precipitata al livello addirittura di vent’anni fa. Lo ha osservato ieri il governatore della Banca d’Italia nel suo intervento in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio. Proiettate su questo sfondo sgradevole ma ineludibile, le polemiche relative al taglio dell’Irap appaiono piuttosto meschine, prive del grande respiro necessario per uscire bene dalla crisi. Occorre infatti osservare che mentre la caduta produttiva è stata all’incirca uguale per tutti i Paesi avanzati - si colloca attorno al 5 - 6 per cento del prodotto lordo rispetto agli ultimi valori pre-crisi - per economie come quelle tedesca, francese e americana che normalmente crescono dell’1,5 - 2,5 per cento l’anno, ci vorranno 2-4 anni per tornare ai livelli produttivi precedenti, sempre che la fragilissima tendenza positiva degli ultimi 2-3 mesi si consolidi davvero. L’Italia, al contrario, se dovesse tornare alla crescita a passo di lumaca alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni, ci metterebbe cinque, forse sette anni per recuperare il livello di prodotto per abitante del 2007-08: sette anni di vacche magre che seguirebbero a sette anni di vacche solo apparentemente grasse durante le quali non abbiamo messo quasi nulla nei granai. Ci ritroviamo, infatti, non solo con una popolazione invecchiata ma anche con meccanismi economici e fiscali arrugginiti e con settori in cui punte di straordinaria eccellenza convivono con ampie zone di quasi altrettanto straordinaria mediocrità, con imprese che fanno fatica a muoversi in un panorama mondiale divenuto sempre più competitivo senza avere alle spalle il tipo di supporto sul quale possono contare le loro concorrenti di altri paesi. Eppure riusciamo solo a pensare - e per di più disordinatamente - al futuro immediato. A trattare l’Irap soltanto come possibile oggetto di «sforbiciate» che tocchino, senza distinzione tra «buoni» e «cattivi», tutte le piccole o medie imprese non porterebbe ad alcun vero vantaggio. Tali «sforbiciate» non migliorerebbero, infatti, la situazione italiana di fronte a concorrenti che, grazie a bilanci pubblici decisamente più solidi e a visioni strategiche più chiare, hanno già messo in atto efficaci politiche di riqualificazione industriale. E’ deleterio che ci si limiti a parlare dell’Irap in termini di riduzione di quantità e non invece di aumento di «qualità», di modificazione profonda. Occorrerebbe partire dalla constatazione che, quale che sia il giudizio storico che se ne vuol dare, l’Irap è oggi un’imposta inadatta alle condizioni congiunturali e strutturali in cui si trova l’economia italiana, con forti effetti collaterali negativi sulle imprese. A parità di gettito, è sicuramente possibile immaginarne una maggiormente capace di stimolare investimenti e crescita e, in definitiva, di favorire l’occupazione. Basterebbe, all’occorrenza «copiare» a piene mani i meccanismi fiscali tedesco e francese di tassazione delle imprese. Più ancora del boccon di pane eventualmente dato a imprese affamate con una «sforbiciata» che costerebbe comunque diversi miliardi di euro, è importante uno strumento che permetta alle imprese buone di crescere e a quelle meno buone di essere assorbite o ristrutturate. E occorrerebbero punti di riferimento, l’individuazione di settori nei quali si vorrebbe crescere, di strade da percorrere e obiettivi da raggiungere. Su tutto questo, né dalla maggioranza né dall’opposizione pare esser stata avviata alcuna riflessione veramente importante. L’accenno fatto dal ministro dell’Economia durante la stessa Giornata Mondiale del Risparmio per «uno o più fondi di assistenza all’impresa per il rapporto tra debito e patrimonio» potrebbe contenere qualche novità interessante ma è un fiorellino solitario e striminzito in una landa deserta. Ed appare particolarmente infelice il termine «assistenza»: non abbiamo bisogno di un’economia assistita ma di fornire un sostegno che compensi le maggiori difficoltà strutturali delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri Paesi. Il Paese appare quindi impreparato ad affrontare i propri problemi del lungo periodo. Purtroppo lo stesso si può dire anche per il breve periodo, dove la minaccia reale, enunciata chiaramente dalla presidente di Confindustria, è quella del collasso, entro brevissimo termine, di una parte consistente del tessuto delle imprese piccole e medie non tanto o non solo per incapacità propria quanto per motivi di liquidità legati a fattori esterni: rimborsi fiscali in irrimediabile ritardo fanno il paio con forniture non pagate, magari dalle stesse amministrazioni pubbliche che dovrebbero occuparsi della buona salute delle imprese. Se il governo vuole davvero far qualcosa, in primo luogo paghi i debiti commerciali; e riformi una legge ormai infelice. Con la consapevolezza che la partita sarà in ogni caso molto difficile. Come ha detto il governatore della Banca d’Italia parlando della situazione mondiale, «le cose non torneranno come prima». mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Un augurio più che una certezza Inserito da: Admin - Novembre 07, 2009, 10:12:52 am 7/11/2009
Un augurio più che una certezza MARIO DEAGLIO E’ più che comprensibile che il governo dia ampio risalto alla favorevole valutazione che risulta dal «superindice» dell’Ocse, dal momento che si tratta indubbiamente di un dato gradito proveniente da un ente di alta reputazione, in passato non certo tenero nei suoi giudizi sull’economia italiana. Se però si va a guardare con attenzione dentro questi dati, ci si accorge che il giudizio dell’Ocse è un augurio per il futuro, non la certificazione di qualcosa di già accaduto o in corso. La banalizzazione della notizia rischia di presentare all’opinione pubblica un’Italia in piena ripresa, addirittura alla guida della crescita mondiale. La realtà è molto diversa: non abbiamo vinto la coppa, siamo (forse) ancora ammessi a partecipare al campionato. Per valutare bene questa situazione bisogna prima di tutto ricordare che, come ammoniscono i suoi stessi autori, il «superindice» ha un valore qualitativo e non quantitativo. Il suo scopo è quello di segnalare in anticipo i punti di svolta, del ciclo economico, non quello di misurare l’intensità dell’espansione o della recessione. Funziona, in altri termini, come una sorta di campanello; la sua qualità è discreta o buona sul totale dell’area Ocse e per l’Unione Europea nel suo complesso, ma diventa piuttosto instabile per i singoli Paesi. Nel segnalare l’inizio della crisi attuale, il campanello ha suonato tempestivamente per gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito e la stessa Italia; ha suonato invece quasi contemporaneamente alla crisi per il Brasile e la Russia; ha inviato segnali troppo ritardati per il Canada, l’India e il Giappone. Purtroppo, il fatto di avere «azzeccato» un punto di svolta di un ciclo non garantisce che sarà azzeccato quello successivo: per l’Italia il «superindice» ha fornito piccoli ma erronei segnali di espansione nel 2001 e nel 2003, per l’area Ocse nel suo complesso segnalò nel 2003 una recessione che poi non si verificò. Si tratta quindi di un complemento prezioso per una diagnosi complessa, non di un termometro miracoloso che «consacra» la ripresa o la recessione di un sistema economico; in una lunga nota di «istruzioni per l’uso» la stessa Ocse mette in evidenza il suo carattere ausiliare nell’analisi congiunturale e la possibilità di suoi andamenti irregolari. Il «superindice», in ogni caso, appare in forte salita: oltre che per l’Italia, anche per Francia, Regno Unito e Cina viene diagnosticata non già una semplice «ripresa» ma addirittura una condizione di «espansione». Gli stessi estensori si devono essere resi conto del carattere dubbio di quest’analisi dal momento che invitano a una speciale cautela. Ciò che questo numero misura, infatti, non è la semplice espansione di un’economia, ma il rapporto tra l’espansione e il suo potenziale di crescita. Una riduzione di questo potenziale, a seguito della crisi che stiamo attraversando, fa salire il rapporto, a parità di altre condizioni, fornendo una falsa indicazione positiva. In altre parole, se la cilindrata del «motore Italia» si è ridotta in questi anni - come molti episodi sembrano indicare - andando alla stessa velocità, il motore si viene a trovare più vicino ai suoi limiti. Per usare una metafora calcistica, l’Italia potrebbe trovarsi nelle prime posizioni della «serie B» dell’economia mondiale, mentre quando la crisi è cominciata si trovava all’ultimo posto della «serie A». Quest’analisi è doverosa non già per «gufare», ossia per «giocare contro» la ripresa del Paese, ma anzi per consentire una realistica valutazione delle possibilità ed evitare delusioni successive. Una simile valutazione realistica porta a sottolineare alcune potenzialità del Paese e in particolare la presenza, grazie al risparmio delle famiglie, di forti e diffuse risorse finanziarie che controbilanciano il pur gigantesco debito pubblico; in altri Paesi, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, la prolungata assenza di risparmio famigliare costituisce un grave handicap per la ripresa. Qualcosa su cui costruire c’è; non si costruirà, però, senza modificare fortemente sulla struttura produttiva e sulla distribuzione dei redditi con procedimenti che saranno indubbiamente sgradevoli per alcune fasce sociali, detentrici di privilegi, spesso piccoli ma molto diffusi, e quindi pesanti per le finanze pubbliche. Purtroppo né la maggioranza né l’opposizione sembrano impegnate a disegnare un futuro a dieci-vent’anni, spesso l’orizzonte del dibattito politico non arriva a dieci-venti mesi. Si pensa erroneamente di essere all’avanguardia nella crescita e si tagliano gli investimenti nella «banda larga», ossia in uno dei comparti più tecnologici della produzione; ci si impegna solennemente a sostenere la ricerca e si tagliano le risorse per i ricercatori. Per questo si rischia di sottolineare oltre il suo reale significato un segnale congiunturale positivo, com’è quello dell’Ocse, e non vedere il deterioramento della struttura; è più facile ricordare che quella italiana è - ancora - la sesta economia del mondo, come ha fatto il presidente del Consiglio (in realtà gli ultimi dati della Banca Mondiale ci collocano comunque al settimo posto nel 2008, che diventa il decimo se si tiene conto dell’effettivo potere d’acquisto dei redditi degli italiani) e dimenticare che nella classifica dei redditi per abitante siamo ormai al 39° posto, sensibilmente al di sotto dei grandi Paesi dell’Europa occidentale, sopravanzati dalla Spagna. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Crisi e vaccini la babele crea sfiducia Inserito da: Admin - Novembre 12, 2009, 10:07:08 am 12/11/2009
Crisi e vaccini la babele crea sfiducia MARIO DEAGLIO Nonostante l’incalzare delle notizie sui decessi causati dall’«influenza suina», fornite con grande enfasi dai mezzi di informazione, apprendiamo da La Stampa di ieri che gli italiani rifiutano la vaccinazione, tanto che addirittura il 97 per cento delle dosi rimane, per il momento, inutilizzato. E’ in atto un compattissimo, imprevisto «sciopero del vaccino»: l’opinione pubblica sembra divisa tra la paura della malattia e la paura del vaccino. E la seconda, contro ogni previsione, prevale largamente sulla prima. Perché questo risultato sconcertante? Perché la mancanza generalizzata di conoscenze medico-sanitarie di base si unisce alla mancanza generalizzata di informazioni chiare e credibili: una vera e propria «miscela esplosiva» che determina un’estesa diffidenza e ostilità nei confronti del vaccino, un senso di confusione generale e che sfocia in comportamenti collettivi incerti e contraddittori, in ogni caso diversi, o addirittura opposti, a quelli previsti. Si tratta di una «miscela esplosiva» analoga a quella che ha consentito alla crisi finanziaria di sfuggire al controllo di governi e banche centrali. Come nella sanità, anche nelle finanze famigliari, le conoscenze non si apprendono più dai genitori ma si imparano (assai male, nella maggior parte dei casi) nelle scuole: le mamme trasmettono sempre meno ai figli regole igieniche fondamentali come il lavarsi le mani o il non prendere freddo, i giovani non vogliono sentir parlare dagli anziani di necessità di risparmiare o di cautela nell’indebitarsi. Specie tra questi ultimi, sono in troppi a ignorare la differenza tra l’azione di un antibiotico e quella di un antidolorifico e forse si tratta delle stesse persone che non conoscono la differenza tra interesse semplice e interesse composto o non sanno come funziona il loro conto corrente. Con queste fragili premesse, troppe volte nelle società ricche si trasmettono precocemente informazioni specialistiche senza le basi fondamentali che consentono di assimilarle. Si determina così una crescente difficoltà a decidere razionalmente, spesso associata all’impossibilità di farlo per la scarsa trasparenza delle informazioni. Per quanto riguarda l’influenza suina, non sono stati forniti elementi assolutamente certi per rispondere a chi ritiene che quella del vaccino sia una «bufala» o una macchinazione delle case farmaceutiche. Per conseguenza, come dimostra il sondaggio pubblicato su La Stampa di ieri, gli italiani appaiono spaccati quasi a metà tra i favorevoli e i non favorevoli al vaccino ma la cosa apparentemente incredibile è che neanche i favorevoli si fanno vaccinare. Parallelamente non sono stati resi pubblici elementi che consentano di affermare con certezza che le misure contro la crisi economica, adottate negli ultimi 12-18 mesi - per le quali il recente G20, tenutosi in Scozia, si è autocompiaciuto - stiano davvero risollevando l’economia e non semplicemente stabilizzando, non si sa quanto a lungo, i bilanci delle banche e di altre istituzioni finanziarie. In queste condizioni, i vaccini restano nei frigoriferi il che causerà seri problemi se l’epidemia è davvero molto pericolosa; i risparmi dei cittadini restano sui conti bancari o impiegati, a tassi irrisori, in titoli pubblici a brevissimo termine. Viene così frenata la normale spesa per consumi che attenuerebbe di molto gli effetti della crisi economica. Banche e case farmaceutiche incassano una fortissima ostilità da parte dell’opinione pubblica, un po’ come gli untori al tempo della peste. Crisi sanitaria e crisi finanziaria appaiono così come due facce - forse non le uniche - di una più generale Crisi con la C maiuscola. Che bisognerà una buona volta affrontare invece di minimizzare. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Un futuro senza Europa Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 10:16:24 am 18/11/2009
Un futuro senza Europa MARIO DEAGLIO Il viaggio in Asia di Barack Obama apre una fase totalmente nuova per l’economia e la politica mondiale. Per rendersene conto può essere utile aprire una carta geografica del mondo e cercarvi le Hawaii, dove il presidente Obama è nato 48 anni fa. Piantate in mezzo al Pacifico, queste isole distano circa 8000 chilometri da Washington e 8500 da Pechino. Mentre l’Europa si trova a circa 12 mila chilometri. L’Europa è uno dei luoghi geograficamente più lontani dalle Hawaii; basti pensare che per andare a Mosca da Honolulu la rotta più breve passa da Tokyo e non da Londra o Parigi. Il Presidente Obama ha inoltre frequentato le scuole elementari a Giacarta, in Indonesia. Prima ancora di qualsiasi ragionamento economico o politico ci sono qui premesse molto solide per spiegare l’importanza che egli attribuisce all’area del Pacifico. Obama è un autentico «uomo del Pacifico», mentre quasi tutti i presidenti recenti provenivano prevalentemente dalla costa atlantica e dall’emigrazione europea e spesso avevano ricevuto parte della loro educazione superiore in Europa. Alla propensione culturale si aggiunge, in maniera prepotente, la realtà dell’economia: dai Paesi asiatici bagnati dal Pacifico (Cina, India, Giappone e «tigri asiatiche») dal 2001 a oggi è derivato circa il 55 per cento della nuova produzione mondiale ossia del «di più» che si è prodotto rispetto al Duemila. Se a quest’Asia dinamica aggiungiamo l’America del Nord arriviamo al 70 per cento della nuova produzione mondiale mentre da un’Europa Occidentale assai poco dinamica - che pure è complessivamente, la seconda area economica del pianeta - è derivato appena l’11-12 per cento. Grazie alla crisi attuale, secondo le più recenti proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, nel 2009 la produzione mondiale scenderà dell’1,1 per cento per il pesante arretramento dell’area dell'euro e, in misura minore, degli Stati Uniti; i Paesi dinamici dell’Asia cresceranno del 6,2 per cento. Siamo in presenza di un’inversione dei «poli economici» del mondo: dopo circa duecento anni in cui gli incrementi produttivi e le realizzazioni tecnologiche sono avvenute in grandissima prevalenza nei Paesi prossimi all’Atlantico Settentrionale, ora non solo il centro dell’attività produttiva, ma anche quello delle tecnologie e della ricerca scientifica si sta spostando verso i Paesi che si affacciano sul Pacifico (e, in parte, sull’Oceano Indiano). La nuova Asia che Obama ha davanti non è quella che produce magliette a prezzi stracciati, ma quella le cui esportazioni elettroniche sono più del doppio di quelle americane, che sa costruire treni ad alta velocità e mandare astronauti nello spazio e che crea più di metà del software del mondo. In un recente libretto, un noto intellettuale francese, Alain Minc, ha avanzato l’ipotesi che entro breve tempo tutti i premi Nobel possano essere conferiti ad asiatici. La nuova politica americana parte dalla presa d’atto di questa situazione e dalla volontà degli Stati Uniti di partecipare - senza far giocare più di tanto le superiori dimensioni dell’economia americana quasi certamente destinata a essere tra breve raggiunta dalla Cina - a questo nuovo orizzonte e alle prospettive che così si aprono alla stessa America e al mondo. Lo strumento più probabile di collaborazione sarà un settore industriale che ancora non esiste, quello energetico-ambientale, nel quale confluiranno tecnologie diverse e che farà diminuire fortemente l’importanza economico-politica del settore petrolifero. Per il forte carattere innovativo di questa possibile e difficile politica industriale a livello mondiale, America e Asia hanno platealmente rifiutato di essere vincolate a priori dalla conferenza di Copenhagen, fortemente voluta soprattutto dagli europei. L’Europa, per la prima volta da tempi immemorabili, non viene neppure formalmente invitata al tavolo dei grandi. Di fronte a un simile dinamismo e a quest’ampiezza di visioni si scopre vecchia, stanca e divisa. E’ bastata l’opposizione testarda di un pugno di elettori irlandesi e del presidente della Repubblica Ceca a bloccare a lungo un progetto di costituzione, che non è certo il più elevato esempio di quella democrazia che gli europei spesso considerano il miglior prodotto della loro civiltà. All’interno dei singoli Paesi, una selva di interessi - sicuramente legittimi ma minoritari - blocca trasformazioni che possano davvero garantire lavoro per i giovani e pensioni per gli anziani: gli oppositori dell’alta velocità, gli agricoltori per le vie di Bruxelles, gli scaricatori dei porti, i membri di ordini professionali che non gradiscono concorrenza hanno finora fatto prevalere le visioni «corte» rispetto alle visioni «lunghe» che vanno di moda nel Pacifico. Discuteranno del futuro di tutti, compreso il nostro, senza di noi. Il prossimo «governo» europeo (ancora sfornito di veri poteri) ha un compito molto difficile e, al suo interno, particolarmente gravoso e cruciale sarà il mandato del ministro degli Esteri, che potrebbe essere un italiano. In ogni caso, da qualunque Paese provenga, non possiamo che augurarci che sia all’altezza dei tempi nuovi. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: Enrico DEAGLIO Marrazzo, quattro passi da solo verso il patibolo Inserito da: Admin - Novembre 20, 2009, 03:18:52 pm Marrazzo, quattro passi da solo verso il patibolo
di Enrico Deaglio Nella tarda mattinata di venerdì tre luglio del 2009, il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, viaggia con l’autista della Regione sulla via Cassia. I quotidiani sono pieni di notizie sugli scandali sessuali del presidente Silvio Berlusconi; addirittura il presidente della Repubblica è intervenuto per imporre alla stampa una moratoria in occasione del G8 che sta per aprirsi nell’Aquila terremotata: Berlusconi rischia infatti di presentare al mondo un’Italia grottesca, ricattata e corrotta. Marrazzo fa cenno all’autista. «Fermati qua. Faccio due passi a piedi». È un gesto di gentilezza. Come dire, “ti tengo fuori da questa storia”. Il Governatore, senza occhiali scuri, senza cappelluccio, uno dei volti più riconoscibili della città per il suo passato televisivo e il suo presente politico, scende dall’automobile e si avvia verso uno degli indirizzi più malfamati e loschi di Roma: il numero civico 96 di via Gradoli. Non si sa con quale passo il Governatore compia la sua ultima passeggiata. Se di piede lento o veloce, se assorto o teso, furtivo o trasognato. Ma è possibile che sia semplicemente portato dagli eventi, attratto da una calamita. Non è una sfida, è piuttosto una marcia quietamente disperata verso un confuso patibolo. Al contrario di un “tirem innanz”, è un “andiamo fino in fondo, vediamo com’è”. Il patibolo era stato effettivamente apparecchiato e quando Marrazzo vi sale trova non solo chi pensava lo stesse attendendo - l’amante brasiliana Natalì -, ma il campionario dell’Italia di oggi: il pusher che spaccia la cocaina in franchising per conto dei Casalesi; i carabinieri che da tempo lavorano con il pusher e con Natalì (le “mele marce”), il telefonino che gira il video, l’omertà dei coinquilini che non vedono e non sentono niente. Lo minacciano, lo umiliano, gli mettono le mani addosso, lo denudano, lo filmano, lo derubano e lo ricattano. Il fatto che sia il presidente della Regione non conta nulla, anzi. La secolare sudditanza dei malfattori e dei carabinieri nei confronti del Potente svanisce. Il fatto che la sudditanza sia svanita proprio al numero civico 96 di via Gradoli non può essere senza significato. E Piero Marrazzo, giornalista di inchieste, figlio di un famoso giornalista che si è occupato di potere, mafie e camorre, lo conosce benissimo. Quella palazzina, trentuno anni fa, fu il centro operativo delle Brigate Rosse durante il primo mese del rapimento di Aldo Moro. Un appartamento era stato affittato da Mario Moretti, il capo delle Br, ed era servito, prima dell’azione, come deposito di armi, rifugio di latitanti e addirittura foresteria per militanti della lotta armata in cerca di relax. Talmente noto era il “covo”, che nei primissimi giorni del sequestro l’indirizzo prese a circolare. Il professor Romano Prodi, nel nobile intento di aiutare le indagini e salvare la vita di Moro, dichiarò che il nome di Gradoli era stato fatto nel corso di una seduta spiritica, ma il ministro degli Interni Francesco Cossiga mandò le truppe in una Gradoli in provincia di Viterbo, a vuoto. Così Mario Moretti, insieme a Barbara Balzarani, continuò ad abitare in via Gradoli, senza preoccuparsi troppo di poter essere scoperto, fino a quando, il 18 aprile 1978, al 32esimo giorno del sequestro, uscì di casa e poco dopo l’acqua cominciò a gocciolare verso il piano di sotto. Infiltrazione, inquilino arrabbiatissimo, porta sfondata dai vigili del fuoco: et voilà, ecco a voi l’archivio delle Brigate Rosse, reso accessibile dal telefono di una doccia e da un rubinetto lasciato aperto. Poi, molti anni dopo, si scoprì che nella palazzina molti appartamenti erano di proprietà di una società immobiliare che agiva per conto dei servizi segreti e ancora parecchi anni dopo la palazzina si adattò alla nuova economia residenziale, affittando appartamenti ai transessuali latinoamericani, che guadagnano bene, pagano bene e forniscono moltissime informazioni ai carabinieri sui Vip che le vengono a trovare. Le case hanno spesso una loro storia, sono segnate e spesso anche popolate da fantasmi. Nessuno sa con quale faccia, quel 3 luglio, Marrazzo abbia fatto il viaggio di ritorno verso la macchina di servizio, ma certo aveva negli occhi le prove generali della sua esecuzione, che infatti avverrà tre mesi dopo. In quei tre mesi il Governatore non ha usato, né abusato del suo potere. Ha solo disperatamente aspettato che si attuassero le procedure. La sua storia era cominciata cinque anni prima: candidato alle elezioni perché era stato un popolare conduttore Tv “dalla parte dei cittadini”, era già stato sotto ricatto dei suoi avversari politici che avevano pensato di assoldare un viado contro di lui. La sua vita personale era a conoscenza di taxisti (i veri untori della morale pubblica romana), il suo partito non lo teneva in grande considerazione, una sua ricandidatura era dubbia, la sua immagine non appariva più quella del vincente difensore del popolo, e, sul piano della voracità economica, scontrarsi contro le cliniche private gli aveva fatto toccare con mano quanto feroce potesse essere la loro risposta. E così il Governatore ha seguito, immobile, i movimenti del ricatto per tre mesi. Gli spostamenti e le duplicazioni del video, il destino dei suoi assegni, la morte del pusher, i piccoli tormenti di Natalì, il cd nella disponibilità dei padroni delle cliniche private, la melliflua telefonata di Berlusconi (“voglio darle una mano”, come nelle più ciniche battute dei film di gangster di James Cagney), il perfetto timing dei Ros contro le “mele marce” della compagnia Trionfale, una normale audizione in Procura come “persona informata dei fatti”, e poi - oh, finalmente, non ne potevo più - la mia testa che rotola. Il nostro presidente del Consiglio, a differenza di Marrazzo, è invece ancora in sella. Gli angiporti di Casoria, la cocaina del pappone di Bari, le ragazzine che lo dileggiano, il mondo che lo dileggia, la dolente prostituta pugliese che lo registra e ne canta la mattina dopo le erezioni, la manifattura di farfalline, le guardie del corpo attonite, ma fedeli (queste non sono “mele marce”), la famigliarità con l’industria del ricatto, si sono dimostrate tutte armi inutili di fronte alla sua prorompente voglia di vita. I suoi sostenitori sostengono la sua primordiale verità: la femmina da possedere, da stuprare, da pagare. I suoi sostenitori ridono del debole Marrazzo, delle sue inquietudini e soprattutto della sua inettitudine. La questione del governo, alla fine, è tutta qua. Dicono che gli italiani si riconoscano in Berlusconi e nel suo sogno realizzato: diventare molto ricchi, diventare molto potenti per potere finalmente permettersi una notte di docce fredde (sempre la doccia, a palazzo Grazioli come in via Gradoli) e di sesso con una petulante Patrizia D’Addario che gli chiede di risolvere il suo irrisolvibile problema di abuso edilizio. Dicono che Berlusconi sia talmente magico da convincere gli italiani che questa, solo questa, è la vita che vale la pena essere vissuta; il discorso amoroso e il condono edilizio. Fece capire lui stesso, peraltro, di essere in grado di dare la vita, un figlio, a una donna in coma da diciassette anni. Nessuno si alzò per prenderlo a schiaffi, ma molti sicuramente videro quanta voglia di morte ci fosse in quelle sue tristissime parole. Nell’augurio e nella speranza che l’immaginario del successo e del potere da trasmettere, possa essere meno tragico, mi resta la curiosità di che cosa succederà, non tanto di villa Certosa e di palazzo Grazioli, quanto della palazzina di via Gradoli 96. Chissà: forse l’appartamento di Mario Moretti è stato affittato a un trans, o è la base di un pusher. Chissà, forse tra dieci anni, quando ci saranno nuovi inquilini, nei lavori di ristrutturazione edilizia, dietro la solita intercapedine, verrà ritrovato un pacchetto che nessuno aveva notato. L’originale del video che ricattava Piero Marrazzo? Il filmato girato da Mario Moretti ad Aldo Moro nella prigione del popolo? 08 novembre 2009 da unita.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Ma i prezzi vanno controllati Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:18:17 am 1/12/2009
Ma i prezzi vanno controllati MARIO DEAGLIO Immaginate di avere un figlio piccolo che ha fatto una brutta bronchite. Ormai è sfebbrato da due giorni e vorrebbe proprio uscire; gli misurate la temperatura e scoprite che, di primo mattino, è al limite della febbre. Se siete dei genitori saggi, dovrete, con rincrescimento, dirgli che deve restare a casa un giorno in più, sempre nella speranza che nel pomeriggio la febbre non torni a salire e allunghi la prognosi. Un simile esempio, tratto dall’esperienza diffusa delle malattie stagionali, serve molto bene a inquadrare gli avvenimenti degli ultimi giorni con notizie lontane, come quelle provenienti da Dubai e notizie vicine che riguardano la spesa quotidiana: il figlio piccolo è l’economia, sia mondiale sia italiana, che ha alle spalle una crisi importante, forse conclusa e forse no. Ma anche se i sintomi di crisi cominciano lentamente a ritirarsi, i segnali non lasciano tranquilli. Senza le dovute precauzioni, la bronchite che si pensava di aver sconfitto può ripresentarsi come polmonite. Il caso di Dubai è sicuramente il più clamoroso e il più preoccupante. E questo non solo perché la bolla è scoppiata in un paradiso del lusso dopo aver devastato l’edilizia povera dei mutui subprime, ma anche perché si conferma una volta di più che la comunità internazionale, nonostante due anni di risoluzioni e solenni propositi, non dispone di alcun mezzo non solo di intervento preventivo ma neppure di monitoraggio dei flussi finanziari. Prima ancora che nuova una sfida alle Borse, il caso di Dubai rappresenta una nuova sfida al sistema finanziario mondiale e alla serietà dei propositi di un suo ordinato controllo. Si è parlato tanto di trasparenza e i governi dei Paesi ricchi continuano a tollerare l’opacità quasi completa dei «fondi sovrani» di gran parte dei Paesi emergenti, a cominciare da quelli petroliferi. Nessuno pare in grado di dire con qualche certezza quanti debiti abbia il fondo sovrano Dubai World, quali istituti bancari li abbiano sottoscritti e magari inseriti in prodotti «derivati» e chi ora possieda questi prodotti né quali garanzie i governi degli Emirati siano di fatto disposti a concedere. La possibilità che questo nuovo focolaio di infezione rovini la festa di un mondo finanziario che sta ripetendo in maniera miope i riti e gli errori del passato - a cominciare dagli assurdi super bonus dei dirigenti finanziari americani - non può certamente essere trascurata. Anzi, nel giro di un paio di settimane, quando è in calendario la scadenza di importanti debiti del fondo sovrano Dubai World, si avrà una sorta di prova della verità. Se dalle Borse mondiali passiamo alla nostra borsa della spesa, il piccolo segnale che non lascia del tutto tranquilli è rappresentato dall’aumento, anche se minuscolo, dei prezzi con i quali si confronta il comune cittadino europeo. Dopo un declino durato cinque mesi nell’area dell’euro l’indice dei prezzi al consumo dà ora qualche segno di risalita. Per l’Italia tali segnali, per quanto molto contenuti, sono più consistenti che altrove. Certo, parlare di inflazione quando i prezzi al consumo salgono dello 0,7 in un anno e dello 0,1 per cento in un mese può sembrare eccessivo e in questo senso le grida di allarme sono quanto meno premature e probabilmente fuori luogo; non è invece eccessivo, ma anzi del tutto ragionevole, mettere i prezzi sotto osservazione. Un’analisi sommaria mostra che l’aumento con cui si confronta il consumatore non è derivato dai prezzi alla produzione, sostanzialmente fermi per l’industria, a livelli inferiori a un anno fa, e addirittura fortemente cedenti per l’agricoltura senza che il consumatore ne abbia sentito gli effetti negli acquisti di generi alimentari. Si deve concludere che gli aumenti sembrano localizzati in prevalenza nel sistema distributivo che ha praticato per mesi molti sconti sui listini e che ora cerca di recuperare fiato con le vendite natalizie. Il fatto è che il sistema distributivo italiano, con i suoi troppi passaggi, è relativamente inefficiente e non consente un buon funzionamento dei meccanismi di mercato. Senza mutamenti strutturali in questo sistema sarà difficile dar vita a una ripresa di lungo periodo. Un’economia strutturalmente debole come quella italiana in un contesto strutturalmente debole come è quello dell’attuale globalizzazione corre sempre due rischi paralleli: quello della stagnazione con prezzi cedenti, un male che il Giappone si porta addosso da almeno quindici anni, e quello di un’inflazione con poca crescita (la temutissima stagflazione che ha fatto la sua comparsa negli Anni Settanta). I grandi sviluppi mondiali e i piccoli sviluppi dei bilanci famigliari consentono oggi di concludere che entrambi i rischi esistono e vanno affrontati con decisione ossia cambiando regole, il che significa modificare strutture di potere. Se non lo faremo, la prospettiva che una bronchite quasi superata si trasformi in una polmonite pericolosa non sarà più soltanto teorica. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Ancora buio dopo il tunnel Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:51:49 pm 11/12/2009
Ancora buio dopo il tunnel MARIO DEAGLIO Grazie al forte calo della produzione industriale dei Paesi ricchi (tra il 10 e il 20% rispetto ai valori di un anno fa) il livello di inquinamento del pianeta è sicuramente diminuito in maniera sensibile. Come è però ovvio, questo modo di ridurre l’inquinamento non piace a nessuno, neppure ai partecipanti alla Conferenza sul clima di Copenhagen. La nostra è infatti ben lontana dall’essere una decrescita felice: nel quadro economico mondiale, gli unici indicatori in sicuro e sensibile aumento sono il numero degli affamati dei Paesi poveri e dei disoccupati nei Paesi ricchi nonché l’ammontare del debito pubblico di molte tra le maggiori potenze economiche. La quasi assenza della ripresa è una sorpresa per molti osservatori, che, sulla base dell’esperienza di altre crisi recenti, derivanti dalla necessità di comprimere la domanda per tenere a bada l’inflazione, prevedevano un rapido recupero produttivo. Secondo lo schema del premio Nobel Milton Friedman, dopo aver superato il punto di svolta inferiore, la produzione, sgravata dai pesi imposti per recuperare la stabilità dei prezzi, avrebbe dovuto scattare all’insù come un elastico e riportarsi in pochissimo tempo sul sentiero di crescita forzatamente abbandonato. La ripresa è invece pigra, quasi svogliata, le economie più dinamiche del pianeta hanno mostrato una bassa reattività all’imponente iniezione di risorse finanziarie nel sistema da parte delle banche centrali e dei governi. In Giappone è tornata la stagflazione, una temutissima «malattia economica» derivante dalla presenza congiunta di un calo di produzione e un calo generalizzato dei prezzi, in Spagna la disoccupazione sfiora il 20 per cento. La spiegazione di simili lentezze e incertezze si può trovare precisamente nel diverso carattere della crisi attuale che, distruggendo enormi risorse finanziarie, ha fortemente ridotto non solo le capacità di spesa delle famiglie ma anche le capacità delle imprese di investire, innovare, reagire alla crisi stessa. Passeranno quindi ancora molti trimestri prima che si raggiungano i valori di produzione che oggi rivedremmo volentieri, anche se portano con sé un inquinamento maggiore. Un esempio dell’inadeguatezza della ripresa può essere facilmente trovato nei più recenti dati italiani: secondo quanto confermato ieri dall’Istat, nel periodo luglio-settembre il prodotto lordo è cresciuto dello 0,6 per cento rispetto al trimestre precedente. Può sembrare un ottimo risultato ma se si confronta il dato con quello del terzo trimestre 2008 si constata una caduta del 4,6 per cento, tra le peggiori dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Pensavamo di essere usciti dal tunnel, e forse statisticamente lo siamo, ma ci accorgiamo che fuori dal tunnel è buio, la strada è tortuosa e piena di buche, il nostro navigatore si è rotto e procediamo cautamente, un metro dopo l’altro, senza avere un’idea precisa di dove stiamo andando. L’espansione a passo di lumaca preoccupa soprattutto i produttori di petrolio, tormentati non già dalla prospettiva dell’esaurimento delle loro riserve bensì da quella opposta di una perdurante debolezza nella domanda del loro prodotto. Al punto che il Messico ha deciso di spendere un miliardo di dollari per acquistare una polizza di assicurazione contro la caduta del prezzo del petrolio: se le quotazioni dell’ «oro nero» scenderanno mediamente sotto i 57 dollari al barile nel corso del 2010, il Messico verrà «indennizzato» da un gruppo di banche con le quali ha concluso il contratto. Del resto il Venezuela, altro produttore latino-americano di primaria grandezza, è precipitato in recessione dopo quasi sei anni di espansione; e alla base delle difficoltà di Dubai e di Abu Dhabi c’è la previsione che la rendita petrolifera di cui godono i Paesi del Golfo sia destinata a calare. Incuranti dell’ottimismo di molti analisti e delle dichiarazioni piene di fiducia di molti capi di governo, i detentori di capitali di quell’area stanno «votando con i loro soldi», per parafrasare un’espressione di Einaudi, ossia portando i loro capitali fuori da quello che doveva essere un paradiso basato sul petrolio e che invece rischia di diventare una trappola di costruzioni faraoniche non finite. Stanno di fatto comportandosi come se la ripresa fosse inesistente o di entità irrilevante. La scommessa messicana e i comportamenti dei produttori petroliferi del Medio Oriente vanno presi sul serio soprattutto dagli europei, in quanto la probabile crisi del debito pubblico greco introduce una nuova, allarmante dimensione a un quadro che di per sé non è già dei migliori. Pessimismo? No, realismo dal quale è necessario partire per imbastire discorsi fondatamente ottimistici. L’economia non è come la Bella Addormentata destinata a svegliarsi per miracolo senza segni di vecchiaia dopo un lungo sonno; e a svegliarla e a farla ringiovanire non sarà il bacio di un Principe Azzurro. E’ necessaria un’azione dura e spesso oscura di un gran numero di imprenditori, banchieri, politici pronti a mettere in gioco le loro fortune personali, a contrapporre azioni con orizzonti lunghi alle scommesse anti-rischio di breve termine come quella del Messico. Le diatribe dei politici di questi giorni, lontanissime dai problemi che l’economia deve affrontare, mostrano quale distanza ci separa da una vera ripresa. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Aria calda e aria fritta Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:31:40 am 17/12/2009
Aria calda e aria fritta MARIO DEAGLIO Può darsi - anche se appare assai difficile - che, dopo le inaspettate dimissioni della presidente della Conferenza sul clima, i leader dei principali Paesi del mondo riescano ancora a stringersi la mano davanti alle telecamere di Copenhagen e a mettere la loro firma su un accordo di compromesso. Anche in questo caso ci troveremo di fronte a un risultato deludente: dopo i netti contrasti di questi giorni, un’eventuale intesa di facciata dell’ultima ora sarà poco più che «aria fritta», per usare una classica espressione italiana, o «aria calda», per usare l’analoga espressione inglese, del tutto appropriata a una conferenza sul clima. Il messaggio che uscirà da Copenhagen pochi giorni prima del Natale sarà la fine, almeno temporanea, del «buonismo», o, se si preferisce, del buon senso, in materia climatica. E’ tramontata la speranza che l’evidenza dei dati scientifici e dei mutamenti facilmente verificabili si sarebbe imposta sugli egoismi e sulle miopie dei principali Paesi del pianeta; che i capi di questi Paesi, impauriti dall’arretramento dei ghiacci e dall’avanzamento dei deserti, si sarebbero solennemente impegnati a ridurre entrambi con l’adozione di misure adeguate. Al contrario, gli egoismi nazionali sono addirittura esplosi, e si è passati rapidamente dai discorsi sui principi e sul lungo periodo al litigio sui soldi (molto pochi in questo momento di crisi) disponibili nel breve periodo per arrestare questa minaccia planetaria. Il clima sembra così essersi trasformato in un gioco a somma negativa in cui tutti escono con la faccia rossa. Primo fra tutti il governo danese, al quale la conferenza è scappata di mano, alimentando le accuse dei Paesi poveri di volerne «pilotare» le conclusioni in favore dei Paesi ricchi. I secondi a soffrirne sono indubbiamente i climatologi: grazie a uno sfortunato «incidente» sono state messe in rete le comunicazioni di posta elettronica di diversi scienziati, dai quali appare possibile che certi risultati siano stati «addomesticati» per dare maggior evidenza al fenomeno del riscaldamento globale, anche se questo non significa necessariamente che il riscaldamento stesso non esista. I non addetti ai lavori hanno così appreso che i dati «esatti» sulle temperature medie sono frutto di una «lavorazione statistica» e che i dati sulle temperature non sono, in definitiva, molto più precisi di quelli sui prezzi o sulla produzione. Se è vero che la crisi finanziaria dovrebbe insegnare un po’ di umiltà agli economisti, la crisi climatica che stiamo vivendo dovrebbe indurre gli addetti ai lavori a minori certezze e a una minore supponenza. I peccati che si possono imputare ai meteorologi sono però, tutto sommato, ben più leggeri delle accuse che sono piovute sul capo dei politici dei Paesi ricchi. I Paesi emergenti li accusano di aver drammatizzato i dati sul clima per introdurre una sorta di «colonialismo climatico»: dopo avere allegramente inquinato il mondo per duecento anni, le grandi potenze dell’Occidente agiterebbero ora lo spettro del riscaldamento globale per frenare la gigantesca espansione produttiva della Cina, del Brasile e dell’India e bloccare così l’erosione del loro potere economico. I Paesi ricchi avrebbero favorito il trasferimento nei Paesi poveri delle lavorazioni industriali più inquinanti e cercherebbero oggi di aiutare ancora una volta le proprie multinazionali, che hanno sviluppato le tecnologie del disinquinamento ambientale, a espandere la loro attività in tutto il mondo. Gli africani, poi, si sono espressi con particolare durezza denunciando di essere vittime di un nuovo tipo di sfruttamento in quanto i loro territori sono trattati troppo spesso prima come fonti di materiali da sfruttare senza alcun riguardo all’inquinamento e poi come pattumiere ecologiche in cui depositare i rifiuti di queste stesse materie prime lavorate altrove. Si tratta di accuse non infondate ma rivolte più al passato che al futuro. I Paesi emergenti dovrebbero rendersi conto che, indipendentemente dagli inquinamenti passati, il mondo non può permettersi di aumentare la quantità di materiali inquinanti immessi nell’ambiente. Agli africani occorrerebbe poi chiedere sommessamente perché, essendo indipendenti ormai da mezzo secolo, non usano meglio la loro indipendenza e continuano a peggiorare la situazione con guerre feroci tra di loro invece di svolgere azioni più coerenti per la difesa dei propri interessi comuni. Mentre l’attenzione mediatica era concentrata su quanto stava accadendo nelle strade di Copenhagen, dove polizia e manifestanti si sono scontrati con particolare durezza, gli scontri più gravi avvenivano quindi nel chiuso delle stanze in cui si svolge la Conferenza. Quello che doveva essere un momento di unione e di solidarietà rischia di trasformarsi in momento di confusione, di polemiche, di ripicche. Da queste divisioni interne potrebbe derivare un altro ostacolo alla continuazione dell’attuale esperimento di globalizzazione: gli imprenditori europei, costretti a imponenti investimenti per rispettare i rigidi vincoli climatici decisi a Bruxelles hanno buon gioco a chiedere un «dazio ecologico» sulle importazioni provenienti da Paesi che non impongono simili vincoli e le relative spese. Per evitare di cadere in un baratro ad un tempo economico ed ecologico, tutti dovrebbero fare un passo indietro: si tratta di una splendida occasione per il presidente Obama, fresco di un (discusso) premio Nobel per la pace di dimostrare di avere veramente la statura di un leader mondiale. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il futuro frugale che ci aspetta Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 11:05:06 am 29/12/2009
Il futuro frugale che ci aspetta MARIO DEAGLIO I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire. Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c'è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare. I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all'insù come un elastico, secondo l'immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse. Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri - spesso di dubbia validità - né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia. Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta. Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza. Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. L'insana giungla dei saldi Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 08:14:25 am 5/1/2010
L'insana giungla dei saldi MARIO DEAGLIO Code per entrare nei negozi; code alle casse per pagare; code sulle autostrade che portano agli outlet, i nuovi centri commerciali. Telegiornali zeppi di immagini di consumatori affannati ma contenti che dichiarano di aver fatto un «buon affare» aspettando, per acquisti importanti, che passasse il Natale e pagando così borse, scarpe e vestiti a prezzo di saldo, ossia sensibilmente di meno di una settimana fa; e di negozianti che non nascondono la soddisfazione per aver allontanato la temibile prospettiva di un magazzino rigonfio di oggetti non venduti. Di fronte a un simile spettacolo ci sono due motivi di perplessità. Il primo, di carattere generale deriva dalla constatazione che le code sono quasi sempre indizio di disfunzioni del mercato e che quelle dei saldi segnalano distorsioni nel meccanismo delle vendite e non sono certo il sintomo di un consumo equilibrato. Il secondo motivo di perplessità assume la forma di una domanda ingenua: invece dei saldi sempre più frequenti, che oggi si svolgono in svariati periodi dell’anno, non si potrebbe procedere a un permanente, sia pur più moderato, abbassamento dei prezzi di vendita? Ci sono naturalmente motivazioni tecniche per le vendite a saldo, occasioni fisiologiche, soprattutto per il settore dell’abbigliamento, per smaltire modelli, colori e forme meno desiderati. L’estendersi del fenomeno sembra però giustificare la conclusione di una riduzione nella capacità del sistema distributivo di capire ciò che il pubblico veramente vuole e quale prezzo è veramente disposto a pagare. Quando vanno al di là della loro dimensione normale, infatti, i saldi sono la misura della mancanza di conoscenza che il sistema distributivo ha dei gusti e della capacità di spesa del proprio pubblico: l’aumentare delle code è un segno della crescente distanza tra compratori e venditori, oltre che di una certa «disintegrazione» del mercato in tanti mercati paralleli che talora presentano un'ampia gamma di prezzi per lo stesso prodotto. I milioni di italiani che stanno andando a completare in questi giorni gli acquisti del periodo natalizio naturalmente non pensano che i prezzi scenderanno; in questo caso avrebbero aspettato ancora. E’ più probabile che temano di non trovare più in futuro prezzi così bassi come gli attuali. A una simile conclusione induce un’analisi, per quanto sommaria, del comunicato dell'Istat, reso noto ieri, che contiene le prime stime degli indici dei prezzi al consumo di dicembre. Se guardiamo al passato, troviamo che la nostra inflazione è ai minimi da cinquant'anni; se però guardiamo al futuro, scopriamo che, a partire dall'estate, i prezzi hanno - per quanto poco - ripreso a muoversi. Proiettando in avanti il dato mensile di dicembre (+0,2 per cento) si otterrebbe un'inflazione annuale per il 2010 compresa tra il 2 e il 3 per cento; non si tratta ancora di un livello allarmante, ma di un livello di attenzione sicuramente sì. Anche perché nei prossimi mesi dovremo fare i conti con alcuni non trascurabili aumenti tariffari e con la recentissima risalita del prezzo del petrolio, oltre che di altre materie prime, e questo può dare motivi di preoccupazione. In altre parole, dietro la maggiore difficoltà ad incontrarsi di venditori e compratori, dietro all’apparente euforia dei saldi, spuntano possibili anomalie che vanno seguite con attenzione. E’ degna di nota, inoltre, l'estrema variabilità dei prezzi esaminati per comparti: nell’arco di un anno, a fronte della stabilità degli alimentari c'è l'aumento piuttosto forte (+4,4 per cento) delle bevande alcoliche e dei tabacchi, la salita del costo dei trasporti compensata dalla riduzione del comparto elettricità, gas acqua. Non ci troviamo di fronte a variazioni uniformi ma anzi a un’estrema differenziazione che si estende fino ai singoli prodotti. Il sacco di Babbo Natale che diventa più leggero e la calza della Befana che si gonfia di saldi indicano scompensi profondi non solo nell’incerta congiuntura, ancora dominata dalla crisi, ma anche, in un quadro a più lungo termine nel modo di essere di questo paese. Sono passati i tempi in cui il consumatore medio era un entusiasta, dal portafoglio relativamente gonfio grazie alla tredicesima, che decideva la sua spesa d'impulso ed era fortemente influenzato da una pubblicità superficiale; il consumatore medio di oggi non ha molto entusiasmo e neppure molti soldi - la tredicesima serve a turare i buchi lasciati dalle buste paga mensili - ma sa di avere bisogni essenziali che deve soddisfare, come un nuovo cappotto o un nuovo paio di scarpe. Si aggira tra gli scaffali dei supermercati come un cacciatore armato di una pistola con poche cartucce e sa di non doverle sciupare, di dover mirare giusto per portare a casa il bene desiderato. Tra lui e il sistema distributivo si svolge una specie di duello: il consumatore aspetta la sua preda ai saldi, la distribuzione cerca di fare acquistare al consumatore tutto prima dei saldi. E sullo sfondo troviamo nuove forme di distribuzione, da Internet ai gruppi d'acquisto, il cui impatto è difficile da valutare. Una maggiore trasparenza su questo intrico può essere la premessa per resistere meglio a spinte anomale in futuro. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Pressione fiscale miracoli vietati in Italia e in Europa Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 04:03:02 pm 15/1/2010
Pressione fiscale miracoli vietati in Italia e in Europa MARIO DEAGLIO Non è stato soltanto il presidente del Consiglio italiano a fare una clamorosa marcia indietro nel giro di pochi giorni dopo la promessa di ridurre a due sole le aliquote Irpef, il che avrebbe fatto volare i redditi netti di molte categorie di italiani. Nella coalizione di governo tedesca è sorto un vivace contrasto tra i liberali che premono per il sostanzioso taglio fiscale promesso agli elettori e la cancelliera Merkel che frena, rinviando di un anno (almeno) il sospirato taglio. In molti Paesi d'Europa, dalla Grecia alla Gran Bretagna le imposte vengono aumentate, non diminuite. Il presidente della Banca Centrale Europea chiarendo (e forse correggendo) quanto ha detto pochi giorni fa, dichiara che l'attuale ripresa produttiva non è consolidata e che pertanto le imposte non possono essere tagliate. Il taglio delle imposte non è quindi così facile come si potrebbe pensare, non si tratta certo della bacchetta magica in grado di suscitare immediatamente la crescita. Ma non si era detto che il miglior rimedio alla crisi consisteva proprio nel mettere del nuovo denaro nelle tasche degli europei, in modo tale che la loro domanda aggiuntiva riavviasse l'economia? E perché, quando si viene al dunque, è sempre difficile, in tutta l'Europa e non soltanto in Italia, ridurre le imposte? Le risposte sono sostanzialmente tre. La prima risposta è che, invece di ridurre le imposte, la maggior parte dei paesi - non l'Italia - ha già aumentato sostanzialmente le uscite pubbliche per interventi di salvataggio delle proprie banche o altre istituzioni finanziarie in difficoltà; ad aumentare le uscite pubbliche hanno inoltre variamente contribuito - questa volta anche in Italia - le spese per sostenere la cassa integrazione o istituzioni simili che hanno mitigato l'asprezza della crisi sulle famiglie ma non sono certo bastate a rimettere nessun paese su un adeguato binario di crescita. E nel frattempo la crisi ha fatto diminuire sensibilmente le entrate fiscali. Per conseguenza il panorama dei deficit europei, oltre che degli Stati Uniti e del Giappone, è diventato orribile. Irlanda e Germania avevano entrambe un bilancio pubblico in sostanziale pareggio nel 2007, per il 2010 la Commissione europea prevede un deficit rispettivamente del 15 e del 5 per cento del prodotto interno lordo; l'Italia in questo senso si è comportata abbastanza bene passando da circa il 2 ad «appena» il 5,5 per cento previsto nel 2010 e scendendo così sotto la media della zona euro. Si tratta, però, di una magra soddisfazione perché nel 2011 il debito pubblico accumulato dall’Italia sarà, secondo le previsioni dell’Ue, pari a circa il 118 per cento del prodotto lordo; nel suo complesso l'intera area euro si sta avvicinando ai livelli italiani ma dovrebbe arrivare nel 2011 solo all'88 per cento, sempre secondo le previsioni della Commissione europea. A questo punto - ed ecco la seconda ragione della difficoltà a ridurre le imposte - una sensibile riduzione della pressione fiscale da parte dei grandi Paesi europei farebbe aumentare fortemente sia il deficit sia il debito e comporterebbe il rischio di una perdita di credibilità del debito pubblico dei Paesi emittenti con conseguenze disastrose per l'intero sistema finanziario mondiale oltre che per il singolo Paese che si dimostrasse così temerario. Per questo il governatore Trichet non vuole che le imposte diminuiscano. Se proprio si pensa di usare ancora l'arma del deficit, appare preferibile un aumento di spesa pubblica legato a grandi lavori piuttosto che un aumento dei consumi privati che consisterebbero, in parte non piccola, di beni di consumo prodotti al di fuori dell'Unione Europea. Vi è però una terza e più profonda ragione: una riduzione duratura delle imposte si potrebbe realizzare soltanto riducendo sensibilmente la spesa pubblica. Il che significa privatizzare una serie importante di servizi pubblici, oppure riorganizzarli in maniera più efficiente oppure ancora peggiorarne la qualità, in entrambi i casi riducendo sensibilmente il personale che li produce; potrebbe altresì significare la riduzione delle pensioni e di altri trasferimenti sociali. Nessuna di queste opzioni incontra il favore dell’opinione pubblica europea: gli entusiasmi per i benefici delle privatizzazioni sono ormai tramontati. Ogni giorno si registrano lamentele sul funzionamento dei servizi pubblici ma ben pochi sembrano volere davvero la privatizzazione della nettezza urbana, dell'acqua potabile, dei servizi anagrafici o delle carceri. In altre parole, una struttura pubblica solida, magari un po' grigia e vecchiotta, e un ombrello assistenziale rassicurante costituiscono una parte profonda della cultura europea. La signora Thatcher ha modificato rapidamente e radicalmente questo stato di cose in Gran Bretagna al prezzo di profonde lacerazioni nella società britannica e di una sua generale perdita di solidità. L'Europa naturalmente non dice di no all'efficienza, ma sembra preferire che l'evoluzione in quella direzione sia lenta e che i privati siano chiamati a collaborare con il settore pubblico e non a fare i «padroni». Se le cose stanno così, gli europei, e gli italiani in particolare, devono essere preparati soltanto a piccole discese della pressione fiscale che rimarrà strutturalmente più elevata di quella di Paesi maggiormente fondati sui valori individuali, a cominciare dagli Stati Uniti. L'obiettivo, in Italia e in Europa, non può essere quello di riduzioni «miracolose» del carico fiscale; è meglio pensare a un graduale e duraturo aumento dell’efficienza della spesa pubblica. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Manovratori di opinioni Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 06:07:11 pm 23/1/2010
Manovratori di opinioni MARIO DEAGLIO A prima vista non si direbbe che il governo della Repubblica Popolare Cinese e la Corte Suprema degli Stati Uniti abbiano molto in comune. Eppure nelle ultime quarantott’ore hanno adottato decisioni o preso posizioni sostanzialmente simili che potrebbero incidere molto fortemente sulla vita dei normali cittadini. Al di là delle apparenze, in entrambi i casi rischia di essere limitato il diritto di esprimere, diffondere o ricevere opinioni su Internet. Il governo cinese sostiene che Internet è libera se rispetta la legge e che le società che operano nello spazio cibernetico diffondendo informazioni devono cooperare con le autorità per stabilire un «clima di armonia e stabilità sociale» e per «orientare correttamente l'opinione pubblica». La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso qualcosa di solo apparentemente opposto: non sarà applicabile la legge che limita le risorse finanziarie che le imprese e i sindacati possono dedicare a campagne d'opinione tese, in periodo elettorale, a influire sulle decisioni degli elettori. A New York e Los Angeles non ci sarà più alcun freno alle somme per acquistare spazi televisivi, radiofonici e telematici, nonché sulla carta stampata, per far eleggere i politici vicini ai propri interessi in quanto si potrà spendere quanto si vuole e il controllo sui mezzi di informazione potrà così aumentare fortemente. Le imprese che maggiormente inquinano potranno finanziare martellanti campagne fiancheggiatrici dei candidati contrari alle norme antinquinamento; le imprese bancarie e finanziarie potranno spendere miliardi (magari a suo tempo sborsati dallo Stato per evitarne il fallimento) per sostenere i parlamentari contrari alla proposta del presidente Obama di introdurre un'imposta speciale sulle banche; le case farmaceutiche e le compagnie di assicurazione potranno raddoppiare i loro sforzi a favore di politiche che vogliono convincere gli americani che la riforma sanitaria proposta dal Presidente è un disastro. Questi comportamenti si estenderanno anche a livello locale e la democrazia di base degli Stati Uniti, dove anche il capo dei pompieri o il procuratore distrettuale vengono scelti con un'elezione popolare, potrebbe uscirne fortemente distorta. «Con un tratto di penna», ha commentato il presidente di un'associazione statunitense per le libertà politiche, «cinque giudici (sui nove che compongono la Corte) hanno cancellato un secolo di norme per limitare l'influenza delle imprese sulla politica». New York e Los Angeles rischiano così di avvicinarsi alla realtà di Pechino e Shanghai in cui gli spazi dell'informazione e, più in generale, quelli telematici sono da sempre accuratamente controllati. In Cina - Paese che negli ultimi tempi ha mostrato qualche grado di flessibilità - il controllo è effettuato dal governo e dal partito comunista cinese, negli Stati Uniti potrà toccare di fatto alle lobbies, ossia alle unioni di imprese che perseguono gli interessi comuni dei loro associati, finora sottoposte oltre che alla trasparenza anche a limiti di spesa piuttosto severi. Non a caso, Google - la società di servizi informatici che più viene associata alla libertà di informazione per il suo eccellente motore di ricerca che consente di consultare infinite fonti in un batter d'occhio - è sotto attacco sia a Pechino, perché non vuole più rispettare la censura, sia in vari paesi occidentali, dove si vuol limitare la sua capacità di mettere gratuitamente importanti fonti informative a disposizione del pubblico di Internet. La «chiusura» di Internet come strumento di informazione e di espressione di opinioni potrebbe così procedere in maniera rapidissima, tanto da mettere in dubbio la sua possibilità di continuare a essere, come negli ultimi dieci anni, una colonna della libertà. Anche il funzionamento efficiente delle Borse potrebbe essere compromesso se, tanto per fare un esempio, un'impresa in difficoltà potesse svolgere sulla rete, senza limiti di costo, una campagna aggressiva in proprio favore che raggiunge gratuitamente il risparmiatore mentre il risparmiatore stesso potrebbe essere costretto a pagare per conoscere le opinioni contrarie. Nel momento in cui stanno sorgendo nuove, grandi concentrazioni mondiali di imprese, spesso grazie alla «campagna acquisti» condotta in tutto il mondo dalle società semi-pubbliche cinesi, potrebbe venire a mancare la loro controparte dialettica. I più ricchi acquisterebbero così nuova forza, e i governi sarebbero ancora più fortemente condizionati di oggi dai loro «grandi elettori». Tutto ciò induce a considerare il caso italiano, in cui l'influenza dei vertici politici sulle reti televisive può diventare soverchiante, come l'anticipazione di un problema mondiale: fino a che punto e con quali mezzi deve essere lecito «orientare» l’opinione pubblica, come dicono i cinesi e come faranno sempre di più i grandi interessi economici americani? Quanto spazio resterà per chi vorrà essere diversamente orientato o diversamente orientare i suoi concittadini? In un mondo in cui la non trasparenza delle operazioni finanziarie ha indubbiamente favorito la crisi economica, quali garanzie potranno davvero restare al cittadino e al cittadino-risparmiatore? mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Adesso serve una Ue a due velocità Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2010, 06:36:05 pm 6/2/2010
Adesso serve una Ue a due velocità MARIO DEAGLIO Basta con l’Europa delle quote latte, dei cavilli, delle burocrazie, che va avanti con una costituzione che non c’è e con un governo che non c’è; che ha saputo fare una moneta ma non sa fare una politica economica; che pone ai propri vertici burocrati anziché politici di primo piano. Un’Europa che sembra spesso mettere ipocritamente alla pari colossi come Francia e Germania con Paesi come l’Estonia, i cui abitanti starebbero tutti in un quartiere di Parigi. Se lo scossone assestato dalle difficoltà greche, spagnole e portoghesi alle Borse europee determinerà una svolta che ci allontana dalla falsa normalità di questi anni sarà almeno servito a qualcosa. Ben pochi avrebbero pensato, anche solo un mese fa, che il Vecchio Continente si sarebbe gradatamente spostato verso l’occhio del ciclone economico-finanziario che ci assilla da quasi tre anni e che l’euro si sarebbe rivelato debole e il dollaro incredibilmente forte. Gli europei, che sono certamente vecchi e che troppo spesso per questo si ritengono saggi, guardavano alla crisi americana dall’alto in basso; oggi si trovano platealmente snobbati dal giovane presidente degli Stati Uniti che, sull’onda del rialzo del dollaro, annulla il normale vertice con l’Unione Europea perché con l’Europa non c’è proprio nulla da discutere, perché l’Europa è un interlocutore fantasma. Ci si aspettava che dovesse arrivare l’«ora della verità» per il dollaro e per gli Stati Uniti, e invece è arrivata l’ora della verità per la giovane moneta europea, fino a pochissimi giorni fa sicura della sua forza e ora minata dalla crepa spagnola e dalla crepa irlandese. La crisi delle finanze pubbliche spagnole ha infatti posto in luce una serie di gravi debolezze strutturali della costruzione economica europea. Non esiste alcuna previsione per la possibile uscita - o espulsione - di un Paese dall’area dell’euro; parallelamente non è ben chiaro se, e a quale titolo, altri Paesi o la stessa Banca Centrale possano dare un aiuto finanziario sostanzioso a un Paese in difficoltà. L’Eurostat, cui compete il controllo e l’armonizzazione delle statistiche e dei conti pubblici europei, aveva già denunciato i trucchi contabili di Atene nel 2004, ma non se ne fece nulla. Molte azioni comuni europee aggiungono complicazioni burocratiche, più che portare a vantaggi per produttori e consumatori. Per queste debolezze strutturali, prima ancora che per la forza della speculazione, l’euro si è indebolito in maniera consistente nelle ultime settimane, dando maggior forza alle paure di nuove correnti inflazionistiche che, potrebbero derivare dall’aumento dei prezzi delle materie prime, espressi in dollari oggi più cari. In queste condizioni, qualche forma di «Europa a due velocità» sembra inevitabile. Il vertice franco-tedesco svoltosi due giorni fa a Parigi, che sembrava un incontro quasi di routine, potrebbe essere l’inizio di una rifondazione europea secondo questa linea: non soltanto i due Paesi rappresentano assieme un po’ meno di un terzo della popolazione dell’Unione e un po’ più di un terzo della sua produzione, ma l’Europa, nata dalla paura di una ripresa del loro conflitto storico, potrà essere rilanciata soltanto da una ripresa della loro stretta collaborazione, che data da oltre mezzo secolo e attorno alla quale l’Unione Europea è stata costruita pezzo dopo pezzo. E’ necessario che qualcuno mostri la strada di una vera armonizzazione delle politiche economiche, di un coordinamento delle politiche industriali, anche se non tutti gli altri Paesi potranno o vorranno seguire subito. Un’«Europa a due velocità» potrebbe diventare inevitabile almeno in economia, ed è sembrato di cogliere qualche segnale in tal senso dal vertice parigino. E il «commissariamento» della Grecia deciso a Bruxelles potrebbe essere il primo passo di una nuova politica economica più costrittiva nei confronti dei governi nazionali che non seguano le regole concordate. E l’Italia? Se si sommano popolazione e prodotto lordo italiano a quelli franco-tedeschi si ottiene all’incirca la metà del totale europeo. In questo senso l’Italia potrebbe dare un appoggio importante, limitato però dal peso gravoso del suo debito, a una rifondazione della politica economica europea. Va dato atto ai ministri dell’economia che si sono succeduti nell’ultimo decennio di aver complessivamente gestito in maniera soddisfacente un debito che poteva destabilizzare l’economia e di aver resistito a forti pressioni bipartisan per ogni genere di aumenti di spesa che l’Italia non si poteva permettere. Un’Italia che ha tratto grande beneficio in questi anni tempestosi dall’«ombrello» dell’euro non può che collaborare a turare i buchi che si sono improvvisamente aperti in quest’ombrello, anche perché deve essere conscia della possibilità di divenire essa stessa bersaglio di attacchi speculativi. Se la prima, traballante linea greco-spagnola dovesse scricchiolare ancora, occorrerebbe vigilare strettamente perché il debito pubblico italiano mantenga la sua attuale reputazione; e senza una buona reputazione, il rifinanziamento del debito in scadenza diventerebbe molto più costoso. Per questo, i dati sorprendentemente buoni dei conti pubblici di gennaio sono una manna piovuta dal cielo. Né gli europei né gli italiani possono però vivere di sola manna: invece di schiacciarci sul giorno per giorno, dobbiamo ricominciare con ragionamenti e politiche di lungo periodo. Le sole che possano permetterci di cercare di progettare il nostro futuro anziché subirlo. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. E l'Europa fa finta di niente Inserito da: Admin - Marzo 04, 2010, 11:22:12 am 4/3/2010
E l'Europa fa finta di niente MARIO DEAGLIO Dalle liste ai listini: assorbiti dai problemi delle liste elettorali, noi italiani stiamo dimenticando quelli dei listini finanziari. Eppure sia le liste sia i listini contengono indizi di un malessere profondo che riguarda nel primo caso la società italiana e nel secondo la presenza dell’Italia e dell’Europa nell’economia mondiale; guardare solo ai problemi della prossima consultazione elettorale e trascurare orizzonti più vasti costituisce un pericolo grave. Il primo listino al quale prestare attenzione è quello dei cambi. Ai primi di dicembre ci volevano 150 centesimi di dollaro per comprare un euro, ora ne bastano 135, con una flessione del 10 per cento in tre mesi del valore della nostra moneta rispetto a quella americana. Questo di per sé non sarebbe un male perché dà fiato alle esportazioni ma è preoccupante il motivo alla base della caduta: il vuoto di politica economica dell’Unione Europea, la sua incapacità di reagire rapidamente a una crisi piccola come quella greca che incredibilmente rischia di travolgere la seconda valuta del mondo. L’Unione Europea semplicemente non ha alcuno strumento per affrontare la crisi finanziaria di un Paese membro. Ed è rimasta immobile per due settimane, bloccata dal «moralismo» della Germania - alla quale si aggiungono i membri nordici della zona euro - che mostra un’avversione viscerale al salvataggio finanziario dei greci, spendaccioni «cattivi». Salvo poi scoprire che i «vizi» greci sono stati potentemente finanziati, tra gli altri, anche da banche tedesche e nord-europee che registreranno sensibili perdite se la Grecia non verrà sostenuta. Nel frattempo, dal neo-presidente del Consiglio Europeo, Herman van Rompuy e dalla neo-rappresentante per gli Affari Esteri, Margaret Ashton - i due politici che avrebbero dovuto rivitalizzare l’Unione uscita dal Trattato di Lisbona, povero surrogato di una Costituzione condivisa - si registra solo un imbarazzante silenzio. Certo, la crisi greca non rientra nelle loro competenze specifiche; il guaio è che non rientra nelle competenze specifiche di nessuno. Se però la Grecia - alla quale vanno richiesti doverosi sacrifici per le leggerezze e gli errori del passato - non fosse aiutata dall’Europa (e magari venisse aiutata dal Fondo Monetario o dalla Cina) ci si potrebbe domandare a che cosa serve veramente l’Unione Europea e se l’euro ha ancora un significato. Il secondo listino che ignoriamo a nostro rischio e pericolo è quello azionario, da considerare in questo momento di difficoltà non soltanto come un termometro finanziario ma come un importante indicatore politico-sociale. Come tutti i listini europei, anche quello italiano è lontanissimo dai massimi; una breve tendenza al rialzo iniziata a dicembre si è esaurita a gennaio e da allora prevale un ritmo stanco, da persona anziana che ben si addice a un Paese in cui gli anziani si avviano a diventare maggioranza. Più in generale, i capitali finanziari risentono della fragilità di un’Europa priva di un qualsiasi indirizzo di politica economica e della particolare debolezza di Spagna e Gran Bretagna. Guardano con maggiore interesse all’America, dove i segnali di ripresa sono più robusti, per quanto ancora largamente insufficienti, e soprattutto ai Paesi emergenti, che la crisi se la sono già lasciata alle spalle. Il terzo listino che dovremmo tenere presente è molto lungo. Consiste, infatti, di 9255 nomi: tante sono, secondo i dati della Cerved, le imprese fallite in Italia nel corso del 2009, millesettecento in più di quelle fallite nel 2008, quasi il doppio dei fallimenti che si registrano in un anno «normale». E’ molto probabile che questo numero sia destinato a crescere nel 2010 così come si prevede tranquillamente una crescita della disoccupazione; il panorama del resto dell’Europa non è molto diverso. Non si prevede alcuna risposta coordinata alla crisi, alcuna vera politica che possa indirizzare e magari galvanizzare gli europei, quando è ormai chiaro che da questa crisi l’Europa uscirà veramente con una nuova struttura istituzionale che ne accentui il carattere federale, magari con competenze pubbliche europee finanziate da un’imposta europea. Di tutto ciò, però, non parla nessuno. I francesi, anch’essi alla vigilia di elezioni locali importanti, si lamentano perché i servizi pubblici non sono più quelli di una volta, i tedeschi sono ancora sotto choc per l’entità dell’evasione fiscale dei loro alti dirigenti con conti esteri irregolari, gli inglesi scoprono che il loro primo ministro ha un pessimo carattere. E gli italiani? Si occupano delle modalità di presentazione delle liste alle elezioni regionali; un problema sicuramente importante, che distrae però l’attenzione da un’economia largamente lasciata a se stessa che, come le sue consorelle europee, continua a nuotare tranquillamente nelle acque mortifere della recessione. da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Alla fine il conto arriverà Inserito da: Admin - Marzo 12, 2010, 08:13:36 am 12/3/2010
Alla fine il conto arriverà MARIO DEAGLIO Quando si fa politica e si è nel mezzo di una campagna elettorale densa, come l’attuale, di incidenti di percorso, è purtroppo facile lasciarsi prendere dalla retorica e far passare in secondo piano, o addirittura maltrattare, le cifre della situazione economica. Proprio per questo si fa un giusto servizio ai lettori mettendo sobriamente a fuoco la situazione, anche se così si richiede loro di confrontarsi con le cifre, peraltro solo apparentemente aride, che pongono in luce le difficoltà oggettive di oggi. Fatto pari a 100 il valore del 2005, la produzione industriale italiana raggiunse il suo massimo pre-crisi nell’aprile 2008 con il valore di 108,9. La crisi la fece letteralmente precipitare, tanto che nel marzo 2009 si toccò il valore straordinariamente basso di 81,1 con una contrazione del 26 per cento. La risalita successiva appare troppo lenta: ha portato l’indice di gennaio al valore di 87,9, (-19 per cento rispetto ai livelli pre-crisi) e se continueremo a questa velocità ritorneremo ai livelli di anni che oggi ci sembrano dorati non prima della fine del 2013. E quando ci saremo arrivati, tenuto conto dei normali aumenti della produttività, indispensabili per restare sui mercati internazionali, l’industria - che ha già subito una perdita di oltre 300 mila posti di lavoro - darà lavoro a un numero di persone sensibilmente inferiore a quello di allora. Se dalla produzione industriale si passa al prodotto lordo (il «mitico» Pil) il discorso di base non cambia anche se le dimensioni della caduta sono fortunatamente minori: dai massimi del primo trimestre 2008 l’Italia ha fatto registrare, insieme a Germania e Regno Unito, una caduta di oltre il 6 per cento. Il successivo rimbalzo è stato così debole e incerto che non possiamo ancora affermare di essere veramente in risalita, anche se numerosi segnali in vari settori produttivi puntano in quella direzione. Proprio per l’incertezza e la debolezza della ripresa, anche in questo caso ci vorranno diversi anni, assai più di quelli necessari agli altri Paesi avanzati, per tornare ai livelli di prima. La situazione italiana è quindi molto difficile, ma non per questo deve essere drammatizzata; non appare però appropriato che il presidente del Consiglio la minimizzi, affermando sbrigativamente che «è iniziata la risalita». Come fa chi porta i bambini in gita e, a ogni svolta di strada, dice loro che la meta è dietro l’angolo perché non sentano la stanchezza. Gli italiani, come cittadini e come elettori, non meritano di essere trattati da bambini, devono essere posti davanti alla gravità della situazione e alla responsabilità che essa comporta. Il presidente del Consiglio non è il solo capo di governo che cerca di indorare la pillola; e proprio per questo giunge appropriata la «lavata di capo» che la Banca Centrale Europea (Bce) ha rivolto ieri a tutti i governi della zona euro. La Bce ha il compito di salvaguardare la stabilità monetaria, afferma sostanzialmente che i conti vanno pagati, che, essendo terminata la fase dell’emergenza, non continuerà a immettere liquidità nel sistema economico europeo in grandi quantità come ha fatto finora. La ricreazione è finita, in altre parole, e tutti i Paesi devono rimettersi in regola con i famosi parametri di Maastricht. A questo punto non basta affidarsi all’ottimismo, sostenere che la crisi è psicologica, o che addirittura non esiste; anche perché la caduta produttiva europea ha le sue origini nel forte calo delle esportazioni più che dei consumi interni e contro di esso non bastano consumatori più allegri. Il presidente del Consiglio - e con lui gli altri capi di governo europei - dica chiaramente se ritiene di seguire la strada indicata dalla Banca Centrale oppure preferisce non accettare questa guida molto ortodossa e molto «noiosa» che obbligherebbe a «fare le riforme». «Fare le riforme» è nulla più di un eufemismo per dire che, non solo in Italia ma in tutti i Paesi europei, occorre ridurre sensibilmente, a parità di servizi erogati, il numero dei pubblici dipendenti, aumentare la concorrenza nelle professioni cosiddette «libere», far calare le aspettative pensionistiche e forse anche una parte delle pensioni attuali. Si tratta insomma, sia pure in dosi più limitate, della «ricetta greca» che viene visceralmente rifiutata nelle strade di Atene e Salonicco. Se non si vuole seguire quella strada, un’alternativa c’è, pericolosa e alquanto eretica ma forse politicamente più accettabile. L’ha delineata Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, e comporta la cosciente accettazione di un tasso di inflazione sensibilmente più alto dell’attuale (il 4 per cento); quest’inflazione dovrebbe essere controllata, agirebbe da anestetico e consentirebbe di lenire la durezza delle riforme, «spalmandola» su un numero maggiore di anni. Si tratta naturalmente di una strada pericolosa perché, una volta lasciata fuori dalla sua gabbia, non è sicuro che l’inflazione sia controllabile. In definitiva, in questa situazione i politici sono chiamati a fare i politici: a prendere delle decisioni e assumersene le responsabilità. Non a risolvere tutto con qualche battuta, sperando che questa metta il buon umore a cittadini giustamente preoccupati. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. L'Europa sul piano inclinato Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 08:57:39 am 23/3/2010
L'Europa sul piano inclinato MARIO DEAGLIO L’uscita dalla crisi finanziaria mondiale assomiglia sempre di più a certe ascensioni dal percorso molto esposto nelle quali a ogni passo si rischia di cadere e si è in preda alle vertigini. Il senso di vertigine è chiaramente visibile se si guarda all’euro che sta mostrando vistosi segnali di indebolimento per l’incapacità dell’Europa non solo di risolvere ma addirittura di affrontare il problema del debito pubblico greco. Sono ormai 15 giorni che il neo primo ministro di Atene, Giorgio Papandreou, viene lasciato a bagnomaria tra esitazioni e silenzi, o meglio sottoposto a una serie di docce fredde sulla possibilità di ottenere un finanziamento dai partner europei. Per conseguenza di queste docce fredde è però l’euro che si sta prendendo la polmonite: se gli europei non sapessero risolvere i problemi monetari di un piccolo paese della loro area, vedremmo accrescersi la sua vulnerabilità e ridursi fortemente la sua credibilità come grande valuta mondiale. Alla base dell’indecisione europea ci sono le incertezze tedesche. Berlino sembra incapace di un dialogo costruttivo e indulge in un eccesso di moralismo che si può sintetizzare in tre punti. Il primo è che i greci sono «cattivi» perché il rapporto deficit/Pil è all’astronomico livello del 12,9 che fa sembrare gli italiani, con un valore del 5 per cento, dei maestri di virtù. Il secondo è che sono anche degli imbroglioni perché, pur di entrare nell’euro, nel 2004 truccarono le cifre della loro situazione finanziaria pubblica. Per conseguenza - ed ecco il terzo punto - è bene che paghino duramente e non presentino il conto al contribuente tedesco. Per usare l’espressione di un precedente cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, rivolta contro l’Italia nel 1974, durante una grave crisi della lira, la Germania non presterà «nemmeno uno stanco marco» (keine muede Mark) a gente fatta così. Andrebbe osservato che il deficit greco è stato a lungo tollerato dall’Europa forse anche perché il collocamento del debito greco ha procurato profitti non trascurabili alle banche tedesche; che nel 2004 si chiusero gli occhi sui «trucchi» greci anche perché nessun paese era del tutto alieno da qualche abbellimento contabile: e che nel 1974 la Germania fu alla fine costretta a concedere un grosso prestito alla sciagurata Italia, per evitare il collasso della nascente Unione Europea, pure costringendola all’umiliante pignoramento di una parte ingente delle sue riserve auree. Il prestito però venne puntualmente restituito e l’economia italiana riprese la sua corsa per altri quindici anni. Oggi al posto del marco c’è l’euro e il «potere di indirizzo» dei tedeschi sulla moneta comune è sicuramente minore. Rifiutare il prestito ai greci, o concederlo a condizioni che li condanni a dieci anni di stagnazione (è questo più o meno il costo del rientro dal debito) significa imporre loro qualcosa di simile a onerose riparazioni di guerra. I tedeschi dovrebbero ricordare che proprio le riparazioni di guerra imposte alla Germania segnarono la fine della democrazia nel loro paese e contribuirono potentemente a creare le premesse della seconda guerra mondiale; al contrario, la rinuncia alle riparazioni di guerra nel 1945 da parte degli alleati occidentali pose le basi per il miracolo tedesco, mentre i russi spogliarono la Germania Orientale della sua attrezzatura industriale determinandone una pesante inferiorità tecnologica ed economica nei confronti delle zone occidentali. Purtroppo l’esitazione sul debito greco avviene in un momento in cui il governo francese è indebolito da una pesante sconfitta elettorale, la Gran Bretagna ha seri problemi economici e un cambio politico in vista, la Spagna e l’Italia non sono certo brillanti, sia pure per ragioni diverse. Il vuoto delle strategie tedesche si colloca così in un vuoto politico-economico europeo mentre si teme un aumento del costo del denaro dopo la stretta monetaria cinese, la ripresa economica americana stenta ad andare a regime e c’è una forte tensione sino-americana sul cambio della moneta di Pechino. Quasi duemilacinquecento anni fa, trecento guerrieri greci fermarono, almeno temporaneamente, l’avanzata dell’imponente esercito persiano alle Termopili; oggi il debito greco, di assai modesta entità nel contesto mondiale, potrebbe rappresentare un cuneo non trascurabile nelle prospettive di una stabile ripresa. La Grecia va quindi aiutata. Ma come? Non certo pagando a pie’ di lista, in questo almeno i tedeschi hanno ragione. Occorre quel «passo in avanti» di fronte al quale i governi nazionali dell’Unione europea sono così esitanti: non si esce in maniera soddisfacente dalla crisi greca senza un più stretto coordinamento delle politiche economiche dei paesi aderenti all’Unione. Obiettivi e strumenti devono essere maggiormente decisi a Bruxelles e meno a Parigi, Madrid, Roma e naturalmente Berlino: alcune riforme - a cominciare da quelle pensionistiche - sono più importanti dei prestiti e inevitabili per la Grecia e per tutti gli altri. Dietro l’esitazione sul prestito ad Atene si indovina la riluttanza dei maggiori paesi europei a spogliarsi di molte prerogative della politica economica nazionale. Al contrario, l’«armonizzazione» europea non deve restare una parola vuota e passa attraverso una vasta gamma di politiche che vanno dall’immigrazione alle pensioni, dall’energia al sistema fiscale. Solo se si incamminerà sulla strada del coordinamento l’Europa potrà proseguire verso l’unità economica e politica; e purtroppo quella strada è un piano inclinato, se non si avanza, inevitabilmente si scivola verso il basso. da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Inflazione un'arma anti-crisi Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 11:28:16 am 9/4/2010
Inflazione un'arma anti-crisi MARIO DEAGLIO In tutti i Paesi i politici sono dei giocolieri della parola, bravissimi a dire e non dire, a sfumare i significati, ad attenuare le alternative, a evitare di esprimersi seccamente con dei «sì» e dei «no». Eppure in questo tormentato inizio di primavera l’Oscar dell’oscurità non spetta a un politico ma uno stimato e serio banchiere centrale e precisamente al presidente della Banca Centrale Europea (Bce), Jean-Claude Trichet. Il 25 di marzo, in un discorso al Parlamento Europeo riunito in seduta plenaria, Trichet ha solennemente affermato che «è in atto una ripresa economica, ma questo non vuol dire che la crisi sia finita». Tradotto nell’italiano di tutti i giorni, questo suona come un non senso e fa sorgere il sospetto che alla Banca Centrale di Francoforte, come anche a Bruxelles e nei ministeri dell’economia dei principali Paesi avanzati - dove si parla di ripresa «fragile», «discontinua», «incerta» - nessuno sappia bene a che punto siamo davvero. E in quale direzione stiamo andando e che cosa occorra fare per uscire dagli attuali pasticci. Tutti tremano all’idea che le agenzie internazionali di valutazione finanziaria (rating) possano «degradare» altri Paesi oltre la Grecia, costringerli a pagare interessi elevatissimi per ogni euro preso in prestito facendo precipitare i loro bilanci pubblici nel caos. Eppure il caso della Grecia che, data la modestia delle cifre, potrebbe essere risolto senza troppa difficoltà con qualche intervento governativo, continua a ricevere nulla più che poche, ipocrite buone parole. In questa generale confusione, si inquadra l’«opportunità» per i governi europei di «ritoccare» progetti di bilancio in cui si prevedevano entrate che, a causa di una crescita probabilmente più bassa di quanto inizialmente previsto, potrebbero dar luogo a minori entrate e al relativo «buco». Il governo italiano ha smentito con decisione l’ipotesi, circolata ieri di una manovra estiva per la non piccolissima cifra di 4-5 miliardi euro, ossia circa 70-80 euro per ogni italiano. In ogni caso occorre serenamente mettere in conto la possibilità che il «buco» nel bilancio pubblico italiano diventi realtà. E non sarà una cosa che l’Italia può risolvere da sola, date le dimensioni del mercato del debito pubblico italiano. Forse, senza troppi timori di eresia, bisognerebbe accettare chiaramente un tasso di inflazione un po’ più alto di quello, oggi obiettivo della Bce, del 2 per cento che soffocherà qualsiasi ripresa. Il capo economista del Fondo Monetario, il francese Olivier Blanchard, ha suggerito un livello del 4 per cento, suscitando scandalo. Se però fossimo sicuri di controllare l’inflazione a quel livello e di non lasciarcela scappare tra le mani, il progetto Blanchard sarebbe da accogliere con entusiasmo. In ogni caso, se Tremonti ha coraggio e possibilità di guardare lontano, dovrebbe difendere una visione moderatamente espansionista alla prossima riunione dell’Ecofin, il consiglio dei titolari dei dicasteri economici: oggi obbedire ai dettami della finanza mondiale sarebbe un po’ come somministrare un farmaco che abbassa la pressione quando il paziente ha bisogno di alzarla per evitare il collasso. E’ una ricetta per finire al Pronto Soccorso. Come ha informato l’Istat nella giornata di ieri, le famiglie italiane sono quasi alla soglia del Pronto Soccorso. Negli ultimi tre mesi del 2009 hanno consumato e risparmiato sensibilmente di meno di un anno fa. Questa tendenza negativa si sta attenuando ed è in corso di riassorbimento ma non si può semplicemente sperare che si tratti dell’ultima onda della tempesta. Basti pensare che, rispetto ai livelli pre-crisi, ossia dai massimi dell’aprile 2008 la produzione industriale italiana è ancora sotto di circa il 18 per cento; le imprese hanno finora retto con molta buona volontà e l’immissione di qualche capitale ma non si può veleggiare troppo a lungo su livelli così bassi senza un forte balzo all’insù della disoccupazione. I governi europei e la Banca Centrale Europea non possono continuare così, a «giocare» con la congiuntura e a incrociare le dita, a parlare di nuove regole per la finanza, a guardare dall’altra parte quando dalle regole si passa alla necessità di affrontare i debiti pubblici, a cominciare da quello greco. Vi è naturalmente il rischio di un’esplosione, non facilmente controllabile, di malcontento popolare, di cui gli scioperi francesi (e anche inglesi e tedeschi) nei settori dei trasporti potrebbero essere un primo segnale. E in Italia occorre guardare con estrema attenzione alle proteste dei sindaci, ormai divenute collettive e organizzate, nonché a quelle delle unioni dei consumatori, assai più agguerrite di un passato anche recente. Di fronte a queste difficoltà, vorremmo vedere qualche abbozzo di strategia che ci porti, tutti insieme, ben al di là della crescita di circa l’1 per cento (se tutto andrà bene). Ma per il momento tutti sembrano propensi a non far nulla di risolutivo e ad accettare senza scomporsi le sibilline parole del Governatore Trichet. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Scommessa su un'Italia nuova Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 09:16:01 am 22/4/2010
Scommessa su un'Italia nuova MARIO DEAGLIO Attorno all'auto si intrecciano e si aggrovigliano oggi tre discorsi diversi. Il primo è quello globale, che vede il mercato dell'auto ansimare dei paesi avanzati e crescere vorticosamente nei paesi emergenti, con auto più piccole e molto meno costose. Per soddisfarli entrambi, e quindi per tener conto congiuntamente delle esigenze della sicurezza, dell'ambiente e di bassi prezzi di vendita, è necessario investire molto e produrre in grandi quantità veicoli con le medesime caratteristiche di base (le cosiddette "piattaforme"). Per il futuro ci si deve quindi attendere un grande mercato globale con pochissimi produttori per i quali la soglia di sopravvivenza è stimata in 6-7 milioni di veicoli l'anno. Di qui ha origine la corsa delle società produttrici a fusioni e accordi. La Fiat - recentemente alla ribalta per l'acquisizione di una quota dell'americana Chrysler - non è certo la sola a cercare di crearsi una base globale: per limitarsi a notizie recenti, occorre citare l'intesa di Renault-Nissan con la tedesca Daimler per un'accresciuta cooperazione tecnica. E General Motors vende ormai più auto in Cina che negli Stati Uniti, mentre il dinamismo delle vendite della Fiat in Brasile fa fortunatamente da contrappunto alla debolezza della domanda automobilistica europea. Il secondo discorso sull'auto, va decisamente a scontrarsi con questa visione globale e guarda invece ai luoghi di produzione in lista di possibile chiusura, ai posti di lavoro inaspettatamente diventati a rischio non solo nelle fabbriche ma anche negli uffici e tra i fornitori. Tutti gli accordi che le imprese considerano positivi sulla via della sopravvivenza nel mercato globale, ai cancelli degli stabilimenti sono guardati con intensa preoccupazione come possibili minacce di imminente cessazione dell'attività. Ogni grande impresa automobilistica ha i suoi Termini Imerese; che possono chiamarsi Flins e Melun rispettivamente per Renault e Peugeot, oppure Anversa per la General Motors e l'elenco potrebbe continuare. Da un punto di vista tecnico-economico, queste chiusure, già effettuate o possibili, sono la contropartita dei progetti mondiali: è difficile realizzare i secondi senza procedere alle prime. Le imprese dell'auto sono quindi tirate da due parti: per finanziarle il mercato richiede piani credibili di sopravvivenza ed espansione (due obiettivi che, in tempi lunghi, si fondono perché chi non si espande non sopravviverà) mentre il territorio, sul quale, di regola, le imprese dell'auto sono fortemente radicate, richiede assicurazioni per il mantenimento dell'attuale livello di attività. Le cifre del piano Fiat possono essere intese come un tentativo di soluzione che cerca di tener conto contemporaneamente delle compatibilità del mercato e delle esigenze del territorio. Al di là di quanto possibile a livello aziendale, è necessario l'intervento pubblico ed è questo il terzo discorso sull'auto: tale intervento è necessario nella forma di programmi assai più che di finanziamenti che devono riguardare separatamente il futuro dei lavoratori in eccesso e il futuro delle imprese impegnate in questa trasformazione. L'istanza di mantenere i posti di lavoro attuali come sono e dove sono appare in ogni caso destinata al breve periodo. Si tratta di problemi scomodi che nessun governo è entusiasta di affrontare. Anche in Italia è sicuramente mancata a livello politico una discussione sull'industria dell'auto (e sull'industria in generale) che andasse al di là dei discorsi di piccolo cabotaggio dei bonus e del "salvataggio" immediato dei posti di lavoro e si estendesse alle nuove tecnologie del settore e alle loro ricadute occupazionali (naturalmente se l'auto continuerà a essere una struttura portante del sistema industriale italiano). Al contrario, almeno in Francia e negli Stati Uniti, questi discorsi sono stati concretamente impostati e in entrambi i paesi è stato di fatto varato una sorta di piano nazionale dell'auto. Mentre le regole chiamano in causa i governi, le risorse per l'auto globale, a lungo andare, devono venire in prevalenza dal mercato finanziario globale. E il discorso del mercato globale - che la Fiat ha affrontato ieri con la presentazione dei suoi programmi fino al 2014 - implica quasi sempre la divaricazione delle strade dei vari rami di attività che oggi convivono all'interno dei grandi gruppi automobilistici ove questi non siano strettamente integrati da un punto di vista tecnologico. La separazione di Fiat Industrial dalle attività automobilistiche non significa inizialmente una variazione nella proprietà ma appare sicuramente come il riconoscimento di esigenze finanziarie diverse e di futuri tecnologicamente separati. Il piano Fiat pone il paese di fronte a un'ipotesi di realtà futura. Per questo motivo potrebbe risultare il primo contributo alla messa a punto della nuova Italia economica che emergerà dalla crisi attuale, un problema per il quale sulla scena politica ben pochi sembrano avere tempo ed energie da spendere. C'è da augurarsi che si tratti di un primo passo, nell'ambito di una dialettica costruttiva, per la presa di coscienza dal parte del Paese della realtà sgradita ma inevitabile di un'economia mondiale nella quale, volenti o nolenti, dobbiamo nuotare per restare a galla. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Nobili ideali e interessi di bottega Inserito da: Admin - Aprile 27, 2010, 12:06:04 pm 27/4/2010
Nobili ideali e interessi di bottega MARIO DEAGLIO La Grecia deve fare i compiti a casa prima di dar l’esame e ricevere gli aiuti». Così, in tono ironico e sprezzante, si è espresso ieri il leader liberale e ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle a proposito del nuovo veto che ha ancora una volta bloccato la concessione di un prestito europeo al governo di Atene. Come talvolta succede, la realtà è quasi l’esatto contrario: è il ministro Westerwelle a dover fare dei difficili compiti a casa. Il 9 maggio, infatti, nelle elezioni regionali del Land del Nord Reno - Westfalia i liberali di Westerwelle potrebbero non superare la barriera del 5 per cento. Gli equilibri politici nazionali e non solo quelli locali ne potrebbero uscire alterati. Il governo tedesco, quindi, parla di principi ma guarda alle urne, si appella agli ideali della corretta amministrazione ma punta prima di tutto a far bella figura con i 15 milioni di elettori di una delle regioni più importanti della Germania. Non è la prima volta che nobili ideali coprono più prosaici interessi di bottega e non saranno certo gli italiani a scandalizzarsi troppo. Superata, o comunque archiviata, la prova elettorale, la Germania dovrà aiutare la Grecia; anche perché se non aiuta la Grecia potrebbe procurare danni gravissimi alla Hre, un’istituzione finanziaria tedesca recentemente nazionalizzata per sottrarla al fallimento, che ha partecipato alle rischiose operazioni della finanza internazionale sul debito greco e potrebbe essere detentrice di un congruo pacchetto di tale debito. Per non dare qualche soldo alla Grecia si rischia quindi un possibile effetto devastante su tutto il mondo finanziario tedesco. Nel frattempo, si lascia via libera alla caccia grossa della finanza internazionale che ha nel mirino il Portogallo, altro Paese debole. Le sue condizioni sono sensibilmente meno gravi di quelle della Grecia ma il suo «rischio Paese» è stato, per analogia, pesantemente rivisto all’insù dai mercati. E intanto, sempre per analogia, qualcosa si muove al rialzo anche sul rischio spagnolo. Portogallo, Grecia, Spagna: dei quattro paesi a rischio che compongono l’acronimo Pigs (maiali) inelegantemente coniato nei circoli finanziari, ne rimane uno solo che comincia per I. No, non si tratta, per ora, dell’Italia - che ha un rapporto deficit/pil del 5,3 per cento, nettamente inferiore alla media dei Paesi dell’euro - ma della disgraziata Irlanda che ha un terribile 14,3 per cento. C’è però poco da stare allegri: anche l’Italia comincia per I e il 9 maggio è ancora molto lontano. Se tutto ciò venisse scritto in un romanzo di fantaeconomia sembrerebbe incredibile oltre che grottesco. Eppure è quanto si sta verificando in un’Europa senza istituzioni sicure, dove la Banca Centrale Europea sta chiusa in un elegante grattacielo, come isolata dal mondo, senza un ministero europeo dell’economia con cui dialogare mentre i singoli paesi vanno ciascuno per conto suo e il Belgio, che dovrebbe essere il più «europeo» di tutti, non foss’altro che per essere sede delle maggiori istituzioni dell’Unione, è entrato in una crisi politica al buio dopo un paio d’anni di effettivo non governo. Non si esce da questa situazione semplicemente mettendo una pezza sul debito greco. Per non affondare, per non andare indietro, l’Europa sarà costretta a fare un deciso passo avanti sulla via dell’integrazione. Tale passo in avanti non può che implicare un’ulteriore perdita di sovranità economica dei singoli stati dell’Unione a cominciare da quelli più deboli che dovranno accettare una supervisione a livello europeo. Alcune competenze economiche degli stati nazionali (per esempio relative alle grandi infrastrutture europee) dovrebbero poi passare a un governo centrale ed essere finanziate mediante un’imposizione fiscale europea, determinata e controllata dal Parlamento europeo. L’autonomia economica di paesi come Francia, Germania e Italia dovrebbe lentamente ridursi fino ad assomigliare a quella (peraltro non trascurabile) di California, Massachusetts o Nebraska all’interno degli Stati Uniti. Per l’Italia, la situazione presenta un risvolto del tutto particolare. L’Italia ha pagato con 10-15 anni di non crescita, o di crescita insufficiente, l’adesione, peraltro indispensabile, ai parametri di Maastricht: pur non essendo riuscita a ridurre grandemente il rapporto debito/prodotto, ha mantenuto fede agli impegni concordati e i suoi conti pubblici sono abbastanza in ordine. Si tratta naturalmente di una situazione precaria che potrebbe volgere decisamente al peggio in caso di cambiamento improvviso del quadro politico. Uno scioglimento anticipato delle Camere potrebbe indurre le agenzie internazionali di rating, come Moody’s e S&P, delle quali ormai la politica di ogni Paese è succube, ad abbassare improvvisamente la valutazione del debito pubblico italiano. Gli uomini politici italiani, notoriamente loquaci, dovrebbero poi ricordare che, quando fanno dichiarazioni, Moody’s e S&P ascoltano e annotano. Se non dai richiami del Presidente della Repubblica, almeno dalla finanza internazionale dovrebbe venire al mondo politico il richiamo a una maggiore cautela. mario.deaglio@unito.it da lastampa.it Titolo: MARIO DEAGLIO. I cerotti non curano la malattia Inserito da: Admin - Maggio 08, 2010, 03:07:04 pm 8/5/2010
I cerotti non curano la malattia MARIO DEAGLIO Non è sufficiente mettere un «cerotto» sulle ferite aperte dell’economia greca, come si apprestano a fare i leader europei nei prossimi giorni, concedendo ad Atene un prestito troppo a lungo rinviato. Non bastano parole e documenti solenni a dare ai guai di Atene la «risposta forte» auspicata dal presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama. I responsabili delle maggiori economie del pianeta sono troppo spesso vittime della propria retorica, troppe volte hanno parlato in maniera non sufficientemente meditata di crisi superata; troppe volte hanno apposto firme solo apparentemente rassicuranti. In realtà appare più appropriato supporre che il virus all’origine di questa crisi abbia subito una nuova mutazione: sorto nel 2007 in un segmento secondario della finanza americana, quello dei mutui subprime, è mutato la prima volta nell’autunno del 2008 provocando una sensibile caduta di produzione e occupazione in tutti i Paesi ricchi dopo aver devastato la finanza internazionale e distrutto una parte non piccola del capitale finanziario mondiale. Ora sembra mutare nuovamente forma e percorso e ritornare, in maniera più aggressiva, a colpire quella che è forse la componente più sensibile della finanza mondiale, ritenuta fino a poco tempo fa intoccabile e invulnerabile: il «debito sovrano», ossia i titoli emessi in prima persona dai principali Paesi del mondo. La Grecia è un caso limite di debolezza in quanto Atene ha seguito politiche irresponsabili e platealmente truccato i dati per poter essere ammessa nella zona euro. Un prestito europeo alla Grecia può forse servire a guadagnare tempo, anche se, come ha sottolineato Franco Bruni su queste colonne alcuni giorni fa, quella che ora viene proposta pare una soluzione malaccorta e troppo «violenta» in quanto è irrealistico chiedere a qualsiasi Paese un «rientro» da una situazione debitoria così pesante in soli tre anni. Servono altre cure, di natura strutturale, che riguardano il mercato finanziario internazionale e i Paesi che su questo mercato contraggono (e normalmente ripagano) debiti. Tali cure devono rivolgersi in primo luogo al funzionamento dei mercati. La Grecia sarà pure una grande peccatrice finanziaria, ma non è giusto che chi l’ha aiutata a peccare e ha tratto vasti guadagni dal suo peccato possa godersi tranquillamente tali guadagni. Il pensiero va naturalmente ad alcune grandi organizzazioni finanziarie, soprattutto americane che sembrano aver cancellato ogni senso di lealtà verso il cliente: hanno aiutato la Grecia a raccogliere prestiti emettendo titoli di debito, e subito dopo hanno scommesso sulla loro perdita di valore. Senza neppure scomodare l’etica, sui mercati è essenziale una maggiore coerenza e continuità di comportamenti. È inoltre opportuno che le agenzie di rating, che svolgono un indispensabile compito di valutazione indipendente, seguano rigide procedure di comunicazione: in questi giorni i mercati sono stati sconvolti da annunci, che risultano francamente irresponsabili da parte di tali agenzie sul probabile declassamento dei debiti di alcuni Paesi. Una regolazione quasi immediata del loro comportamento sembra inevitabile per attenuare le convulsioni dei mercati. In questi mercati, un ruolo fondamentale spetta al debito pubblico. Si deve constatare, come risulta da un recentissimo studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, che il livello di tale debito è destinato a salire nei prossimi anni e decenni in tutti i Paesi ricchi anche per effetto dell’invecchiamento della popolazione che porta a un aumento della spesa pensionistica e della spesa sanitaria. Occorrono forse misure drastiche di contenimento della spesa (come indicato dagli autori dello studio, Cecchetti, Mohanty e Zampolli) o forse l’accettazione di un tasso leggermente più elevato di inflazione, sempre che la si riesca a controllare; in Europa, in ogni caso, è indispensabile riscrivere con clausole più larghe il patto di stabilità che oggi appare perfino ridicolo. In un più generale ambito mondiale, il livello strutturale di rischio di tutti i debiti pubblici, e più in generale di tutti gli impieghi finanziari, appare cresciuto dopo l’episodio greco. Queste variazioni strutturali delle finanze pubbliche si accompagnano a un crescente malessere politico: pressoché tutti i governi dei Paesi ricchi sono di fronte a situazioni difficili che riescono a controllare con sempre maggior fatica, a un malcontento di fondo che si esprime con la frammentazione del quadro politico tradizionale (come in Gran Bretagna, dove la formula del bipolarismo è saltata con le elezioni dell’altroieri, o in Belgio dove il parlamento si è sciolto in un clima di confusione) e con una generale fatica dei governi a mettere in pratica qualsiasi tipo di riforma (come in Italia). Instabilità politica e malessere economico sembrano così andare di pari passo e minacciano di soffocare il nostro futuro. Speriamo che abbia ragione il presidente Napolitano e che le vicende greche e il profondo tonfo delle Borse mondiali degli ultimi due giorni siano soltanto il «colpo di coda» della crisi mondiale. L’errore maggiore che possiamo fare è quello di cercare di affrontare questo «colpo di coda» soltanto con misure tecniche immediate anziché curarne le cause di fondo di tipo economico, sociale e politico. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7320&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La prova di forza di Berlino Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 05:47:07 pm 20/5/2010
La prova di forza di Berlino MARIO DEAGLIO Tutti si aspettavano che sulle vicende dell’euro l'Europa, prima o poi, avrebbe battuto un colpo. Il colpo invece l'ha battuto la Germania da sola, dopo mesi di indecisione, evitando così di rinchiudersi in se stessa e rivendicando chiaramente la leadership in campo monetario e finanziario. Il colpo battuto dai tedeschi ha assunto la forma di un secco divieto alla vendita allo scoperto, «nuda», di titoli di Stato della zona euro, ossia la forma più aggressiva di speculazione che ha perseguitato e sta ancora perseguitando i Paesi europei e soprattutto i loro debiti pubblici; lo stesso divieto si applica alle azioni di alcune tra le principali banche e istituzioni finanziarie tedesche. Al di là della sostanza, sulla cui efficacia di lungo termine qualche dubbio è lecito, impressiona la forma: la Germania ha agito da sola, seguendo una falsariga approssimativamente concordata nei giorni scorsi con gli altri Paesi della zona euro, ma senza informarli preventivamente e si prepara ad accompagnare questa misura concreta con la proposta di altri otto «punti» che venerdì il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble sottoporrà al Consiglio dei ministri economici e finanziari. Si tratta di una serie di misure punitive per gli Stati con i deficit o i debiti troppo elevati, analoghe a quelle che si applicano alle imprese in stato fallimentare, che comprendono la sospensione del diritto di voto in vari organi dell'Unione Europea. Per conseguenza il quadro istituzionale dell'Unione Europea potrebbe rapidamente cambiare e soprattutto l'intesa di fondo tra Germania e Francia, finora asse portante della costruzione economica e politica europea, potrebbe subire importanti modificazioni. I francesi, in particolare il ministro delle Finanze Christine Lagarde, non hanno nascosto la loro irritazione per non essere stati consultati; né i mercati la loro costernazione per essere stati «bacchettati». Le Borse europee sono scese di 2-3 punti percentuali e quelle americane hanno mostrato ribassi di dimensioni più ridotte ma il cambio dell'euro si è stabilizzato recuperando in maniera abbastanza sensibile. Può darsi che i tedeschi abbiano agito «per disperazione», come ha scritto qualche commentatore, ma l'importante è che la gravità della situazione abbia indotto qualcuno ad agire (e non poteva che essere la Germania, date le sue dimensioni economico-finanziarie) e che sia stata interrotta la serie degli inconcludenti balletti di Bruxelles e dei comunicati fatti di buone parole senza vera sostanza. L'allegro mondo della speculazione senza rete ha trovato un limite istituzionale che potrebbe essere il primo di una serie di «paletti» destinati a trasformare radicalmente i giochi mondiali della finanza e a reintrodurre, o comunque rafforzare, il controllo pubblico. Le misure di contenimento dei deficit pubblici, che pressoché tutti i governi stanno mettendo a punto in gran fretta per fronteggiare la situazione, assumono così una diversa prospettiva: non si tratta più di fatti nazionali ma di un insieme di misure di emergenza che lentamente si compongono in un disegno europeo, il che dovrebbe renderle più accettabili a un'opinione pubblica che sicuramente non li ama, come dimostrano le resistenze politico-sociali manifestatesi in questi giorni nei Paesi per i quali la cura è particolarmente drastica, come la Grecia e la Spagna. Non si tratta tanto di difendere un determinato cambio dell'euro (l'attuale diminuzione fa balenare un pericolo inflazionistico non trascurabile ma introduce anche uno stimolo produttivo in quanto rende le merci europee più competitive nei confronti di quelle asiatiche o americane) ma piuttosto di evitarne la volatilità e di impedire che diventi una sorta di giocattolo in mani altrui. In questo quadro, la «cura italiana» delineata dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, non appare particolarmente drastica (del resto la situazione debitoria italiana, pur grave, non è allarmante) ed appare rivolta alle aree grigie, o addirittura nere, dell'economia e della società. Tremonti intende incidere su forme di evasione legate a consumi vistosi, e su sprechi pubblici che suonano insultanti per il normale cittadino, dal costo della politica ai falsi invalidi. Appare ingeneroso uno scetticismo preconcetto anche perché nella lotta all'evasione in questi due anni il ministro dell'Economia qualche risultato significativo l'ha portato a casa. Certo incontrerà difficoltà parlamentari, in quanto gli interessi delle aree grigie e nere sono trasversali e non sono estranei ad alcun partito, compreso il suo. E il presidente del Consiglio, che fino a non molto tempo fa negava l'esistenza della crisi o ne minimizzava la portata, si trova in condizioni sensibilmente migliori dei suoi colleghi greco e spagnolo: pur non potendo ridurre le imposte, come gli sarebbe piaciuto, non è costretto ad alzarle. Ma di certo appare del tutto tramontata, dall'Europa oltre che dall'Italia, quell'atmosfera di consumismo ottimista e sorridente che è stato a lungo il sottofondo di gran parte dell'azione di governo e uno degli aspetti più evidenti del berlusconismo. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7376&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La mafia, i telefoni e il bavaglio e Obama vuol sapere... Inserito da: Admin - Maggio 25, 2010, 09:44:48 am La mafia, i telefoni e il bavaglio
Ecco perché Obama vuol sapere di Enrico Deaglio Diciotto anni fa, quando venne ammazzato Giovanni Falcone, i telefoni cellulari erano degli aggeggi grossi, rudimentali, dal funzionamento poco conosciuto e ancora poco diffusi. Il commando di Cosa Nostra che aspettò dal casotto dell’Enel di Capaci il corteo di macchine del giudice e della moglie telefonò parecchio, aspettando di azionare l’esplosivo. Furono individuati soprattutto per quel motivo: con un’iniziativa che poteva sembrare impossibile, ma che funzionò, tutto il traffico telefonico di quelle ore da e per Palermo fu schedato e analizzato, con risultati memorabili che portarono nel giro di un anno agli arresti del commando. Tutto sembrava risolto, o meglio quasi tutto: restavano alcune telefonate in Italia e in America ad utenti impossibili da rintracciare. Poi ci fu la bomba di via D’Amelio contro Paolo Borsellino e di nuovo i telefoni fecero la loro parte: «inquietanti» tabulati legavano uomini della mafia a utenze dei servizi segreti. Erano gli ultimi mesi della Prima Repubblica, quella strana cosa che un quarto della popolazione italiana non ricorda perché non aveva ancora l’età della ragione e di cui ora sente parlare come di fatti strani, muggiti e sospiri, che sembrano provenire da un mondo preistorico: carabinieri che trattarono con Cosa Nostra, nuovi patti politici da assicurare, Falcone e Borsellino uccisi perché troppo vicini alla verità e al potere. Un tipico modo italiano di passare il tempo. Ma non credo fosse mai successo che membri del governo di Washington si esprimessero così francamente nei confronti del governo italiano deciso ad intervenire sui metodi di indagine antimafia attuato con i telefoni. Hanno detto, in pratica: se voi attuate queste vostre intenzioni, danneggiate anche noi e la nostra azione contro il crimine organizzato. Argomenti del genere sono stati usati nel recente passato contro i governi del Messico, del Venezuela, della Colombia, ma mai nei confronti di un paese europeo. Perché lo hanno fatto? Sicuramente perché all’Fbi si ricordano ancora di Giovanni Falcone che li aiutò non poco a stroncare l’importazione di eroina dalla Sicilia negli Stati Uniti; sicuramente si ricordano di quel Tommaso Buscetta che nel 1984 (otto anni prima delle rivelazioni italiane) raccontò all’Fbi che Giulio Andreotti era il referente politico di Cosa Nostra; e forse anche perché vedono - con sorpresa - un governo europeo adottare leggi che vanno solo ad oggettivo vantaggio delle mafie. E per quanto riguarda l’Italia non capiscono perché il nostro governo passi il suo tempo ad insultare il presidente Barack Obama, un oscuro dirigente di nome Bertolaso si diverta ad insultare l’ex presidente Clinton e il presidente del Consiglio abbia legami così stretti con Putin. Dal loro punto di vista, tutto ciò è molto strano, ma si sa che loro non conoscono le nostre finezze e il nostro modo di giocare al gioco del potere. Nella storia della mafia siciliana in America - una storia potente, che è arrivata anche a bussare alle porte del potere politico - alcune cose giocavano a suo favore, nel grande mercato: la famiglia, la violenza, la determinazione ad emergere, la capacità di destinare una bella fetta degli alti profitti del crimine per corrompere poliziotti, politici e giudici. Ma c’erano anche due cose che non funzionavano nel modello: il tradimento possibile di un membro della famiglia stessa e l’uso incauto del telefono. Gli infami si cercava di ucciderli prima che testimoniassero, ma il telefono (ovvero la parola che ti può fare impiccare) era una croce quotidiana, a partire da quelli a gettone all’angolo della strada. Un tallone d’Achille, che la polizia peraltro poteva utilizzare a costi veramente bassi: una chiavetta e degli impiegati che ascoltano, esperti di dialetto. Poi vennero le microspie e con loro le bonifiche elettroniche, l’infiltrato con il microfono incerottato sulla pelle, le cimici sempre più piccole, le microcamere grandi come un bottoncino, le Sim che conservano ogni bava di memoria e i siciliani in America vennero ridotti all’angolo persino nello smaltimento di rifiuti nel New Jersey, che era il loro feudo. A diciotto anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, senza neanche troppi eufemismi, i magistrati ci dicono che le cose non andarono come noi pensavamo. In pratica, ci spiegano che gli uccisori furono solo la manovalanza che agì per conto di altri. Ed è una storia fatta di pentiti e di intercettazioni e - specificità italiana - di ricatti, di mezze parole, di carte che ricompaiono dopo vent’anni, di trattative che chissà se sono andate a buon fine o se fallirono fin dall’inizio. Viviamo non tanto senza sapere dove andremo, ma piuttosto da dove veniamo. Il governo fa quello che fanno i gendarmi di fronte alla folla di curiosi che si presenta sulla scena di un delitto: "Via, via, circolare, non c’è niente da vedere", poi mettono le transenne e chiamano rinforzi. Il presidente del Consiglio non va alle commemorazioni di Falcone, se ne guarda bene: il tema, d’altra parte, non gli è mai interessato. Altri membri del governo lodano l’integrità del magistrato ucciso. Lui si che era bravo e rispettoso. Ah già, è morto. Tra pochi giorni in parlamento metteranno in votazione il bavaglio. Non si ascolta la gente per bene per telefono, non si deve violare la privacy, anche se si tratta di un mafioso; che poi non si sa se è un mafioso o non per caso un’ottima persona (anzi, può darsi che sia le due cose insieme). Non si deve scrivere niente di processi in corso, se no galera e multe da portare al fallimento i giornali. Non si possono intercettare i politici. Si possono intercettare i preti solo col premesso scritto del vescovo. Se si sente qualcosa di sconveniente, bisogna distruggere subito tutto. La televisione non deve parlare di mafia, perché facciamo brutta figura all’estero. Gli scrittori sono invitati a occuparsi d’altro. Dice Berlusconi: per me Vittorio Mangano è un eroe, perché non ha parlato e i magistrati lo torturavano perché parlasse e mi mettesse nei guai. E va bene, sia lode all’eroe. Ma, sorge un dubbio: che cosa avrebbe dovuto dire, sotto tortura, il vecchio stalliere? Un caso è molto citato dai sostenitori del bavaglio e della privacy: quello del finanziere Stefano Ricucci che al telefono diceva "ma che me frega, io stasera mi faccio Anna Falchi" e la cui esternazione telefonica venne pubblicata dai giornali. Terribile. Chissà che trauma. Ma non era scritto su tutti i rotocalchi che stavano insieme? 24 maggio 2010 http://www.unita.it/news/italia/99086/la_mafia_i_telefoni_e_il_bavaglio_ecco_perch_obama_vuol_sapere Titolo: MARIO DEAGLIO. La strada obbligata del rigore Inserito da: Admin - Maggio 26, 2010, 03:34:18 pm 26/5/2010
La strada obbligata del rigore MARIO DEAGLIO Non ha molto senso misurare la manovra appena varata con la bilancia di precisione: è una forma di miopia tutta italiana concentrarsi fino allo spasimo sui dettagli, discutendo furiosamente su quanto pagherà questo o quello e perdere di vista il quadro generale, ossia una crisi strutturale del capitalismo con pochi o forse nessun precedente. Ignorare, più o meno volutamente, che una ventina di Paesi, in grande maggioranza ricchi, stanno facendo, contemporaneamente all’Italia, manovre di contenimento della spesa pubblica almeno pari a quella italiana e spesso ben più severe. Per venire a capo di questa miopia occorre partire precisamente dalla crisi generale che stiamo vivendo e che non è certo limitata alla finanza ma presenta contemporaneamente aspetti politico-strategici, economici e sociali. Non possiamo ignorare che le grandi turbolenze dei mercati stanno avvenendo in un momento in cui la capacità degli Stati Uniti di presentarsi come potenza in grado di controllare i grandi equilibri e i grandi sviluppi mondiali mostra segni di rapidissimo degrado, dalle elezioni ucraine agli accordi atomici fra Turchia e Iran negoziati dal Brasile, quasi all’insaputa degli Stati Uniti. I Paesi della Nato appaiono incapaci di ottenere una vittoria militare in Afghanistan e la marina americana non sembra più in grado di controllare l’Oceano Pacifico con l’efficienza di una volta, al punto da consentire a un piccolo «Stato canaglia» come la Corea del Nord di affondare una nave militare della Corea del Sud, strettissimo alleato di Washington. In questo quadro di cambiamento rapido, talvolta drammatico, si colloca l’incapacità dei governi dei Paesi ricchi di rimettere rapidamente le loro economie sulla strada dello sviluppo e i propri bilanci pubblici sulla strada della sostenibilità. Il deficit federale degli Stati Uniti si avvia a battere ogni record e, come ha detto il premio Nobel Edmund Phelps in una recente intervista, «l’America percorre la stessa strada di Atene». La stessa strada la stanno percorrendo anche la Gran Bretagna, la Spagna e la Francia, tanto per citare alcuni dei Paesi più importanti, mentre l’autogoverno del sistema finanziario mondiale si dimostra clamorosamente inefficace a controllare un mercato ubriaco. In questa situazione, mettere in sicurezza - per quanto possibile - i propri bilanci pubblici appare un imperativo comune, una misura necessaria anche se non sufficiente, che tutti debbono adottare non foss’altro perché tutti gli altri la stanno adottando, pena l’immediata perdita di valore dei titoli del debito pubblico del Paese che cercasse di starne fuori e l’impossibilità di rifinanziarsi a tassi sostenibili quando questi titoli vengono in scadenza. Le operazioni di questo genere devono inoltre fare i conti con i problemi sociali che costituiscono la terza dimensione di questo pasticcio mondiale. Il malessere che si esprime attraverso gli estesi disordini di Atene trova un’eco nello scontento sempre più diffuso in Gran Bretagna, nella tensione crescente nelle banlieues delle città francesi, nei risultati elettorali che danno ampio spazio alle formazioni estreme in buona parte dell’Europa. Non è detto che i cittadini-elettori-consumatori accettino di buon grado un taglio consistente non tanto ai loro redditi attuali quanto alle prospettive di vita loro e dei loro figli. In questo quadro, l’operazione italiana appare relativamente piccola: 12-13 miliardi l’anno, per un biennio, rappresentano all’incirca lo 0,8 per cento del prodotto annuo lordo italiano che è di oltre 1500 miliardi, una quota assai minore non solo di quelle di Grecia, Spagna e Portogallo ma anche di quanto stanno preparando Gran Bretagna e Francia. Quest’esiguità si spiega con l’eccellente capacità dell’Italia durante un quindicennio e sotto governi di diversa bandiera di amministrare il proprio debito, al punto di sacrificare la crescita al suo contenimento. E non si può negare una certa cura del ministro dell’Economia di cercare di usare metodi diversi dalle «normali stangate» per cui, in prima approssimazione, per la stragrande maggioranza degli italiani gli effetti sui bilanci famigliari saranno molto contenuti. Certo ci possono essere effetti indiretti negativi difficili da prevedere, ma purtroppo in questa situazione non abbiamo scelta: se è vero, come recita il proverbio inglese, che non si può fare una frittata senza rompere le uova, è ben difficile fare una manovra economico-finanziaria senza cavar soldi da qualcuno. Ed è comunque apprezzabile che ci sia una continuazione della lotta all’evasione e che per la prima volta ci sia almeno qualche puntura di spillo al carrozzone della politica, il cui livello di spesa, in confronto ad altri Paesi avanzati, comincia ad apparire grottesco. L’essenziale è che non ci si fermi qui: che dopo aver messo un qualche ordine nei loro conti i principali Paesi del mondo - o quanto meno i Paesi europei - rivolgano subito la loro attenzione al funzionamento dei mercati, riportandoli a regole essenziali di trasparenza e credibilità. Senza un’azione di questo genere, i sacrifici grandi e piccoli saranno resi vani e un sistema di mercato con poche e insufficienti regole non sarà in grado di far ripartire l’economia mondiale. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7403&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La crisi continua e cambierà tutto Inserito da: Admin - Giugno 10, 2010, 12:30:51 am 9/6/2010
La crisi continua e cambierà tutto MARIO DEAGLIO Non abbiamo scelta, il nostro stile di vita dovrà cambiare - dice il nuovo primo ministro inglese -, le conseguenze delle decisioni che prenderemo toccheranno tutti e si faranno sentire per anni, forse per decenni». Le parole di David Cameron sono durissime, quasi apocalittiche e segnalano un brusco e imprevisto cambiamento di fondo nella crisi che stiamo attraversando e nel modo di valutarla. Gli fa eco, in maniera apparentemente più moderata ma forse ancora più allarmante nella sostanza, il governatore della banca centrale degli Stati Uniti, Ben Bernanke, il quale annuncia che la ripresa, sulla cui rapidità gli americani hanno pesantemente scommesso, non sta andando troppo bene e che la disoccupazione rimarrà a livelli elevati «per un po’ di tempo». Pur nella diversità dei toni, le parole di Cameron e Bernanke conducono a un’unica conclusione: l’ottimismo ufficiale sulla crisi, di moda fino a non molte settimane fa, risulta sconfitto dai fatti. Il che significa che i responsabili mondiali della politica economica hanno sbagliato diagnosi, sottovalutato la gravità della situazione e adottato terapie senza effetto. Le stesse persone che avevano annunciato con fiducia l’uscita dalla crisi ora parlano di «seconda caduta» (double-dip). Tutti si muovono al buio e non sanno bene che pesci pigliare e sottolineano che la crisi non passerà tanto presto mentre prima, con uguale disinvoltura, sostenevano che era già passata, o addirittura - è il caso dell’Italia - che non c’era mai stata. Purtroppo, però, nessuno sembra avere alternative valide alle loro politiche, sin qui chiaramente ben poco efficaci. I motivi di questo brusco aggravamento si possono illustrare abbastanza bene con una metafora medica: nonostante il drenaggio di titoli infetti, effettuato dalle banche centrali negli ultimi diciotto mesi, in quell’enorme organismo che è la finanza mondiale era rimasta in circolo una grande quantità di veleni. Anche per il comportamento scarsamente responsabile di alcune grandi banche e altre organizzazioni finanziarie che operano a livello mondiale - e per la mancanza di controlli severi sulle loro attività - questi veleni hanno intossicato la parte più sensibile del sistema e cioè il comparto del debito pubblico: l’infezione ha cominciato a colpire Paesi piccoli e in pessime condizioni come la Grecia ma sta risalendo in maniera rapidissima fino ai Paesi più grandi e considerati più soli, non esclusi gli stessi Stati Uniti. Deficit pubblici, come quello inglese, quello francese e, forse, quello americano che venivano considerati tollerabili ancora qualche settimana fa ora non lo sono più. Nei prossimi decenni la finanza pubblica è destinata a peggiorare in tutti i Paesi ricchi. Un maggior controllo dei mercati avrebbe consentito di affrontare queste difficoltà in maniera graduale; sono invece emerse tutte assieme provocando le attuali convulsioni delle Borse. Per conseguenza tutti invocano l’arma dei tagli, condizione forse necessaria al punto in cui siamo arrivati ma certamente non sufficiente, al rilancio della crescita e dello sviluppo, anzi controproducente nel breve periodo. Con i tagli i governi potranno (forse) rimettere in sesto i bilanci pubblici per qualche tempo ma al prezzo di un rinvio indeterminato della data della ripresa. In altre parole, è difficile, probabilmente impossibile, risanare e rilanciare l’economia senza modifiche importanti del sistema economico-finanziario e queste modifiche al sistema dovranno coinvolgere la Cina. Appena scalfita dalla grande tempesta mondiale, dotata di enormi riserve valutarie, la Cina potrebbe venire in soccorso garantendo il debito pubblico dei Paesi suoi creditori e rivalutando la propria moneta in modo da dare un po’ di fiato alle industrie di mezzo mondo alle corde per la concorrenza cinese. Il Partito Comunista Cinese, però, non salverà gratuitamente il capitalismo di mercato e già si parla, tra le possibili contropartite, di un cinese alla guida del Fondo Monetario Internazionale. In ogni caso, Pechino è il convitato di pietra al tavolo affannato dei Paesi ricchi e tiene in mano una possibile chiave di questa intricata e pericolosa vicenda. L’altra chiave l’hanno in mano i cittadini-elettori dei Paesi ricchi che, nella grande maggioranza dei casi, mostrano una forte opposizione ai tagli e richiedono protezione per risparmi e posti di lavoro. Questa protezione si può forse accordare - magari mandando a casa chi è al governo come è avvenuto in Gran Bretagna e potrebbe avvenire in questi giorni in Olanda - ma solo al prezzo di chiudere, in maniera più o meno parziale, le frontiere economiche e finanziarie. Il che porterebbe con sé un abbassamento permanente della crescita economica che in alcuni Paesi potrebbe tradursi in stagnazione. In questa gran tempesta l’Italia si trova in una nicchia relativamente riparata, forse perché è abituata a gestire con un certo successo un debito pubblico enorme (il terzo del mondo per dimensioni) e perché, al fine di far quadrare i conti senza fare alcuna riforma, ha di fatto rinunciato alla crescita economica negli ultimi dieci anni. In Italia c’è relativamente poca occupazione ma relativamente molto risparmio famigliare, in buona parte investito nei titoli del debito pubblico italiano il che conferisce una certa stabilità a questo barcone con popolazione vecchia, destinata a invecchiare ancora. Il vecchio barcone, in altre parole, può riuscire a galleggiare; ma solo al prezzo di diventare sempre più vecchio e sempre più pesante. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7455&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La spallata del cipputi cinese Inserito da: Admin - Giugno 14, 2010, 10:00:28 am 14/6/2010
La spallata del cipputi cinese MARIO DEAGLIO Come si dice Cipputi in cinese? L'operaio metalmeccanico, reso celebre dalle vignette di Francesco Tullio Altan, è in agitazione: non più nelle fabbriche dell'Italia Settentrionale, ma a Shanghai, Canton, Guangzhou e in decine di altri centri nevralgici che fanno della Cina la più dinamica economia del mondo. A differenza del Cipputi italiano che ormai ha superato la mezza età e guarda alla pensione, il Cipputi cinese è giovane, relativamente istruito, con molte ambizioni e una vita di lavoro davanti a sé. Il Cipputi italiano ha probabilmente una piccola auto, un po’ vecchiotta, che gli serve spesso per andare a lavorare e qualche volta per andare al mare, il Cipputi cinese ha un telefonino - ce ne sono in Cina circa 700 milioni - che gli serve, tra l'altro, per organizzare scioperi e manifestazioni. Le sue vertenze non riguardano, come a Pomigliano, la conservazione di stabilimenti e posti di lavoro ma la più classica delle rivendicazioni sindacali: più soldi, molti soldi in più nella busta paga rispetto agli attuali 120-140 euro al mese e meno ore, molte ore di lavoro in meno, rispetto alle dodici al giorno, comuni in Cina anche nelle fabbriche tecnologicamente avanzate, come quelle che producono componenti essenziali dell'iPhone e dell'iPad, le nuove meraviglie tecnologiche attorno alle quali si cerca di far rinascere l’appetito per i consumi. E queste rivendicazioni, rivolte prevalentemente - almeno per ora - ad aziende straniere insediate in Cina possono far traballare ancora di più la già poco solida economia globale. L'insoddisfazione dei circa 200 milioni di Cipputi cinesi trova sfogo in agitazioni sindacali e aumenti salariali che complicano, aumentandone l'instabilità, una situazione economica mondiale già complessivamente traballante. Le complicazioni derivano dal fatto che, contrariamente a quanto spesso si crede, ormai la Cina non esporta principalmente magliette, scarpe e giocattoli a buon mercato e spesso di mediocre fattura: le sue vendite all'estero di materiale elettronico sono circa il doppio di quelle degli Stati Uniti, la sua industria meccanica acquista un peso sempre maggiore a livello mondiale, la componentistica cinese ha contribuito a tener bassi i costi di un grandissimo numero di prodotti industriali dei Paesi ricchi. Con il trasferimento all'estero di intere fasi di lavorazione da parte delle grandi società multinazionali americane, giapponesi ed europee, spesso non c'è alternativa all'uso di componenti elettronici e meccanici di fabbricazione cinese indispensabili per fabbricare gran parte dei nostri beni di consumo durevoli. Sarebbe quindi impossibile trovare fornitori alternativi, almeno in tempi brevi. Per conseguenza, un aumento generalizzato dei salari industriali cinesi si rifletterebbe in una spinta generalizzata e sensibile ai costi di produzione americani ed europei e quindi in una pressione inflazionistica di entità incerta e non trascurabile. Non è facile opporsi a una simile evoluzione: l'esperienza italiana degli Anni Sessanta indica chiaramente che gli aumenti salariali legati all'arrivo di nuove generazioni sono molto difficili da affrontare. Il giovane Cipputi italiano di quegli anni voleva fortemente la televisione, l'utilitaria e i fine settimana liberi per andare al mare. Il giovane Cipputi cinese di oggi vuole fortemente entrare nell'era digitale e livelli di consumi e di tempo libero da moltissimo tempo considerati normali nei nostri Paesi. Se la Cina dovesse rivalutare la sua moneta, come forse si appresta a fare, anche per le pressioni dei Paesi ricchi, l'aumento dei prezzi dovuto al cambio più elevato si sommerebbe all'aumento dei prezzi generato dalle rivendicazioni del Cipputi cinese: la spinta inflazionistica sui Paesi avanzati sarebbe certa e generalizzata, mentre ci sarebbe una certa compensazione per i nostri settori industriali (soprattutto quelli italiani) in diretta e difficile concorrenza con gli analoghi settori cinesi. Uno dei pochi elementi rassicuranti della situazione economica mondiale, ossia l'attuale relativa irrilevanza delle spinte inflazionistiche, verrebbe così meno. Del resto, perché mai centinaia di milioni di lavoratori del mondo non ricco dovrebbero accettare indefinitamente di lavorare per circa un decimo di quando percepiscono i loro colleghi occidentali che fanno lo stesso lavoro con un divario di produttività che si sta rapidamente riducendo? Tutto ciò porta a concludere che dalla crisi non si esce con semplici marchingegni monetari o fiscali, sui quali si colloca tutta l'attenzione dei cittadini e dei mezzi di informazione in queste settimane, o con la ricetta «magica» di qualche economista o qualche ministro dell'economia: per ottenere una crescita stabile e sostenibile occorre disegnare una struttura di redditi che lasci spazio alla crescita dei più poveri e che per i Paesi avanzati implicherà una riduzione dei divari a loro favore. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7472&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Londra condannata ai sacrifici Inserito da: Admin - Giugno 23, 2010, 05:55:43 pm 23/6/2010
Londra condannata ai sacrifici MARIO DEAGLIO Paragonata al pesante schiaffone che il nuovo governo inglese ha somministrato al proprio paese per cercare di raddrizzare il deficit di bilancio, la «manovra» italiana sembra lieve come una carezza. A confronto del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne, Giulio Tremonti fa la figura dell’agnellino; e Berlusconi potrebbe perfino sembrare il protettore dei contribuenti se confrontato con il suo collega inglese David Cameron. Nel somministrare lo schiaffone, però, il governo inglese ha avuto il coraggio di guardare dritto negli occhi l’elettore che l’ha votato poche settimane fa e di non fare sconti nella sua visione grigio-scura del futuro. Nella manovra presentata al Parlamento di Westminster (che, secondo le normali procedure britanniche, non dovrebbe essere soggetta ad alcun emendamento) c’è quasi tutto il campionario degli strumenti di tortura fiscale: aumenti dell’Iva di 2,5 punti percentuali, blocco per due anni dei salari pubblici, di molti assegni della sicurezza sociale e persino dell’appannaggio della Regina, pesante imposta sulle banche. Il governo italiano punta invece soprattutto sui tagli agli enti locali e cerca di scaricare il peso politico dell’impopolarità su governatori regionali, presidenti provinciali e sindaci; il governo inglese la sua dose di impopolarità se la prende tutta. Ma perché gli inglesi sono così duramente colpiti, perché è necessario affondare il bisturi fiscale più profondamente a Londra che a Roma? Sostanzialmente per due motivi: il primo è che in Gran Bretagna all’indebitamento pubblico si somma un fortissimo indebitamento privato mentre in Italia esiste un cospicuo risparmio privato e le famiglie sono, nel complesso, poco indebitate per mutui, carte di credito e simili. Incoraggiati da una pubblicità sorridente, gli inglesi sono stati, in questi anni, secondi solo agli americani nello spendere con poco ritegno e si trovano di colpo a contemplare un deficit pubblico che sta crescendo al di là di ogni controllo. A questa situazione gli inglesi sono arrivati - ed è questo il secondo motivo - soprattutto perché hanno puntato tutto sulla finanza che, tra un segmento e l’altro, occupa in Gran Bretagna poco meno di due milioni di persone e ridotto fortemente la loro industria. All’insegna della finanziarizzazione hanno venduto a compratori esteri ogni tipo di gioielli di famiglia, dagli aeroporti alle società dell’acqua potabile e persino alle squadre di calcio. Per un breve periodo Londra è diventata il vero centro finanziario della globalizzazione, con capitali di ogni tipo e di ogni provenienza che volentieri si affidavano alla maestria dei maghi della City. La crisi finanziaria ha quindi colpito con particolare durezza questo sistema economico-sociale così indebolito e, pur essendo il debito pubblico ancora molto inferiore a quello italiano, la sua velocità di crescita pone oggi la Gran Bretagna forse ancora di più nel mirino di quanto non succeda all’Italia. Si può ammirare la decisione britannica di tagliare con l’accetta anziché con le forbici ma al tempo stesso è impossibile non restare interdetti. Perché mai la Gran Bretagna deve affrontare una durissima quanto sicura disoccupazione per rimettere a posto le sue finanze in cinque anni? Perché non in sette o in dieci? Perché alla Grecia sono stati concessi soltanto tre anni? La risposta non è affatto chiara, o forse si può ipotizzare che «il mercato» lo esige, che lo esige la salvaguardia del valore dei debiti pubblici. Per salvaguardare questi debiti (e quindi per mettere al primo posto la lotta all’inflazione e la riduzione della spesa) in ogni parte del mondo ricco si stanno varando misure che soffocano le già stentate prospettive di crescita e sacrificano un numero molto grande di posti di lavoro (le prime stime per la Gran Bretagna parlano di un milione a seguito di questa manovra). Con il pericolo di un contraccolpo politico-sociale tale da creare un’instabilità difficile da controllare. Alla vigilia di una riunione del G-20 che si preannuncia nervosa e difficile, il dilemma tra l’accettazione di un aumento dell’inflazione pur di salvare posti di lavoro e l’accettazione di un aumento della disoccupazione pur di salvare il valore dei titoli di stato si fa più duro. E senza facili soluzioni. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7510&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Il pessimismo delle borse Inserito da: Admin - Luglio 05, 2010, 05:31:10 pm 5/7/2010
Il pessimismo delle borse MARIO DEAGLIO Agli inizi di maggio l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano era prossimo a quota 23 mila, ora è di poco al di sopra di quota 19 mila. Peggio di Milano in Europa hanno fatto solo Madrid e Atene, ma in nessuna Borsa al mondo oggi prevale il sorriso. Da due settimane gli indici di Wall Street cadono quasi senza interruzione, una sequenza osservata solo nei periodi più acuti di questa crisi; negli ultimi cinque giorni di contrattazione il valore delle azioni quotate a New York si è ridotto del quattro e mezzo per cento, il che si potrebbe anche definire un crollo. I vertici dei G8 e G20, tenutisi lo scorso fine settimana a Montréal, con il loro ottimismo artificiale e con il lago artificiale - allestito dai canadesi per allietare gli ospiti al modico prezzo di un miliardo di dollari - non solo non hanno iniettato fiducia ma hanno contribuito al generale pessimismo perché si è vista chiaramente la spaccatura tra americani ed europei sotto lo sguardo impassibile dei cinesi. Perché il cattivo umore, la greve atmosfera di scontentezza che traspare dai dati e dai commenti di operatori e analisti finanziari? Non è forse vero che la ripresa è cominciata, che le cose stanno andando meglio, come ripetono un po’ tutti da più di un anno? Per comprendere le ragioni di un simile brusco cambiamento, si può far riferimento, in questo periodo di campionati mondiali, a una metafora calcistica: si prenda il caso di un grandissimo campione, un asso del pallone che ha fatto guadagnare punti, coppe e scudetti alla sua squadra e che, un brutto giorno, si fa seriamente male. La società per la quale gioca consulta i migliori specialisti, lo sottopone a operazioni complicate e a cure molto costose senza badare a spese e anzi indebitandosi seriamente purché il suo beniamino torni in campo e si rimetta a segnare. Usciti dalla sala operatoria, medici e dirigenti di questa società calcistica fanno dichiarazioni ottimistiche. Tutti dicono che il campione si riprenderà presto, anzi che si sta già riprendendo, tra poco tornerà in campo e i tifosi si apprestano a festeggiare il ritorno del loro beniamino. Ed ecco che il campione esce dall’ospedale. Saluta e sorride, ma poco alla volta la triste verità trapela: invece di correre, il campione riesce a stento a stare in piedi e a correre senza ossigeno proprio non ce la fa. La strada del recupero improvvisamente si prospetta più lunga, più dura, più incerta. E davanti alla società per quale gioca si delinea la prospettiva di un campionato meno brillante e di un bilancio meno solido. I tifosi sono costernati e gli azionisti pensano che si potrebbe anche cambiare, o mettere in minoranza, il presidente. In luogo di campione sportivo si legga economia americana, al posto di società sportiva si legga Stati Uniti, invece di un campionato di calcio si immagini il «campionato mondiale» della crescita, alle medicine e all’ossigeno si sostituiscano gli incentivi. «Tifosi» sono tutti coloro che investono nelle Borse e «azionisti» sono i vari Paesi del mondo che accettano la supremazia economica e finanziaria degli Stati Uniti e tengono in dollari gran parte delle loro riserve. Una serie di dati recentissimi sulla congiuntura americana, e in particolare sull’occupazione, mostra che la non eccezionale crescita di quel Paese è strettamente legata agli incentivi che il governo americano distribuisce generosamente indebitandosi e che ha utilizzato prima di tutto per salvare le grandi banche (sarebbe stato difficile fare diversamente). Senza incentivi l’economia perderebbe colpi e ogni speranza di recuperare almeno una parte degli otto milioni di disoccupati creati dalla crisi prima delle elezioni parziali americane del prossimo ottobre, nelle quali la delusione degli elettori potrebbe togliere al partito del presidente Obama il controllo di una o di entrambe le Camere. In realtà, il campione non sembra aver più le gambe per correre come una volta, il che significa, fuor di metafora, che nell’economia americana la domanda globale è priva della grande spinta del recente passato: il consumo delle famiglie, sostenuto per vent’anni da un indebitamento crescente, è fermo sotto il peso dei debiti da ripagare e risulta inoltre frenato dalla disoccupazione che toglie potere d’acquisto a milioni di famiglie. Un circolo vizioso di difficoltà oggettive e di pessimismo serpeggiante rende difficile all’America continuare a spendere e a indebitarsi. Gli europei, dal canto loro, hanno di fatto rinunciato a far crescere la loro economia con il debito e appaiono rassegnati alla non crescita oppure a una crescita molto bassa: le manovre dei Paesi dell’euro, concordate sotto la dura pressione dei tedeschi, rallentano ancora lo scarsissimo slancio dell’economia anche se i governi spesso si illudono di riuscire a tagliare la spesa pubblica senza rallentare la domanda privata. Il resto del mondo, cinesi in testa, comincia a interrogarsi sull’opportunità di continuare a utilizzare il dollaro come principale moneta di riserva. I recenti, giganteschi accordi commerciali conclusi da Pechino con alcuni Paesi sudamericani prevedono scambi non più regolati in dollari mentre l’uso internazionale dello yuan comincia a diffondersi tra i Paesi asiatici fornitori della Cina. Anche per questo sta diventando sempre più difficile salvare i bilanci pubblici e contemporaneamente rilanciare, o anche solo conservare, l’occupazione; l’ora di una difficile scelta sulla priorità tra occupazione e risparmio sembra avvicinarsi rapidamente. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7558&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. I dubbi su un esame superato Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 10:46:15 pm 15/7/2010
I dubbi su un esame superato MARIO DEAGLIO L’Italia ha fatto il compito. Le proteste di chi deve subire i maggiori tagli, la valanga di emendamenti, la presentazione di un maxiemendamento governativo sul quale si pone la fiducia sono tutti momenti di un copione ormai collaudato; con il prossimo voto delle Camere, lo studente-Italia si avvia a rivedere per l’ultima volta il suo elaborato. Un elaborato molto sofferto, quasi certamente senza fare correzioni, e quindi a consegnarlo al Professor Europa. Saremo promossi? L’Italia assomiglia a quegli studenti apparentemente svogliati che poi si rivelano capaci di recuperi eccezionali - è il caso della grande manovra del 1993, che aprì la strada all’adesione all’euro, e di molte manovre successive - studiando moltissimo nei giorni prima dell’esame e strappando la sufficienza. E potrebbe essere così anche questa volta. L’abbozzo generale originario non è stato stravolto, l’entità delle cifre concordate in sede europea non è stata ritoccata all’ingiù anche grazie a ripetute minacce di dimissioni del ministro dell’Economia. Ad aiutare l’Italia svogliata in questa sua «rimonta» c’è la presenza di un settore sommerso dell’economia che è pari, secondo le recentissime stime dell’Istat, a circa un sesto del prodotto interno ufficialmente rilevato; e siccome le dimensioni relative del settore sommerso italiano sono superiori alla media europea, recuperiamo qualcosa nei confronti internazionali: la pressione fiscale effettiva e il deficit pubblico effettivo sono sensibilmente più bassi di quelli ufficiali. Rimangono però tre dubbi di fondo. Il primo dubbio è che il compito che ci è stato assegnato dall’Unione europea si sarebbe potuto svolgere anche in qualche altro modo. Forse sarebbe stato ragionevole lasciare un po’ più di respiro (non molto) agli enti locali e far pagare qualcosa di più ai contribuenti, ossia mettere la mano direttamente nelle tasche degli italiani, applicando qualche (molto modesto) ritocco di aliquote e non torturare così duramente i bilanci di Comuni, Province e Regioni. Una simile alternativa era però bloccata da una pregiudiziale politica: l’attuale governo aveva fatto la promessa elettorale di non richiedere ai cittadini-elettori sacrifici che toccassero direttamente le loro tasche e di tale promessa non rimane che prendere atto. Si è quindi scelto di dare uno spazio molto grande ai tagli alle spese degli enti locali e di escludere qualsiasi aumento delle imposte. Potrebbe darsi, ed è questo il secondo dubbio, che simili tagli si rivelino assai più dolorosi, o comunque assai più percepibili dalla collettività di un aumento dell’imposizione fiscale anche per l’impossibilità delle amministrazioni di riorganizzare in fretta la loro attività. Se veramente i tagli previsti dalla manovra si dovessero tradurre, come è stato autorevolmente prospettato dal presidente della Regione Lombardia, in una riduzione di servizi essenziali, a esempio del numero dei treni per i pendolari, l’impopolarità potrebbe rivelarsi assai elevata e il desiderio di ingraziarsi i cittadini salvandoli ad ogni aumento fiscale potrebbe trasformarsi in un boomerang elettorale. Il terzo dubbio, però, sovrasta largamente gli altri due: questo compito, imposto alla grande maggioranza dei Paesi della zona euro, era proprio necessario? Non c’è uno zelo tedesco tutto particolare nel cercare di avere i conti in ordine perfetto, con il rapporto deficit/Pil che deve incondizionatamente tendere al «mistico» valore del tre per cento? Perché gli Stati Uniti non hanno grande fretta di ridurre un deficit a due cifre mentre gli europei sono in affanno con un deficit che è la metà di quello americano? La risposta va cercata al di fuori del campo economico ed è molto semplice: gli Stati Uniti hanno un governo mentre l'Unione Europea ha soltanto una Commissione di natura prevalentemente burocratica, gli Stati Uniti hanno un sistema fiscale centrale che copre tutto il Paese e si integra con i sistemi fiscali locali mentre nell’Unione europea i singoli Paesi sono ancora tutti fiscalmente sovrani. La manovra complessiva dei Paesi della zona euro rappresenta così il prezzo per la mancanza di volontà dell’Europa nel procedere più speditamente nella costruzione di un’Europa politica, il che significa aver preferito rinviare, anno dopo anno, la messa a punto di un meccanismo che portasse via sovranità e potere ai singoli governi nazionali per conferirli a un governo centrale. Un’Europa con una rappresentatività politica adeguata disporrebbe anche di una moneta maggiormente accettata nel mondo. E i conti pubblici della Grecia o del Portogallo non farebbero una paura maggiore per la salute dell’euro di quanto gli ugualmente disastrosi conti pubblici dell’Illinois e della California incidano sulla salute del dollaro. La rinuncia dell’Europa a perseguire un ruolo politico si trasforma in un costo ben superiore ai 400-500 euro in due anni, mediamente richiesti dai governi dei Paesi della zona euro ai loro cittadini, un sacrificio doppio perché comunque rappresenta un freno apprezzabile alla lentissima risalita della produzione. Anche se il compito è finito e saremo promossi, non c’è da stare allegri: senza un’Europa più integrata, di compiti simili se ne dovranno fare molti altri ancora, senza certezza di promozione. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7596&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Attenti ai numeri che ingannano Inserito da: Admin - Luglio 21, 2010, 10:14:50 am 21/7/2010
Attenti ai numeri che ingannano MARIO DEAGLIO È a Kabul: “Dal 2014 tutti a casa” un facile e pericoloso gioco estivo quello di chiudere gli occhi sulle ali di una buona notizia, e immaginare che la crisi se ne sia andata via, che i tre anni che ormai ci separano dall’estate 2007 - quando iniziarono le cadute delle Borse mondiali - siano stati un brutto sogno. Non è forse vero che il fatturato dell’industria è in straordinaria ripresa? Che gli ordini totali dell’industria in maggio hanno superato del 26,6 per cento quelli del maggio 2009 e che, all’interno di questi ordini, la componente estera è salita di quasi il 50 per cento? E che, se invece di prendere il solo maggio, si estende l’analisi ai primi cinque mesi del 2010 si trovano gratificanti aumenti a due cifre per il totale degli ordini? La realtà è più complessa e per rendersene conto basta andare oltre il solito intervallo di dodici mesi e considerare fatturato e ordini sull’arco di due anni. Nel maggio 2008, ossia poco prima che il virus della crisi, dopo aver devastato l’economia finanziaria, si abbattesse sull’economia reale, entrambi gli indici avevano superato quota 120. Ora sono risaliti rispettivamente a 101 (fatturato) e a 104 (ordinativi). Entrambi hanno toccato il loro minimo attorno a quota 85-90 nella primavera- estate 2009. Il che significa che l’attuale risalita sembra vertiginosa proprio perché l’industria italiana (come quella di quasi tutti i Paesi ricchi) era caduta incredibilmente in basso. L’ industria italiana ha risalito il canalone ma la cima è ancora molto lontana. Continuando a crescere con questo ritmo, che può sembrare da campioni, l’industria italiana impiegherà all’incircaaltri dueanni per tornare ai livelli di fatturato e ordinativi precedenti la crisi: nel 2012, quindi,l’ammontare quantitativo della produzione industriale sarà paragonabile a quello del 2008, ma, ammettendo un normale aumento annuo della produttività del lavoro dell’1,5-2 per cento, per una produzione efficiente l’industria avrà bisogno del 6-8 per cento di lavoratori inmeno. Si tratta di una cifra del tutto compatibile con le recenti stime dei posti a rischio. Alternativamente, a parità di altre condizioni, se l’industria italiana vorrà restare competitiva a livello internazionale senza riduzione nel numero dei dipendenti,è molto probabile che i suoi lavoratori dovranno sopportare una perdita di potere d’acquisto dei salari pari all’incirca al 6-8 per cento. In altre parole, far ritornare l’economia italiana dov’era e com’era in un mondo che cambia vorticosamente non è una soluzione. Si esce dalla crisi creando un’economia nuova, non rappezzando alla bell’e meglio le gravissime crepe di un’economia vecchia; e al di là della situazione di emergenza che oggi si esprime con la manovra in approvazione in Parlamento,occorre pensare a quest’economia nuova che invece non sembra affatto in cima ai pensieri di maggioranza e opposizione. Proprio perché di fatto lasciata sola dalla politica, l’economia sta cercando di adattarsi da sola alla nuova situazione e la sua struttura sta cambiando rapidamente. I dati Istat diffusi ieri mostrano che il rimbalzo è molto diverso da un settore all’altro e che la componente estera della domanda prevale nettamente sulla componente interna; indubbiamente l’indebolimento dell’euro ha dato ossigeno a molti produttori e forse un ruolo lo gioca anche la nota capacità delle imprese italiane di adattarsi a condizioni mondiali difficili cercando mercati nuovi. I dati del commercio estero sembrano inoltre indicare che gli esportatori giocano ormai soprattutto la carta della qualità e non quella del basso prezzo dove l’Italia incontra ormai troppi temibili concorrenti. Tutto ciò dovrebbe essere sottoposto a un ampio dibattito su ciò che questo Paese vorrà essere di qui a dieci o vent’anni;ma sembrano assai pochi coloro che sono disposti a impegnarsi in questo esercizio. Questo tentativo dell’industria italiana di rimettersi in piedi mostra però anche un’altra, meno gradevole, dimensione: il rapporto del Cnel sul mercato del lavoro, reso anch’esso noto ieri, mostra un’Italia economica chiaramente spaccata. La disoccupazione cresce più al Sud che al Centro-Nord, la produzione più al Centro-Nord che al Sud; il divario economico tra le due parti dell’Italia, già a livelli altissimi prima della crisi, rischia di aumentare ancora in questa faticosa risalita industriale. Al punto che è ormai del tutto lecito domandarsi non tanto se si possa ancora parlare di un unico Paese - la risposta è certamente sì - quanto se si possa ancora parlare di un unico sistema economico. Di certo, il meccanismo di pesi e contrappesi che ha consentito per oltre un secolo la convivenza con mutuo vantaggio di strutture produttive e strutture sociali profondamente diverse si presenta consunto e sfilacciato e dovrebbe essere profondamente rivisto. Sono finiti i tempi in cui - tanto per fare un esempio- l’evasione fiscale del Sud si traduceva in acquisti di beni prodotti dalle industrie del Nord; oggi tali acquisti riguardano in largami surabeni prodotti in Asia. Non sono interrogativi da pausa estiva. I leader politici che decidono che non andranno in ferie e che dedicheranno questo tempo a riorganizzare i loro partiti dovrebbero riflettere sul fatto che tale riorganizzazione servirà a poco se l’Italia, andando a passi più lenti degli altri, perderà ancora di importanza nell’economia mondiale. L’economia mondiale non va in ferie e neppure i problemi strutturali dell’Italia e degli altri Paesi ricchi. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7622&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La rinuncia al carbone un bivio per l'Europa Inserito da: Admin - Luglio 22, 2010, 05:12:25 pm 22/7/2010
La rinuncia al carbone un bivio per l'Europa MARIO DEAGLIO Dopo tante prove di inconsistenza, in due giorni dall’Unione Europea sono arrivati altrettanti segnali di vitalità. Il primo è rappresentato dalla controversa e sicuramente sofferta decisione di martedì su Sky Italia, che potrà partecipare, a determinate condizioni, alla gara autunnale per le nuove frequenze della tv digitale terrestre. Ieri è venuto il secondo segnale, che risulterà forse ancora più controverso, che riguarda le miniere di carbone, uno dei settori più antichi dell’economia industriale, quasi un’icona della prima industrializzazione. Il carbone è, per così dire, la «madre» dell’Europa moderna e questo non solo perché la prima guerra mondiale si combatté attorno alle miniere di carbone e di ferro dell’Alsazia e della Lorena ma anche perché, proprio per superare lo storico contrasto che opponeva duramente Francia e Germania, venne costituita nel 1951 la Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), primo mattone di quella costruzione economico-politica che oggi si chiama Unione Europea. E i primi treni a traversare le frontiere comunitarie senza pagare dazi furono i lunghi, grigi convogli che spostavano carbone e ferro tra i sei Paesi dell’originaria intesa europea. La Commissione europea - per bocca di Joaquín Almúnia, commissario alla concorrenza, uno dei più esperti membri del «governo» europeo - propone quindi una sorta di matricidio. Almúnia vuole eliminare i sussidi alle miniere entro quattro anni e in questo periodo ritiene che vadano erogati solo alle miniere che hanno già deciso di chiudere, «accompagnandole» così al momento terminale della loro attività. Questo significa dire di fatto addio all’estrazione del carbone, storica pietra angolare dell’intesa originaria franco-tedesca perché quasi tutte le miniere europee stanno in piedi con soldi pubblici. Certo, l’Europa non farà automaticamente a meno del carbone per i suoi fabbisogni energetici ma riceverà un forte segnale politico per l’impostazione di una nuova politica energetica. Il carbone che si continuerà a importare costerà comunque meno di quello che non si produrrà più e si deve sperare che le risorse così risparmiate siano destinate al risparmio energetico e alla ricollocazione dei minatori. Se la proposta avrà davvero un seguito, alle prossime conferenze mondiali per la riduzione dell’inquinamento l’Europa si troverà posizione decisamente più forte che in passato. Per anni, con grande ipocrisia, l’Unione Europea con una mano ha cercato di costruire, con l’altra ha disfatto: ha preteso che le imprese riducessero l’inquinamento (con l’introduzione, tra l’altro della carbon tax) e con l’altra ha finanziato, mediante i sussidi, le peggiori sorgenti di inquinamento energetico, ossia proprio le miniere di carbone. In questo, l’Europa non è stata certo sola: forme varie di protezione sono presenti in quasi tutti i Paesi ricchi e il «basta!» di Almúnia permetterebbe all’Europa di puntare il dito sull’ipocrisia degli altri. Sempre che la misura venga effettivamente varata. La fine dei sussidi colpirebbe infatti duramente le economie di Polonia e Romania per le quali le esportazioni di carbone e acciaio hanno rappresentato una sorta di «polmone» con cui finanziare la propria trasformazione industriale. Le prime reazioni negative sono però venute da due Paesi in cui il carbone pesa molto meno ma le organizzazioni sindacali dei minatori molto di più, ossia Spagna e Germania. La Germania, in particolare, vedrà messo alla prova il suo «perbenismo di mercato» per cui guarda plaude alla libera concorrenza e guarda con orrore ai sussidi degli altri. Ora che i suoi interessi sono direttamente toccati, si vedrà che cosa saprà veramente fare il governo di Berlino sulla via «virtuosa» della concorrenza. Nata con il libero commercio del carbone, l’Unione Europea darà un forte segnale di vitalità se saprà abbandonare gradualmente il carbone. Nella generale corsa degli europei a rifugiarsi nel localismo, una delle poche eccezioni è rappresentata dall’interesse unificante per la difesa dell’ambiente. Al «partito del carbone» che nei prossimi mesi cercherà di bloccare la mossa della Commissione si oppone il «partito dell’ambiente»: l’esito di questo scontro sarà assai rilevante per il nostro futuro. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7625&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Purchè non sia un tavolino Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 10:23:10 am 26/7/2010
Purchè non sia un tavolino MARIO DEAGLIO I cosiddetti «tavoli» ai quali i sindacati, gli imprenditori e i rappresentanti del governo si incontrano e si confrontano sono una buona cosa in quanto l’alternativa è spesso uno sciopero «al buio», ossia senza che una parte abbia una chiara percezione delle posizioni e dei problemi delle altre. Il «tavolo» che si terrà mercoledì a Torino sul futuro degli stabilimenti italiani della Fiat rischia però di trasformarsi in un «tavolino», ossia di dare ai problemi sul tappeto un’interpretazione riduttiva e specifica, tesa soltanto a stabilire minuziosamente impegni reciproci sulla produzione di singoli impianti e singoli modelli in un arco di tempo necessariamente breve e in condizioni molto incerte, data la congiuntura europea e mondiale. Se così fosse, l’accordo raggiunto terrebbe fino alla prossima situazione di difficoltà, dopo di che si ricomincerebbe da capo con un altro «tavolino». Tra un «tavolino» e l’altro, la posizione competitiva dell’Italia continuerebbe a peggiorare. E’ stato così nel corso degli ultimi vent’anni. Il «tavolo» di mercoledì sarà un successo se, pur non rinunciando ad affrontare i problemi contingenti, porrà le basi per trattare, nell’ottica dell’economia globale, il problema della sostenibilità del modello sociale europeo - e specificamente della sua variante italiana - caratterizzato da forti componenti non monetarie della retribuzione. Fino a non molti anni fa si pensava che questo modello si sarebbe imposto al mondo: le norme sul lavoro minorile, sulla sicurezza sul lavoro e del posto di lavoro, il graduale e continuo aumento di salari e del tempo libero in cui spendere quei salari avrebbero dimostrato la superiorità di una civiltà europea attenta all’individuo e ai suoi legami con la società. Come ben sappiamo, le cose non sono andate così. I Paesi emergenti stanno muovendosi verso salari più elevati e forme rudimentali di sicurezza sociale non copiate dall’Europa, ma la produttività del lavoro vi cresce a velocità ben superiore e pertanto le loro esportazioni conquistano sempre nuovi mercati. I lavoratori sono sicuramente sottopagati ma i loro redditi sono fortemente aumentati e possono ragionevolmente sperare che i figli continuino nel miglioramento. I nostri obiettivi sono invece troppo spesso quelli di un decoroso accompagnamento alla pensione di lavoratori anziani senza dare spazio ai giovani mentre con redditi stagnanti il tempo libero rischia di trasformarsi in tempo vuoto. L’Europa, e l’Italia in particolare, più esposta di altri Paesi alla concorrenza diretta degli emergenti, si vede proporre (e forse domani imporre) un sistema in cui si deve lavorare di più e con mansioni più flessibili per retribuzioni pari a quelle di prima. Le vie percorribili sono sostanzialmente due. La prima via è quella di una sostanziale riscrittura del modello economico-sociale europeo con l’attenuazione della difesa del «posto» di lavoro, non più garantibile nell’attuale contesto mondiale, e l’aumento della difesa del «lavoro», ossia di un’attività mutevole e flessibile: si deve andare verso una garanzia della continuità delle occasioni di lavoro, magari con un salario di cittadinanza, nell’ottica di ottenere e mantenere la produttività necessaria per stare sul mercato globale. Modelli di questo tipo hanno consentito a diverse economie dell’Europa settentrionale di reggere assai bene all’urto dei Paesi emergenti e di riconvertirsi molto velocemente e con successo. Nessuna di queste esperienze è perfetta e tutte richiedono un supporto notevole di spesa pubblica; pertanto il meccanismo dovrebbe essere introdotto gradualmente e in via sperimentale, a cominciare dai giovani delle aree minacciate dalla crisi industriale. Torino, dove il numero di coloro che compiono diciotto anni è sensibilmente inferiore a coloro che ne compiono sessanta, sarebbe un luogo ideale per cercare di trasformare in «lavoro» - e quindi in prospettive di vita - mediante la garanzia di una continuità di fondo la miriade di «lavoretti» con cui i giovani sopravvivono. La seconda via è quella del protezionismo moderno, fondato su barriere non tariffarie in grado di impedire l’ingresso delle merci che competono con quelle nazionali. Il protezionismo salva i posti di lavoro minacciati ma il suo costo è molto elevato in quanto riduce o toglie dai mercati numerosi beni stranieri a basso prezzo. Le varie «clausole di salvaguardia» degli accordi commerciali internazionali consentono forme di protezione per un periodo limitato. Sono utili se, nel frattempo, il Paese o il gruppo di Paesi che cerca di proteggersi modifica qualcosa nel suo modello produttivo. Nel caso dell’Italia, a esempio, occorrerebbe semplificare davvero la politica, la burocrazia, la tassazione riducendone il costo - che è spesso un reddito per categorie professionali privilegiate assai più numerose che in altri Paesi - senza far ricadere il peso della ristrutturazione soltanto sui normali lavoratori dipendenti. Perché il «tavolo» di Torino sia un successo, argomenti di questi tipo dovranno essere affrontati - accanto a quelli più specifici dell’occupazione dei singoli stabilimenti e dei modelli che saranno prodotti, situazione economica permettendo - per essere sviluppati in seguito. La speranza è che ci sia almeno un pizzico di novità, non il solito stanco rituale che ha scandito il nostro declino. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7640&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. I cinesi hanno aperto una nuova Via della seta Inserito da: Admin - Agosto 04, 2010, 07:38:52 pm 4/8/2010
I cinesi hanno aperto una nuova Via della seta MARIO DEAGLIO Taranto trasformata in base commerciale cinese? Questa possibilità, riportata su La Stampa di ieri, non è il frutto di un miraggio estivo ma piuttosto di una strategia detta «del filo di perle» che i cinesi perseguono con decisione ormai da diversi anni. Consiste nel disseminare nel mondo basi logistiche per il commercio estero cinese (le «perle» legate tra loro dal «filo» dei traffici) in una concezione in cui l'economia sfuma nella politica e la politica sfuma nell’economia. Negli ultimi 3-4 anni Pechino ha effettuato una spettacolare offensiva economico-commerciale verso l'Africa superando nettamente in molti Paesi la tradizionale presenza europea. Ora rivolge l'attenzione al Mediterraneo che correttamente considera zona di elevato sviluppo demografico - sulla riva Sud - e di grande potenzialità economica. Il prossimo passo potrebbe essere un forte e diretto coinvolgimento con il mercato europeo, anche a seguito della costruzione di una nuova ferrovia che collegherà Cina ed Europa passando dalla Russia. Il vero elemento di novità si trova invece in quanto La Stampa scrive oggi: mentre gli italiani sono occupatissimi a discutere sul futuro del governo e su altre questioni che la storia quasi certamente considererà molto secondarie, la Cina sta effettuando le mosse iniziali di un ingresso economico in grande stile in Italia con l'installazione in Italia di banche e catene di distribuzione. Così si venderà una gamma sempre più vasta di prodotti fabbricati in Cina e si potranno anche convogliare prodotti italiani sul mercato cinese. Tale strategia implica anche investimenti cinesi in imprese italiane specialmente in settori manifatturieri in cui l'industria italiana vanta una forte presenza nel mondo. Questa nuova spinta economica cinese è dovuta a un mutamento che sta portando a un rapidissimo aumento del peso economico dell'Asia Orientale e Meridionale: la Cina di oggi non è soltanto un grande fornitore di giocattoli, magliette di peluche e cianfrusaglie varie a bassissimo costo. Anche a seguito di una gigantesca politica dell'istruzione - che la porta ogni anno a sfornare circa il doppio dei tecnici e degli ingegneri dell'Europa - oggi la Cina sa fare quasi tutto, con una qualità molto spesso quasi pari a quella europea e italiana e a un prezzo che, al cambio attuale, è semplicemente imbattibile dalle imprese europee e italiane. I prezzi delle esportazioni cinesi, in ogni caso, rimarranno robustamente competitivi anche dopo la sperabile rivalutazione della moneta cinese, lo yuan, che è stata molto lentamente avviata. Dal punto di vista cinese questa strategia appare del tutto ragionevole: si impiega nell'acquisto di imprese straniere e in investimenti esteri una parte delle riserve finanziarie accumulate nel corso degli anni come alternativa al prestito delle stesse riserve agli americani. Tale prestito lascia a Washington ogni decisione sulla dinamica del suo enorme e crescente deficit, comprese quelle su politiche estere molto costose, come quelle condotte in Afghanistan e in Iraq sulle quali Pechino vorrebbe maggiore concertazione. Infine, in questa gigantesca partita economico-finanziaria, i cinesi possono mettere sul tavolo una qualche forma di impegno a finanziare i debiti pubblici - strutturalmente crescenti - dei Paesi europei. Già oggi possiedono una quota molto rilevante del debito pubblico italiano e l'Italia deve fare affidamento sul loro buon volere per il rifinanziamento che questo debito richiede. Insomma, mentre l'interesse generale italiano ruota attorno al fattore B (Berlusconi) sarebbe importante riservare un po' dell'attenzione collettiva al fattore C (Cina). E provare a pensare a quale via le imprese italiane potrebbero ragionevolmente percorrere in questa nuova situazione. Difficilmente praticabile appare la chiusura dello spazio economico europeo all'attività economica cinese, con iniziative più o meno dichiaratamente protezionistiche, perché l'Europa ha bisogno della collaborazione finanziaria da parte di Pechino; oltre che un temibile concorrente la Cina e l'Asia continuano poi a rappresentare per l'Europa un'enorme opportunità economica come dimostra la crescita delle esportazioni italiane verso quell'area, uno dei pochi punti veramente positivi nell'attuale situazione di crisi. Una maggiore collaborazione appare inevitabile e questa deve implicare la messa a punto di progetti comuni a tutti i livelli: da quello delle imprese che concludono accordi di collaborazione di lungo periodo a quello delle infrastrutture necessarie per favorire questi progetti. L'industria europea e l'industria italiana in particolare dovranno effettuare un esame spassionato della loro posizione nel mondo e troveranno che la «via della seta», come un tempo si chiamava l'asse commerciale tra Europa e Estremo Oriente, può servire a bilanciare le rotte atlantiche verso l'America Settentrionale, le quali da tempo stanno perdendo vigore. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7675&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Orizzonte grigio scuro Inserito da: Admin - Agosto 13, 2010, 03:55:43 pm 13/8/2010
Orizzonte grigio scuro MARIO DEAGLIO I banchieri centrali sono indubbiamente molto bravi nel loro difficile mestiere di governo di un’economia globale inquieta e turbolenta; sono però forse ancora più bravi nell’usare espressioni arzigogolate per sdrammatizzare o rendere meno spigolose le loro analisi. Così, quando, lo scorso 21 luglio, il capo della banca centrale americana, Ben Bernanke, dichiarò che l’andamento dell’economia era «insolitamente incerto» voleva dire che le cose non andavano affatto bene e gli addetti ai lavori non capivano perché. Il Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea (Bce), pubblicato ieri, sostiene che il ritmo dell’espansione sarà «moderato» il che significa che si collocherà intorno all’uno per cento, una cifra economicamente insoddisfacente e socialmente poco sostenibile per le pressioni negative che esercita sull’occupazione. L’espansione, secondo la Bce, sarà anche «discontinua», un modo molto diplomatico per dire che in alcuni trimestri ci potrebbe essere una riduzione della produzione. In marcato contrasto con qualche mese fa, quando le previsioni ufficiali inclinavano al rosa pallido, ora l’indicazione generale è al grigio scuro. E tutto questo perché si è constatato che, come dicevano gli economisti di una volta, «il cavallo non beve» ossia i consumatori comprano poco e le imprese investono ancora meno. I governi hanno cercato di mettere dello zucchero nell’acqua, hanno cioè introdotto incentivi fiscali e il cavallo è sembrato apprezzare; ma appena gli incentivi sono finiti, la voglia di bere del cavallo è svanita. Siamo tornati al punto di prima, in molti Paesi con un aumento del buco nei conti pubblici per i minori incassi derivanti dagli incentivi. Ecco allora il pericolo di una crescita «discontinua» indicato dalla Bce e l’aumento imprevisto nel numero degli americani che chiedono il sussidio di disoccupazione, reso noto ieri. L’aumento, relativamente elevato, dei prezzi registrato a luglio in Italia e altrove dipende dall’impennata del prezzo del greggio sui mercati internazionali; non è certo un bel segnale anche se non ne va esagerato il carattere negativo. Le pressioni inflazionistiche dovrebbero però essere prese in seria considerazione nei prossimi mesi solo se i danni degli incendi russi al raccolto dei cereali provocassero un aumento sostenuto e duraturo nei prezzi del grano che influenzerebbe rapidamente molti settori dell’alimentazione. A rendere ancora meno attraente il quadro, il rallentamento dell’espansione cinese riduce le speranze che l’aumento delle importazioni del gigante asiatico possa da solo rivitalizzare l’economia mondiale, anche perché il potenziale produttivo dell’economia cinese è ormai tale da poter rifornire senza problemi il mercato interno di una massa di prodotti che fino a qualche anno fa venivano dall’estero e particolarmente dall’Europa. Qualcuno penserà che non si tratta di una bella prospettiva, certo poco adatta a un periodo di vacanze, alla quiete sotto l’ombrellone. Ma abbiamo già perso troppo tempo con false speranze, illusioni e autoillusioni, o messaggi criptici di chi governa l’economia che erano nei fatti confessioni di insuccessi, il che ha fatto sì che sotto gli ombrelloni dell’estate ci sia molta meno gente di uno-due anni fa. La strada della ripresa deve cominciare dalla chiarezza; e dalla consapevolezza che occorre qualcosa di nuovo, magari senza aspettare la fine delle vacanze, per evitare quell’avvitamento autunnale che la Bce chiama diplomaticamente «discontinuità». Per questo è probabilmente necessario dotare le autorità centrali di maggiori poteri di intervento nell’economia, invertendo la tendenza al disinteresse per il controllo dei mercati che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni. Occorre anche agire sulla distribuzione dei redditi, in primo luogo recuperando l’evasione fiscale, particolarmente rilevante in Italia ma di certo non assente negli altri Paesi. In secondo luogo, ove necessario, bisognerà prendere in considerazione il ridisegno del carico fiscale con lo spostamento di potere d’acquisto verso le fasce di popolazione dai redditi più bassi, il che porterà all’aumento dell’imposizione fiscale sugli altri contribuenti. L’Italia non si trova particolarmente svantaggiata nel clima generale di difficoltà che stiamo vivendo. I suoi prodotti di alta qualità trovano mercato anche in questo periodo di crisi e le imprese hanno una lunga tradizione di adattamento al nuovo in periodi difficili che fa sì che le esportazioni siano complessivamente abbastanza vivaci. Le debolezze italiane derivano, come sempre, dalle carenze di infrastrutture e dalle complicazioni normative; e più ancora dalla lontananza di una classe politica molto attenta alle «rese dei conti» al proprio interno e apparentemente incapace di comprendere le difficoltà dei bilanci famigliari e dei bilanci aziendali. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7706&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La politica dimentica l'economia Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 08:19:41 am 17/8/2010
La politica dimentica l'economia MARIO DEAGLIO Quest’anno la pausa di Ferragosto non è stata caratterizzata, come tradizione, dal silenzio della politica. Rivelazioni e smentite, accuse e controaccuse, zuffe verbali dal linguaggio sempre più truculento hanno turbato il tradizionale riposo estivo degli italiani, molti dei quali hanno ridotto le vacanze, quando non vi hanno rinunciato del tutto, grazie alla crisi. Ed è proprio la crisi, con timori che genera per redditi e livelli di vita di milioni di persone, la grande assente in un dibattito - se così si vuol chiamare un’accozzaglia di dichiarazioni e battute in cui tutti gli intervenuti sembrano ascoltare soltanto se stessi - che ha la caratteristica di rimanere totalmente interno alla classe politica. Chi si sobbarca la fatica di seguirlo ne ricava l’impressione che l’Italia si trovi in una sorta di vuoto pneumatico invece che immersa in un contesto mondiale in ebollizione in cui fa un po’ di fatica a rimanere a galla; e che la classe politica italiana, in quello che sembra un misto di arroganza e di ignoranza, pensi che il fare e disfare governi e legislature non abbia conseguenze sulla posizione economica internazionale del Paese. Così come il baloccarsi disinvolto con la prospettiva di nuove elezioni. Le cose invece non stanno così. L’economia globale è in rapidissimo cambiamento, come dimostra il «sorpasso» del Giappone da parte della Cina, annunciato ieri. Uno sguardo a questi mutamenti vorticosi è sufficiente a mostrare la pericolosità economica di un’eventuale fine anticipata della legislatura nel corso dell’autunno, con elezioni collocate in una data insolita, o anche solo la mancanza di un governo stabile e credibile sul piano della finanza internazionale. L’instabilità o il vuoto politico potrebbero infatti avere rilevanti ripercussioni negative sulla gestione del debito pubblico italiano. Va ricordato che l’Italia è stata per decenni uno dei maggiori «produttori» di debito pubblico, ossia di titoli sovrani acquistabili sui mercati finanziari ma che, con il generale peggioramento dei bilanci pubblici delle economie avanzate, su questo mercato mondiale del debito l’Italia deve competere molto più duramente di prima con molti Paesi, quali Germania, Francia e Gran Bretagna che devono «piazzare» i propri titoli per avere le risorse necessarie a quadrare i propri bilanci. Il debito pubblico italiano è complessivamente gestito bene, senza addensamenti eccessivi di scadenze, il che limita la possibilità di grandi ondate speculative, del tipo di quelle che hanno colpito la Grecia e, in misura minore, il Portogallo. E finora l’Italia ha rigorosamente rispettato gli obblighi di disciplina di bilancio - tra i quali il varo della recente manovra - che si era assunta in sede europea. Alcune aste importanti negli ultimi mesi, specialmente quelle di giugno, sono state superate in maniera molto soddisfacente; tra la fine delle ferie e la fine dell’anno, però, vengono a scadere circa 100-120 miliardi di debito, concentrati soprattutto a settembre e a novembre e dovranno essere rifinanziati, ossia sostituiti con titoli nuovi. Chi li acquisterà? Una parte rilevante - si può stimare un po’ più della metà - sarà sottoscritta da risparmiatori italiani, tradizionalmente attratti da questo prodotto «di casa» (l’impiego di risparmio in debito pubblico è uno dei più importanti comportamenti unificanti dell’Italia di oggi). Il resto dovrà trovare compratori all’estero nelle condizioni concorrenziali e difficili di cui si diceva sopra. Quando devono decidere se - e a che prezzo - acquistare titoli di uno Stato sovrano, i grandi operatori finanziari, tra i quali figurano molte banche centrali, come quella cinese, esaminano a tutto campo la situazione del Paese debitore e in questo esame la stabilità politica e la volontà di rispettare i propri debiti hanno uno spazio molto importante. Quale sarà la reazione del banchiere cinese, del finanziere americano, dell’analista finanziario che lavora per qualche grande banca internazionale di fronte alle «sparate» dei politici di questi giorni? Gli esperti internazionali che si occupano dell’Italia sono in gran parte abituati alle iperboli, al sarcasmo, alle pesanti ironie, alle punte di volgarità del dibattito politico italiano. La possibilità che tutto questo si possa riflettere sul piano istituzionale senza alcun riguardo per la posizione finanziaria del Paese non potrà però non preoccuparli. E potrebbe indurli a chiedere un «premio», ossia un tasso di interesse sensibilmente maggiore di quello applicato ad altri Paesi che si tradurrebbe, come minimo, in qualche migliaio di miliardi in più di spesa per lo Stato italiano, da recuperare poi con nuova austerità e, nella peggiore delle ipotesi, in una più generale «bocciatura finanziaria» dell’Italia. Ai politici che in questi giorni così abbondantemente si esprimono deve quindi essere consentito di rivolgere una sommessa preghiera: tengano presente che quando parlano non hanno di fronte solo il pubblico, spesso non troppo numeroso, dei loro sostenitori politici, o i giornalisti desiderosi di riempire spazi che le festività rendono vuoti. Ad ascoltarli, a pesare le loro parole più di quanto essi stessi si rendano conto, c’è tutta la finanza mondiale. Che deciderà se sottoscrivere i nostri titoli di debito anche sulla base delle loro parole e dei loro programmi. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7716&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Ma sul futuro il Colonnello ha ragione Inserito da: Admin - Settembre 01, 2010, 09:05:03 am 1/9/2010
Ma sul futuro il Colonnello ha ragione MARIO DEAGLIO La visita del colonnello Gheddafi, con le sue modalità a dir poco insolite, ha presentato elementi di forte sgradevolezza e ha impressionato l’opinione pubblica per quello che è stato percepito come un forte accento antieuropeo e anticristiano. Occorre però distinguere gli elementi soggettivi di questa sgradevolezza, legati alla fondamentale incompatibilità del personaggio con l’opinione pubblica italiana ed europea, dagli elementi oggettivi. E qui, purtroppo, occorre prendere atto di un’amara verità: quando parla del futuro dell’Europa e dell’Africa, il colonnello ha sostanzialmente ragione. Dietro al suo discorso ci sono cifre non confutabili. Nelle più recenti statistiche demografiche delle Nazioni Unite, la popolazione dell’Europa nel suo complesso è valutata a circa 730 milioni, Russia compresa (circa 450 se si considera soltanto l’Europa Occidentale); gli abitanti dell’Africa «nera», ossia dell’Africa sub sahariana sono circa 860 milioni. C’è quindi poco più di un africano «nero» per ogni europeo, mentre sessant’anni fa c’erano quasi tre europei per ogni africano. Intorno al 2030, secondo proiezioni statistiche attendibili, gli africani «neri» per ogni europeo saranno quasi due. La popolazione africana «nera» cresce infatti di oltre 20 milioni l’anno e per conseguenza raggiungerà il miliardo nel 2017, nel 2020 sarà attorno a un miliardo e 80 milioni, nel 2030, in un’ipotesi media di crescita, circa 1300 milioni. La popolazione europea rimarrà stazionaria fino al 2020 e comincerà a perdere oltre un milione di persone l’anno dopo quella data. Queste cifre già lasciano supporre che la popolazione dell’Africa sub-sahariana sia, dal nostro punto di vista, incredibilmente giovane, e le cose stanno effettivamente così: circa il 60 per cento degli africani «neri» ha meno di 25 anni mentre appena l’8 per cento ne ha più di 65; in Europa i dati corrispondenti sono pari a circa la metà per i giovani - che sono quindi il 30 per cento del totale - e circa il doppio per gli anziani, pari al 16 per cento del totale. Questo divario è destinato a peggiorare in maniera abbastanza sensibile nei prossimi due o tre quinquenni. Questi sono i dati difficili da digerire - specie se vengono raccontati con semplici allusioni da parte di qualcuno che usa un tono che comunque a noi sembra stravagante o addirittura sprezzante, se l’oratore è offensivo con le donne e arrogante con la nostra religione - ma vanno digeriti. In confronto a noi gli africani «neri» sono mediamente poverissimi, vivono in una realtà in cui spesso è presente la guerra, sono assillati dall’Aids, in buona parte soffrono la fame, hanno un reddito per abitante (per quello che può valere questa misura) stimato attorno agli 800 - 1500 dollari contro i 30-40 mila dollari degli europei. Il lettore si ponga nei panni di un capofamiglia africano che ha a cura l’avvenire dei suoi figli: prende i suoi risparmi e a quello che ritiene più in gamba procura un posto su un autobus incredibilmente stipato sul quale le valigie di cartone sono un lusso. L’autobus si incammina per le piste della savana che, per i capricci della geografia, in due casi su tre finiscono in Libia evitando sia le catene montuose sia i deserti più duri. E qui entra in scena il colonnello Gheddafi del quale si può correttamente dire che, dal punto di vista degli africani, detiene le chiavi del Paradiso europeo; e molto sgarbatamente e molto duramente chiede agli europei di pagarlo per tenere chiusa la porta. Gheddafi ha fatto un riferimento alle «invasioni barbariche» che non è troppo scorretto: i barbari che si presentavano alle porte dell’Impero Romano circa 1700 anni fa solo raramente avevano propositi bellicosi, assai più spesso erano affamati. E per tenerli lontani i Romani quanto potevano facevano affidamento su popolazioni-cuscinetto; Gheddafi propone la Libia per questo ruolo. Per dire «no» a Gheddafi non bastano le parole, è necessaria una proposta alternativa. Questo governo non sembra certo averla, come non sembra averla l’intera classe politica europea; e bisogna ricordare che qualsiasi proposta alternativa ha un prezzo. Tale prezzo potrebbe essere inizialmente molto elevato, specie se si prevedono iniziative che comportino forti investimenti in Africa, magari con prospettive di mutuo vantaggio economico futuro dell’Africa e dell’Europa. L’opinione pubblica europea dovrebbe convincersi che, in qualche modo, il prezzo va pagato e che le condizioni di calma alle frontiere meridionali non dureranno in eterno. E potrebbe anche concludere che, tutto sommato, i cinque miliardi chiesti dal colonnello sono ragionevoli: dopotutto si prende lui l’incarico di respingere i possibili migranti mentre noi siamo liberi di guardare dall’altra parte, seguire con grande attenzione le vicende del calcio, uno sport in cui i neri sono guardati con sospetto anche quando hanno un passaporto italiano, e continuare a parlare dei princìpi che hanno fatto grande l’Europa, in nome dei quali il resto del mondo dovrebbe continuare a trattarci con rispetto. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7772&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La ricreazione è finita Inserito da: Admin - Settembre 27, 2010, 09:35:40 am 27/9/2010
La ricreazione è finita MARIO DEAGLIO In decenni ormai lontani, settembre era il mese degli esami di riparazione e al primo di ottobre le scuole riaprivano per promossi e ripetenti. Pur se di dubbia validità per gli studenti di ieri, questo calendario andrebbe benissimo per i politici di oggi: quale che sia il giudizio sulla classe politica, non vi è dubbio che negli occhi della gente essa esca largamente bocciata dalla pausa estiva. Ai parlamentari e agli uomini di governo che rientrano nelle aule (di Palazzo Madama e di Montecitorio) si conceda magari ancora la prossima settimana per assestarsi e poi, da bravi ripetenti, ricomincino a studiare e a fare i compiti e cerchino di ottenere dei buoni voti. Altrimenti le loro famiglie - cioè gli italiani - faranno loro abbandonare gli studi. Per chi vive in un mondo di appartamenti a Montecarlo, di società offshore, di feste di partito, di simboli artificiali, come quello del sole padano, è probabilmente difficile immedesimarsi nei problemi di chi ha un solo appartamento con mutuo da pagare e la cui festa principale consiste nel vedersi riconfermato un lavoro precario. Eppure questa è la situazione di milioni di italiani; e il loro numero, purtroppo, sta crescendo abbastanza rapidamente. Quando rientreranno davvero nei loro luoghi di lavoro, i parlamentari e gli uomini di governo dovranno prima di tutto rendersi conto di aver sbagliato i conti nei lunghi mesi della loro ricreazione estiva. Con la dura frenata degli Stati Uniti, l'economia mondiale sta andando assai meno bene di quanto molti pensavano all'inizio dell'estate: nessun Paese ha ancora raggiunto i livelli di produzione precedenti la crisi, ossia quelli del primo-secondo trimestre 2008 ma l'Italia è tra i più lontani, tanto che, al ritmo attuale, potrebbe metterci alcuni anni. Assai più degli altri grandi Paesi europei che raggiungeranno probabilmente quel livello entro il 2011. Quando raggiungerà quel traguardo, per l'aumento generale della produttività del lavoro, al quale dovrà adeguarsi, l'Italia potrebbe avere oltre un milione - un milione e mezzo di occupati in meno. Questi problemi sono stati minimizzati o accantonati per mesi, o forse per anni; la mancanza, da parte del mondo politico in generale, di grandi progetti e di programmi concreti per una ripresa della crescita, in grado di assicurare lavoro in un contesto economico sostenibile appare pressoché totale. Il suo segno più visibile è l'incapacità del governo e delle forze che lo sostengono di trovare un titolare per il ministero delle Attività Produttive, al quale competerebbe un ruolo chiave in un programma del genere. Non c'è il programma, non c'è il ministro ma fioccano le assicurazioni che tutto va bene, che l'Italia è un Paese simpatico nel quale si vive egregiamente, che non ci dobbiamo preoccupare; e se un giovane su quattro non trova lavoro, può forse trovare un pasto gratis a qualche festa di partito, e i ricercatori universitari, dei quali di fatto si rischia di annullare un progetto di vita, possono sempre cercar fortuna all'estero. Ai parlamentari che torneranno nelle loro aule deve essere detto fermamente, rubando l'espressione al generale De Gaulle e ponendola fuori contesto, che «la ricreazione è finita». E certo gli italiani non si sono divertiti. Durante la ricreazione l'Italia ha ancora perso terreno, si è accentuata la distanza che la separa dalla maggior parte dei Paesi ricchi; il Paese si rifugia sempre di più in un localismo eccessivo, in una parodia di federalismo che porta al rifiuto di vedere al di là del proprio campanile. Nella principale città del Nord poche ore di pioggia provocano danni e allagamenti, mentre la principale città del Sud non riesce neppure a raccogliere i propri rifiuti. Bisogna uscire da tutto questo, bisogna dimenticare le storie spensierate dell'estate con le società offshore e le feste di partito. Il Paese sa già che l'autunno sarà duro. Speriamo che se ne accorga anche la classe politica. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7882&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Se ci fosse un progetto per il futuro Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2010, 12:37:49 pm 5/10/2010
Se ci fosse un progetto per il futuro MARIO DEAGLIO E’ stata finalmente la volta buona: dal cappello del presidente del Consiglio è uscito il nome del nuovo ministro dello Sviluppo economico. Essendosi Scajola, suo ultimo titolare, dimesso il 4 maggio, sono passati cinque mesi esatti in cui la poltrona del ministro è rimasta vuota e il ministero è stato gestito ad interim dal presidente del Consiglio, il quale ha ripetutamente promesso di indicare il successore e fino a ieri ripetutamente rinviato questa indicazione. Questi cinque mesi hanno coinciso con l’assenza quasi totale di crescita economica e con l’aggravarsi dei problemi di alcune industrie e di alcune aree. La presenza di un ministro non sarebbe bastata a far tornare il sereno, così come non basterà la nomina a far ripartire l’economia, ma rappresenta un’occasione per dare senso a qualcosa che rischiava ormai di apparire priva di senso: l’essere rimasti così a lungo privi di un ministro chiave è un segno della difficoltà - prima ancora culturale che economica - degli italiani a uscire dall’attuale, terribile immobilismo della produzione che è anche un immobilismo delle iniziative e delle idee. In tutti i Paesi europei il ministro dello Sviluppo economico, o il suo equivalente, rappresenta una cerniera strategica dei rapporti tra potere centrale ed economia: dai brevetti alla politica commerciale internazionale, dalle politiche comunitarie a quelle energetiche, dalla supervisione delle Camere di commercio a quella degli operatori di telecomunicazioni, per i suoi uffici passa gran parte della vita produttiva del Paese, anche dopo che, con la gestione ad interim, numerose competenze sono state affidate ad altri ministeri. Che per cinque mesi si sia potuto gestire tranquillamente tutto questo in maniera amministrativa, senza un responsabile che se ne occupasse a tempo pieno, soltanto con un presidente del Consiglio che apponeva firme, inevitabilmente frettolose, là dove era strettamente necessario, è purtroppo coerente con un Paese in cui l’economia sembra largamente andare avanti per inerzia. L’immagine che una parte importante del Paese ha dell’imprenditore, del capo-azienda è quella dell’uomo energico e decisionista, «ispirato», ottimista ritagliata sul presidente del Consiglio quando ancora faceva quel mestiere. Questo può essere vero in alcuni casi e in alcuni settori, ma la gran massa dell’attività economica si scontra con vincoli purtroppo molto concreti, banali e micidiali, in cui l’«ispirazione» e l’ottimismo servono poco: con i crediti che le imprese non riescono a incassare dagli enti pubblici, con le autorizzazioni che non arrivano e bloccano gli investimenti, con le eventuali multe che arrivano invece in tempi rapidissimi, con i dieci anni mediamente necessari per portare a termine un processo civile. Tutto questo è avvenuto nella sostanziale indifferenza del Paese, e soprattutto della politica, che troppo spesso sembra adorare il «piccolo è bello» e considerare tutto il resto un fastidio. Il ministro dello Sviluppo economico dovrà riuscire a ribaltare questa scala di valori che sta rapidamente affondando l’Italia e anche a individuare linee di lungo periodo per la crescita del Paese. Pur dovendo dedicarsi a numerosi affari giornalieri, dovrà avere quella che un tempo si chiamava «vision», ossia un’indicazione sufficientemente chiara di ciò che l’Italia potrà essere di qui a cinque-dieci anni e agire perché quest’indicazione diventi realtà. In questo senso il neo-ministro Paolo Romani ha un compito molto difficile e centrale nella politica e nell’economia italiana dei prossimi mesi: la vera capacità di durare dell’esecutivo non si può infatti misurare soltanto contando con il bilancino i voti ottenuti in Parlamento, ma valutando la sua capacità di formulare un coerente progetto di futuro, e di mettere in moto meccanismi perché questo traguardo venga davvero raggiunto. Certo, in un regime di mercato l’economia va dove vuole e non dove dice il governo; va comunque ricordato che persino il più liberista dei recenti governi europei, quello «mitico» della Signora Thatcher, aveva molto chiare le priorità del Paese e - a torto o a ragione - concentrò gli sforzi pubblici in direzioni molto precise quali la finanza, le applicazioni della biomedicina, la creazione di eccellenze nel capitale umano e così di seguito, con il disegno strategico di fare della Gran Bretagna uno dei centri nevralgici dell’economia globale. E se oggi i governi tendono a occuparsi poco di «settori» - pur con notevoli eccezioni come quella francese e, in maniera meno apparente ma ugualmente efficace, quello tedesco - si occupano moltissimo di «fattori produttivi». Qual è oggi il «disegno strategico» del governo per quanto riguarda lo sviluppo economico? Che cosa intende fare per rispondere alle crisi di settore e per impostare una politica dei fattori produttivi? Si può sperare di apprenderlo dal neo-ministro Paolo Romani. Al di là delle convinzioni politiche, merita un triplice augurio: quello di muoversi, e di muoversi con efficacia e di muoversi nella direzione giusta. Il rischio - per il neo-ministro e per gli italiani in genere - è che né da lui, né dal governo né dall’intera classe politica pervengano indicazioni chiare. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7917&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La prossima marcia dei 40 mila Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2010, 11:55:21 am 14/10/2010
La prossima marcia dei 40 mila MARIO DEAGLIO La marcia dei 40 mila fu la manifestazione che pose fine a tutte le manifestazioni; fu il corteo di quelli che non vanno mai in corteo. Chiuse la stagione iniziata nel Sessantotto, durante la quale, con molto entusiasmo, si pensava che bastassero manifestazioni e cortei per imprimere un nuovo corso alla storia, ridistribuire il reddito, riformare tutto, dalle università alle fabbriche. Fu un importante sintomo della difficoltà dell’Italia a cambiare, sembrò risolutiva di problemi che si presentarono poi in forma più acuta. Iniziò un processo che mise fine al «disordine», al prezzo di metter fine anche ai sogni. La marcia dei 40 mila fu la marcia di chi aveva paura; pur con qualche elemento propositivo, fu una marcia «contro», non una marcia «per», una marcia con l’obiettivo di ristabilire, nelle fabbriche e nella società, un insieme di valori che, per vari motivi erano al tramonto e andavano reinterpretati. Contribuì pertanto a una progressiva «chiusura» dell’Italia: negli Anni Ottanta l’Italia fece l’ultimo sforzo - coronato dall’insuccesso - di giocare un ruolo veramente importante nell’economia europea e mondiale, negli Anni Novanta si cominciarono a vendere e a chiudere grandi complessi produttivi, negli ultimi dieci anni la velocità di crescita dell’economia italiana è risultata nettamente e pressoché costantemente inferiore a quella degli altri Paesi europei. Per non parlare di Stati Uniti, Cina e quant’altri. Naturalmente la marcia dei 40 mila è soprattutto un simbolo e a questa chiusura contribuirono molti fattori. Si può dire che, dopo di allora, il sindacato cominciò a giocare in difesa, ad aprire fortemente ai pensionati che oggi ne condizionano le strategie, a disinteressarsi dei giovani che oggi largamente lo ignorano; le sue lotte sono state lunghe guerre di posizione, la gestione ordinata della ritirata industriale dell’Italia che portò alla fine di Olivetti e Montedison, all’uscita da gran parte della chimica e della farmaceutica. E così dai grandi poli industriali il Paese ripiegò sui piccoli distretti industriali. Alla «prudenza» del sindacato fece da contrappunto la «prudenza» degli imprenditori. Anche gli imprenditori, infatti, cominciarono a giocare in difesa. Negli Anni Ottanta tentarono ancora l’avventura internazionale, basandosi però su forze esclusivamente finanziarie. E dopo di allora ci fu un lungo seguito di ristrutturazioni tra il privato e il pubblico privatizzato di fresco, che talora mise in luce molta inventiva tecnica ma scarsa capacità, per i gruppi di grandi dimensioni e con qualche eccezione, di assumersi davvero il rischio del nuovo. Forse solo negli ultimi due-tre anni, limitatamente ad alcuni settori, si osservano nuovi piani, nuove visioni, un nuovo gusto del fare. Per effetto del clima sociale e politico successivo alla marcia, i «sessantottini» non arrivarono mai al potere, non diedero quella spinta di rinnovamento che, opportunamente temperata e sfrondata di numerosi eccessi, sarebbe stata essenziale per mantenere al paese un clima di dinamismo culturale. Questo forse spiega il crescente distacco da un’Europa dove, senza che i risultati siano stati sempre brillanti, i giovani non furono così duramente emarginati. Per conseguenza, la politica appassì e si dissolse e i leader politici italiani sono mediamente di 10-15 anni più vecchi di quelli del resto del continente. È più che legittimo domandarsi se oggi ci potrebbe essere una nuova marcia dei quarantamila che metta in moto un mutamento radicale di carattere economico, politico e sociale come quello di trent’anni fa. E la risposta è che forse ce la possiamo attendere tra qualche anno, con caratteristiche in parte opposte alla marcia di allora. Se mai questo succederà, non sarà la marcia degli impiegati e dei capi officina che temono di perdere il posto di lavoro ma dei giovani che un posto di lavoro non ce l’hanno e si devono arrangiare con lavori precari in un insopportabile clima di provvisorietà. Non sarà la marcia di chi si sente vicino alla pensione ma di chi è ragionevolmente convinto che avrà, al massimo, una pensione magra. La speranza è che non sarà una marcia contro, ma una marcia per un progetto, per un disegno del futuro, per un’assunzione di rischi e responsabilità che né la politica né la società sembrano oggi in grado di esprimere. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7953&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. All'Europa mancano i governi Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2010, 04:53:49 pm 20/10/2010
All'Europa mancano i governi MARIO DEAGLIO Un’Europa virtuosa, con i bilanci pubblici a posto e l’inflazione sotto controllo, un’Europa solida, dalle tecnologie avanzatissime e dalla moneta immacolata, ben presente negli scambi mondiali e bene ordinata al suo interno. È questo il progetto sommariamente delineato, due giorni fa, a Strasburgo durante una riunione, tesa e lunghissima, dei ministri economici e finanziari. Per la verità, tedeschi e «nordici», che sono i principali fautori di questo progetto, hanno fatto qualche concessione ai Paesi un po’ «vivaci» e un po’ caotici, come l’Italia, perennemente disordinati, con i conti pubblici non in ordine ma con famiglie che possono vantare un risparmio di entità superiore a quello delle famiglie tedesche. Purché anche questi italiani sbarazzini si adeguino al modello dominante. Il giorno dopo quest’accordo, ossia ieri, si è svolto in Francia il sesto sciopero generale che può essere considerato - anche se non intenzionalmente - come il rigetto di questa visione dell’Europa. È infatti parte di un’imponente azione contro la riforma delle pensioni, premessa indispensabile perché i conti pubblici francesi possano avere qualche speranza di sostenibilità nel lungo periodo. Tre milioni e mezzo di persone secondo i sindacati, poco più di un milione secondo la polizia, hanno partecipato a cortei e manifestazioni con numerosi incidenti, mentre i Tir a passo di lumaca, gli scioperi delle raffinerie e la conseguente penuria di carburante non solo stanno mettendo a rischio la normale operatività del Paese ma stanno anche ponendo interrogativi importanti sul futuro, non certo solo francese, ma dell’intera Europa. Non a caso, l’euro, che avrebbe dovuto rafforzarsi alla notizia del nuovo patto - per nulla scontato alla vigilia - ha invece subito una netta battuta d’arresto per la paura di un nuovo «mal francese». Di fronte all’accordo di Strasburgo non è quindi sufficiente che gli italiani si chiedano che cosa ci «guadagna» e che cosa ci «perde» l’Italia in termini di politica fiscale, ossia quanto spazio può restare per aumentare (o non ridurre) la spesa pubblica nei prossimi anni. E neppure porta molto lontano l’invito del governatore della Banca Centrale Europea - in un’intervista a La Stampa del 17 ottobre - alla sobrietà finanziaria e alla rapida riduzione del debito pubblico. Non si tratta di una partita tra l’Italia e il resto d’Europa, occorre inserire l’accordo finanziario in un più ampio quadro europeo. Accanto alla sostenibilità finanziaria esiste, infatti, la sostenibilità sociale. Sulla sostenibilità finanziaria si sono fatti moltissimi studi; della sostenibilità sociale si conosce assai poco in un contesto in cui gli stili di vita, i rapporti e le aggregazioni delle persone sono profondamente cambiati. Gli eventi francesi di questi giorni mostrano che senza accettazione sociale, le misure necessarie alla sostenibilità finanziaria possono essere clamorosamente rigettate dalla «piazza» o forse pericolosamente annacquate. Occorre ricordare che proprio il popolo francese, con il suo «no» al referendum aveva, già nel 2005, affossato la nuova costituzione europea; e, tra i motivi di quel «no», indicati dai votanti in un sondaggio, al primo posto (46 per cento delle risposte) c’era la paura che, con la nuova legge fondamentale, la disoccupazione sarebbe peggiorata. Va ugualmente ricordato che l’Italia ha accettato un elevato (e giustificato) prezzo per entrare nell’euro. Le regole finanziarie hanno radicalmente ridotto la crescita economica e reso problematica la nuova occupazione. Si sono così create tensioni che, in una società con una fortissima, forse eccessiva, capacità di adattamento, come quella italiana, non hanno provocato - almeno finora - esplosioni di malcontento dell’entità e della gravità di quelle francesi. Nel pasticciato stile italiano, in maniera complessivamente bipartisan e con un processo di quasi vent’anni gli italiani hanno «digerito» quelle riforme indispensabili che i francesi si apprestano a varare con moltissima difficoltà. In definitiva, non basta certo la «purezza finanziaria» dei tedeschi di oggi - che pure nasconde alcuni punti di debolezza - così come non è certo demoniaco il rifiuto di moltissimi francesi a una radicale riforma pensionistica. Entrambi, portati all’estremo, hanno il potere di indebolire un’Europa che ha finora compiuto abbastanza bene la traversata della grande crisi della globalizzazione. L’Europa, e ciascuno dei Paesi che la compongono, ha bisogno di nuove politiche e di nuovi uomini politici che sappiamo spiegare le esigenze dei bilanci pubblici alla gente e le esigenze della gente al mondo della finanza. Purtroppo, in un continente di governi con maggioranze risicate o sfilacciate, di queste politiche e di questi politici per il momento non si vede neppure l’ombra. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7976&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Fiat, l'Italia si autoassolve e non discute Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:51:28 pm 26/10/2010
Fiat, l'Italia si autoassolve e non discute MARIO DEAGLIO Negli ultimi due giorni gli italiani - e in particolare la classe politica italiana - sono stati sottoposti a quello che si può definire uno choc da globalizzazione; e complessivamente non hanno gradito. La globalizzazione, però, pur con alti e bassi, resta e l’Italia - che agli italiani piaccia o no - è costretta a viverci dentro, nel senso che il Paese, come parte dell’Europa, deve guadagnarsi il pane in un mondo globalizzato vendendo i suoi prodotti in competizione con altri Paesi per acquistare nel resto del mondo ciò di cui ha bisogno. E’ questo il senso del «ciclone Marchionne», ossia della risposta alle dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat (e dell’americana Chrysler) nel corso di un programma televisivo domenicale e delle amplissime ripercussioni che hanno riempito la giornata politica di ieri. Marchionne non è certo un diplomatico e ha detto, con la chiarezza un po’ rude che caratterizza i nove decimi dell’umanità, cose assolutamente vere e sgradevoli che gli italiani in cuor loro già sanno ma spesso preferirebbero non sentire: che l’Italia è diventata un Paese inefficiente e non competitivo, che l’organizzazione del lavoro permette in certi casi l’assenteismo di massa, che le fabbriche italiane della Fiat non contribuiscono neppure per un euro all’utile del gruppo. Con un raro miracolo Marchionne è così riuscito a mettere quasi tutto il mondo politico d’accordo in un rigetto viscerale. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha dichiarato che si vede che Marchionne è più canadese che italiano; Pierluigi Bersani, segretario del Pd, ha detto che non possiamo diventare cinesi; il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha affermato che l’Italia sta già facendo quello che deve fare; il leader di Italia dei Valori Antonio Di Pietro ha definito «offensive» e «indegne» le parole di Marchionne; Nichi Vendola, portavoce nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà, l’ha invitato a fare autocritica e ha accusato la Fiat di non aver prodotto niente di innovativo. In vario modo e con varie sfumature, buona parte dell’Italia ufficiale si autoassolve, non argomenta, al massimo ricorda pesantemente gli aiuti dello Stato alla Fiat, che peraltro sono stati un fattore comune della politica industriale dei Paesi ricchi durante la crisi degli ultimi due anni, in Italia sono stati inferiori alla media europea e comunque hanno riguardato tutte le auto vendute in Italia e non solo quelle qui fabbricate. Ci si è rifugiati in un’italianità di maniera, come i bambini convinti che il mondo esterno smetta di esistere se loro chiudono gli occhi. Da quasi tutte le parti si è preferita l’invettiva, più o meno aperta, alla discussione. E’ mancato, insomma, un confronto critico. In particolare, in un caso purtroppo non infrequente di «cecità mediatica» che distrugge le sfumature delle notizie, si sono del tutto trascurate le parti «positive» dell’intervento del leader della Fiat che, tutto sommato, dovrebbero sembrare interessanti come la promessa (l’impegno?) di investimenti cospicui, di salari a livello europeo, di un rilancio a livello mondiale. Marchionne può aver esagerato puntando i suoi riflettori soltanto sulle fabbriche italiane, trascurando il «cervello» della Fiat che continua a essere italiano in misura molto larga: centri di ricerca, progettazione, uffici che si occupano di strategia, amministrazione, programmazione e quant’altro certamente contribuiscono - e molto - agli utili aziendali. Ha però messo il dito sulla piaga quando ha segnalato il divario di produttività con gli altri Paesi; la causa da lui indicata - essenzialmente il sistema di relazioni industriali che non permette di trarre dalle fabbriche tutte le loro potenzialità - può non essere l’unica ma dovrebbe costituire l’oggetto di una discussione pacata e attenta. Altri possibili motivi di ritardo, legati al territorio, all’apparato legislativo, alla tassazione non andrebbero trascurati. Lo stesso ruolo dell’azienda può essere serenamente oggetto di discussione; ma proprio la serenità è la parola chiave, ed è proprio la serenità che pare mancare oggi. Per cui il tono delle discussioni si alza e la loro qualità si abbassa. E intanto, per parafrasare Einaudi, gli imprenditori votano con i piedi. La Stampa ha documentato recentemente la migrazione di centinaia di «aziendine» non già verso Paesi dalla manodopera mal pagata ma verso nazioni vicine all’Italia, come la Svizzera. Molte imprese medie e medio-grandi, pur mantenendo in Italia il loro centro sviluppano all’estero le iniziative nuove. E questo non per «fuggire» ma perché, in caso contrario, andrebbero rapidamente fuori mercato. Di tutto ciò occorre che il Paese prenda atto e discuta con sobrietà. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8002&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. L'Italia nel mezzo di due crisi Inserito da: Admin - Novembre 13, 2010, 08:53:07 am 13/11/2010
L'Italia nel mezzo di due crisi MARIO DEAGLIO Una crisi di governo al buio nel bel mezzo di una crisi economica mondiale al buio: è questo il rischio che correrà l’Italia se la classe politica continuerà ad occuparsi soprattutto delle proprie questioni interne. L’Italia si trova infatti - e continuerà a trovarsi nelle prossime settimane - a un poco invidiabile crocevia tra la grande tempesta economico-finanziaria mondiale e le bufere politiche interne. Per quanto riguarda il quadro internazionale, la riunione del G20 chiusasi ieri a Seul pone la parola fine alle speranze di un’uscita «facile» dalla crisi. Quelle speranze che erano state accese dalla riunione del G20 di Londra della primavera 2009. Allora tutti sembravano andare d’accordo su una ricetta di marca anglo-americana che comportava il sostegno alle grandi banche in difficoltà, una considerevole iniezione di liquidità nell’economia degli Stati Uniti e in quelle di buona parte d’Europa, nella diffusa convinzione che in questo modo l’economia sarebbe ripartita e tutto sarebbe tornato come prima. Come ben sappiamo, le cose non sono andate così: la realtà ha tradito le speranze, la ripresa è risultata asfittica, sta rallentando invece di accelerare, come mostrano anche i dati sul prodotto lordo italiano resi noti ieri. Nei Paesi ricchi ha lasciato sul terreno alcune decine di milioni di posti di lavoro, con poche prospettive concrete di poter riassorbire questa nuova disoccupazione, e con un peggioramento delle condizioni di molte categorie di lavoratori e delle prospettive dei giovani. Un vasto e disordinato dissenso comincia a emergere, con gli scioperi francesi di ottobre, le elezioni americane di Midterm e fenomeni come la devastazione, alcuni giorni fa, della sede centrale del partito conservatore inglese. Di fronte a queste difficoltà, gli Stati Uniti hanno reagito come in altre crisi, ossia ponendo il resto del mondo di fronte a un fatto compiuto. Senza consultare nessuno hanno infatti deciso di mettere in circolazione - mediante la sottoscrizione di titoli governativi da parte della banca centrale - un’enorme quantità di dollari. Questa grande iniezione di liquidità potrebbe rilanciare l’economia americana ma anche far cadere il cambio del dollaro, penalizzando i Paesi come la Cina che ne posseggono enormi quantità. Gli Stati Uniti mostrano così un’incapacità culturale, prima ancora che economica, a comprendere che il mondo è cambiato e che gli altri Paesi non accettano più senza reagire quanto viene stabilito a Washington. E infatti, dietro ai sorrisi e alle buone parole dei comunicati di Seul, gli Stati Uniti hanno dovuto incassare il «no» della Cina a una drastica rivalutazione della propria moneta. La stessa Cina, insieme a Taiwan, adotterà misure restrittive per evitare l’afflusso di capitali americani, cosa che il Brasile, dal canto suo, ha già fatto, mentre anche la fedelissima Corea del Sud ha respinto un accordo commerciale con gli Stati Uniti e l’Europa ha preso garbatamente ma decisamente le distanze. Prevale, quindi, un clima non solo di confusione ma anche di divisioni, di contrasti. Il che lascia purtroppo prevedere, per l’insieme dei Paesi ricchi, un altro periodo di crescita stentata, in un clima di incertezza e senza alcun riassorbimento dell’occupazione. Questo quadro fosco chiama in causa soprattutto i Paesi europei gravati da posizioni debitorie difficilmente sostenibili, come la Grecia e l’Irlanda che - quali che siano le colpe passate delle loro politiche economiche - si trovano impegnati in sforzi sovrumani per rimettere a posto i loro conti pubblici. E qui dal ciclone dell’economia mondiale si arriva alle tempeste, più moderate ma molto serie, di un’Italia, affetta da una cronica e grave ampiezza del debito pubblico che, come è stato annunciato ieri, ha toccato un nuovo massimo anche a seguito dello scarso gettito, conseguenza della debolezza della ripresa. Non si può trascurare che ieri il «rischio Italia» ha fatto momentaneamente capolino nelle quotazioni del debito pubblico italiano quando il differenziale di rendimento tra i titoli pubblici italiani e tedeschi ha toccato un massimo storico, per poi fortunatamente ripiegare. E che i movimenti delle quotazioni possono dipendere non solo dalla situazione economico-finanziaria ma anche dalla situazione politica. È un campanello d’allarme: non solo è necessario approvare la legge finanziaria, come ha ricordato il presidente Napolitano, ma è indispensabile che, quale che sia la configurazione politica che emergerà dall’attuale tormentato periodo, il rispetto degli accordi europei sul rientro dagli attuali livelli di deficit e di debito deve essere assicurato. Questo significa che, nella nuova situazione, la Finanziaria non potrà essere riscritta e che qualsiasi allentamento su un capitolo di spesa dovrà essere controbilanciato da un inasprimento su un altro capitolo. Al voto di fiducia parlamentare, il futuro governo dovrà aggiungere un voto di fiducia della finanza internazionale; dovrà quindi apparire credibile e sostenibile non solo alle Camere ma anche alle Borse, chiamate a rifinanziare, per centinaia di miliardi di euro, i titoli pubblici italiani in scadenza. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8078&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Il nodo diventa sempre più stretto Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2010, 12:16:13 pm 1/12/2010
Il nodo diventa sempre più stretto MARIO DEAGLIO E’ ormai diffusa la sensazione che, dalla finanza mondiale alle politiche nazionali, molti nodi stiano venendo al pettine; quando il nodo è troppo complesso, il pettine non lo scioglie ma strappa i capelli. In maniera analoga, i molti e intricati problemi di oggi potrebbero risolversi con «strappi», o discontinuità, alle regole, alle procedure, alle convenzioni, agli equilibri di potere economico e politico. Tutto ciò vale, prima di tutto, per la finanza internazionale, squassata da crescenti manifestazioni di debolezza e singolarmente incapace di trovare una via d’uscita per conto proprio. E’ possibile leggere queste manifestazioni di debolezza, e, in particolare, quella dell’euro, come il risultato di due evoluzioni parallele. La prima è di tipo finanziario e ha alla base l’incredibile incapacità dei grandi istituti bancari internazionali di comprendere la natura e le dimensioni della natura della crisi in atto. Dopo essere stati salvati dal collasso - soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna - grazie all’intervento dei governi, con risorse finanziarie che dovranno essere restituite da generazioni future di contribuenti, hanno ripreso a fare le stesse operazioni di prima, come prima, in assenza di controlli adeguati. Si è creata così un’insanabile contraddizione tra gli esami severissimi cui sono sottoposti i conti pubblici di paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia e i controlli leggeri e molto tolleranti sulle grandi banche internazionali i cui conti hanno spesso dimensioni superiori a quella dei bilanci pubblici dei paesi predetti; tra banche alle quali le autorità pubbliche hanno generosamente prestato, senza precisi limiti di tempo, e paesi dai quali si pretendono misure socialmente durissime in cambio di prestiti spesso esosi e relativamente scarsi. In questa situazione generale si colloca la particolare evoluzione negativa dell’Europa che ha inizio tra il maggio e il giugno 2005, quando gli elettori francesi e olandesi bocciarono nettamente, in due referendum, il progetto di costituzione europea. Come costituzione forse non era un granché, ma in questo modo la creazione di uno «Stato» europeo è stata congelata e l’Europa si è trovata all’appuntamento della crisi come un pachiderma impotente e cieco. Impotente perché privo degli strumenti necessari per governare un grande sistema economico-finanziario, com’è quello dell’euro; cieco perché all’Europa mancano non solo gli strumenti per reagire ma anche quelli per conoscere la vera consistenza dei prodotti finanziari che contengono titoli «infetti», ossia provenienti dai Paesi dell’area euro in particolare difficoltà. Tutto ciò costringe a laboriose e incerte riunioni a Bruxelles con troppi partecipanti e troppi rinvii su argomenti che richiederebbero decisioni rapide e sicure. A una simile situazione di debolezza si aggiunge la crescente abitudine dei vertici europei di diffondere messaggi di pericolo incombente sull’euro, incuranti del fatto che i mezzi d’informazione inevitabilmente amplificano - e talora distorcono - questi messaggi, accentuando le paure degli operatori e accrescendo i pericoli per il sistema. Di conseguenza aumenta la preoccupazione per il cambio in discesa dell’euro, anche se i livelli ai quali è ora quotato erano ritenuti soddisfacenti qualche mese fa e, per rifinanziare i titoli pubblici in scadenza, i paesi in difficoltà devono pagare un «premio per il rischio» ormai a livelli record, sottraendo così risorse alla spesa pubblica. La debolezza dell’euro è almeno in parte frutto di questa situazione mentre sussistono interrogativi più sostanziali sulla tollerabilità sociale delle manovre finanziarie imposte a Grecia e Irlanda, e forse in un prossimo futuro anche a Portogallo e Spagna; a questi Paesi viene prescritto di rientrare dal proprio eccesso di debito in 3-4 anni, con inevitabile disoccupazione e una generale, grave sofferenza sociale. Se si diffondesse la convinzione - giusta o sbagliata - che tutto ciò avviene in primo luogo per rafforzare i bilanci delle grandi banche, potremmo trovarci di fronte a un rigetto politico di manovre di risanamento troppo dure. In un simile, burrascoso contesto l’Italia si trova - non si sa per quanto tempo ancora - in una zona di relativa calma. E questo sia perché il debito pubblico italiano, per quanto elevato, è molto stabile sia perché le banche italiane non sono entrate, o sono entrate in maniera del tutto marginale, nel girone caldo della finanza internazionale e per conseguenza l’esposizione italiana al rischio dei quattro Paesi sopra indicati è minima. Dopo il recente, lusinghiero risultato di un’asta importante di titoli del debito pubblico italiano i mercati finanziari hanno però manifestato dubbi e preoccupazioni, forse collegabili all’incertezza - che ha del grottesco - della situazione politica del Paese. E qui il cerchio si chiude: per motivi di finanza internazionale, la crisi politica di fatto in cui si trova l’Italia non può essere aperta al buio né esser gestita come se il debito pubblico italiano non esistesse e non fosse, per circa metà, in mani estere. E’ difficile sciogliere questi nodi sempre più aggrovigliati ma qualche tentativo deve essere fatto. Prima che questi vengano sciolti strappando i capelli e procurando un male non necessario. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8154&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Ma l'euro da solo non basta Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2010, 04:07:59 pm 13/12/2010
Ma l'euro da solo non basta MARIO DEAGLIO Quella che oggi si apre dovrebbe essere la settimana cruciale della politica, ma potrebbe anche risultare la settimana cruciale dell’euro. In Italia si valuterà la capacità di tenuta del presidente del Consiglio, ma sui mercati finanziari si valuterà la tenuta della moneta europea, prima scesa, poi rimbalzata, poi nuovamente debole dopo la faticosa messa a punto di una politica in favore dei Paesi maggiormente a rischio della zona euro. Ebbene, diciamolo francamente: alla maggioranza degli italiani, e forse degli europei, l’euro non è simpatico e se ne parla male qualunque cosa succeda. Se il cambio si rafforza, ecco le critiche perché i prodotti esportati fuori della zona diventano automaticamente più cari, le vendite diminuiscono e la crescita rallenta; se il cambio si indebolisce, e quindi si pagano più cari gli acquisti extraeuropei, sono immediati i timori che il rialzo dei prezzi dei beni importati inneschi l’inflazione. E chi fa sommessamente presente che l’euro ci ha dato dieci anni senza inflazione si sente rispondere che gli indici dei prezzi sono sbagliati e che gli aumenti «veri» sono molto superiori. Se mai l’euro dovesse scomparire - un’ipotesi del tutto irrealistica - ci sarebbero moltissime preoccupazioni ma poche lacrime. E questo perché, essendo frutto di un compromesso, nessuno Paese percepisce veramente l’euro come la propria moneta. I tedeschi rimpiangono il loro amatissimo marco, alla cui ombra potente pagavano volentieri più della loro quota del costo complessivo dell’Unione Europea; gli altri europei, e i francesi in particolare, borbottano sottovoce che l’abbandono del marco ha rappresentato la contropartita del «sì» europeo all’unificazione tedesca e che era inteso che i tedeschi avrebbero continuato a finanziare l’Europa senza proteste; agli italiani, poi, in fondo non dispiaceva la sagra degli zeri, preferivano sentirsi milionari nelle vecchie lire che vivere con mille euro al mese anche se con minore inflazione. Per tutti l’euro evoca più doveri che piaceri, un mondo grigio e ordinato in cui i conti devono tornare. Il nocciolo duro della questione è tutto qui. In questi giorni è stato autorevolmente detto da più parti, con allarmismo ingiustificato, che, se l’euro dovesse finir male, l’Europa smetterebbe di esistere. E’ necessario ribaltare la questione: perché l’euro vada davvero bene, bisogna dare un senso all’Europa. L’euro ha rappresentato un’operazione inedita nella storia, e precisamente il tentativo di avviare un’identità comune non già attraverso l’eredità culturale del passato, la religione, la lingua ma, appunto, attraverso la moneta. Va detto che l’euro ha fatto bene la sua parte e dal punto di vista tecnico non lascia certo a desiderare. Ora però la sua spinta iniziale si è esaurita e non può trainare indefinitamente un continente svogliato: una moneta europea richiede una gestione europea, e non più nazionale, dell’economia. Questo implica sia l’esistenza di un ministro europeo dell’Economia, non previsto né dal fallito progetto di costituzione né dal trattato di Lisbona, sia almeno un embrione di tassazione europea. Nessun governo li accetta volentieri perché perderebbe la parte di sovranità che maggiormente sta a cuore ai politici: la facoltà di decidere come tassare e come spendere, a chi far pagare e chi beneficare. Questo vuoto non può durare a lungo, siamo su un piano inclinato e se non andiamo avanti scivoleremo all’indietro. Andare avanti significa appunto trasferire una parte, inizialmente piccola, delle entrate fiscali a un governo centrale europeo che sia qualcosa di più dell’attuale Commissione. Con queste entrate il governo centrale europeo dovrà provvedere a spese a carattere generale, sottraendole ai governi nazionali. La scelta è ampia: dal controllo dell’immigrazione alla ricerca scientifica, dalla protezione civile alla sanità di base, ad alcuni segmenti della difesa. L'importante è che si cominci; invece tutti sono distratti da questioni nazionali e gli italiani avranno questa settimana la mega-distrazione del voto di fiducia mentre i problemi si accumulano per chi si troverà al timone dopo il voto di fiducia. Solo in quest’ottica generale ha un vero significato, al di là dell’utilità come espediente congiunturale, la proposta Juncker-Tremonti sull’emissione degli E-bonds, ossia di titoli sovrani di debito non solo da parte di singoli Stati ma anche da parte dell’Unione Europea. I nuovi titoli non dovrebbero servire soltanto a scopi di stabilizzazione finanziaria ma anche al finanziamento di progetti europei, a cominciare dal campo delle infrastrutture. Si dovrebbe procedere, così come è successo nella storia degli Stati Uniti, alla determinazione di diversi livelli di finanza pubblica, uno europeo, uno nazionale e forse anche uno regionale. Il federalismo miope in cui ciascun Paese fa da sé, come se l’Europa e il mondo non esistessero è comunque destinato al fallimento. Quale che sia l’esito del voto di fiducia. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8194&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Le mezze misure non bastano Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2010, 09:05:25 pm 17/12/2010
Le mezze misure non bastano MARIO DEAGLIO L’economia italiana delude, dice la Confindustria. Purtroppo però non sorprende, è necessario aggiungere. Quella pur bassa crescita che è tornata a farsi vedere in Europa ci sfugge tra le mani come sabbia e deposita solo minuscoli granelli in un Paese in cui la classe politica si occupa prima di tutto di se stessa, con un presidente del Consiglio impegnato, fino a poco tempo fa, a negare la gravità e persino l’esistenza stessa della crisi. L’Italia detiene poco invidiabili primati come quello della disoccupazione giovanile più alta di tutti i Paesi ricchi, è stata, in questo primo, tormentato decennio del XXI secolo, il fanalino di coda dell’Europa e tornerà solo nel 2015 - come dice il Centro studi della stessa Confindustria - ai livelli economici precedenti la crisi. L’economia italiana delude chi aveva pensato che, per sostenere il futuro produttivo del Paese, bastassero le aziendine del made in Italy e che il patrimonio tecnologico delle grandi imprese potesse esser tranquillamente lasciato deperire oppure altrettanto tranquillamente venduto all’estero, come è accaduto per elettronica, chimica, farmaceutica e tanti altri settori. Che le ricerche di mercato potessero sostituire la ricerca scientifica. Che un elevato livello di buon gusto potesse prevalere su un mediocre livello tecnologico. Che il Paese potesse avere un futuro trasformandosi in una gigantesca boutique. L’economia italiana delude chi aveva pensato che tutto potesse aggiustarsi da sé, che la presenza di migliaia di imprese in buona salute, nonostante tutto, fosse una garanzia sufficiente della buona salute dell’intero Paese. Non è così, purtroppo: le imprese in buona salute operano generalmente in settori a bassa produttività e costituiscono una parte complessivamente piccola del totale, mentre i settori a elevata produttività sono assai poco presenti nella Penisola. Per questo, quando si tirano le somme, l’Italia tende ormai a essere superata da quasi tutti i Paesi dell’Ocse. In quest’Italia che delude tutti sono responsabili di una fetta, grande o piccola, della delusione collettiva. Se la maggiore responsabilità tocca alla classe politica nel suo complesso - opposizioni comprese, quindi - per il suo colpevole estraniarsi dalle vicende di tutti i giorni del Paese, non possono chiamarsi fuori le forze sindacali, gli stessi imprenditori, e più in generale un mondo culturale che si guarda troppo poco attorno. Se ciascuno facesse l’esame di coscienza si accorgerebbe di aver agito con orizzonti miopi, di aver trascurato le esigenze dei giovani, di aver sopportato troppo a lungo ritardi e inefficienze - a cominciare dalle proprie -, di non aver premuto abbastanza fortemente il pulsante dell’allarme. Purtroppo l’Italia rischia di deludere ancora di più guardando al futuro. L’analisi del Centro studi Confindustria non fa sconti e dice chiaramente che l’attività produttiva rimarrà debole a lungo e che l’orizzonte dell’occupazione è privo di facili speranze di un riassetto rapido. Queste debolezze dovrebbero essere poste sul tavolo del governo: il recupero di tassi accettabili di crescita e il ritorno a tassi accettabili di disoccupazione dovrebbero diventare il requisito essenziale di qualsiasi discorso politico, L’accordo su queste priorità economiche e sui cambiamenti necessari per metterle in pratica dovrebbero costituire una premessa alle intese su maggioranze di governo soltanto aritmetiche, l’inizio e non la fine, spesso distratta e svogliata, dei discorsi programmatici. Le cose da fare sono molte e tutte piuttosto scomode. Hanno in comune la necessità di mettere sul piatto la rinuncia a posizioni consolidate, alla pretesa di nuove spese pubbliche. Agricoltori e liberi professionisti dovrebbero essere consci di godere di normative fiscali generose (i primi) e di limitazioni alla competitività a proprio vantaggio (i secondi) che si traducono in oneri maggiori per il Paese; il mondo del lavoro dovrebbe percorrere con più coraggio il cammino verso una maggiore flessibilità in cambio di maggiori investimenti; quello delle imprese dovrebbe mostrare maggiore lungimiranza e rischiare di più con capitali propri. Occorre inoltre esigere dal mondo della politica una riduzione consistenti dei suoi costi di funzionamento. È necessaria una generale «conversione» del Paese, tanto più urgente in quanto le tempeste finanziarie mondiali continuano: per ora ci troviamo in un’area di relativa calma ma potremmo essere chiamati a contribuire finanziariamente alla salvezza del sistema, in maniera proporzionale alle nostre considerevoli dimensioni economiche, a cominciare dall’aumento di capitale della Banca Centrale Europea, reso noto ieri. La solidità di fondo del Paese, dovuta alla presenza di forti risparmi familiari, che compensano un debito pubblico consolidato assai grande ma in crescita lenta, potrebbe non essere sufficiente. Su queste linee, dal voto di sfiducia mancato di tre giorni fa occorrerebbe passare a un voto di fiducia su un programma che contrasti alla radice i mali strutturali dell’economia italiana. Il problema della maggioranza di governo potrebbe risultare secondario. L’importante è rendersi conto che i piccoli aggiustamenti e le mezze misure non bastano più. mario.deaglio@unito.it Titolo: MARIO DEAGLIO. Il mercato al posto della politica Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2011, 04:14:08 pm 4/1/2011
Il mercato al posto della politica MARIO DEAGLIO Ci possono essere molte buone ragioni per essere d’accordo e forse altrettante per essere in completo disaccordo con le strategie dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Su un punto, però, sostenitori e avversari debbono convenire: queste strategie rappresentano il principale elemento di discontinuità sulla scena politico-economica italiana degli ultimi decenni. Il passaggio dalla cosiddetta «prima» alla cosiddetta «seconda» Repubblica non ha infatti portato ad alcuna vera discontinuità: ha determinato un certo ricambio, forse peggiorativo, della cosiddetta classe politica lasciando sostanzialmente intatti i meccanismi di fondo dell’economia e della società. Non ha di fatto modificato né la concertazione sui problemi del lavoro, ossia la soluzione delle controversie mediante un dialogo teso a raggiungere un equilibrio tra le parti, sovente con la mediazione del governo; né le procedure atte a realizzare mutamenti nel potere economico attraverso aggregazioni e aggiustamenti più o meno grandi, largamente concordati nei cosiddetti «salotti buoni». Con il loro misto di concretezza e di durezza, i casi industriali di Pomigliano e di Mirafiori stanno invece proponendo un’alternativa radicale ai meccanismi della concertazione. La quotazione in Borsa, iniziata ieri, di una galassia di titoli con il marchio Fiat e la parallela suddivisione del gruppo stesso in due grandi aree - che potrebbero avere destini economici e industriali differenti - propone un’alternativa quasi altrettanto radicale ai meccanismi interni del capitalismo italiano. Pomigliano e Mirafiori hanno posto l’esigenza di un forte cambiamento nelle relazioni industriali in Italia e quindi anche nel ruolo non solo del sindacato ma anche della Confindustria che pure in passato è ripetutamente riuscita a reinventarsi mediante riforme interne. Parallelamente, i nuovi titoli Fiat potrebbero di fatto indurre un mutamento di funzioni della Borsa Italiana, altro ente che ha cercato di reinventarsi: da quello prevalente di luogo in cui vengono ratificati, con nuove configurazioni azionarie, cambiamenti decisi altrove a quello di vero «campo di battaglia», di vero terreno di scontro tra vari progetti finanziari e industriali. Anche in questo caso, come per la concertazione, si avrebbe una sostanziale riduzione dello spazio riservato ai pubblici poteri e quindi una profonda modificazione nei rapporti tra economia e politica. Negli incontri Fiat-sindacati, così come nell’incontro di ieri tra Marchionne e i media, sono state di fatto delineate non solo due proposte specifiche di investimento industriale, ma un nuovo modello di relazioni industriali e un nuovo modello di funzionamento della Borsa italiana. Il tutto è privo di un’incastellatura teorica e di una particolare armatura giuridica, ambedue tipiche del cambiamento graduale all’italiana. Ha il merito di squarciare il velo dell’ipocrisia sul grave indebolimento produttivo italiano che politici e parti sociali hanno a lungo cercato di non vedere. I rapporti tra economia e politica ne dovrebbero risultare profondamente modificati, alla politica non viene richiesta alcuna particolare benedizione né alcun particolare aiuto. La politica stessa viene di fatto sostituita dal mercato e dal profitto, ma sarebbe un errore immaginare che il riferimento al mercato e al profitto sia necessariamente tipico di una politica miope, della ricerca di un «mordi e fuggi» a favore degli azionisti: il ciclo di investimenti proposto si articola infatti su uno o più decenni e non certo su pochi trimestri e l’impegno finanziario è di tutto rispetto. Al posto della vecchia Fiat, con la sua componente «istituzionale» nel quadro dell’economia italiana, che, proprio per questo, racchiudeva al suo interno settori produttivi molto diversi tra loro, con un complicato sistema di rapporti con il settore pubblico, si propongono almeno due grandi imprese, una nel settore dell’auto e un’altra in vari settori legati alla motorizzazione, con logiche di alleanze, crescita ed espansione molto diverse tra loro. In grado, secondo questo progetto, di competere sul mercato globale senza particolari «garanzie» e di essere separatamente molto più efficienti di quanto non fossero rimanendo unite. Le discontinuità sono sempre scomode, il loro esito contiene una componente di incertezza e occorre capire se l’Italia di fatto accetterà la particolare discontinuità che le viene proposta. Dovrebbe però essere chiaro che nell’attuale contesto mondiale è difficile pensare a vie alternative per una nuova crescita, il rilancio dell’occupazione, l’interazione tra produzione e ricerca scientifica. E’ difficile vedere qualcosa di diverso di un’Italia che vivacchia e che si allontana sempre più rapidamente dal gruppo dei Paesi di testa, nei quali si sviluppano e si applicano le tecnologie da cui dipende il nostro futuro; di un’Italia eccessivamente attenta agli scontri tra i politici e clamorosamente lontana dai grandi movimenti di idee, di invenzione, di produzione, che stanno dando al pianeta una nuova dimensione. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8255&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. I problemi che l'Italia ha scordato Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2011, 11:11:21 am 24/1/2011
I problemi che l'Italia ha scordato MARIO DEAGLIO Per una decina di giorni gli italiani hanno vissuto una sorta di «vita parallela» in cui le vicende di Ruby e Berlusconi hanno spiazzato i normali parametri della realtà. E’ ormai tempo di scuoterci di dosso il senso di disgusto per il modo in cui una parte della classe politica trascorre le proprie serate di rilassamento e di tornare a occuparci di cose sicuramente più banali e, altrettanto sicuramente, meno disonorevoli. Scopriremo allora che molto è cambiato, in questi dieci giorni, in Italia e nel mondo. E non precisamente sotto il segno della tranquillità. In Italia la bocciatura unanime da parte dell’Anci - l’associazione dei Comuni italiani - del progetto federalista del governo, per la parte che riguarda il fisco dei Comuni, conferisce una nuova dimensione al quadro politico italiano: alle molteplici, e in qualche modo normali, spaccature «verticali» (tra maggioranza e opposizione, e tra i raggruppamenti all’interno di entrambe) si viene a sommare una vistosa spaccatura «orizzontale» fra centro e periferia sull’attuazione del federalismo fiscale che forse non sarà facilmente sanata dagli incontri che il governo avrà con la stessa Anci questa settimana. Il fatto è che il federalismo è sicuramente accattivante a parole ma molto difficile da realizzare in concreto. Invece di rappresentare una soluzione, il semplice passaggio dal centro alla periferia del controllo di alcune attività amministrative crea esso stesso dei problemi. In un Paese stremato dal debito e dal deficit pubblico, esso è economicamente accettabile solo se porta a una riduzione della spesa complessiva a parità di pressione fiscale, liberando risorse per altre iniziative. Si sta invece scoprendo che esso rischia di portare, a regime e nel migliore dei casi, a un aumento della pressione fiscale a parità di servizi pubblici erogati. Il che è assai poco accettabile prima di tutto per gli italiani e in secondo luogo per il mondo della finanza internazionale al quale l’Italia dovrà, per anni, continuare a chiedere di rifinanziare il proprio debito pubblico. Se il federalismo non deve ridursi a una vuota etichetta, non ci può essere devoluzione di potere dal centro alla periferia senza una contestuale riorganizzazione dei servizi. Il mero trasferimento di competenze da un ministero romano a un assessorato comunale o regionale non risponde a quest’esigenza. E’ inoltre illusorio pensare che questo trasferimento possa avvenire contemporaneamente in tutte le parti d’Italia: alcune Regioni e alcune città sono probabilmente in grado di assumere già oggi il controllo di determinate funzioni pubbliche in maniera efficiente, magari anche elevando la qualità dei servizi. Altre decisamente no. Eppure un’introduzione graduale del federalismo, collegata a una sorta di «patente di efficienza» che le autorità locali debbono conseguire per poter diventare parte attiva del nuovo sistema, non è mai stata seriamente presa in considerazione. Per quanto riguarda il panorama internazionale, nei dieci giorni in cui una diciottenne si è impadronita delle prime pagine dei mezzi d’informazione italiani né l’Europa né l’Italia hanno fatto segnare molti punti a loro favore. Al vertice sino-americano di Washington mancava una sedia, quella del rappresentante dell’Unione Europea. Invece di un G2 Washington-Pechino si sarebbe dovuto realizzare un G3 Washington-Pechino-Bruxelles. I problemi dell’ordine monetario internazionale, delle possibilità di un effettivo rilancio delle economie avanzate che ponga davvero fine alla crisi sono stati affrontati (e forse sono stati oggetto di intese) senza che l’Unione Europea - che è (ancora) la seconda potenza economica mondiale, di dimensioni di gran lunga superiori a quelle della Cina nonché, ovviamente, parte in causa - fosse presente o anche solo consultata. E questo perché, pur essendo un gigante economico, l’Unione Europea è un nano politico, dopo che i referendum del 2005 in Francia e in Olanda hanno affossato una costituzione faticosamente elaborata. Accanto a una Germania indecisa e a una Francia ridimensionata, l’Italia ha la sua parte di responsabilità per la «distrazione» europea. Questa «distrazione» pesa in maniera particolare per l’Italia perché in questi giorni si è avuta la conferma della rapida evoluzione degli assetti politici del Mediterraneo, forse troppo a lungo ingessati. Tale evoluzione ha trovato l’Italia impreparata quando, dopo l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia - tutti Paesi in cui gli interessi italiani sono fortissimi - anche in Albania la situazione è sfuggita di mano alle autorità. Dopo gli avvenimenti di Tunisi, a meno di duecento chilometri dalle coste siciliane, manifestanti uccisi, auto bruciate, caos politico si ripropongono a Tirana, a meno di duecento chilometri dalle coste pugliesi. Ci vorrebbe quanto meno una riflessione sulla possibilità che il malessere della Riva Sud del Mediterraneo superi il mare e coinvolga la Riva Nord, per non parlare di progetti per lo sviluppo armonico delle due rive, molto presenti nella retorica politica ma assai carenti di contenuto. La classe politica italiana appare però troppo occupata ad analizzare i propri comportamenti con le diciottenni per aver tempo per queste banalità. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8329&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. La frustata che serve alla ripresa Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2011, 04:47:49 pm 1/2/2011
La frustata che serve alla ripresa MARIO DEAGLIO Dopo una lunga concentrazione sulle sue questioni personali, il presidente del Consiglio cerca ora di riprendere l’iniziativa ritornando sul terreno della politica economica. E lo fa con una mossa largamente imprevista, non foss’altro che per la sua rapidità (i progetti da lui annunciati dovrebbero essere approvati dal Consiglio dei ministri già venerdì) che si articola lungo tre direttici. Dopo aver a lungo negato o minimizzato la portata della crisi, il presidente del Consiglio propone ora, con la sua prima direttrice, un’uscita «di forza» dalla crisi stessa. Un’uscita che arriva mediante lo scatenamento, con l’abolizione di quelli che una volta si chiamavano «lacci e lacciuoli», di energie nascoste dell’imprenditoria italiana. Liberando le imprese dai lacci e lacciuoli si vorrebbe dare una «frustata al cavallo dell’economia», la più grande che la storia italiana ricordi. E l’economia riprenderebbe a correre: con la sua corsa il cavallo pagherebbe maggiori imposte risolvendo verosimilmente sia i problemi del bilancio pubblico sia quelli dell’occupazione. Non ci sarebbe quindi bisogno di nuove imposte e, meno che mai - secondo caposaldo della costruzione del presidente del Consiglio - dell'imposta patrimoniale richiesta da sinistra, anzi, come per Reagan negli Stati Uniti degli Anni Ottanta, bisognerebbe procedere a una riduzione delle imposte, meglio se concentrata nella parte meridionale del Paese. La corsa del cavallo sarebbe quindi ulteriormente stimolata da un «piano di immediata defiscalizzazione per la rinascita del Sud», ed è questa la terza direttrice dell’iniziativa berlusconiana. Nel respingere l’ipotesi di una patrimoniale, il presidente del Consiglio usa questa parola di cinque sillabe come il vero sostituto di una politica economica e industriale verso la quale non ha mai dimostrato una particolare simpatia. Riesce - con una considerevole abilità tattica - a identificare tutta l’opposizione con questa ipotetica nuova imposta a proposito della quale ci sono invece, come su quasi tutto, divisioni molto profonde nell’opposizione. Ributta così la palla in campo avverso dove sicuramente non ci sono idee molto chiare né molto articolate né molto facilmente «vendibili» agli elettori di un’eventuale campagna elettorale in tempi ravvicinati. Chiarezza andrebbe comunque fatta. Occorre innanzitutto riconoscere che l’affidarsi alla crescita spontanea, agli «spiriti vitali» del capitalismo, miracolosamente risvegliati da mutamenti nelle regole, sa molto di propaganda. Se anche questa strategia avesse successo, i tempi sarebbero sicuramente di almeno due o tre anni, troppo lunghi per un Paese che sente sul collo il fiato dei creditori, chiamati mese dopo mese a rifinanziare il suo debito. Occorre ugualmente ammettere che l’economia italiana è prigioniera di un circolo vizioso: solo la crescita può riportare a dimensioni ragionevoli l’enorme debito pubblico che soffoca l’economia, ma proprio il soffocamento dell’economia da parte del debito pubblico impedisce la crescita, se non a velocità così irrisoria che per far risalire la produzione italiana ai livelli pre-crisi con la bassissima crescita precedente si arriverebbe al 2015 (per l’occupazione ci vorrebbero alcuni anni in più). Come se ne esce? Occorrerebbe uno scatto, una mossa, così come sia i proponenti la patrimoniale sia il presidente del Consiglio con la sua fierissima opposizione alla patrimoniale hanno bene inteso. Chi non ama la patrimoniale dovrebbe dire chiaramente che cosa ci mette al posto, e non fare semplicemente balenare l’immagine di un cavallo frustato che si mette ad andare al galoppo. Chi ama la patrimoniale dovrebbe sapere che si tratta probabilmente di una perfetta ricetta per perdere le elezioni. In questo modo, proprio perché la nostra malattia finanziaria è molto seria ma non acuta, rischiamo di non muoverci mai. Grecia, Irlanda e Spagna si sono date una mossa, la nostra considerevole capacità di assorbire gli choc rischia di farci perennemente assopire in uno stato di non-crescita. Una soluzione potrebbe essere ricercata sulla falsariga dei dati del rapporto annuale della Guardia di Finanza, resi noti ieri, nel quale viene documentata un’attività di recupero dell’evasione a livelli che rappresentano un massimo storico. Mentre con la patrimoniale pagherebbero sempre i soliti noti, un recupero ancora più sostanzioso dell’evasione - da effettuare senza inutili moralismi e senza colpevolizzazioni eccessive ma concedendo più risorse all’apparato di controllo - farebbe emergere un gran numero di evasori totali e parziali. La lotta all’evasione può essere la vera «frustata» al cavallo anche perché il livello attualmente stimato dell’economia sommersa è pari circa al doppio di quello degli altri Paesi europei, ossia un quarto del prodotto lordo. Riportare l’economia sommersa a un livello europeo è un obiettivo al tempo stesso decoroso ed efficiente sul quale sarebbe possibile raccogliere un largo consenso. Il percorso di uscita dalla crisi sarà comunque complesso. Non ci sono «uomini del destino» in grado di riparare con un tratto di penna, foss’anche una modifica costituzionale, a un guasto che si è accumulato in vent’anni. mario.deaglio@unito.it http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8358&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Alle imprese il disinteresse nazionale Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2011, 12:02:33 pm 7/2/2011
Alle imprese il disinteresse nazionale MARIO DEAGLIO Dove avrà il suo quartier generale l’eventuale futura Fiat-Chrysler? Nel dibattito, innescato dalle dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ciò che colpisce non sono tanto le dichiarazioni stesse, con il loro larvato accenno a una possibile multipolarità della nuova impresa, e alla conseguente possibilità che la direzione del gruppo non sia concentrata su Torino o su Detroit ma variamente ripartita sul pianeta. Ci si deve piuttosto meravigliare per le reazioni a questo vago programma che denotano una cultura molto lontana dalla realtà dell’economia globale. Marchionne ha espresso propositi tipici dei manager delle grandi multinazionali, ossia linee guida flessibili in un mondo flessibile, dominato dall’incertezza, in cui le imprese sono sempre meno legate agli interessi di singole nazioni o regioni. Un mondo in cui la multinazionale elettronica cinese Lenovo ha acquistato la divisione personal computer dell’Ibm e ne ha lasciato la sede in America, mentre molte multinazionali europee e americane aprono centri di ricerca o direzioni di area in Cina o in India e ripensano i loro prodotti per adattarsi a nuovi mercati di miliardi di persone. Si tratta di criteri discutibili, e forse questa «priorità delle imprese» nelle decisioni strategiche tramonterà presto. Occorre però constatare che il concetto tradizionale di localizzazione, con tanto di uffici modello paraministeriale, con burocrazie interne complesse si sta lentamente sciogliendo; eppure continua a dominare il modo in cui governi e opinione pubblica, soprattutto in Italia, concepiscono i rapporti con le grandi imprese. Con gli attuali modi di produzione, la vera dirigenza delle imprese tende a spostarsi in un «non luogo» come Internet, dove i manager si scambiano documenti, progetti e idee incontrandosi solo raramente ma rimanendo in contatto continuo. Governi e opinioni pubbliche danno per scontato che debba esistere una sorta di scambio fuori mercato per cui le imprese nate in un Paese hanno obblighi particolari verso quel Paese che spesso si intrecciano con la politica. Erano frequenti in passato i casi in cui alle grandi imprese si richiedevano, per risultare «gradite», localizzazioni decise dal potere politico. Ora sembra prevalere la tendenza contraria: sono i Paesi e territori a competere tra loro per offrire alle multinazionali condizioni appetibili, spesso non di carattere monetario, come buone linee di comunicazione e bassi livelli di tassazione. In Italia si sente invece parlare assai più di ciò che le imprese devono «dare» rispetto a ciò che il Paese «offre» alle imprese. L’Italia ha uno dei regimi fiscali meno favorevoli alle imprese, una struttura di trasporti relativamente cara, un costo dell’energia più elevato degli altri grandi Paesi europei, una lentezza amministrativa quasi senza pari; dall’altro lato della bilancia può far valere di essere (ancora) un grande mercato. Politici e normali cittadini non sembrano rendersi conto di trovarsi in un mondo nuovo e più impervio in cui questo carattere positivo sta impallidendo rapidamente di fronte all’emergere di altri grandi mercati come in Asia e in America Latina, o alle aperture alle multinazionali da parte di altri Paesi dell’Unione Europea, e infatti l’Italia attira pochissimi investimenti dall’estero. Per Fiat-Chrysler, l’Italia, pur rimanendo il primo mercato europeo del gruppo, sarebbe probabilmente solo il quarto mercato, dopo Stati Uniti, Brasile e Messico. Questo giornale ha documentato, qualche mese fa, la «fuga» di centinaia di piccole e medie imprese dall’Italia settentrionale alla Svizzera. È invece di una decina di giorni addietro la notizia che Prada, nome simbolo del made in Italy, ha deciso di quotarsi in Borsa… a Hong Kong. La Borsa Italiana, divenuta una consociata relativamente piccola della Borsa di Londra, non sembra più una sede conveniente alla quotazione di imprese con un respiro globale. È un altro sintomo, non frequentemente portato all’attenzione del pubblico, del lento spegnersi della vitalità economica del Paese, dopo la riduzione dell’ambito operativo di Alitalia, divenuta di fatto una consociata di Air France-Klm e dopo che la Banca Nazionale del Lavoro è «entrata a far parte», come si scrive gentilmente per non menzionare che è stata acquistata, del gruppo francese Bnp Paribas. In un mondo che sta cambiando radicalmente, l’economia di questo Paese sta perdendo un pezzo dopo l’altro ed è molto dubbio che la «sferzata» preannunciata dall’attuale governo possa essere lo strumento adatto per cambiare le cose. Nessuno però sembra preoccuparsene e lo stesso governo tranquillamente proclama festa nazionale - e quindi retribuita - il 17 marzo, 150˚ anniversario della proclamazione del Regno d’Italia; non tiene conto dei costi che una simile proclamazione avrà su imprese che possono contare su 200-250 giorni di produzione all’anno e quindi perderanno lo 0,4-0,5 per cento della produzione annua, da retribuire comunque. E ancor più sulle decisioni di una miriade di imprese che sempre più angosciosamente si interrogano sulla possibilità di continuare a investire in Italia. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO DEAGLIO. I sintomi di un male peggiore Inserito da: Admin - Marzo 02, 2011, 06:43:28 pm 2/3/2011
I sintomi di un male peggiore MARIO DEAGLIO Sembra un brutto sogno, o magari uno di quei brutti romanzi di fantaeconomia, ed invece è proprio la realtà. E’ come se fossimo finiti in un mondo diverso. I mostri, ricordati ieri su queste colonne da Franco Bruni, sono usciti dal vaso di Pandora nel quale speravamo di averli chiusi per sempre e assediano le nostre piccole speranze di un ritorno a una, sia pur risicata e raffazzonata, normalità. Ne possiamo individuare tre. Il primo è politico e si chiama Destabilizzazione. In una mano tiene, ben visibile, il colonnello Gheddafi, mentre l’altra è nascosta e non sappiamo bene che cosa ci riservi: l’Egitto non è certo assestato, il Bahrein e l’Oman ribollono, in Algeria c’è un susseguirsi di scioperi, in Tunisia se ne è andato il primo ministro. E ci stiamo dimenticando la Costa d’Avorio sull’orlo della guerra civile, le elezioni contestate in Gabon e Uganda, il profumo di «rivoluzione al gelsomino» come è stato chiamato lo scontento sotterraneo cinese che allarma il governo di Pechino. Se poi passiamo a Paesi più vicini a noi, i risultati delle elezioni irlandesi, la sconfitta che ha quasi annullato il partito di governo non promette nulla di buono: un rifiuto dei nuovi governanti di adeguarsi al piano di austerità imposto da Bruxelles porrebbe a rischio i bilanci di molte banche, specie tedesche e inglesi, che hanno investito pesantemente in titoli legati al debito irlandese. Il secondo mostro si chiama Agflazione, un misto di agricoltura e inflazione con cui viene designata la pressione inflazionistica che può derivare dall’aumento di prezzo dei prodotti agricoli, dovuta soprattutto a cause climatiche sulle quali si è innestata una robusta speculazione. Così il prezzo del grano è a livelli record mentre le scorte segnano un record negativo. E’ inevitabile che questi aumenti si proiettino in avanti sui prezzi del pane e, tramite i mangimi per i bovini, su gran parte della spesa alimentare, dai formaggi alla carne in ogni parte del mondo. Insieme, e più del grano, sono saliti il cotone, il cacao e lo zucchero. E la lista potrebbe continuare: mediamente, secondo l’indice compilato da The Economist, in un anno il prezzo delle materie prime alimentari è cresciuto di circa il 40 per cento. Il lettore perdoni se il menu è lungo oltre che difficile da digerire, ma è bene descrivere la situazione chiaramente: abbiamo ancora il terzo mostro, si chiama naturalmente Petrolio e Gas Naturale. Questo ci è famigliare perché ce lo ritroviamo davanti tutte le volte che facciamo il pieno con l’auto. E’ bastata l’interruzione delle forniture libiche, pari al 2 per cento della produzione mondiale, perché il prezzo del greggio salisse di oltre 10 dollari al barile. E si stima che un aumento di 10 dollari al barile porti con sé una riduzione dello 0,2 per cento nella nostra preziosa e stentata ripresa. La combinazione dei tre mostri può portare alla Stagflazione, forse la più brutta malattia che l’economia ci riserva, un misto temibile di stagnazione che debilita e di inflazione che impoverisce. L’ultima volta che l’Occidente se la prese, quasi quattro decenni fa, ci mise diversi anni a uscirne fuori. Non è detto che ce la prendiamo anche questa volta, ma l’uomo prudente dovrebbe prepararsi, anche se non esistono medicine sicure. Fa invece impressione la massima calma che sembra regnare a Bruxelles, mentre la Francia ha i suoi problemi con la sostituzione dei ministro degli Esteri, la Germania con le dimissioni del ministro della Difesa, gli inglesi sono tutti presi dall’entusiasmo per il premio Oscar ottenuto da un loro bel film. E l’Italia? Sugli interessi non vitali che tengono l’attenzione dei politici italiani c’è solo l’imbarazzo della scelta. Nella giornata di ieri, a livello mondiale il solo discorso preoccupato di un responsabile economico è stato quello di Ben Bernanke, il governatore della Banca centrale americana, che ha usato termini allarmati. Ma anche in America né la politica né le Borse sembrano prenderlo troppo sul serio. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO DEAGLIO. Giappone, una tragedia che cambierà la nostra vita Inserito da: Admin - Marzo 19, 2011, 10:31:51 am 19/3/2011
Giappone, una tragedia che cambierà la nostra vita MARIO DEAGLIO Alle catastrofi naturali siamo, purtroppo, abituati da tempo. Agli incidenti gravi delle centrali nucleari sicuramente no. Per questo, il cordoglio e lo sgomento per gli avvenimenti giapponesi vanno molto al di là di quelli, in qualche misura stereotipata, che hanno fatto seguito ai gravi e frequenti terremoti recenti, da Haiti alla Nuova Zelanda. A differenza di quelle catastrofi, la fuga di radioattività dalla centrale di Fukushima non rimane un fatto esterno da affrontare con un’appropriata dose di «buonismo» ma chiama in causa la stabilità del sistema economico mondiale, il nostro consumo di energia, e quindi il nostro modo di vivere, penetra nella nostra vita quotidiana, semina dubbi e inquietudini, condiziona le nostre scelte di politica industriale. Anche se, come tutti ardentemente ci auguriamo, gli incendi ai reattori di Fukushima non avranno ulteriori conseguenze, è chiaro che l’energia nucleare ha fatto un grosso passo indietro dal quale riemergerà, se e quando riemergerà, con maggiori costi economici - per la sicurezza addizionale che si renderà necessaria per l’eventuale costruzione di nuovi impianti - e con maggiori costi politici, per la facilmente prevedibile avversione di tutte le popolazioni del mondo a vedere costruire una centrale nucleare a poca distanza dalle proprie case. Il che rende necessario per l’intero pianeta, ma in particolare per l’Europa e per l’Italia, affrontare un problema scomodo, sempre rinviato nella sostanza: l’era dell’energia a buon mercato è finita. Di petrolio «facile», ossia di quello che si tira fuori bucando il suolo fino a poche centinaia di metri a un costo di 20-30 dollari al barile, non ce n’è più, con la possibile eccezione dell’Iraq, dove le guerre hanno ritardato l’estrazione; il petrolio «difficile» occorre estrarlo da migliaia di metri di profondità, sotto la terra e sotto i mari, a costi molto superiori; il gas naturale potrà supplire temporaneamente e parzialmente a questa carenza ma le riserve energetiche hanno sostanzialmente smesso di aumentare mentre la domanda dei Paesi emergenti diventa sempre più vivace. Oggi ci lamentiamo per qualche centesimo di aumento nel prezzo della benzina ma la prospettiva più credibile di lungo periodo è quella di sensibili rincari per benzina, gasolio, ed elettricità da cui possono derivare spinte inflazionistiche generalizzate. Un problema di questo genere dovrebbe essere affrontato, oltre che a livello mondiale, anche a livello europeo. E invece è impressionante constatare che Germania, Francia, Italia e tutti gli altri continuino nei fatti a seguire politiche nazionali delle quali sono particolarmente gelosi; uno degli indici con i quali si misurerà il successo (o forse la possibilità di sopravvivenza) dell’Unione Europea sarà la capacità di coordinare, superando egoismi e miopie, una serie di politiche oggi prerogativa dei governi nazionali, dalla previdenza sociale all’energia, appunto. E’ bene dire subito che, anche prima di Fukushima, l’energia nucleare non sarebbe bastata a risolvere i problemi ma avrebbe portato soltanto a una loro attenuazione come parte di un mix comprendente energia solare ed energia eolica. E che queste due forme di energia, che richiedono investimenti non certo indifferenti, non soddisfano ugualmente bene a ogni tipo di bisogni. Sono assai più efficienti per illuminare e scaldare le case che per muovere treni e far funzionare altiforni. E se non provocano emissioni inquinanti, possono avere altre importanti controindicazioni come la distruzione del paesaggio. La lezione di Fukushima sembra allora chiara: quella centrale esplosa quasi in diretta sui nostri schermi televisivi segnala la fine di un modo di produzione legato all'energia facile, flessibile e abbondante e di uno stile di vita in cui si esce da una stanza senza preoccuparsi di spegnere la luce. Ci aspetta un mondo in cui guarderemo nervosamente, oltre che agli indicatori dell'inquinamento globale, alla bolletta dei consumi elettrici. L'accesso facile e l'abbondanza energetica non saranno più garantite e potrebbero rappresentare una nuova discriminante tra ceti sociali ricchi e ceti sociali poveri, oltre che tra Paesi ricchi e Paesi poveri. A meno di trovare nuove fonti energetiche a buon mercato, una ricerca sul cui successo è difficile esprimere valutazioni, la risposta migliore per l'Italia e per l'Europa sta nel miglioramento dell'efficienza energetica delle fonti attuali. Basti pensare che, nelle automobili dei tempi del primo shock petrolifero, il consumo di benzina per chilometro era superiore del cinquanta, talora perfino del cento per cento a quello delle automobili attuali, che i nuovi elettrodomestici consumano considerevolmente meno di quelli della passata generazione e che la coibentazione delle case consente risparmi straordinari. Raddoppiare l’efficienza energetica equivarrebbe di fatto a raddoppiare le riserve energetiche e consentirebbe di guadagnare almeno un paio di decenni in attesa di soluzioni «definitive» ancora remote. Un simile raddoppio dovrebbe essere non soltanto un auspicio bensì anche obiettivo specifico di politica industriale, da incoraggiare e sostenere adeguatamente con strumenti fiscali e con azioni mirate nel campo della ricerca, per l'industria italiana ed europea, troppo spesso aggrappate per necessità a prospettive di breve periodo e ad obiettivi di mera sopravvivenza. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO DEAGLIO. Rischio retrocessione per l'Italia Inserito da: Admin - Marzo 23, 2011, 11:25:11 am 23/3/2011
Rischio retrocessione per l'Italia MARIO DEAGLIO Ieri Bulgari, oggi Parmalat? Le acquisizioni straniere di imprese italiane non comprendono solo marchi notissimi della moda come Valentino, Gucci e Ferré. L’elenco si allunga sensibilmente se, oltre al «Made in Italy», si considerano banche e società finanziarie. A queste si aggiungono le piccole e medie imprese industriali operanti soprattutto in «nicchie» molto specializzate sulle quali dovrebbe basarsi il futuro produttivo del Paese. Non bastano a fare da contraltare le pur numerose acquisizioni italiane di imprese straniere: se si eccettua il caso Fiat-Chrysler, decisamente atipico, in questi ultimi anni gli acquisti all’estero sono stati prevalentemente effettuati da imprese medie e medio-piccole impegnate in una difficile crescita internazionale mentre l’estero mira tranquillamente ai bersagli grossi. Perché imprese che sono diventate sinonimo di eccellenza, simboli mondiali della capacità italiana di produrre bene non attirano a sufficienza l’interesse (e i capitali) degli investitori italiani? Perché Prada, altro grosso nome della moda ha scelto addirittura Hong Kong e non Milano per quotarsi in Borsa? Perché, come documentato alcuni mesi fa da questo giornale, oltre un centinaio di piccole imprese hanno lasciato la Lombardia per trasferirsi in Svizzera? Non ci sono risposte facili ma è possibile individuare un fattore importante, di tipo culturale prima che finanziario, che riguarda il modo di agire degli imprenditori italiani: pieni di inventiva e di coraggio quando si tratta di realizzare nuovi prodotti, non lo sono altrettanto quando si tratta di impegnare fino in fondo nelle aziende i propri capitali. Spesso geniali, tra un colpo di genio e l’altro, non amano le strategie «lunghe» e noiose, assomigliano più a Garibaldi che a Napoleone. Per non fare il passo più lungo della gamba, hanno tradizionalmente ricercato la «sponda» delle banche o del settore pubblico per finanziamenti, garanzie e occasioni di crescita mentre i loro colleghi stranieri ricercano prima di tutto il consenso, e quindi i finanziamenti, del mercato. Dalle banche e dal settore pubblico non possono più ricevere, a differenza del passato e a causa della crisi finanziaria, garanzie sufficienti a costituire un piedistallo sul quale poggiare l’espansione della loro azienda o finanziamenti sufficienti per sostenere lunghe strategie espansive. E la Borsa, dalla quale in teoria potrebbero provenire nuovi capitali e nuove idee, sembra aver perso slancio dopo l’unione con Londra: i progetti migliori e gli affari più importanti passano sempre più frequentemente per la capitale britannica, o per il lontano Oriente, mentre le famiglie sono tradizionalmente molto caute e timorose nell’impiegare i loro risparmi in titoli azionari. Soli e stanchi, gli imprenditori cercano un’altra «sponda». La trovano sovente all’interno di grandi gruppi stranieri che da un lato impongono loro una disciplina finanziaria che raramente saprebbero darsi da soli, dall’altro forniscono garanzie sugli sbocchi produttivi che altrimenti non potrebbero più trovare. La loro stanchezza fa da contrappunto alla visibile stanchezza del sistema politico nazionale, incapace di formulare, o anche solo di indicare, linee guida per la crescita. E non è possibile dimenticare le notissime complessità amministrative, la pesantezza fiscale, la penalizzazione di fatto delle iniziative nuove, che fanno scappare in Svizzera le impresine lombarde, né la mancanza di garanzia sulla sicurezza personale in alcune aree del Paese. In questo modo il sistema produttivo tende lentamente ad assottigliarsi, a perdere energie e punti di orientamento così come una perdita di energia e di orientamento è chiaramente visibile dalla mancanza di obiettivi generali di lungo periodo. Il confronto con la Francia è particolarmente bruciante se si considera che la Danone (che può essere considerata la «Parmalat francese») è stata, nel corso degli anni, incoraggiata a crescere mediante fusioni e acquisizioni all’interno della Francia, con l’obiettivo specifico, condiviso da governi di vario orientamento, di farne un leader del settore alimentare europeo e mondiale. In Italia, l’interesse sul caso Parmalat si è incanalato pressoché unicamente sulle questioni giudiziarie, sul passato - naturalmente degno della massima attenzione e rispetto - dei risparmiatori da risarcire e non sul futuro, ossia sulle strategie, di una Parmalat rimessa a nuovo con alle spalle un’importante e preziosa esperienza multinazionale. Proprio per questa mancanza di sensibilità alle strategie future gli italiani sono stati completamente spiazzati dall’azione finanziaria francese, condotta con rapidità ed efficienza. In Francia, nel 2005 un tentativo di scalata alla Danone da parte dell’americana Pepsi fu respinto con decisione dal governo. Successivamente la Danone fu inserita in un ristretto gruppo di imprese dichiarate irrinunciabilmente francesi, una protezione molto discutibile ma applicata, in una forma o nell’altra, nei principali Paesi «di mercato», Stati Uniti compresi, per quanto riguarda le industrie ritenute essenziali. In Italia, la Parmalat è alla mercé di qualsiasi azione acquisitiva di chi si dimostri sufficientemente intraprendente, svelto e amante del rischio per comprarsi, nello spazio di qualche settimana, una bella azienda con oltre 4 miliardi di fatturato. E proprio per non essere amante del rischio, l’Italia rischia grosso: di non ritrovarsi più prima fila nell’economia globale. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO DEAGLIO. Le due Italie del lavoro che non si parlano Inserito da: Admin - Aprile 10, 2011, 04:51:58 pm 10/4/2011
Le due Italie del lavoro che non si parlano MARIO DEAGLIO Una manifestazione nazionale dei lavoratori precari, come quella di ieri, articolata in varie fasi e in varie città, sarebbe stata impensabile anche solo un anno fa e rappresenta un importante sviluppo economico-sociale. I precari, infatti, tradizionalmente sono cani sciolti, con diversissime storie personali, ai quali la continua mobilità rende comunque difficile, in via normale, un’azione comune. Assunti a termine, pagati, di solito non molto, e poi arrivederci e grazie. Una simile situazione può anche essere accettabile se esiste una sorta di patto implicito in base al quale questi spezzoni di lavoro, a termine o a tempo parziale, si possono trasformare in un lavoro vero entro un ragionevole intervallo di tempo. In questo caso l’attività precaria può costituire una sorta di apprendistato, anomalo ma in grado di insegnare una professione; non è invece possibile restare apprendisti - o precari - per tutta la vita. Con la crisi economica la durata del precariato si è allungata, la sua natura è cambiata. I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori-cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi, implicitamente, forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello dell’Alitalia quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, e quindi privilegiata, cassa integrazione, mentre i precari rimasero sostanzialmente a bocca asciutta. Per questo il rapporto con il sindacato è molto difficile anche se la Cgil, che ha appoggiato le manifestazioni di ieri, fa di tutto per ricucire uno strappo generazionale. Non basta però, rendere più difficile il licenziamento, come appunto la Cgil propone, occorre rendere più facili le assunzioni a tempo indeterminato. E questo si può fare soltanto cercando di imboccare a tutti i costi un sentiero di crescita, un argomento di cui il Paese, apparentemente troppo occupato con il teatrino della politica, con gli insulti tra parlamentari e le barzellette sconce del presidente del Consiglio, si dimentica allegramente. Che i precari sopportino direttamente gran parte del peso della crisi è confermato dall’analisi della Confartigianato, resa nota ieri, in base alla quale quasi un milione di lavoratori sotto i trentacinque anni (una fascia di età in cui i precari sono molto fortemente rappresentati) ha perso il lavoro nel 2009-10, mentre è aumentato il numero degli occupati più anziani. La condizione di disagio derivante dall’incertezza del precariato si è allargata a categorie che una volta ne erano immuni: giovani medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, insegnanti vedono le loro prospettive di vita messe in forse dai tagli alla spesa pubblica e non ricevono alcuna solidarietà dal resto del Paese. E’ chiaro che la riduzione di un terzo della capacità di risparmio delle famiglie italiane nel periodo 2002-2010, che risulta dai dati diffusi dall’Istat qualche giorno fa, deve essere avvenuta tra queste fasce dai redditi più deboli. Sempre qui, e non certo tra i lavoratori a tempo indeterminato del pubblico impiego, si deve collocare gran parte della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane, risultato, nell’ultimo trimestre del 2010, inferiore del 5,5 per cento al livello pre-crisi. La risalita del potere d’acquisto rispetto ai minimi toccati un anno fa (-6,4 per cento) è lentissima: di questo passo ci vorranno 4-5 anni, sempre che tutto vada bene, perché il potere ritorni, in termini reali, alla situazione precedente la crisi. Il vero interrogativo è se l’Italia possa permettersi altri quattro-cinque anni di stagnazione dei consumi e dei risparmi familiari, altri quattro-cinque anni con i giovani con la cinghia tirata che lavorano con il contagocce senza alcuna vera possibilità di metter su famiglia o di impostare un qualsiasi piano di vita. Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese «normale», composto prevalentemente di persone sopra i quarant’anni, e un Paese «precario», composto prevalentemente di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi; tra chi sta a casa quando ha il raffreddore perché il posto è comunque garantito e chi va a lavorare con la febbre perché altrimenti il posto è perso. La comunicabilità tra i due Paesi è scarsa, le due parti non si conoscono. Si tratta di una frattura molto pericolosa che presenta una somiglianza di fondo - pur in contesti ovviamente molto diversi - con la frattura sociale alla base delle «rivoluzioni» in atto sulla Riva Sud del Mediterraneo, dove fasce sociali di basso reddito, prive di veri meccanismi di rappresentanza, sono state spinte, da un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari, alla rivolta contro élites molto anziane, da lungo tempo prive di ricambio politico. Siamo proprio sicuri di essere immuni da questo contagio? Quanti rappresentanti hanno in Parlamento i lavoratori precari? E quanti appartenenti alla classe politica, ossia parlamentari nazionali e regionali, nonché consiglieri provinciali, comunali o di quartiere hanno meno di quarant’anni? Quanti sono i quarantenni in posizioni di primo piano nelle strutture delle imprese? In Italia, nessuna banca offrirebbe a un giovane di talento facilitazioni creditizie del tipo di quelle di cui negli Stati Uniti hanno potuto godere Bill Gates e Steve Jobs, che sono così riusciti a creare imprese di successo e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Politici come Obama (50 anni), Sarkozy (56 anni), Merkel (57 anni), Cameron (55 anni), Zapatero (51 anni) in Italia non avrebbero spazio. L’Italia non ha favorito il ricambio generale e ha, per così dire, saltato una generazione, spingendo i giovani a un precariato perenne. Ma un Paese che non sa risolvere i problemi dei suoi precari diventa esso stesso precario, cresce stentatamente e viene marginalizzato a livello internazionale. Come dimostrano gli avvenimenti recenti. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO DEAGLIO. Un Paese senza energia Inserito da: Admin - Aprile 21, 2011, 06:02:55 pm 21/4/2011
Un Paese senza energia MARIO DEAGLIO La marcia indietro del governo sulla costruzione di quattro centrali nucleari mira a evitare un «no» popolare non solo in questo referendum ma anche - e soprattutto - negli altri due con i quali gli italiani sono chiamati a esprimersi il 12 giugno: quello sulla privatizzazione dell’acqua e quello sul legittimo impedimento. Un «no» sul nucleare, sull’onda dell’incidente alla centrale atomica giapponese di Fukushima, potrebbe infatti facilmente tirarsi dietro altri due verdetti negativi; e se l’impatto emotivo di Fukushima inducesse più della metà degli elettori a recarsi alle urne - dopo una lunga serie di referendum in cui il «quorum» non è stato raggiunto - l’incidente atomico porterebbe al siluramento sia della privatizzazione dell’acqua sia delle norme sul legittimo impedimento che stanno particolarmente a cuore al presidente del Consiglio. Questo sembra essere il retroscena politico della rinuncia-rinvio del governo sul nucleare. Più rinvio che rinuncia, stando alle dichiarazioni in Senato del ministro delle Attività produttive, Paolo Romani. Il governo sembra poi essere riuscito a provocare divisioni non piccole nell’opposizione mentre l’eventuale acquisto di centrali nucleari americane anziché francesi, potrebbe rappresentare una ritorsione contro Parigi per una serie di «dispetti» che va dal caso Parmalat all’immigrazione e a Schengen. Tre piccioni con una fava, quindi. Se così è stato, il governo si è dimostrato politicamente astuto e, per usare un termine calcistico, ha «dribblato» gli avversari. A queste capacità tattiche indubbiamente buone si accompagna però un’eccezionale miopia di lungo periodo. Quella delle centrali nucleari, infatti, non avrebbe dovuto essere una scelta opportunista, né la rinuncia alle centrali avrebbe dovuto trasformarsi in un proiettile in più da usare nella battaglia politica di tutti i giorni. Si doveva trattare, secondo il programma del governo, di una struttura portante della futura crescita italiana. Su questa struttura portante si poteva ampiamente discutere ma si trattava in ogni caso di un raro guizzo di strategia in una politica ostinatamente, talora sciaguratamente, avvitata sul presente. La rinuncia al nucleare non appare invece accompagnata da alcuna indicazione di alternative: niente centrali atomiche, e basta. Fermiamo la «dissennata» corsa alla crescita e godiamoci il verde, anzi l’estremismo verde, tutto semplicità e ritorno al passato. Facciamo finta di dimenticare che l’Italia si è sempre sviluppata quando ha avuto ampie disponibilità energetiche e che la sua crescita è strangolata, tra l’altro, da un costo dell’energia elettrica per le imprese nettamente superiore alla media europea. Il «piano delle riforme» preannunciato dal ministro dell’Economia, non può partire se non ha come premessa una strategia energetica. E una strategia non si costruisce abbandonando, senza sostituirli, i progetti precedenti. Dopo lo «choc» petrolifero del 1973-74 l’Italia si era data una strategia, quella di diversificare i fornitori e sostituire parzialmente il petrolio con il gas naturale. Per circa vent’anni è stato possibile ottenere una crescita abbastanza sostenuta, anche se non esaltante. Oleodotti e gasdotti dall’Europa orientale e dalla riva meridionale del Mediterraneo hanno consentito agli italiani un afflusso regolare, anche se non a buon mercato, di elettricità, benzina e gasolio. Le mutate condizioni richiedono oggi un disegno di lungo periodo del quale non si vedono le premesse. Ciò è tanto più grave in quanto ci sono ormai chiari segni di scarsità di petrolio «buono», ossia di petrolio facilmente estraibile; le centrali a carbone, anche nella variante «pulita» non sono proponibili in un Paese come l’Italia nel quale l’inquinamento atmosferico obbliga tutti gli inverni a decretare divieti alla circolazione degli autoveicoli. L’energia solare e quella eolica possono essere soluzioni «di contorno» e soddisfare soprattutto la domanda a bassa potenza del consumo famigliare ma è molto difficile - e in ogni caso provoca troppi sprechi - utilizzarle per far muovere un treno ad alta velocità, o per far funzionare un altoforno. È possibile che la vera alternativa al nucleare sia una politica che spinga a migliorare l’efficienza energetica sia delle imprese sia dei consumi delle famiglie. Se, per avventura, il mondo riuscisse a dimezzare il fabbisogno energetico per la produzione, i trasporti, il riscaldamento e gli usi domestici si otterrebbe il medesimo effetto che deriverebbe da un raddoppio delle riserve energetiche. Uno sforzo importante in questa direzione si ebbe dopo lo choc petrolifero del 1973-74 e in questo campo le imprese italiane non sono mal piazzate: ci sarebbero importanti ricadute tecnologiche a nostro favore. Il rischio è invece che non si faccia nulla: che si mettano nel cassetto i piani nucleari per tirarli fuori quando la tempesta sarà passata senza seguire strade alternative e che i problemi energetici sollevino semplicemente un polverone di polemiche spicciole. Si tratta di un blocco delle decisioni che gli italiani conoscono molto bene per averlo sperimentato per decenni e che caratterizza quasi tutti i progetti infrastrutturali del Paese. Se il piano nucleare si risolverà semplicemente in un simile blocco, l’Italia si qualificherà una volta di più come un Paese senza energia: non solo quella fisica ma anche quella intellettuale e politica, anch’essa fondamentale per riproporre davvero quella crescita e quello sviluppo che continuano a sfuggirci. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: MARIO DEAGLIO. - Draghi alla Bce sulla poltrona più scottante Inserito da: Admin - Maggio 12, 2011, 10:59:09 am 12/5/2011 - SÌ DELLA GERMANIA
Draghi alla Bce sulla poltrona più scottante MARIO DEAGLIO Lo scarno annuncio dell’appoggio - quasi certamente decisivo - del governo tedesco alla candidatura di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, alla carica di presidente della Banca Centrale Europea (Bce) è stato dato, sicuramente per caso, nel giorno dell’arrivo ad Atene della delegazione dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, incaricata di concordare i termini della politica greca di austerità. E ha trovato la capitale greca paralizzata dall’ennesimo sciopero generale precisamente contro quella politica di austerità. Pochi giorni prima, l’Eurostat, l’istituto statistico europeo, ha certificato che il debito pubblico tedesco ha superato quello italiano in valore assoluto, divenendo il terzo del mondo. Draghi è stato quindi invitato ad accomodarsi su una poltrona che scotta, nel momento più difficile della storia dell’euro, in un quadro di generale confusione del mercato finanziario internazionale. Il debito greco è la punta di un iceberg che potrebbe sconvolgere il quadro politico-economico globale e non solo quello europeo: ci si accorge oggi che l’ammissione della Grecia nella zona euro è stata avventata e che la Grecia si trova in una situazione caotica non solo finanziaria ma anche, e soprattutto politica e civile. Eppure sarebbe un disastro per tutti lasciarla fallire, ossia, per dirla in termini più diplomatici, permetterle di «ristrutturare» il proprio debito. Come ha spiegato molto chiaramente in un’intervista a La Stampa di martedì il membro italiano del consiglio della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, la mancanza di una propria moneta da parte della Grecia impedirebbe il normale funzionamento di quell’economia mentre la crisi si estenderebbe ad altri paesi dell’area euro. I tedeschi che invocano la massima severità contro Atene si farebbero del male da soli perché sono proprio le banche tedesche ad avere in portafoglio gran parte del debito greco e la loro conclamata solidità sarebbe compromessa. In queste condizioni, il compito più urgente e delicato del presidente della Bce, non è quello, pur importante di vigilare contro l’inflazione strisciante degli ultimi mesi bensì quello, assai più arduo, di impedire da un lato la svalutazione/ristrutturazione del debito greco e dall’altro di riportare l’economia greca - in tempi ragionevoli ma non così stretti come quelli attualmente previsti - verso un funzionamento normale che le permetta di adempiere ai propri doveri di debitore. La stessa politica - in condizioni, peraltro, meno acute - deve essere svolta nei confronti di Irlanda e Portogallo, gli altri due Paesi europei affetti da una grave «malattia finanziaria». Il nuovo responsabile dell’euro deve quindi avere alle spalle ampia esperienza, per coniugare chiarezza e determinazione sulle strategie e flessibilità sulle mosse tattiche per realizzarle. La cancelliera Merkel non ha trovato in Germania la persona adatta, per l’«estremismo liberista» dei suoi alleati di governo. Axel Weber, presidente della Deutsche Bank e candidato in pectore ha dimostrato di possedere la chiarezza (anche troppa) ma di non avere un briciolo di flessibilità e in aprile ha lasciato l’incarico. Martedì si è dimesso il ministro dell’Economia, il liberale Bruederle. A Draghi sarà molto preziosa l’esperienza come attuale presidente del Financial Stability Board un organismo internazionale che ha il compito di seguire gli sviluppi della crisi finanziaria e di fare proposte per modificare i meccanismi che ne hanno permesso l’insorgere e che ancora ampiamente l’alimentano. Anche perché non solo in Europa ma neppure sul più vasto orizzonte mondiale Draghi potrà contare su acque tranquille. Tutte le monete sono, infatti, in fermento: sul dollaro pesa l’ombra di un debito pubblico meno affidabile di un tempo, di un deficit pubblico di dimensioni analoghe a quello greco, di un deficit commerciale che, come risulta dai dati diffusi ieri, non accenna a diminuire nonostante la forte perdita di valore del dollaro nell’ultimo anno. Non vanno purtroppo dimenticate neppure le particolari difficoltà del Giappone, oppresso da un debito pubblico ormai pari al doppio del prodotto interno lordo e costretto a incrementarlo ancora per finanziare la difficile ricostruzione dopo il terremoto. La Cina, inquieta per un marcato pericolo inflazionistico, sta a guardare mentre l’uso commerciale della sua moneta, continua a espandersi negli scambi commerciali asiatici in parziale alternativa al dollaro. In quest’ampia prospettiva sono riduttive le considerazioni tipicamente italiane. Molti in Italia saranno tentati di considerare la partenza di Draghi per Francoforte soprattutto in termini politici locali, ossia come l’uscita di scena di un potenziale presidente del Consiglio di un eventuale governo di transizione o di emergenza, il che, al momento attuale, è francamente irrilevante. E soprattutto gli italiani dovranno scordarsi l’antico vizio della «raccomandazione» e cioè non pensare che, dal suo ufficio nella «torre dell’euro» di Francoforte, Draghi possa o voglia avere un occhio di riguardo per l'Italia. Gli italiani avranno soltanto il vantaggio che deriva dalla ovviamente profonda conoscenza della situazione italiana da parte del nuovo presidente della Bce il che potrà evitare eventuali malintesi. Ogni deviazione dall’attuale, severo programma di rientro dagli attuali livelli di deficit e debito da parte di un qualsiasi governo italiano nei prossimi anni rimarrà assolutamente vietata. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: MARIO DEAGLIO. Inevitabile richiamo alla realtà Inserito da: Admin - Maggio 22, 2011, 10:04:20 am 22/5/2011
Inevitabile richiamo alla realtà MARIO DEAGLIO L’agenzia di rating «Standard&Poor’s», una sorta di angelo vendicatore i cui strali hanno scandito pressoché tutte le tappe della nuova fase della crisi finanziaria globale, ha abbassato ieri l’«outlook» del debito pubblico italiano, pur mantenendo all’Italia il suo «rating» attuale. Tradotto in italiano - per la grande maggioranza dei lettori che, a buon diritto, non conoscono bene il gergo della finanza - l’oracolo dell’economia globale di mercato ha sentenziato che lo Stato italiano è attualmente in grado di pagare i suoi debiti ma che, se continua con la sua crescita striminzita e se non esce dall’attuale paralisi politica, tra poco non lo sarà più: imboccherà il sentiero infernale sul quale si sono incamminate prima di noi la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e forse anche la Spagna. Per non parlare degli Stati Uniti, il cui debito sovrano è stato trattato allo stesso modo soltanto poche settimane fa. Gli italiani dovrebbero riservare a questo comunicato almeno la stessa attenzione che hanno dedicato alla raffica di interviste televisive del presidente del Consiglio della sera precedente e all’annuncio di misure vaghe e improbabili, come il trasferimento a Milano di due ministeri, destinate ad ammorbidire gli elettori milanesi, chiamati domenica prossima a scegliere con un ballottaggio il loro sindaco. Si tratta di un duro richiamo alle incompatibilità dell’economia moderna in cui non ci sono pasti gratis che contrasta con la preferenza, largamente diffusa tra gli italiani, a rinviare i grandi problemi dell’economia, ai quali viene preferito il teatrino della politica: a parlare di ballottaggi e dimenticarsi del deficit pubblico, a mangiare oggi e sperare fatalisticamente di poter pagare il conto domani. Il comunicato di Standard&Poor’s corona una settimana in cui nella finanza mondiale si è visto di tutto. Dall’azione, priva di senso comune a occhi europei, di un agguerrito e arrabbiato gruppo di parlamentari repubblicani americani contrari ad alzare il «tetto del debito» - un’operazione indispensabile perché, di qui a un paio di mesi, il Tesoro degli Stati Uniti sia giuridicamente in grado di rimborsare alla scadenza i titoli del debito pubblico - alla porno-economia del caso Strauss-Kahn emerso proprio mentre l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale stava per recarsi in Europa nel tentativo di risolvere l’emergenza greca. A differenza dell’Italia, dove siamo al primo avvertimento serio, per la Grecia siamo ormai al dunque in mezzo a una confusione totale. Per Atene l’unica via percorribile è il fallimento, spesso diplomaticamente indicato come «ristrutturazione del debito», ha dichiarato in buona sostanza a Parigi il ministro francese delle Finanze Christine Lagarde; il fallimento della Grecia sarebbe insostenibile per tutti, ha replicato da Francoforte la Banca Centrale Europea. Chi ha ragione? Siamo di fronte a un dilemma ben più difficile del quesito che, in una delle più note leggende greche, la Sfinge pose a Edipo; i responsabili dell’economia di ogni parte del continente non lo sanno bene, ed eccoli allora affannarsi a immaginare la «ristrutturazione volontaria» del debito greco, ovvero un «fallimento-non fallimento», un’acrobazia giuridico-intellettuale che fa il paio con il Trattato di Lisbona, ossia la «costituzione-non costituzione» con cui un’Unione Europea fortemente divisa su tutto, dall’intervento militare in Libia alle politiche sull’immigrazione, riesce a tirare avanti stancamente, giorno dopo giorno. Un’Unione Europea in cui quasi non si trova più un governo in buona salute, dove Merkel e Sarkozy - per non parlare del presidente del Consiglio italiano - vedono diminuire il consenso popolare e subiscono sconfitte elettorali gravi, mentre le piazze spagnole si riempiono di giovani che, per ora molto garbatamente, vogliono sapere perché i politici, dopo averli privati di prospettive future di vita, li stiano privando anche di un reddito di sopravvivenza in nome dell’economia di mercato. E non pochi si domandano se e quando le piazze di altri Paesi europei si riempiranno di altri giovani che ripeteranno la medesima, imbarazzante domanda. Da quest’immane caos non si esce semplicemente con buone parole, con buoni propositi e neppure con il cosiddetto nuovo miracolo tedesco, che per il momento è ancora in una fase di recupero dopo le cadute produttive della crisi. Non si esce senza un’idea chiara di un nuovo patto sociale europeo che dovrà avere una forte connotazione generazionale. Dovrà essere, insomma, un patto tra giovani e meno giovani, un patto fra chi ha risparmi da parte che sarebbero intaccati da un’eventuale inflazione e chi da quest’inflazione - da tenere in ogni caso sotto controllo - potrebbe forse ricavare posti e occasioni di lavoro. Non si esce dalla crisi senza un patto politico europeo che trasferisca a un esecutivo centrale - rafforzato e dotato di proprie entrate finanziarie - competenze generali di politica economica che i governi di Paesi come la Grecia hanno dimostrato di usare malissimo. La Grecia, poi, dovrebbe essere, oltre che aiutata, di fatto «commissariata» finché le sue finanze non torneranno a una parvenza di normalità. C’è, insomma, da abbandonare la politica-spettacolo e al tempo stesso da superare una situazione in cui la sostanza della politica è esclusivamente dettata dalla finanza. Se gli europei non ne saranno capaci, è ben probabile che per l’Europa abbia inizio un processo di dissoluzione. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/ Titolo: MARIO DEAGLIO. L'austerity deve colpire la politica Inserito da: Admin - Giugno 08, 2011, 04:23:17 pm 8/6/2011
L'austerity deve colpire la politica MARIO DEAGLIO Senza riduzione del debito pubblico non c’è crescita. Senza crescita, però, la sola riduzione del debito pubblico spinge l’economia verso una nuova fermata. E’ in queste condizioni difficili che la Commissione dell’Unione Europea ha inviato ieri le sue «raccomandazioni» ai ventisette governi degli Stati membri, intenti a preparare le leggi finanziarie per il 2012: una novità del sistema europeo di governo dell’economia, introdotta per evitare ripetizioni della «tragedia greca» della finanza pubblica e impedire politiche troppo disinvolte a spese di tutti. Nelle «raccomandazioni» la Commissione schiaccia fino in fondo il freno del rigore: «Non abbiamo alcun desiderio di imporre l’austerità agli europei - hanno scritto i commissari - ma è un fatto che l’insostenibilità delle finanze pubbliche sta limitando il nostro potenziale di crescita». Giudica generalmente «troppo poco ambiziosi» e troppo vaghi i piani dei governi ai quali indica una serie di priorità: aumento dell’età pensionabile, riduzione dei pensionamenti anticipati, aggancio dei salari alla produttività, semplificazioni burocratiche per le imprese e incentivi per la ricerca e lo sviluppo. Non c’è male sul piano dei principi, soprattutto per chi non deve la propria carica al consenso degli elettori, ma la traduzione di questi propositi abbastanza nobili in proposte concrete è difficilissima per governi alle prese con un’impopolarità crescente. La Commissione bacchetta un po’ tutti, ma indirizza un discorso particolarmente severo proprio all’Italia, forse perché in realtà proprio l’Italia è il Paese-chiave per la tenuta dell’euro. Sostiene che fino al 2012 i programmi italiani sono sostanzialmente in linea con gli impegni presi di riduzione di deficit e di debito, ma che i piani fiscali per il 2013-14 non sono adeguati all’obiettivo; in questo è in linea con il giudizio di Moody’s, l’agenzia internazionale che ha confermato la sua valutazione sullo stato attuale della finanza italiana ma ha peggiorato la valutazione futura. Quello che è richiesto all’Italia è, in pratica, un cambiamento radicale e gigantesco del settore pubblico. Dietro l’espressione, apparentemente «innocente», di «riforme di struttura» si cela un rinnovamento profondo di tutte le procedure amministrative. Rinnovamento, è inutile dirlo, che risulterà in una sensibile riduzione del numero dei dipendenti pubblici a tutti i livelli nel giro di pochissimi anni. Le forze politiche saranno costrette a presentarsi agli elettori alla fine di questa legislatura- sia che essa arrivi al suo termine naturale sia che invece venga anticipata - non già con la lista dei regali e delle promesse, ma con la lista dei tagli. Al primo posto di questa lista non può non esserci la stessa politica. Tagli profondi nella spesa pubblica non possono essere credibilmente proposti da chi non è disposto a tagliare la spesa relativa alle proprie funzioni. Devono quindi costituire il punto di partenza di chi vuol governare il Paese nel prossimo futuro. A un calcolo approssimativo, non dovrebbe essere troppo difficile ottenere un taglio di 1-2 miliardi di euro l’anno, agendo sulla riduzione sia dei privilegi della politica sia sul numero di quanti ne hanno diritto. Solo con questa premessa sarà possibile cercare davvero di rendere al tempo stesso più efficienti, meno complicate e meno care le procedure amministrative: i burocrati dovranno essere sostituiti, dove possibile, dai computer. Alcune fasi del processo amministrativo dovranno essere saltate, magari prendendo a esempio quanto già si fa in molti Paesi. E un pilastro fondamentale, quello da cui è auspicabile che derivi il maggior contributo, sarà una lotta accanita all’evasione fiscale, un terreno sul quale si è ottenuto parecchio in questi anni ma che comincia a provocare forme vistose di risentimento. Dallo sport all’agricoltura, i sussidi, anche quelli giustificabili e ragionevoli, dovranno essere rivisti con spirito molto critico; nelle «libere» professioni occorre liberalizzare l’entrata, resa sempre più difficile nel corso dei decenni. E’ inevitabile che molte missioni militari all’estero debbano essere terminate. E forse bisognerà decidersi a vendere un po’ di quell’oro, acquistato decenni fa a trentasei dollari l’oncia, che ora ne vale più di millecinquecento, una mossa che i governi di ogni colore sono sempre stati molto restii a prendere in considerazione. Da tutte queste misure risulterà probabilmente un insieme non trascurabile di risorse da destinare non solo alla riduzione del debito ma anche a progetti di crescita. Chi vuole governare questo Paese nei prossimi anni potrà essere davvero credibile agli elettori e ai partner europei solo se si presenterà con un programma in regola su questi punti. In caso contrario, bando alle ipocrisie: prepariamoci, di qui a qualche anno, ad abbandonare l’euro e a riprendere il vecchio ciclo di inflazione e svalutazione. mario.deaglio@unito.it da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali Titolo: MARIO DEAGLIO. Attenti, è l'ultimo autobus Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 09:55:06 am 24/6/2011
Attenti, è l'ultimo autobus Mario DEAGLIO Chi analizza i dati economici degli ultimi giorni può essere più che giustificato se si lascia andare a una crisi di sconforto. Nell’ampia massa di notizie sulla congiuntura e sulle imprese di tutto il mondo è difficilissimo trovare qualche segnale davvero positivo. Negli Usa aumenta la disoccupazione, in Italia il Centro Studi di Confindustriaprevede un tasso di crescita dimezzato, al ridicolo, quasi inesistente livello dello 0,6 per cento, del tutto insufficiente a qualsiasi discorso di rilancio. Sempre negli Stati Uniti la vendita delle abitazioni nuove fa registrare l’ennesimo segno negativo, in Italia dal mondo del commercio arriva l’ennesimo allarme sulle serrande dei negozi che chiudono per sempre. La presidente della Confindustria invoca riforme immediate, il presidente della Fed, la banca centrale americana riflette in maniera malinconica sui possibili effetti della crisi greca. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, basti pensare che persino in Germania, il Paesecampione del recente recupero, illusoriamente scambiato per crescita, il più noto indice congiunturale registra un’inattesa e grave caduta. La stessa Cina non sembra esser più un Eldorado senza crisi, visto che, pur con ripetuti rialzi dei tassi di interesse e altre misure finanziarie restrittive, non riesce a tenere a freno l’inflazione. E’ ormai chiaro che nell’ambiziosa manovra di rilancio dell’economia mondiale basata sull’iniezione di nuova liquidità da parte degli Stati unici - in pratica, la stampa di nuovi dollari - qualcosa è andato storto e il mondo si trova sprovvisto di un «piano B», un piano di riserva per far ripartire il motore bloccato o troppo lento. Dalla politica non viene nessun barlume di soluzione e il mondo politico italiano spicca per la sua capacità di dimenticare i grandi problemi per dettagli come la polemica nascosta tra Bossi e Maroni, mentre molti mezzi di informazione dedicano più spazio alle difficoltà dell’Inter a trovare un nuovo allenatore che alle difficoltà dei giovani a trovare un lavoro. E’ tempo di uscire da questo circolo vizioso, di provare a immaginarsi strade di crescita, di iniziare il discorso, troppo a lungo interrotto, sul nuovo sviluppo. Limitandosi all’Italia, lo si può fare domandandosi come potrebbe questo Paese riprendere, sia pure molto modestamente, un cammino di espansione della sua economia. Che cosa ci vorrebbe per passare dal misero 0,6 per cento del 2011 di cui - purtroppo realisticamente - ci accredita il Centro Studi della Confindustria diciamo a un 2 per cento nel 2012? Dopotutto, si tratta di un tasso che riuscivamo a raggiungere con disinvoltura ancora una quindicina di anni fa. Deve essere chiaro che non c’è una ricetta miracolosa, non ci sono singole misure che possano agire da potentissime medicine. C’è invece una condizione di base che bisogna ricreare. Si tratta di un generale clima di collaborazione sulle questioni fondamentali, una sorta di consenso di fondo che ora manca nella società. Se non partiamo dal presupposto che tutti debbano rinunciare a qualcosa, che tutti hanno sbagliato qualcosa, se si reclamano o difendono diritti invece di accettare doveri è perfettamente inutile darsi da fare. La decomposizione dei rifiuti nelle strade di Napoli, dovuta a un contrasto di interessi particolari e al disprezzo per l’interesse collettivo assai più che a, pur importanti, motivi tecnici diventa una metafora della decomposizione dell’economia di un grande Paese nel più generale quadro di disgregazione del sistema politico-sociale europeo. Schematicamente, le grandi rinunce sono due. E vedono da un lato alcuni diritti acquisiti, dall’altro alcuni capitali finanziari o immobiliari molto aumentati. Se gli orari, le ferie, le stesse procedure di inizio e termine del lavoro, l’età del pensionamento «non si toccano», le fabbriche - che devono competere con quelle di altri Paesi dove invece è possibile agire su questi elementi della produzione della ricchezza chiudono. Se i capitali finanziari devono essere esenti da imposte per definizione, e le rendite finanziarie devono continuare a essere poco tassate, se l’evasione fiscale deve continuare a essere tollerata, allora è bene rassegnarsi a vedere il Paese scendere sempre più in basso in tutti i confronti con ogni tipo di paesi del mondo. Le due rinunce (quella «del lavoro» e quella «del capitale») non solo devono in qualche modo bilanciarsi e compensarsi ma anche essere accompagnate da un ulteriore scambio con le generazioni giovani e future. Finora siamo sopravvissuti alla crisi al prezzo di massacrare le prospettive di vita di gran parte di coloro che hanno meno di 35-40 anni; tutta la (poca) crescita che sarà possibile ottenere con questi sistemi deve andare a loro. Nel mondo del lavoro, una maggiore flessibilità all’uscita deve servire a garantire una maggiore stabilità all’entrata, oggi ridotta al peggior tipo di precariato. Su queste basi è probabilmente possibile costruire un qualche programma politico di cui oggi né la maggioranza né l’opposizione sembrano disporre. Potremmo così provare a costruire un futuro decente per tutti. Per cercare di salire sugli ultimi autobus che la storia mette a nostra disposizione. mario.deaglio@unito.it DA - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8893&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Su Bankitalia non si può sbagliare Inserito da: Admin - Giugno 30, 2011, 05:15:30 pm 30/6/2011
Su Bankitalia non si può sbagliare MARIO DEAGLIO Nell’intricato panorama dell’economia italiana, stretta tra la prospettiva di una manovra lunga e severa - resa indispensabile dalle difficoltà europee e mondiali assai più che dalle difficoltà italiane - e quella di una crescita comunque stentata, si è aperto in questi giorni un nuovo problema: oltre a rappresentare un «successo d’immagine» per l’Italia a livello mondiale, cosa rara di questi tempi, la nomina di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea fa sorgere l’esigenza di pensare alla sua successione alla guida della Banca d’Italia. E di pensarci in tempi rapidi perché, nonostante la schiarita rappresentata dal voto di ieri del Parlamento greco, le perturbazioni monetarie mondiali non sono certo finite e l’Italia avrebbe maggiori rischi di esserne coinvolta se l’incertezza sul nome del futuro Governatore dovesse durare troppo a lungo. Dalla Banca d’Italia passa una parte non piccola dell’identità economica italiana. E’ stato grazie alla Banca d’Italia di Mario Draghi che il sistema bancario italiano non si è dissolto dopo l’estate bollente del 2006, con la probabile acquisizione di alcuni dei principali istituti bancari italiani da parte di concorrenti stranieri. Quelle stesse banche sono state incoraggiate a fondersi, a raggiungere e mantenere un consistente livello di solidità patrimoniale; sono oggi annoverate tra le principali aggregazioni finanziarie europee e rappresentano una delle maggiori garanzie della tenuta italiana, Il sistema di vigilanza della Banca d’Italia, uno dei più severi del mondo, ha poi contribuito a tenere le banche italiane lontane dalle avventure troppo frequenti in altri sistemi creditizi: basti pensare che in Gran Bretagna, patria dei moderni sistemi bancari, tre delle maggiori banche hanno dovuto essere nazionalizzate in situazioni di emergenza, naturalmente a spese dei contribuenti; il costo elevato di quelle nazionalizzazioni (che l’Italia ben difficilmente potrebbe permettersi) ora frena l’economia britannica. In Italia, quasi nessuna banca ha dovuto avvalersi del «paracadute» pubblico rappresentato dai cosiddetti «Tremonti bonds». Di fronte a una crisi mondiale che fa ragionevolmente prevedere nuovi mesi di incertezza e di perturbazioni monetarie, la tenuta del sistema bancario appare essenziale alla tenuta dell’Italia. Essa sarà meglio garantita se verrà prescelto un candidato in grado di garantire la continuità della «cultura» della Banca d’Italia e della sua esperienza positiva degli ultimi anni. Fatta salva l’indiscussa qualità professionale dei nomi dei possibili candidati, appare preferibile un’autonomia di fatto della Banca d’Italia dal ministero dell’Economia. Tra i due enti che, con competenze molto diverse, governano il sistema economico italiano la collaborazione - pur talvolta venata da qualche contrapposizione dialettica, tutto sommato salutare - è preferibile alla subordinazione della prima al secondo. Una Banca d’Italia sottomessa al Tesoro evocherebbe i tempi precedenti al «divorzio» del 1981 che pose le basi del rientro italiano dalla grande inflazione degli Anni Settanta. Fino ad allora la Banca d’Italia era tenuta a sottoscrivere, più o meno passivamente (e a far sottoscrivere dalle banche) i titoli pubblici che il Tesoro riteneva opportuno emettere. Con l’attuale ministro dell’Economia, il rischio di una Banca d’Italia «schiava» probabilmente non si corre, in quanto la gestione Tremonti è tutto fuorché finanza allegra, come gli italiani in questi giorni possono ben constatare. I ministri, però, passano e i governatori restano, non avendo bisogno di essere confermati a ogni cambio di maggioranza. Con i tempi che corrono, una scelta che si fermi all’interno di Via Nazionale appare certamente la più lungimirante. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8917&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Un colpo ai piccoli patrimoni Inserito da: Admin - Luglio 07, 2011, 09:48:17 am 7/7/2011
Un colpo ai piccoli patrimoni MARIO DEAGLIO Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani» recitava uno slogan elettorale di grande effetto di questa maggioranza. Evidentemente il conto titoli non deve far parte di questa «tasca», sempre più vuota, dal momento che un «colpo di coda» della manovra fa passare da 34 a 120 euro l’imposta di bollo che grava sul conto titoli, obbligatorio per chi voglia gestire minimamente i propri risparmi, anche solo acquistando titoli di Stato. I provvedimenti di questa manovra si prestano a giudizi variegati, qualcuno è ragionevole, qualcuno è pessimo, molti sono discutibili. Questo però è addirittura odioso. Perché farà grandi danni su piccolissimi patrimoni, succhiando via, in questi tempi di rendimenti microscopici, gran parte dei micro-interessi percepiti da milioni di persone; perché frustrerà irriterà, deluderà chi ha la possibilità di mettere da parte qualcosa in questi tempi difficili per un gran numero di famiglie, offendendone la dignità prima ancora di farne calare il reddito; perché è manifestamente iniquo in quanto questo balzello fisso peserà proporzionalmente di più su chi è riuscito a metter meno soldi da parte. Passi infatti l’aumento a 380 euro del bollo per i depositi in titoli superiori a 50 mila euro, certamente molto pesante per chi supera di poco questa cifra, mentre è quasi irrilevante per i grandi patrimoni, ma andarsela a prendere con i meno abbienti riveste un particolare carattere di odiosità. Perché un ministro tutto sommato cauto, che si sforza di essere equilibrato, ha potuto compiere un errore del genere? Si può solo pensare a una situazione di grande disordine, grande confusione, grandi contrasti per cui la manovra diventa un enorme calderone di cui nessuno controlla più gli ingredienti; come è successo per la «norma Fininvest». La «norma Fininvest» è stata ritirata in tempo, mentre il superbollo per i risparmiatori dovrebbe essere sulla «Gazzetta Ufficiale» di questa mattina. Non rimane da augurarsi che le Camere lo cancellino subito e senza contrasti. Con una raccomandazione al ministro Tremonti: per favore, abolisca la Giornata del Risparmio, oppure, se non ci riesce, alle celebrazioni del risparmio non ci vada mai più. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8949&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. I gravi rischi della tempesta perfetta Inserito da: Admin - Luglio 12, 2011, 05:51:34 pm 12/7/2011
I gravi rischi della tempesta perfetta MARIO DEAGLIO La telefonata del cancelliere tedesco Angela Merkel al primo ministro italiano Silvio Berlusconi, apparentemente rassicurante e di appoggio alla manovra finanziaria che si appresta ad essere esaminata dal Parlamento, costituisce in realtà un duro monito - mentre è riunito un vertice europeo di crisi - a procedere speditamente sulla via del risanamento finanziario, un invito pressante a resistere alle forti tentazioni, emerse in questi giorni, di un annacquamento della manovra appena presentata. Ed è un segnale di quanto profonda sia la crisi attuale e di quanto limitate siano le opzioni di un’Italia almeno parzialmente sotto tutela europea. Il limite delle opzioni italiane deriva dal fatto che l’Italia si trova in una situazione che qualcuno ha chiamato «tempesta perfetta» e che si verifica quando tutte le dimensioni di una crisi si influenzano e si aggravano a vicenda. La «tempesta perfetta» che si è scatenata in questi giorni sull’Italia è a un tempo finanziaria, economica e politica. È illusorio pensare di «sistemare» una di queste dimensioni senza sistemare anche le altre; e senza tener conto che, in realtà, l’attacco speculativo che coinvolge il debito pubblico italiano e la Borsa italiana potrebbe essere il culmine di uno scontro più vasto tra euro e dollaro in una situazione di forte disordine monetario mondiale. Tra moneta americana e moneta europea è in atto una sorta di duello tra due debolezze: gli americani devono fare i conti con un rilancio non riuscito della loro economia, con un «tetto» del debito pubblico di fatto già sfondato, senza il consenso parlamentare, con qualche preoccupante segnale di inflazione incipiente; gli europei con i conti pubblici pericolanti di molti Paesi dell’euro. L’attacco al debito pubblico italiano - oggi tecnicamente non più debole di ieri - potrebbe essere una sorta di diversivo per cercar di evitare, o quanto meno di procrastinare, una diffusa perdita di fiducia nel dollaro che rischia di lasciarsi sfuggire la sua posizione di punto centrale del sistema valutario mondiale. Per l’Italia, la «tempesta perfetta» comporta pericoli molto gravi. Significa che tutti i nodi vengono al pettine nello stesso momento: la manovra finanziaria non può essere disgiunta da un nuovo equilibrio politico (di questo si è già avuto qualche sentore nel mutare dei rapporti tra Lega Nord e Popolo della Libertà, con una maggiore forza dialettica della prima) e probabilmente da un nuovo patto sociale, il che richiede consensi più vasti di quelli dell’aritmetica parlamentare. Perché questi consensi si materializzino è necessario che il tutto si collochi nell’ottica di una fondata speranza di ripresa quanto meno nel medio periodo. La manovra finanziaria contiene al suo interno numerosi elementi di elasticità, forse già pensati per poter essere anticipati in una situazione di emergenza: lo slittamento in avanti di quanto è previsto dalla manovra per il 2013 e per il 2014 rappresenterebbe un «indurimento» apprezzato dai mercati. Occorrerebbe però anche l’introduzione di alcuni elementi non presenti nel progetto attuale, che potrebbero attenuare gli eccessi dell’attuale compressione della spesa pubblica, chiaramente insostenibile nella sua forma attuale, da parte della maggioranza degli enti locali: un programma di vendita, almeno parziale, di poste e ferrovie (due imprese pubbliche di grandi dimensioni che potrebbero avere motivi di interesse per i mercati), una vendita di oro che, per quanto relativamente modesta dati i vincoli internazionali che l’Italia deve rispettare, darebbe un’idea del carattere strutturale dei rimedi che si stanno approntando, e un inasprimento delle misure per la compressione del costo della politica. Naturalmente si dovrebbero scordare provvedimenti volti a sanare situazioni particolari come quelli che possono coinvolgere la Fininvest, tolti dal testo definitivo della manovra attuale, ma che qualcuno pensa di ripresentare. Le grandi linee di un nuovo patto sociale dovrebbero essere rappresentate da sacrifici paralleli per «capitale» e «lavoro». I sacrifici per il «capitale» sarebbero rappresentati da una qualche forma di imposta patrimoniale. I sacrifici per il «lavoro» dall’attenuazione di alcune conquiste del passato nell’ambito dei contratti nazionali; la falsariga dovrebbe essere rappresentata dai grandi accordi sindacali tedeschi dell’anno scorso che hanno fortemente contribuito al robusto rilancio dell’economia della Germania. Naturalmente i dettagli sarebbero tutti da studiare e toccherebbe a chi si trova al governo gestire questo parallelismo con la necessaria credibilità e decisione. Tutto ciò sarebbe probabilmente sufficiente a «mettere in sicurezza» il sistema italiano e a prepararlo per una nuova fase espansiva dell’economia europea, se questa ci sarà davvero, oppure a conferirgli particolare solidità se questa fase espansiva non dovesse materializzarsi. La logica di un simile insieme coordinato di provvedimenti è che questo Paese si merita qualcosa di meglio del piccolo cabotaggio che ha caratterizzato la sua politica e la sua economia negli ultimi anni, qualcosa di meglio del dissolversi della sua coscienza pubblica in uno scetticismo privo di qualsiasi moralità, purtroppo evidente nella successione di scandali pubblici e privati che l’hanno caratterizzato di recente. A centocinquant’anni dalla formazione dello Stato italiano, l’Italia ha ancora molte cose da dire sull’orizzonte mondiale e non dovrebbe aver bisogno di una telefonata del Cancelliere tedesco per sapere che cosa deve fare. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8973&ID_sezione=&sezione= Titolo: MARIO DEAGLIO. Euro-dollaro, i due volti della crisi Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 11:58:48 am 24/7/2011
Euro-dollaro, i due volti della crisi MARIO DEAGLIO A Bruxelles un vistoso rattoppo che terrà per un poco ma che rischia di rendere necessari altri interventi. A Washington un vistoso strappo tra Camera e Presidente che fa sorgere interrogativi sulla tenuta del dollaro. Se ne ricava l’impressione di una crescente incapacità dei Paesi ricchi di governare il sistema monetario mondiale, il che getta ombre lunghe sui meccanismi della globalizzazione. Il sofferto accordo sul debito greco, raggiunto giovedì sera a Bruxelles dopo una trattativa difficile ed estenuante, è ricchissimo di codicilli e molto povero di idee, un accordo senza vincitori, dal quale tutti escono un po’ sconfitti. Non possono esserne soddisfatti i greci, i quali, pur avendo ottenuto sconti sugli interessi da pagare e un paracadute sul loro enorme debito, vedono nel comunicato finale la conferma della condanna della loro economia, non certo florida, a un lungo periodo di stagnazione e difficoltà. E neppure le banche creditrici, costrette a sottoscrivere «volontariamente» i nuovi titoli del debito pubblico greco man mano che quelli vecchi giungeranno a scadenza, con una correzione al ribasso degli utili previsti. Non esultano i tedeschi sui quali, indirettamente, ricadrà una parte del peso della manovra, e non sono allegri neppure i francesi che non sono riusciti a far passare l’idea di una tassazione europea. I mercati internazionali rimangono scettici e l’opinione pubblica nervosa. L’accordo avviene all’insegna di una ampia politica di tagli, che si tradurranno in un freno aggiuntivo all’economia, proprio mentre l’Europa ha bisogno di stimoli alla crescita. Non è solo la Confindustria a delineare la prospettiva inquietante di una produzione nuovamente stagnante nel terzo trimestre del 2011, in Germania gli indici di fiducia delle imprese sono bruscamente scesi ai valori di fine 2010 e analoghe cadute di fiducia si registrano tra le imprese francesi. Ottenere la stabilità dell’euro al prezzo di una stagnazione non sembra certo la più lungimirante delle politiche; anzi, non è neppure una politica, bensì una sorta di ondeggiamento continuo, senza una direzione precisa, da parte di un’Europa che non riesce a darsi una strategia per il proprio futuro. In realtà, l’Europa è su un piano inclinato. Può uscirne verso l’alto con la rinuncia dei vari Paesi dell’euro a una parte della loro sovranità in materia di politica economica a favore di un governo centrale, e quindi con l’europeizzazione di importanti capitoli nazionali di spesa pubblica e di importanti entrate fiscali; oppure può uscirne verso il basso, ricreando il sistema monetario europeo, con l’euro al centro e una moderata possibilità di fluttuazione delle valute nazionali. In ogni caso non può restare, e non resterà, perennemente immobile. La prospettiva risulta ancora più complessa in quanto le difficoltà dell’euro sono contestuali alle difficoltà del dollaro. A Washington è in corso ormai da mesi un incredibile braccio di ferro tra il presidente Obama e la maggioranza repubblicana della Camera dei Rappresentanti che si rifiuta di innalzare il tetto del debito pubblico (che negli Stati Uniti è stabilito per legge) senza ottenere in cambio imponenti tagli alla spesa pubblica. Venerdì sera i repubblicani hanno lasciato le trattative sbattendo la porta; se un accordo non verrà raggiunto entro il 2 di agosto, il Tesoro degli Stati Uniti potrebbe non disporre delle risorse per rimborsare i propri titoli in scadenza. Nessuno crede veramente a un simile scenario, che sancirebbe la fine ingloriosa del dollaro quale valuta internazionale: anche solo l’abbassamento della valutazione attribuita ai titoli pubblici americani appartiene più a uno scenario di fantaeconomia che a un serio esercizio previsivo. Eppure nessuno se la sente di escluderlo di fronte alla scarsa lungimiranza dei parlamentari americani, la cui attenzione, come per quelli europei, è pressoché totalmente concentrata sui giochi politici interni e sul brevissimo periodo. Ormai, sembrano esser solo i cinesi e i brasiliani a pensare in grande, ad effettuare analisi economiche e valutarie globali di lungo periodo. Anche ammettendo che i parlamentari americani non siano così folli e miopi da spingere il proprio Paese in un precipizio finanziario, la situazione degli Stati Uniti rimane debolissima per l’evidente fallimento della politica di stimolo monetario che fino a fine giugno per nove mesi ha «iniettato» nell’economia 2,5 miliardi di dollari al giorno. Con il solo risultato di far salire il prezzo delle materie prime, mentre la disoccupazione torna ad aumentare. A questo punto non si può non convenire con il premio Nobel Paul Krugman che, sul New York Times di giovedì, ha ammonito contro il pericolo di una «Piccola Depressione» che assomiglia alla «coda» della «Grande Depressione» degli Anni Trenta: nel 1937, il passaggio prematuro da una politica di stimoli fiscali a una politica fiscale restrittiva fece deragliare gli accenni di ripresa. E la depressione continuò fino a quando la Seconda guerra mondiale diede alla domanda lo stimolo che le politiche di pace non erano state in grado di fornire. Sappiamo bene a quale terribile prezzo. Fortunatamente siamo ben lontani dalle condizioni di allora. Sarebbe però opportuno che, sulle due rive dell’Atlantico, i banchieri centrali e i ministri economici quest’anno non andassero in vacanza. Per evitare di essere colti di sorpresa, nella quiete d’agosto, come successe nel 2007 e nel 2008, nel caso in cui una miope follia dovesse prevalere al Congresso americano o il «rattoppo» di Bruxelles non dovesse tenere. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9012 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il rischio del disordine globale Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:18:41 am 31/7/2011
Il rischio del disordine globale MARIO DEAGLIO Il volto teso del presidente Obama che si rivolge ancora una volta ai suoi concittadini perché facciano pressione sul Parlamento e consentano, con una legge, all’amministrazione pubblica di funzionare normalmente può essere ben considerato come l’icona del possibile tramonto degli Stati Uniti quale Paese leader dell’economia mondiale. E, al tempo stesso, dell’incapacità della politica nei Paesi avanzati di fornire all’economia il supporto necessario per tornare a crescere, fornire sufficiente ricchezza e rilanciare la speranza nel futuro. Il vuoto legislativo creato dalla risoluta volontà di una minoranza di parlamentari repubblicani di impedire l’innalzamento del tetto del debito che il governo americano è autorizzato a contrarre è infatti molto più che un tatticismo da guardare con indulgenza. Altre volte in passato quest’arma è stata usata nelle schermaglie americane di Washington, ma ora segnala un non riconoscimento o uno stravolgimento della posizione internazionale degli Stati Uniti, una grave, colpevole noncuranza per il ruolo del dollaro nel sistema internazionale. Se anche alzeranno il «tetto» del debito che il governo federale è autorizzato a contrarre, i parlamentari repubblicani pensano di alzarlo di poco, in modo da poter tornare di qui a qualche mese a riproporre fortemente la loro concezione - si potrebbe dire il loro «ricatto» - di uno Stato minimo e di una ricchezza privata quasi priva di imposte. Siamo così di fronte al paradosso per cui il resto del mondo non avrebbe difficoltà ad acquistare, come ha sempre fatto, titoli del Tesoro degli Stati Uniti nonostante il deficit stia aumentando molto velocemente; tranne il piccolo particolare che una legge potrebbe impedire al Tesoro degli Stati Uniti di pagare gli interessi e rimborsare il prestito. Un brivido scuote così nuovamente, in questo agitato fine settimana, il castello di carte della finanza internazionale. Il paradosso si aggrava considerando che il resto del mondo ricco non è in condizioni di dare alcun aiuto. Quasi in contemporanea al discorso di Obama, il primo ministro spagnolo Zapatero annunciava lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate. Tra i leader europei Zapatero era quello che, con maggior coerenza, lucidità e determinazione si era impegnato contro la crisi. Il ricorso alle urne, e la sua contemporanea dichiarazione di non volersi ricandidare, è un’ammissione chiara di sconfitta di fronte al malumore degli spagnoli per i sacrifici da affrontare. Nel resto d’Europa, il governo inglese è alle prese con una delle crisi peggiori degli ultimi decenni che chiama in causa istituzioni sacrosante quali la stampa e la polizia; il Cancelliere tedesco e il Presidente francese devono affrontare una crescente impopolarità che li ha portati a una sconfitta dopo l’altra nelle elezioni locali e a una clamorosa perdita di consenso nei sondaggi di opinione. Per non parlare del Belgio senza governo, dei Paesi Bassi e della Svezia con governi di minoranza, del «pasticcio» libico, del terrorismo norvegese. In quest’impotenza generale si colloca la specifica impotenza italiana che è inutile ricordare nei dettagli a lettori che la vivono quotidianamente. Ci si sarebbe potuti aspettare una vibrante presa di posizione del ministro dell’Economia che denunciasse le massicce vendite, di marca chiaramente speculativa, di titoli del debito pubblico italiano da parte di pochi grandi operatori, tra cui alcune banche tedesche. Grazie a queste vendite, si assiste a un secondo paradosso, ossia che il debito pubblico italiano, da tutti definito solido fino a un paio di mesi fa, sia divenuto debolissimo sui mercati senza che nulla sia cambiato nella struttura e nella congiuntura dell’Italia. La denuncia - che è mancata anche per le difficoltà personali del ministro - avrebbe dovuto essere accompagnata da forti limitazioni, da attuare di concerto con gli altri Paesi della zona euro, nel tipo di contrattazioni ammesse, magari circoscritte ai soli contanti. C’è stato invece un quasi completo silenzio italiano: le meschinità della politica spicciola hanno monopolizzato l’attenzione di tutti e azzerato la nostra azione internazionale. I Paesi non toccati dalla paralisi della politica, come la Cina e l’India, non hanno forza sufficiente per avviare un’azione di contrasto alla crisi. La Cina vede con timore la propria economia andare fuori controllo, non rispondere più ai freni monetari, più volte azionati senza successo negli ultimi mesi, e teme lo scoppio di una bolla edilizia che metta fine a una crescita che, per oltre un decennio, è stata guardata dal resto del mondo con meraviglia e con invidia. L’India è alle prese con corruzione e inflazione, entrambe elevate. Brasile, Russia, Turchia e Sudafrica, Paesi dove l’economia e la politica sembrano «tenere», sono complessivamente troppo piccoli per fare massa critica. In queste condizioni il rischio di un disordine monetario globale che porti con sé una grave debolezza dell’economia globale è sicuramente elevato, anche se vi sono ancora margini per azioni di contrasto. Come atto di normale prudenza, le banche centrali, i governi più lungimiranti e l’Unione Europea dovrebbero cercare di mettere a punto un «piano B», ossia un piano di emergenza da tenere nel cassetto. Nel caso di gravi perturbazioni nei mercati finanziari, tale piano potrebbe comportare la graduale e parziale sostituzione del dollaroccon una moneta «artificiale», un «paniere» di monete di cui il dollaro costituisca la parte prevalente ma senza l’indipendenza e la libertà di manovra di oggi. Naturalmente, le regole valutarie mondiali dovrebbero essere riscritte; del resto, successe nell’agosto di quarant’anni fa, quando gli Stati Uniti sganciarono il dollaro dall’oro senza alcuna consultazione. Potrebbe essere giunto il tempo di «riagganciarlo» a qualche cosa, di metterlo dentro un paniere, appunto. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9039 Titolo: MARIO DEAGLIO. Più coraggio per cambiare davvero Inserito da: Admin - Agosto 06, 2011, 12:32:31 pm 6/8/2011
Più coraggio per cambiare davvero MARIO DEAGLIO Il mercato, dopo tutto, qualche merito ce l’ha: ha costretto un Paese come l’Italia, fino a pochi giorni fa immerso in una compiaciuta miopia, a fare i conti con se stesso. E un presidente del Consiglio che ha ripetutamente negato prima l’esistenza e poi la gravità della crisi a venire, almeno parzialmente, a patti con la realtà. Un paio di giorni dopo le dichiarazioni alle Camere, in cui rivendicava alle Camere stesse, invece che ai mercati, il diritto di fare politica economica - un concetto ribadito con forza dal nuovo segretario del Popolo della Libertà - si è deciso a delineare un programma di politica economica la cui urgenza dipende esattamente dalla necessità di compiacere i mercati. Ne è scaturita una conferenza stampa che vuole delineare, se non un vero e proprio programma, almeno una serie di indirizzi, con spunti di interesse sul piano dei principi ma di efficacia limitata per quanto riguarda il lato operativo, l’effettivo potere di cambiare le cose. Il tutto è avvenuto nello stesso giorno in cui sia il Presidente degli Stati Uniti sia il commissario europeo agli Affari economici e monetari sono intervenuti in maniera analoga, ossia con una concretezza piuttosto limitata. E questo mal comune dell’inefficacia può essere di qualche consolazione per un Paese additato come la pecora nera che si accorge di essere soltanto color grigio scuro. La nuova concretezza berlusconiana non può dirsi veramente concreta. Essa consiste nell’anticipo di un anno delle misure già prese, un provvedimento che probabilmente il ministro dell’Economia, e sicuramente i mercati, avevano già messo in conto da tempo. Per il resto sono state rimandate al Parlamento le tre deleghe su cui dovrebbero articolarsi le strutture portanti dell’Italia economica del futuro, ossia quella fiscale, quella assistenziale e quella del mercato del lavoro. Dati la complessità dell’argomento e l’intrico degli interessi delle parti sociali, la messa a punto di questi provvedimenti non si preannuncia breve e deve essere considerata soprattutto come una, peraltro lodevole, dichiarazione di intenzioni. Sul piano dei principi, il tutto è stato «condito» dalla prospettiva di una riforma costituzionale che vada nel senso dell’ampliamento delle libertà economiche e obblighi al pareggio del bilancio pubblico, anch’essa tutta da valutare per quanto riguarda la possibilità di effetti concreti in tempi necessariamente medi. I mercati dovranno essere convinti che la strategia di un cambiamento costituzionale e la strategia delle deleghe non sono semplicemente espedienti per mascherare le profonde divisioni su questi argomenti all’interno della stessa maggioranza. Curiosamente, l’elemento davvero concreto nelle dichiarazioni riguarda un fatto internazionale, ossia l’annuncio della prossima convocazione di un G7, che tocca al Presidente francese in quanto la Francia ha la guida, nell’attuale semestre, di quest’organizzazione informale dei maggiori Paesi ricchi. Di qui potrebbero scaturire nuove normative sui mercati internazionali, che rappresentano l’elemento veramente carente nella crisi attuale. Occorre infatti francamente riconoscere l’attuale condizione di inferiorità degli Stati sovrani, specie se indebitati, nei confronti del grande mercato finanziario globale. Questa condizione oggi fa del male all’Italia, ma potrebbe farne a quasi tutte quelle che una volta si chiamavano «grandi potenze» economiche e non ci si dovrebbe troppo stupire se, passata la buriana in Italia, sotto attacco finisse la Francia. L’uscita «vera» dalla crisi a differenza del «rimbalzo» con cui l’Occidente si è illuso per oltre un anno di essere sulla strada giusta - deve pertanto avere due facce: quella di innovazioni profonde nel modo di funzionare dell’economia e quella, parallela, di innovazioni profonde nel funzionamento dei mercati finanziari. Potrebbero essere temporaneamente limitati alcuni meccanismi di questi mercati che consentono di «scommettere» contro un titolo somme molto ingenti senza esserne in possesso, ossia vendendo allo scoperto ciò che non si possiede nella speranza di ricomprarlo a prezzo più basso dopo qualche giorno o qualche settimana; lo ha fatto la Germania nel maggio 2010 e quest’esperienza andrebbe studiata con cura. E’ un peccato che questa dimensione mancasse nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio. In pratica oggi si chiede all’economia di adeguarsi ai mercati, giudici apparentemente unici di efficienza I mercati stessi dovrebbero essere posti sotto la lente d’ingrandimento di un’istituzione che abbia il potere di limitarne la funzionalità quando questa risulti manifestamente anomala. In caso di anomalia potrebbero scattare limiti oggettivi riguardanti certi tipi di operazioni. Qualche decennio fa si affermava che il salario era «la sola variabile indipendente», ossia che tutte le grandezze dell’economia dovevano adeguarsi alle esigenze di crescita dei consumi dei lavoratori, specie se lavoravano «sotto padrone». Oggi si verifica nei fatti qualcosa di quasi esattamente opposto, ossia che la sola variabile indipendente è rappresentata dai mercati finanziari ai quali tutti si devono adeguare senza veramente discutere. Una riforma di questi mercati - che pure hanno i meriti di cui si è detto sopra - appare sempre più come una condizione necessaria per uscire davvero dalla crisi. E’ un peccato che nessun capo di Stato o di governo, compreso quello italiano, paia veramente muoversi in questa direzione. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9068 Titolo: MARIO DEAGLIO. Sì ai sacrifici se aiutano la crescita Inserito da: Admin - Agosto 11, 2011, 12:25:16 pm 11/8/2011
Sì ai sacrifici se aiutano la crescita MARIO DEAGLIO Poche ore prima che il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, giungesse a Roma per presiedere l’incontro governo-parti sociali, il presidente francese, Nicholas Sarkozy era volato a Parigi per presiedere una riunione di emergenza convocata a seguito di voci sulla possibilità di un declassamento del debito pubblico francese e in Germania un sondaggio tra parlamentari rivelava che il cancelliere Angela Merkel non avrebbe più l’appoggio della propria maggioranza nel sostenere i titoli sovrani dei Paesi deboli della zona euro. Il presidente americano Obama veniva di fatto lasciato solo anche dalla banca centrale degli Stati Uniti che, annunciando due anni di tassi invariati a un livello prossimo a zero, scaricava sul governo degli Stati Uniti tutta la responsabilità della manovra economica. E i mezzi di informazione non lesinavano più la parola «panico» per descrivere l’andamento complessivo delle Borse. Quando il «panico» scalda le notizie, il pericolo maggiore che corrono i governi è quello di non mantenere la mente fredda e di pensare solo a misure restrittive da gettare in pasto alle agenzie di rating al fine di raddrizzare per qualche ora o qualche giorno gli andamenti dei mercati. Se, cedendo al panico, tutti i governi europei varassero soltanto provvedimenti restrittivi, la recessione mondiale sarebbe assicurata, ne sarebbero coinvolti anche i dinamici Paesi emergenti che finora hanno tenuto in vita la crescita globale. Per evitare una simile prospettiva, le manovre europee di emergenza che si stanno preannunciando dovranno non solo ridurre fortemente deficit e debiti pubblici ma anche gettare le basi per il rilancio delle economie. E questo lo deve fare in particolare la manovra italiana, che sarà decisa con un decreto al termine del Consiglio straordinario dei ministri previsto per il 18 di agosto, perché all’Italia non basta ritrovare la risicata crescita economica del periodo precedente la crisi, rivelatasi appena sufficiente per mantenere a galla il Paese. I futuri inasprimenti fiscali e la futura riduzione della spesa pubblica non devono quindi soltanto curare deficit e debito: una parte dovrà essere dedicata a far ripartire il motore economico inceppato. A titolo di esempio, di fronte a un miglioramento, derivante da nuovo gettito e minori spese, per un totale di 100, occorrerà che il governo «restituisca» all’economia una quota del miglioramento stesso, diciamo 30-40, e lo faccia secondo modalità tali da combattere le tendenze recessive. Per conseguenza, una manovra restrittivaespansiva deve essere di maggiore ampiezza di una manovra soltanto restrittiva e proprio per questo, e solo per questo, nell’ottica di una prospettiva di sviluppo futuro, ha senso chiedere che le parti sociali sopportino sacrifici straordinari. In questo senso è corretto parlare, come ha fatto il ministro Tremonti, di una «ristrutturazione» della manovra ancora fresca di stampa ma occorre non aver paura di pensare in grande. L’espansione, infatti, non si può ottenere semplicemente cambiando le regole, facendo quelle generiche «riforme che non costano» e che danno maggiore libertà alle imprese. Una parte del miglioramento fiscale da ottenersi con la manovra dovrà essere utilizzata per ridurre alcune aliquote dell’Irpef e dell’Irpeg, oppure per finanziare direttamente - con tempi rapidi, da garantire con normative d’urgenza - importanti opere infrastrutturali. Alla restrizione, fino all’annullamento, del deficit si dovrà accompagnare la ridistribuzione da alcuni tipi di redditi - a cominciare da quelli sommersi - ad altri tipi di redditi. Per evitare il collasso dei consumi occorrerà una ridistribuzione alle fasce dei redditi più bassi (a cominciare dagli oltre 400 mila giovani che, secondo un’indagine resa nota ieri, hanno perso il lavoro nel 2010) per rilanciare gli investimenti occorrerà spostare risorse da impieghi poco efficienti a impieghi più efficienti. Pare purtroppo che l’attenzione generale si concentri più sulla parte restrittiva che sulla parte espansiva. In realtà, solo nella prospettiva di una svolta per il Paese ha senso chiedere un contributo eccezionale a tutti, a cominciare da una classe politica caratterizzata da privilegi economici di tale portata - come quelli sulle liquidazioni messi in luce ieri da questo giornale - da suscitare un’ondata generale di sdegno che rischia di minare le radici della democrazia. L’eccezionalità della situazione fa sì che nessuno possa chiamarsi fuori. Se si comincia con premesse come «le pensioni (future) non si toccano» oppure «la patrimoniale non si può fare», allora è inutile che governo e parti sociali si siedano al tavolo. In realtà, tutti devono sedersi al tavolo con offerte e non con richieste, nell’ambito di un ridisegno complessivo che tenga conto non soltanto dell’emergenza e dei vincoli internazionali ma anche di prospettive di più lungo termine. In quest’ottica, variazioni nei meccanismi in vigore per determinare le pensioni dei futuri pensionati e misure fiscali straordinarie di tipo patrimoniale possono rappresentare i due poli dell’azione necessaria per raddrizzare una barca pericolante. Necessaria, è doveroso dirlo, ma non sufficiente: il ritorno a condizioni fisiologiche di crescita dipenderà non solo da quanto farà l’Italia ma anche dall’intera evoluzione mondiale. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9083 Titolo: MARIO DEAGLIO. L'incapacità di offrire una speranza Inserito da: Admin - Agosto 15, 2011, 10:25:25 am 15/8/2011
L'incapacità di offrire una speranza MARIO DEAGLIO È un agosto in cui tutto va abbastanza male. Con il numero degli italiani in vacanza che fa segnare un record negativo, il Parlamento aperto, le Borse in picchiata; con il dollaro degradato, la guerra di Libia, l’inflazione che minaccia la Cina, le fiamme della rivolta di Londra. Il rilancio economico dei Paesi ricchi è almeno parzialmente fallito, il debito pubblico è in difficoltà quasi ovunque, i governi non sanno bene che cosa fare. E’ utile tener presente questo quadro perturbato per comprendere bene la manovra italiana di finanza pubblica, anche se tutto ciò può rappresentare solo un’attenuante per un provvedimento di politica economica purtroppo insufficiente, forse persino controproducente. Tale provvedimento va collocato, prima di tutto, nell’orizzonte culturale del mondo politico che appare caratterizzato da due atteggiamenti di fondo. Il primo, che riguarda soprattutto la maggioranza, è un rifiuto viscerale ad accettare la realtà e la gravità della crisi. La crisi viene considerata non già una conseguenza di debolezze intrinseche dell’economia italiana bensì un fatto esterno non prevedibile, una tegola che ci è caduta addosso. Prima di questo spiacevole incidente, sembra di capire, l’Italia stava andando benissimo. In secondo luogo vi è la lontananza del mondo politico dai cittadini che impedisce ai parlamentari di cogliere sia il risentimento crescente per i loro innumerevoli privilegi sia le difficoltà della vita di tutti i giorni per i normali cittadini. Il presidente del Consiglio ha «un cuore che gronda sangue» per gli inasprimenti fiscali ma i bilanci famigliari degli italiani cominciano a grondare debiti: il tasso di risparmio delle famiglie è a livelli minimi da decenni, l’indebitamento delle stesse ai massimi. La ricchezza finanziaria, ossia i risparmi accumulati nel tempo dalle famiglie, si sta sciogliendo rapidamente. Questa non comprensione di fondo dell’eccezionalità della situazione sia internazionale sia interna ha indotto il governo a non far uso di strumenti eccezionali. Dal presidente del Consiglio è arrivato un secco ultimatum a un’imposta patrimoniale, troppo lontana dalle sue promesse elettorali; dalla Lega Nord è venuto un ultimatum altrettanto secco alla modificazione dei meccanismi previdenziali, probabilmente perché il nucleo duro dell’elettorato di quella forza politica è costituito da persone ormai prossime alla pensione. La manovra ha quindi dovuto far leva soprattutto su strumenti tradizionali: un giro di vite fiscale, verso i soliti soggetti, un taglio alle spese, più una manciata di interventi minori (dalla soppressione dei Comuni più piccoli all’obbligo per i funzionari pubblici a volare in classe economica, alla razionalizzazione di alcune festività e forse anche alla tassazione delle rendite finanziarie) che vanno nella direzione giusta ma che non bastano a ribaltare un giudizio negativo. Tale giudizio deriva dalla constatazione che in questa finanziaria non ci sono misure per favorire la crescita mentre i provvedimenti previsti molto probabilmente aggraveranno il rallentamento già in atto, determinando forse una nuova contrazione del prodotto lordo. Il governo non riesce infatti a far balenare alcuna luce in fondo al tunnel. Pur di vedere questa luce, probabilmente gli italiani avrebbero accettato una manovra più severa in cui una parte delle risorse raccolte fossero state destinate a stimoli alla produzione. Il governo si propone invece come sconsolato gestore di una crisi alla quale non si intravede alcun termine. L’«effetto annuncio» di quest’assenza di nuovi orizzonti è sicuramente molto negativo. Prima ancora di subire gli inasprimenti fiscali, gli italiani modificheranno in senso restrittivo i propri comportamenti di spesa, come già avevano cominciato a fare nei mesi scorsi. Per conseguenza, il pericolo di un calo generalizzato della domanda di beni di consumo è purtroppo reale, così come lo è quello di un rinvio dei programmi di investimenti da parte delle imprese. Minori consumi e minori investimenti implicano minori entrate fiscali, con il pericolo di innescare un, sia pur lieve, movimento di contrazione. A un governo che non sa offrire speranze fa da contrappunto una popolazione con orizzonti angusti alla quale manca il soffio del cambiamento. La forza politica che, sotto vari nomi - da Forza Italia a Popolo della Libertà - fa capo al presidente del Consiglio era sorta all’insegna dell’entusiasmo e dell’ottimismo. Il volto teso del presidente del Consiglio, non più entusiasta né particolarmente ottimista, che annuncia provvedimenti restrittivi «tradizionali» è prima di tutto l’immagine di una sconfitta politica. Vi è inoltre il pericolo di rilevanti tensioni sociali. A seguito dei tagli agli enti locali, introdotti senza troppo riguardo per l’efficienza, la manovra darà origine a una serie di disservizi e di scontentezze che possono costituire la premessa a un Paese più cupo. I tagli agli enti locali significheranno infatti strade più sporche e autobus più cari, minore assistenza agli indigenti e agli handicappati, minori iniziative culturali. I dipendenti pubblici, presi di mira dal provvedimento, si sentiranno trattati in blocco come fannulloni e malfattori, ci sarà animosità verso i lavoratori autonomi, toccati solo leggermente dagli inasprimenti fiscali. Forse non ci sarà macelleria sociale ma quasi certamente una macelleria della qualità della vita. Vi è una modesta possibilità che queste prospettive negative possano essere quanto meno alleggerite nel corso della discussione parlamentare se l’opposizione saprà dare contributi correttivi e se la maggioranza li saprà accettare; a questa speranza si deve aggiungere quella che la congiuntura internazionale migliori e che un po’ di stimolo derivi dalla domanda estera. Due rondini, però, non fanno primavera. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9096 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il porcellum delle manovre Inserito da: Admin - Agosto 30, 2011, 10:21:31 am 30/8/2011
Il porcellum delle manovre MARIO DEAGLIO Le notizie sul contenuto della manovra-bis sono state diffuse, per puro caso, quasi contemporaneamente al comunicato dell’Istat sulla fiducia dei consumatori, che si colloca a un livello bassissimo. Se si rifacesse l’indagine oggi, è facile immaginare che il livello sarebbe più basso ancora. Nelle stesse ore, il Fondo monetario internazionale, senza conoscere il contenuto della manovrabis, aveva sostanzialmente dimezzato le già basse stime sulla crescita dell’Italia. Se dovesse rifare i calcoli oggi, ci collocherebbe ancora più in basso. Negli anni d’oro della Prima Repubblica, c’erano almeno 50-70 parlamentari di tutti i partiti che sapevano «leggere» i conti pubblici. Oggi, se va bene, i parlamentari non analfabeti in materia si contano sulle dita di una mano e i politici, per rimediare al proprio analfabetismo, si devono affidare a ministri che sono tecnici prima che politici. Questa manovra-bis è il frutto della generale riduzione del livello di competenza e dell’aumento del livello di pressappochismo del mondo politico. È uno sforzo da dilettanti, messo assieme in un paio di settimane, senza adeguati supporti tecnici, esclusivamente per rispondere a una pressante richiesta europea. È una manovra messa a punto in riunioni private, il risultato di continui patteggiamenti senza riguardo per il quadro complessivo. È il «porcellum» delle manovre; così come la legge elettorale ha ingabbiato la vita politica italiana, i provvedimenti resi noti ieri sera rischiano di uccidere qualsiasi stimolo alla crescita. Chi ha stilato il testo della manovra-bis non ha calcolato la dimensione giuridica: togliere dal calcolo delle pensioni gli anni di università riscattati significa appropriarsi di un versamento già effettuato dai lavoratori. Proporre un percorso costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione delle province (che, se va bene, richiederà un paio d’anni, ossia più della durata della legislatura) significa prendere in giro il cittadino, che, già al minimo della fiducia come consumatore lo è probabilmente anche come elettore. La manovra-bis non sembra poggiare su alcuna previsione di crescita, su alcuna valutazione dei contraccolpi, in termini di riduzione della domanda, che le nuove misure certamente provocheranno. Dall’esterno si ha la sensazione di assistere ad una sorta di «mercato delle vacche»: la Lega vuole a tutti i costi che non si tocchino le pensioni e in cambio di varie concessioni su altri punti. La politica più rozza prevale sull’economia. Gli italiani lavoratori, consumatori ed elettori - avevano la legittima aspettativa di meritarsi qualcosa di più. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9144 Titolo: MARIO DEAGLIO. La manovra del malessere italiano Inserito da: Admin - Settembre 03, 2011, 11:41:19 am 3/9/2011
La manovra del malessere italiano MARIO DEAGLIO La cura economica anticrisi proposta dagli americani - consistente nell’immettere quantità molto ingenti di nuova liquidità nell’economia degli Stati Uniti e, per conseguenza, in quella mondiale - non ha funzionato, anzi si sta rivelando un vero e proprio disastro: moltissimo debito e niente crescita, minaccia di inflazione e occupazione che non riparte. Le Borse dei Paesi ricchi hanno perso il 10-15 per cento dall’inizio di agosto e nella giornata di ieri hanno subito una nuova, forte caduta. L’orgoglioso «modello tedesco» che doveva trainare la grande ripresa europea si ritrova con crescita prossima allo zero. Si sta duramente prendendo atto che, per uscire da questa crisi, non serve, o non è sufficiente, stampare moneta, come ha fatto il governatore americano Bernanke; si deve anche prendere atto che non serve neppure ricercare a tutti i costi l’azzeramento dei deficit dei bilanci pubblici, come invece continua a ripetere il governatore Trichet dalla sede della Banca Centrale Europea a Francoforte. Nessuno però sa bene che cosa fare, meno che mai i governi europei impegnati nella messa a punto di manovre e leggi finanziarie all’insegna della confusione, in un orizzonte dominato da inquietudini politiche di breve periodo, ossia da preoccupazioni elettorali prima che economiche, e dalla palpabile carenza di grandi visioni. In questo panorama non allegro a quelle generali si sommano le specifiche difficoltà della manovra italiana di bilancio. Una manovra cucita di giorno, all’inizio in un’atmosfera quasi festiva e campestre, nella casa del presidente del Consiglio e scucita di notte, come la tela di Penelope, via via che i calcoli degli esperti mettevano in luce le incongruenze, le difficoltà pratiche, l’impossibilità della realizzazione delle decisioni affrettatamente prese poche ore prima. Una manovra abbozzata sulla base di valutazioni molto approssimative, talora grossolanamente errate, circa il numero degli italiani toccati dai vari provvedimenti, gli effetti generali derivanti dal possibile taglio di voci fondamentali della spesa pubblica locale e, più in generale, le conseguenze macroeconomiche della riduzione concordata con l’Unione Europea. Una manovra della quale il presidente del Consiglio, lasciando da parte nozioni elementari di economia, ha dichiarato - e i suoi ministri hanno implicitamente concordato con lui - che conta solo il totale, perché imposto dall’Europa, non come a questo totale si arriva. Ne è derivato un provvedimento cupo, disordinato, che non dà alcuna speranza, fatto in buona parte di tagli e ancora di altri tagli, di cavilli e di altri cavilli ancora. E quando i tagli sono troppo grossolani, e i cavilli troppo evidentemente vessatori, li si elimina dal testo e si attribuisce la somma mancante a una generica «lotta all’evasione», come una volta si diceva «Dio provvederà», senza spiegare come e perché questa lotta all’evasione dovrebbe avere risultati migliori di quelli del passato. L’idea di spostare risorse da un tipo di impiego a un altro per cercare così di far funzionare qualche meccanismo di stimolo, non è stata presa in considerazione. Ugualmente non si sono tenute in alcun conto le ultime notizie congiunturali che indicano un preoccupante rallentamento dei consumi delle famiglie già prima della manovra. Continuare su una linea esclusivamente restrittive non solo equivale a versare sale sulle ferite ma può cancellare le speranze per il futuro e aumenta le probabilità di una nuova recessione. E’ naturale che, in questa situazione, la Commissione Europea abbia ieri diplomaticamente espresso «dubbi» - che celano un giudizio pesantemente negativo - su questa «miracolosa» lotta all’evasione, dalla quale dovrebbe derivare un gettito che, nelle stime del governo, è prodigiosamente aumentato nel giro di pochi giorni senza che si spieghi da che cosa derivi questo prodigio. La reazione dei mercati è stata assai meno diplomatica: la differenza nella quotazione dei titoli decennali del debito pubblico italiano rispetto a quelli tedeschi (ritenuti i più sicuri d’Europa) ha raggiunto il 3,3 per cento, il che significa che, al fine di cautelarsi contro il «rischio Italia», per prestare denaro a lungo termine allo Stato italiano i mercati esigono un tasso di interesse più che doppio di quello che richiedono per prestar denaro allo Stato tedesco. Si tratta del differenziale più alto da quando la Banca Centrale Europea ha attivato gli acquisti concordati per difendere le quotazioni. In un’atmosfera mondiale di malessere diffuso e di diffusa sfiducia che ha portato ieri la quotazione dell’oro a un ennesimo record, l’Italia appare in più colpita da uno specifico e grave «malessere italiano», fatto di miopia e disorientamento, preoccupazione e sfiducia, al quale contribuisce anche la scarsità di proposte coordinate e complete provenienti dall’opposizione. Per superarlo occorre prima di tutto prenderne atto e non rifugiarsi, come gran parte del mondo politico, in una rassegnata ignoranza o in un’arrogante indifferenza. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9156 Titolo: MARIO DEAGLIO. Germania, troppa virtù fa male Inserito da: Admin - Settembre 10, 2011, 10:54:57 pm 10/9/2011
Germania, troppa virtù fa male MARIO DEAGLIO Le dimissioni a sorpresa di Juergen Stark - rappresentante tedesco nel comitato esecutivo della Banca Centrale Europea e «padre» del «patto di stabilità» al quale è ancorato l’euro - sono il risultato di uno specifico e crescente malessere tedesco più che della solita debolezza europea. Si accompagnano a molti interrogativi sulla capacità della Germania di continuare a essere indefinitamente la «prima della classe» e sulle linee-guida della politica economica del governo tedesco e, naturalmente, complicano gravemente il panorama economico-finanziario del continente. Sullo sfondo c’è il clamoroso taglio da parte dell’Ocse alle previsioni della crescita tedesca, pari all’incirca a zero nel secondo trimestre del 2011 con la possibilità di scendere a -1,4 per cento nel quarto trimestre. Il che può far sembrare l’Italia maestra di crescita economica e fa sospettare una verità molto scomoda: il «modello tedesco» di ripresa, che pur presenta molti lodevoli aspetti, specie nella gestione delle imprese, non sta funzionando a livello di sistema. Del resto la «virtuosa» Germania è molto meno virtuosa di quel che sembra: come ha scritto Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di tre giorni fa, se al debito pubblico si aggiungono i debiti del KfW (un ente pubblico simile al nostro vecchio Iri) il debito complessivo di Berlino sale dall’80 al 97 per cento del prodotto interno lordo. Si aggiungano l’esposizione di molte banche tedesche a titoli «difficili» - sovrani e non - e le non brillanti finanze di molti Laender, le regioni tedesche. Di fronte al manifestarsi di queste debolezze, il liberismo tedesco che pone in cima alle priorità il pareggio del bilancio di tutti i Paesi della zona euro, non sa bene quali risposte offrire. L'Fdp, il partito liberale tedesco, sovente schierato su posizioni ultra-liberiste, è uscito letteralmente polverizzato dalle ultime elezioni regionali, svoltesi nel Meclemburgo domenica scorsa, dove è crollato dall’8,8 al 2,7 per cento, a coronamento di una stagione di sconfitte durissime in elezioni locali; queste sconfitte hanno, tra l’altro, provocato le dimissioni dalla carica di segretario generale del partito del ministro degli Esteri, Westerwelle. Se si dovesse andare oggi alle urne il partito avrebbe, secondo i sondaggi, meno del 5 per cento dei voti e nessun suo rappresentante entrerebbe nel Parlamento federale. Le dimissioni di Stark, un economista di stampo nettamente liberista, che ha svolto tutta la sua carriera all’interno della Bundesbank, la banca centrale tedesca, vanno collocate in questo quadro difficile. Stark, «diplomatico» e gradualista, si era opposto alla ristrutturazione del debito greco e riteneva necessario che le banche che avevano aiutato la Grecia a indebitarsi l’aiutassero ora a sdebitarsi, prendendo su di sé una parte degli oneri del rimborso. Possono perciò essere lette come un’ammissione di impotenza più che come una protesta nei confronti dell’aiuto che la Banca Centrale Europea sta dando ai Paesi in difficoltà, tra cui l’Italia, con l’acquisto dei loro titoli sovrani per sostenerne la quotazione. Quest’aiuto, insomma, serve a poco e non porta ad alcuna soluzione. Le sue dimissioni appaiono direttamente collegabili a quelle di un altro importante banchiere centrale tedesco, Axel Weber, presidente della Bundesbank che lasciò il suo incarico all’inizio di aprile, anch’egli per «motivi personali», rinunciando alla possibilità di succedere al governatore Trichet a capo della Bce e rifugiandosi a fare il professore all’Università di Chicago, cittadella (oggi forse assediata) del liberismo spinto. Dietro a tutte queste dimissioni e alle sconfitte elettorali c’è l’incapacità del liberismo di dare risposte immediatamente positive alla crisi, ossia risposte che non passino per una riduzione ulteriore della spesa pubblica e un aumento della disoccupazione. La Germania credeva di essere immune da queste scelte scomode e adesso sa di non esserlo. Sa anche che, se lascia affondare l’Italia e la Spagna (ma neppure la Francia è in condizioni sicurissime, tanto che sta apprestando misure non troppo dissimili da quelle italiane) avrà ripercussioni importanti sulla propria economia: le conseguenze di una crisi dura di questi due Paesi sull’economia tedesca sarebbero almeno nell’ordine di grandezza di un milione di disoccupati in più. Questo sarebbe il prezzo di insegnare agli altri la «virtù finanziaria». Forse i tedeschi stanno imparando che in economia, così come nessun pasto è gratis, neppure la virtù si può praticare senza conseguenze. Un eventuale governo rosso-verde (ossia una coalizione tra il partito socialista, altre formazioni della sinistra tedesca e i «verdi» ecologisti) che succedesse all’attuale avrebbe certo molto più a cuore il numero dei disoccupati, che cercherebbe di ridurre al minimo, che il saldo del bilancio pubblico e l’ammontare del debito pubblico. Il compito di Mario Draghi, prossimo governatore della Banca Centrale Europea, che assumerà il suo incarico a novembre, si delinea come quello di evitare alla zona euro la caduta nel baratro che l’insistenza eccessiva sulla virtù finanziaria le ha spalancato davanti. Per questo non saranno certo sufficienti le risorse a disposizione della Banca e occorrerà agire cercando di imporre ai mercati regole più restrittive che facciano da contrappeso alle regole restrittive di finanza pubblica che gli Stati si sono autoimposti. Per l’Italia, al momento, c’è ben poco da fare: con una manovra che ridurrà pressoché a zero la nostra già scarsissima crescita, non rimane altro che aspettare le ondate della tempesta monetaria e finanziaria, contro la quale abbiamo pochissime difese, sperare che non facciano troppi danni e diano magari una spinta decisiva al rinnovamento della nostra classe politica. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9179 Titolo: MARIO DEAGLIO. Separare la speculazione dal credito Inserito da: Admin - Settembre 25, 2011, 11:07:40 am 23/9/2011
Separare la speculazione dal credito MARIO DEAGLIO Un unico termine è veramente appropriato per descrivere la situazione di ieri sui mercati internazionali, una situazione in cui tutto è andato giù, le azioni come i titoli di stato, il petrolio come l’oro, le piazze asiatiche come quelle europee e americane. Si tratta di un vocabolo che i mezzi di informazione usano malvolentieri per le implicazioni negative che evoca. Questo termine è «panico», un senso misterioso di sgomento a tutto campo, una voglia di scappare a qualsiasi costo che fa abbandonare, a chi ne è vittima, qualsiasi pretesa di razionalità. Ebbene, per diverse ore, ieri, gran parte degli operatori finanziari di tutto il mondo è stata vittima di un gigantesco attacco di panico. Quel che più colpisce non è l’entità della caduta dei listini (molto rilevante, ma ormai ci siamo abituati) bensì la qualità di tale caduta, il senso di confusione, l’incapacità di esprimere per più di dieci minuti comportamenti coerenti, la tendenza ad accomunare, in maniera isterica, titoli «buoni» e «cattivi» in un unico grande fascio da bruciare sul falò della caduta dei listini. Come è spesso avvenuto negli ultimi mesi, sperabilmente già oggi e nei prossimi giorni le angosce si placheranno e rialzi temporanei attenueranno, o addirittura cancelleranno, le cadute di ieri. Questa auspicabile pausa - perché solo di una pausa verosimilmente si tratta - lascerà tempo per pensare con un minimo di pacatezza ai rimedi alla grave situazione dell’economia e della finanza; una situazione, tanto per intenderci, che può avere su un Paese come l’Italia effetti ben più gravi di quelli, già molto seri, delle attuali disfunzioni politiche. E’ prima di tutto necessario constatare che ci troviamo di fronte a un fallimento generalizzato di tutte le politiche anticrisi. L’attacco di panico di ieri si è infatti verificato immediatamente dopo l’annuncio della Fed, la banca centrale americana, dell’«operazione twist», ossia della vendita da parte della stessa Fed di una grande quantità di titoli a breve e del contemporaneo acquisto di titoli a lungo termine, che infatti sono saliti di prezzo mentre parallelamente il loro rendimento è calato. In questo modo la Fed spera(va) di stimolare gli operatori a uscire dal circuito finanziario i cui rendimenti erano stati abbassati per investire nell’economia reale e attivare la crescita. Ha probabilmente ottenuto l’effetto contrario. L’ennesimo rimedio della Fed, che fa seguito a due ondate di immissione di nuova moneta in enormi quantità, i cosiddetti quantitative easing, non sta funzionando, come non sta funzionando nessuna delle misure che, dal 2009 a oggi, sono state tentate sulle due sponde dell’Atlantico per combattere la crisi. C’è una generale impressione di impotenza, di cui possono essere ben prese a simbolo le norme di Basilea 3 che regolano l’attività delle banche e le obbligano a iperproteggersi e proprio per questa protezione eccessiva fanno sì che la liquidità non riesca a trovare la strada dell’economia. E nel frattempo si moltiplicano i sintomi dell’insofferenza dell’opinione pubblica, come dimostra - ultimo episodio tra tanti - l’«occupazione», alcuni giorni fa, di Wall Street, la strada in cui ha sede la Borsa americana, simbolo del capitalismo finanziario, da parte di un numero non piccolissimo di manifestanti. La consapevolezza di non avere una ricetta dovrebbe indurre governi e banche centrali ad atteggiamenti più pragmatici, mentre invece avviene l’esatto contrario: le agenzie di rating rendono più negativo il giudizio sul debito pubblico di un Paese o sul bilancio di una banca ed ecco che mercati e governi immediatamente si adeguano con conseguenze che generalmente peggiorano la situazione di quel Paese o di quella banca. Se la tendenza prosegue immediatamente si chiede a quel Paese di varare nuove misure. Si studiano con colossale indifferenza provvedimenti che colpiscono duramente non solo i bilanci famigliari ma i progetti di vita di milioni di persone sulla base dell’andamento di pochi giorni o poche settimane delle quotazioni dei titoli pubblici di quel Paese. Il vero coraggio che oggi i cittadini di tutti i Paesi colpiti dalla crisi devono richiedere ai loro governanti è quello di sottrarsi almeno parzialmente alla tirannia anonima del mercato mondiale. Il che significa sottoporre i mercati e gli operatori a regole che riducano la carica distruttiva, che questi mercati purtroppo hanno dimostrato di possedere senza distruggerne il meccanismo che invece presenta numerosi aspetti positivi; regole che limitino il potenziale speculativo senza alterare il funzionamento base dei mercati finanziari. Un esempio di sviluppi in questa direzione viene dalla Gran Bretagna, dove il governo ha introdotto una nuova legge che dovrebbe separare, all’interno delle banche, il circuito speculativo dal normale circuito del credito. Il circuito speculativo dovrebbe poi essere sottoposto a norme più severe: non si può riservare la severità ai cittadini normali e poi pensare tranquillamente che al mondo della finanza internazionale tutto debba essere permesso. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9232 Titolo: MARIO DEAGLIO. La vera partita per il Paese Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2011, 05:07:47 pm 4/10/2011
La vera partita per il Paese MARIO DEAGLIO Con la decisione della Fiat di uscire dalla Confindustria, l’amministratore delegato Marchionne si configura una volta di più come avversario del «gattopardismo», un termine che vuole indicare un cambiamento di facciata che lascia intatti i sottostanti meccanismi e rapporti di potere. Derivato da «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, dove il nipote del protagonista, Tancredi, pronuncia una frase divenuta emblematica della realtà italiana: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» descrive purtroppo molto bene la nostra disperante immobilità. Marchionne, può essere ammirato o criticato, può trovare consensi o dissensi ma di sicuro non è un Gattopardo. La sua azione di amministratore delegato della Fiat continua a configurarsi come il principale elemento di discontinuità, o, se si preferisce, di rottura, con la tradizione italiana di rapporti tra imprese e politica, tra imprese e mondo del lavoro, tra imprese e estero. La decisione del 2009 di correre l’avventura americana con l’ingresso nel capitale della Chrysler, un’impresa più grande della Fiat - di cui la Fiat oggi detiene la maggioranza assoluta - non rientra certo negli schemi normali del capitalismo italiano, spesso molto attenti a non «offendere» i grandi concorrenti stranieri ma piuttosto a collaborare con loro; così come non vi rientrano gli accordi sindacali relativi agli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori e ex Bertone che hanno, in varia misura e con varie modalità, scardinato la bene oliata macchina delle normali contrattazioni sindacali; e il disinteresse che in più di un’occasione recente la Fiat ha mostrato verso gli sgravi fiscali per sostenere la domanda di auto in Italia. La strategia degli investimenti di un gruppo delle dimensioni della Fiat non può non condizionare in gran parte la politica industriale dell’Italia, specie quando questa politica, come è successo negli ultimi 2-3 anni, può considerarsi praticamente inesistente. Quella che si è venuta definitivamente precisando con gli annunci di ieri è sicuramente una strategia scomoda, che, per di più, va contro a molta saggezza convenzionale. Il ritorno in Italia dalla Polonia di lavorazioni industriali «pesanti», la conferma di un ruolo tecnologico-produttivo importante per lo stabilimento torinese di Mirafiori, il tentativo di riaccendere la competizione della Fiat nel settore delle auto di qualità, in competizione con grandi case straniere, a partire dallo stabilimento ex Bertone sono mosse audaci, specie in un momento di difficile congiuntura mondiale come quello presente. Sono scommesse importanti, dall’esito non scontato, in un mondo industriale che non ama molto scommettere e che cerca spesso garanzie pubbliche e coperture bancarie, oltre che l’assenso informale del sindacato, a gran parte delle proprie iniziative. Tutto ciò non significa che il mondo industriale non possa trovare una sua dimensione internazionale o che l’ambiente in cui operano le imprese italiane sia oggettivamente privo di punti di forza; di sicuro, però, tale ambiente si è rivelato poco adatto al quadro competitivo che, per il momento almeno, prevale nel mondo. Per valutare bene la portata dell’inadeguatezza italiana occorre ricordare che da vari anni nessuna grande impresa, italiana o estera che sia, compie investimenti importanti nel Mezzogiorno - se si eccettua qualche iniziativa dell’industria pubblica - e che il resto d’Italia vive in un clima economico stagnante in marcato contrasto, anche in questo periodo di crisi, con il carattere estremamente dinamico dell’economia mondiale. Una ricerca del Fraser Institute che viene presentata in questi giorni a Torino dal Centro Einaudi, pone l’Italia al 70˚ posto nel mondo e al terzultimo in Europa per quanto riguarda la libertà economica; nel 2008 era al 66˚ posto, nel 2003 al 50˚, 10 anni fa al 35˚. Questi numeri parlano da soli. O forse no. L’Italia può anche legittimamente scegliere la strada del «piccolismo», dell’irrilevanza internazionale, del Paese-museo; delle relazioni sindacali in cui si stabilisce che tutto cambi, come con l’articolo 8 della recente manovra che consente di regolare con accordi anche i licenziamenti individuali, salvo poi procedere a un’intesa Confindustria-sindacato che impegna i contraenti a non applicare tale articolo. Precisamente tale intesa è stata la causa prossima dell’uscita della Fiat dalla Confindustria. L’importante in questa vicenda non è stabilire se Marchionne abbia ragione o torto; è prima di tutto importante che gli impegni presi vengano rispettati e sin qui questo è successo. Occorre poi che l’Italia, di tutti i colori politici e di tutte le convinzioni, decida se vuole cercar di giocare una partita economica di primo piano. Se lo vuol fare non potrà difendere i diritti attuali di tutti se non riducendo di fatto i diritti di chi è senza lavoro e delle nuove generazioni, come purtroppo sta succedendo. Di fronte a alternative del genere, rinviare le scelte e fare i Gattopardi non serve a nulla. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9279 Titolo: MARIO DEAGLIO. Banche, una riforma necessaria Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2011, 06:13:32 pm 9/10/2011
Banche, una riforma necessaria MARIO DEAGLIO Il governo tedesco, e con esso l’Unione Europea, è pronto a spendere qualsiasi somma per salvare le grandi banche, le cui gravi difficoltà sono emerse nelle ultime settimane, praticamente senza porre condizioni preliminari. Lo stesso governo tedesco e la stessa Unione Europea non sono disposti ad aiutare, oltre gli impegni già presi, i Paesi in difficoltà - e soprattutto la Grecia - se prima questi Paesi non adempiono a condizioni preliminari molto pesanti con riduzione sensibile del livello di vita della maggioranza dei cittadini per un periodo certamente non breve. Due pesi e due misure, quindi. In questi due pesi e due misure sta la contraddizione di valori alla base della crisi che stiamo vivendo, che è precisamente crisi di valori prima di essere crisi di meccanismi finanziari. Tale contraddizione è venuta lentamente alla luce nel corso degli ultimi mesi, man mano che si dissolveva l’ottimismo superficiale di chi riteneva prossima una rapida ripresa. In altre parole, l’attuale capitalismo finanziario non sembra fatto per le persone, ma per le grandi banche internazionali, considera di fatto secondari gli interessi della gente rispetto alla stabilità del sistema, delle stesse grandi banche. Non si tratta certo di una posizione priva di logica. I governi che si preparano ad aiutare ancora una volta le banche tedesche e francesi, belghe e olandesi sanno bene che le banche sono un ingrediente essenziale del sistema dei pagamenti e che, se le banche venissero lasciate fallire, la vita di tutti i giorni sarebbe gravemente a rischio perché la gente non saprebbe più come pagare e come farsi pagare. Non è un caso che, in Grecia e altrove, stiano facendo la loro ricomparsa forme antiche di scambio senza moneta, tra gente che di moneta ne ha poca, facilitate da uno strumento moderno come il computer: sul computer cerco chi sia disposto a darmi lezioni di pianoforte in cambio, tanto per fare un esempio, della tinteggiatura della casa. Solo una quantità molto limitata di scambi può però svolgersi senza moneta. E quindi le banche e le istituzioni affini vanno tenute a galla anche se questo può implicare pesanti sacrifici individuali e collettivi. Sin qui siamo nella sfera del ragionevole. Ciò che non è ragionevole, è invece che per le banche così tenute a galla non cambi nulla o quasi: non i dirigenti, non le retribuzioni, non le regole e le procedure interne né quelle dei mercati. Ci si limita a turare il buco e a sperare che le banche abbiano «capito la lezione» e si comportino meglio in futuro: così ha fatto il presidente Obama che ha di fatto apportato solo mutamenti secondari ai rimedi anticrisi abbozzati dal suo predecessore, equivalenti di fatto a dare carta bianca alle banche su tutto. Il fallimento della ripresa produttiva sta contrapponendo questo mondo bancario in cui non cambia nulla a un mondo reale in cui milioni di persone sono costrette a ridimensionare stili di vita, ridurre speranze sul futuro, vivere in maggiore incertezza. La contrapposizione tra i cambiamenti degli uni e i non-cambiamenti degli altri provoca «indignazione», è cioè un’offesa alla dignità prima ancora che un danno materiale. L’indignazione sta correndo veloce, spesso in forme pacifiche come i cortei sempre più lunghi di chi a New York sfila contro la Borsa proprio a Wall Street dove la Borsa ha la sua sede. Nei giorni scorsi si sono aggiunte le manifestazioni degli studenti italiani che hanno lanciato uova e vernice contro sedi bancarie, anche se per la verità le banche italiane, soggette a una vigilanza molto severa, sono pressoché totalmente estranee a queste situazioni. L’indignazione esige una risposta che non può certo essere repressiva ma deve portare a un nuovo modo di funzionare del sistema bancario. Ci stanno provando gli inglesi con un progetto di riforma bancaria mirante a separare nettamente, all’interno delle singole banche, la normale attività bancaria dall’attività di investimento e di speculazione; si tratterebbe in parte di un ritorno al passato, ossia alle riforme bancarie con le quali si arginò la crisi degli Anni Trenta, che ridurrebbe sostanzialmente il volume delle attività finanziarie più tipicamente speculative, il potere e l’importanza delle grandi banche. Vi è una sottile ironia nel fatto che la finanza internazionale inviti i singoli Paesi a «fare le riforme» (Jean-Claude Trichet, il governatore uscente della Banca Centrale Europea l’ha ripetuto, quasi meccanicamente, per anni in pressoché tutte le sue dichiarazioni pubbliche) il che implica un’esortazione a realizzare complessi programmi di ingegneria sociale, mentre la stessa finanza internazionale non riesce a riformare se stessa. Mario Draghi, che è sul punto di prendere il posto di Trichet, potrebbe avere maggiori possibilità di successo, data la sua esperienza di prima mano della complessità e della necessità del cambiamento finanziario, quale presidente del Financial Stability Board, l’unico organismo internazionale interamente dedicato allo studio e al miglioramento del sistema finanziario internazionale. Alle riforme che riguardano «la gente», più che mai necessarie, specie in un Paese come l’Italia, come lo stesso Draghi ha ricordato in un vibrante intervento venerdì scorso, devono fare da contrappunto le riforme che riguardano «le banche», specie nei Paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania e agli Stati Uniti le cui banche sono largamente all’origine della crisi attuale. Senza questo contrappunto, senza questo parallelismo ogni progetto di uscita dalla crisi è fondato sulla sabbia. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9298 Titolo: MARIO DEAGLIO. Merkel-Sarkò e la polmonite italiana Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2011, 06:07:00 pm 22/10/2011
Merkel-Sarkò e la polmonite italiana MARIO DEAGLIO L’Europa che è uscita dalla settimana finanziaria conclusasi ieri è un’Europa ben diversa da quella di una settimana fa. Due giorni fa, infatti, in quello che è stato definito il «supervertice» di Francoforte, è nato l’embrione operativo di un governo europeo, una sorta di «esecutivo di fatto», privo di qualsiasi investitura, di durata forse limitata ma dotato, appunto, di forza esecutiva. Tale anomalo governo detiene la chiave delle politiche economiche: nei prossimi mesi, i governi ufficiali di tutta Europa saranno chiamati solo più a mettere a punto nei dettagli, e i Parlamenti soltanto a ratificare, le manovre restrittive – possibilmente con qualche «ricostituente» espansivo – che rappresentano la via europea per tentare di uscire dalla crisi. Dalle decisioni sui tagli ai bilanci pubblici questo «governo europeo» non potrà escludere la Francia, Paese in cui comincia ad affiorare una situazione strutturale debole, e forse neppure la Germania, dove due giorni fa, all’asta più recente, nessuno voleva più comprare i mitici Bund tedeschi. E dove ieri è stato reso noto l’indice della fiducia delle imprese tedesche che ha fatto registrare il quarto mese di caduta consecutiva. E dovrà fare in fretta, perché ai primi di novembre nella città francese di Cannes si svolgerà qualcosa di più del normale festival cinematografico: vi si terrà la riunione dei G-20 (il gruppo delle maggiori economie del mondo, in cui Cina, India e Brasile assumono atteggiamenti sempre più severi) dove gli europei dovranno spiegare perché è bene aiutare l’euro e non lasciarlo affondare. Questo autonominato «comitato di salute pubblica europea» non è certo la migliore delle soluzioni ma rappresenta l’ultima risorsa di un’Europa che, per almeno due anni, si è gingillata con la crisi e non ha saputo prendere alcuna decisione su nessuno dei problemi importanti che ha davanti. Il suo asse portante è quello tradizionale franco-tedesco, e i suoi membri decisivi sono pertanto il Cancelliere tedesco e il Presidente francese. Anche se i loro Paesi rappresentano meno della metà della popolazione e del prodotto lordo dell’Unione Europea, tocca a loro l’ultima parola; ne fanno inoltre parte il governatore della Banca Centrale Europea (al supervertice di Francoforte erano presenti sia il governatore uscente, Jean-Claude Trichet sia quello entrante, Mario Draghi) e, quasi a far da segretario e notaio, il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, unico investito di un’autorità europea formale. Il direttore del Fondo Monetario Internazionale, la francese Christine Lagarde, era l’ospite esterno portavoce delle esigenze (non ancora del «diktat») della comunità finanziaria internazionale. Almeno dal punto di vista dell’informazione e del dialogo con l’opinione pubblica, questa nuova «Europa di fatto» muove però molto male i suoi primi e incerti passi. Anche i più piccoli screzi del confronto Merkel-Sarkozy sono rimbalzati – amplificati e deformati – sulle agenzie di stampa nel giro di poche ore, talvolta di pochi minuti, con l’effetto di una doccia scozzese sulle Borse di tutto il mondo, costrette a un continuo, disordinato saliscendi. Del resto, poche settimane fa, le dimissioni del rappresentante tedesco, Jürgen Stark, dal direttivo della Banca Centrale Europea vennero incautamente rese pubbliche un venerdì pomeriggio, a Borse aperte. I mercati finanziari mondiali persero mediamente il 3 per cento, il che avrebbe potuto essere evitato se la notizia fosse stata divulgata qualche ora più tardi. Una divulgazione a Borse chiuse avrebbe infatti dato tempo ai mercati di valutare (e ridimensionare) la gravità di quelle dimissioni. Oltre che cercare di parlar meno, la nuova, incerta, Europa finanziaria deve impedire ad altri di parlare troppo. Non è concepibile che i maggiori Paesi del mondo danzino al ritmo stabilito dalle agenzie di «rating» che quanto meno introducono un elemento di confusione, forse favoriscono la speculazione e comunque decidono autonomamente non solo il «voto» a singole banche e Paesi ma anche quali Paesi esaminare e come diffondere le notizie, il che ha accentuato le convulsioni delle Borse. Tutto questo non va: si potrebbe arrivare a proibire almeno temporaneamente l’attività di queste agenzie come ha proposto il commissario europeo ai servizi finanziari, Michel Barnier, e successivamente ad affiancarle, se non a sostituirle, con un servizio veramente indipendente, forse pubblico, con un «bollettino» delle valutazioni da rendersi note a date fisse. Se si fosse svolto un paio d’anni fa, questo «supervertice» avrebbe quasi certamente annoverato un rappresentante italiano, ma «sic transit gloria mundi», così tramonta la gloria di questo mondo, come ha detto il presidente del Consiglio italiano, in maniera gelida e piuttosto cinica, a proposito della morte del colonnello Gheddafi. In maniera sicuramente meno violenta e meno tragica, le sue parole latine potrebbero purtroppo riferirsi proprio all’Italia: la mancanza di una poltrona italiana al vertice di Francoforte è un chiaro segnale del declino economico del Paese, sempre più evidente nonostante gli sforzi per farlo apparire poco più di un semplice episodio congiunturale. In realtà, l’Italia non ha il raffreddore, ha la polmonite, anche se continua a curarsi come se avesse soltanto il raffreddore in un’Europa che, come dimostra il caso greco, sta perdendo la pazienza con chi fa soltanto finta di esser sano. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9349 Titolo: MARIO DEAGLIO. A Cannes senza tappeto rosso Inserito da: Admin - Novembre 01, 2011, 11:43:32 am 1/11/2011
A Cannes senza tappeto rosso MARIO DEAGLIO Grazie alla nascita di una bambina, il numero degli esseri umani presenti sulla Terra ha superato ieri i sette miliardi. Si tratta di una bambina asiatica, il che, del resto, è ragionevole perché in Asia si concentra più della metà delle nascite; mentre difficilmente avrebbe potuto essere europea, dal momento che dall’Europa proviene una piccolissima percentuale dei nuovi abitanti del pianeta. Tra una decina d’anni, questa bambina forse leggerà nei suoi libri di scuola che il mutamento relativamente lento degli equilibri mondiali, in atto ormai da un ventennio, ricevette un’accelerazione decisiva un paio di giorni prima della sua nascita. E che in Europa, un continente piccolo e lontano, pieno di vecchi e di debiti - dove di bambini ne nascono pochi e quei pochi hanno crescenti difficoltà a trovare un lavoro stabile e a impostare un proprio programma di vita - si arrivò a un momento cruciale in cui i governanti non sapevano bene come affrontare questi debiti. E che l’Italia, uno dei Paesi europei di più antica civiltà e di maggior indebitamento pubblico, si trovò nell’occhio del ciclone del mutamento: la fiducia dei mercati internazionali sulle sue possibilità di pagare i debiti toccò nuovi, preoccupanti, livelli minimi. I dolorosi tagli di successive manovre economiche rischiavano di servire a pagare interessi più alti invece che a ridurre il deficit pubblico. In questo senso, la giornata di ieri è stata un lungo susseguirsi di notizie economico-finanziarie non incoraggianti. In Italia l’inflazione di ottobre è risalita ai livelli di tre anni fa, anche a seguito dell’aumento dell’Iva introdotto dalla più recente manovra finanziaria, il che la dice lunga sulle possibilità di correzioni indolori dei deficit pubblici; sono contemporaneamente cresciuti anche la disoccupazione e i prezzi alla produzione dell’industria e il temibile «spread», ossia la maggiorazione che misura il «rischio Italia». A livello europeo, l’intesa Merkel-Sarkozy, peraltro ancora poco chiara su diversi punti importanti, non è stata ben ricevuta dai mercati finanziari e l’Ocse ha ridotto praticamente a zero le previsioni di crescita dell’Europa. Sull’altra riva dell’Atlantico ha avuto inizio la procedura fallimentare di MF Global, grande società di intermediazione finanziaria. I suoi debiti, oltre 40 miliardi di dollari, sono di un ordine di grandezza non troppo distante da quello della Grecia, il fallimento è dovuto anche a speculazioni sbagliate proprio sul debito greco, ma gli attentissimi valutatori delle agenzie di rating se ne sono accorti solo all’ultimo momento. Sempre ieri è stato reso noto che le famiglie americane negli ultimi mesi hanno ridotto i risparmi a meno del 4 per cento dei loro redditi; non hanno soldi per acquistare nuove case, per le quali non si escludono nuove cadute di prezzi. E molti, per di più, sono al freddo: oltre due milioni di abitazioni sulla costa orientale sono rimaste a lungo prive di luce e calore grazie a una tempesta di neve fuori stagione (e all’inefficienza della rete elettrica americana, nella quale si è investito poco perché i mercati hanno premiato assai più le operazioni finanziarie che quelle reali). È con queste premesse che tra due giorni si riuniranno a Cannes, in Francia, i rappresentanti delle venti maggiori economie mondiali. I mezzi di informazione talvolta li presentano come architetti di piani che rilanceranno l’economia globale, rimetteranno a punto i bilanci pubblici dei Paesi europei, ridisegneranno le istituzioni internazionali, ci faranno uscire (quasi) subito da questa crisi già troppo lunga. È molto più probabile che si tratti di uomini e donne spaventati di fronte ad andamenti di congiuntura e mercati che non sono in grado di controllare e dirigere, relativamente impotenti di fronte a una malattia economica che non segue gli andamenti previsti dai libri di testo. E che, come avverte un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, anch’esso reso noto nella frenetica giornata di ieri, potrebbe trasformarsi in grave crisi sociale: nei prossimi due anni sono necessari nel mondo ottanta milioni di nuovi posti di lavoro e si prevede che se ne creeranno soltanto la metà. Nella lunga storia del suo annuale Festival del Cinema, Cannes ha visto e vissuto molti tipi di storie; forse, però, nessuna è come questa anche perché lo spettacolo sarà dal vivo, senza schermo e senza tappeto rosso. Dobbiamo naturalmente sperare che, come spesso succede nei film e forse ancora più spesso nella vita, nonostante le premesse le cose si aggiustino: che la pasticciata intesa europea tenga, che le anchilosate economie ricche ripartano, che i mercati mondiali ritrovino almeno un poco della tranquillità perduta. Per far questo è probabilmente inevitabile intervenire sul funzionamento di questi mercati che, dopo essere stati veicolo di sviluppo, si sono trasformati in grave veicolo di crisi. Senza questi interventi è difficile che i posti di lavoro mancanti vengano davvero creati e il mondo potrebbe avvitarsi in una spirale depressiva priva di senso. Si deve quindi auspicare che la bambina asiatica nata ieri possa leggere, tra dieci anni, nei suoi libri di testo che, contro le aspettative della vigilia, da Cannes partì la stabilizzazione e la risistemazione dell’economia mondiale con le quali fu possibile affrontare a livello mondiale i problemi chiave dell’energia e dell’ambiente. E sull’Italia? Sarebbe meglio che la bambina asiatica non debba leggere niente perché vorrebbe dire che siamo ritornati a essere un Paese normale. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9383 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il vuoto che affonda il Paese Inserito da: Admin - Novembre 08, 2011, 10:08:20 am 8/11/2011
Il vuoto che affonda il Paese MARIO DEAGLIO Non c’è forse mai stata nel mondo, tanta attenzione per l’Italia come nella giornata di ieri. Non l’attenzione benevola che si riserva a un Paese curioso, noto per non rispettare sempre fino in fondo le regole ma dotato di inventiva e flessibilità, con i suoi paesaggi e i suoi musei; ma l’attenzione fredda e ostile di chi considera l’Italia come un rischio per tutti, di chi sa che da quel che succede in Italia può dipendere il futuro del sistema globale e anche il proprio. L’attenzione di chi ha visto il disastro greco e sa che un analogo disastro italiano sarebbe molte volte maggiore, sconvolgerebbe gli equilibri economici, già precari, di tutto il pianeta; e che, se questo dovesse succedere, subito dopo sarebbe la volta della Francia - che non a caso ieri ha varato il suo piano di austerità con aumento dell'Iva - e dopo la Francia, forse, degli Stati Uniti. I mercati pensano che l’Italia possa fare la differenza tra il collasso mondiale e la ripresa globale. In queste circostanze, Silvio Berlusconi ha smesso di essere considerato all’estero un signore un po’ strano che spesso fa battute imbarazzanti. Uno vicino al quale da un paio d’anni i capi di Stato e di governo degli altri Paesi non si fanno fotografare volentieri. E’ diventato una fonte, quasi «la» fonte di rischio, una mina vagante nel mare tempestoso di una crisi mondiale dalle dimensioni sempre maggiori. Ecco allora i media mondiali, la «Reuters» e il «New York Times», domandarsi se questo sia il «finale di partita» per l’Italia, ecco «Wall Street Journal» e «Financial Times» scoprire quanto stereotipata sia l’immagine dell’Italia e quanto poco il resto del mondo sappia di questo anello della catena mondiale divenuto improvvisamente debole. Mentre il resto del mondo si pone interrogativi così gravi, il presidente del Consiglio, assai prima di occuparsi degli affari di Stato, è in riunione, nella sua villa di Arcore, con i figli e con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che siede nel consiglio di amministrazione delle principali aziende di famiglia, con le Borse che esultano prematuramente per le dimissioni ormai ritenute questione di ore. Poi vede i vertici della Lega, forse su come avviare le «riforme» (di cui Umberto Bossi è il ministro responsabile), quelle riforme che l’estero interpreta in maniera così diversa da noi, che molti in Italia, opposizione compresa, sperano di fare soprattutto a parole. Solo più tardi parte per Roma, per andare a fare (ancora) il presidente del Consiglio. Il piano degli interessi personali di Silvio Berlusconi si contrappone così al piano dei problemi europei e dell’economia mondiale. Forse è sempre stato così ma il mondo non se ne era curato, così come non se ne erano curati molti italiani. Tra questi due piani, quello globale e quello personale, si colloca l’Italia, un’Italia costretta a farsi dettare le politiche e controllare i conti dai mercati globali perché ha difficoltà a pagare i debiti. Con il resto del mondo interessato soprattutto al programma, indipendentemente dal governo e il mondo politico italiano interessato soprattutto al governo, quasi indipendentemente dal programma. Quest’Italia si configura come un vuoto; un vuoto politico, con le dimissioni-non dimissioni del premier e con le forze politiche dell’opposizione incapaci di posizioni sufficientemente chiare. L’Italia purtroppo si configura anche, e forse è questo l'aspetto più preoccupante, come un terribile vuoto sociale, con quasi un giovane su quattro più di due milioni di persone in tutto - tra i 15 e i 29 anni che non lavora né studia, come ha messo in luce ieri una ricerca della Banca d’Italia, mentre di quel lavoro e di quello studio il Paese avrebbe grandissimo bisogno. In questo vuoto l’Italia rischia di affondare. Prima di tutto perché si tratta di un vuoto che costa. E’ possibile, anche se complicato, calcolare quanto costa al Tesoro un giorno in più di permanenza, in queste condizioni, di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Questo costo si misura in termini di maggiori interessi sul debito italiano che viene via via rinnovato a tassi fortemente crescenti, così che il beneficio che dovrebbe derivare all’erario dall’aumento dell’Iva viene divorato dall’aumento dei tassi. Oggi si misura in 500 punti base, cinque punti percentuali in più che il mercato pretende, come «premio per il rischio Italia» per sottoscrivere titoli italiani invece di titoli tedeschi. Vi è poi il costo occulto, dato dalla perdita di prestigio e di credibilità dell’Italia nel mondo della finanza, e non solo; un costo che gli imprenditori conoscono benissimo e il resto del Paese comincia a intuire in tutta la sua gravità. E’ con questo vuoto che il Paese deve fare i conti. Tutte le conquiste del passato, dalle posizioni sui mercati internazionali al peso politico all’interno dell’Unione Europea, ai diritti «acquisiti» di lavoratori e pensionati, tutto sembra essere risucchiato in un gorgo dal quale cominceremo a uscire soltanto con un cambiamento dell’esecutivo. L’errore più grave è, però, illudersi che basti questo cambiamento a risolvere miracolosamente tutto. Se tutto andrà bene, avremo davanti qualche lustro di cammino difficile e faticoso. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9410 Titolo: MARIO DEAGLIO. Nessuno si salva da solo Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 04:52:45 pm 17/11/2011
Nessuno si salva da solo MARIO DEAGLIO Il governo Monti è ufficialmente entrato in carica ieri durante una giornata densa di tensioni sui mercati finanziari mondiali. Per quanto incentrate sull’Italia, anche per la fase di transizione tra governi, queste tensioni non si sono certo limitate al Bel Paese. Sembra ormai che, con le lenti della finanza internazionale, il mondo non risulti più composto di Paesi «virtuosi» come la Germania e Paesi «viziosi» come la Grecia ma che un po’ di «vizio» risulti presente dappertutto. Nella virtuosissima Germania, infatti, ieri non si sono trovati compratori sufficienti a sottoscrivere per intero un’asta di sei miliardi di titoli di Stato tedeschi, diventati l’unità con cui si misura l’adeguatezza dei debiti sovrani del resto del mondo. Esiste allora un «pericolo tedesco»? Certamente no. Non esiste un «pericolo tedesco» ma si comincia però a constatare che, nel lungo periodo, con gli attuali livelli e le attuali tendenze dei debiti pubblici alla crescita, tutti i Paesi ricchi, e non solo l’Italia, si troveranno ad affrontare scelte politiche scomode. E il rallentamento congiunturale in atto a livello mondiale sicuramente sta facendo aumentare in ogni Paese la scomodità di queste scelte. Il quadro tempestoso si è precisato nella giornata di ieri quando, in buona parte dei Paesi della zona euro, le quotazioni dei titoli dei debiti pubblici si sono indebolite sensibilmente. Non è solo all’Italia che il mercato richiede un consistente «premio per il rischio» per sottoscrivere titoli di Stato; il temutissimo spread, buon indicatore di come i mercati percepiscono questo rischio, è aumentato contemporaneamente in Francia, Austria e Paesi Bassi ma ne hanno risentito anche i titoli pubblici della virtuosissima Finlandia, oltre naturalmente a quelli di Spagna e Grecia. Lo spread del Belgio, senza governo da ben 521 giorni, è salito al livello record di 296 punti base. Anche se l’Italia rimane, per l’effetto congiunto delle dimensioni del suo debito e del suo rischio, l’ammalato in condizioni più critiche, la corsia europea del reparto patologie finanziarie si sta quindi riempiendo di malati illustri. Per la struttura delle sue finanze pubbliche e in particolare per la rapidità con cui è aumentato il suo deficit negli ultimi 3-4 anni, la Francia appare particolarmente vulnerabile e ha dovuto trangugiare, sia pure in dosi più blande, una medicina molto simile a quella recentemente assunta dall’Italia, che comprendeva l’aumento dell’Iva. Tutto questo ha fatto dire al presidente della Commissione dell’Unione Europea, José Barroso, che la crisi è «sistemica» e che richiederà «nuove misure». In realtà non si può andare avanti soltanto con tagli che incidono per anni sul livello di vita per contrastare cadute di mercato che, una volta arginate, potrebbero tranquillamente ripetersi dopo poche settimane. Le «nuove misure», che l’Italia come un numero crescente di Paesi europei è chiamata a prendere in considerazione, dovrebbero quindi andare di pari passo con «nuove regole» per i mercati internazionali che chiariscano gli intricati percorsi del denaro attorno ai titoli sovrani. Purtroppo, finora c’è stata una forte richiesta delle prime e solo una debole pressione perché vengano stabilite le seconde, anche se non potrà continuare così; una sorta di scambio di nuove misure dei governi e contro regole dei mercati potrebbe servire a rendere più controllabile la situazione. Alle inquietudini del presidente Barroso a Bruxelles hanno fatto riscontro, dall’altro capo del mondo, quelle del presidente americano Barack Obama in visita in Australia. Obama si è detto molto preoccupato per la situazione finanziaria europea ma forse in realtà è almeno altrettanto preoccupato per le finanze pubbliche degli Stati Uniti: per rispettare il «tetto» al debito pubblico, che in quel Paese è imposto per legge, entro il 23 novembre dovrà presentare un piano che riduca di 1200 miliardi di dollari in dieci anni la spesa pubblica. In caso contrario, scatteranno tagli automatici alle spese militari e al Welfare. Si scopre, insomma, che in trent’anni di benessere forse eccessivo, in un mondo o in un altro tutti i Paesi ricchi non solo hanno accumulato debiti crescenti ma hanno posto in essere dinamiche e meccanismi di spesa che fanno aumentare i debiti per forza propria. Nessun Paese, neppure gli Stati Uniti, si salveranno da soli. Occorre uno sforzo concertato per mettere la museruola ai mercati quando non solo abbaiano ma morsicano senza motivo l’economia reale. E questo se si vuole salvare il sistema mondiale del mercato; in caso contrario, sarà travolto da una reazione profonda a tagli socialmente non sostenibili. mario.deaglio@unio.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9443 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il gigante dai piedi di argilla Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:48:22 pm 25/11/2011
Il gigante dai piedi di argilla MARIO DEAGLIO Essendo figlia di un pastore luterano, e probabilmente buona conoscitrice della Bibbia, Angela Merkel farebbe bene a riflettere sul sogno raccontato dal re Nabucodonosor nel «libro di Daniele»: una grande e magnifica statua con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di bronzo e i piedi in parte d’argilla e in parte in ferro viene colpita proprio nei piedi da un masso che rotola giù dalla montagna. E la statua si sgretola subito in piccolissimi frammenti che vengono spazzati via dal vento. Molti operatori economici stanno vivendo le lunghe e angosciose giornate finanziarie di questa settimana nella paura che l’Europa, e in particolare l’euro, che ne costituisce forse la migliore realizzazione, possa far la fine della statua di Nabucodonosor, ossia franare in poco tempo e quasi senza preavviso. Sempre più frequentemente li sfiora il sospetto che i piedi d’argilla non siano necessariamente rappresentati dalla Grecia e dagli altri inaffidabili Paesi «meridionali» ma si possano trovare invece nella stessa Germania e possano costituire la debolezza nascosta di quel gigante dalla testa d’oro che è l’Europa. Si tratta di un gigante con poche forze, come si può constatare dagli sviluppi finanziari degli ultimi mesi. Anche ieri, attorno al tavolo delle consultazioni di Strasburgo, si sono confrontate solo debolezze diverse. La debolezza francese derivante da una crescita, apparentemente inarrestabile, del debito pubblico che l’ha portato ad aumentare di circa un terzo (dal 60 all’80 per cento del prodotto interno) durante i quattro anni della crisi finanziaria; la debolezza di un’Italia soffocata da meccanismi inefficienti di decisione politica e di redistribuzione del reddito che, nell’ultimo decennio, hanno tarpato le ali a quasi tutte le iniziative di crescita; e infine la debolezza tedesca apparsa improvvisamente con aste finanziarie in cui non si riescono a collocare tutti i titoli pubblici. Appena sei mesi fa, la Germania veniva gratificata del titolo di «locomotiva d’Europa» e sembrava aver trovato la ricetta per uscire dalla crisi. Ci si accorge ora che la locomotiva era in realtà un vagone, che era stata essa stessa trainata dalla ripresa mondiale. La Germania è infatti vissuta sulle esportazioni e non su un aumento ordinato e consistente dei consumi interni. E dopo avere all’incirca raggiunto il livello produttivo precedente la crisi, la locomotiva si è fermata con una frenata brusca e inattesa, con la disoccupazione che torna a crescere dopo due anni e gli ordini all’industria, specialmente dall’estero che tornano a diminuire. Insieme con la disoccupazione, in Germania cresce da tempo l’inquietudine, come testimonia la lunga fila degli insuccessi nelle elezioni locali del partito del cancelliere o dei suoi alleati. E questo spiega il persistente rifiuto del cittadino medio - che ha ancora un ricordo lontano, ma vivido di un nonno o un prozio che è stato rovinato dall’inflazione degli Anni Trenta - di pensare in grande. Dopo aver sostenuto a lungo l’Unione Europea, con contributi finanziari superiori ai benefici immediati, assicurando così il proprio e l’altrui sviluppo, dopo avere incassato la riunificazione al prezzo di sostituire il marco con l’euro, la Germania ha smesso di avere progetti di respiro veramente ampio. Si è ripiegata su se stessa, si sente probabilmente più tedesca e meno europea. Il tedesco è una delle poche lingue in cui la stessa parola («Schuld») significa indifferentemente «debito» e «colpa». Dietro al ricordo della grande inflazione affiora forse questa memoria ancora più profonda, per cui il debitore è un colpevole e un debitore a rischio di insolvenza è come un appestato. Forse così si contribuisce a spiegare l’atteggiamento non lineare della Germania nei confronti della Grecia, un Paese la cui insolvenza danneggerebbe fortemente le banche tedesche, e che pure la Germania esita a salvare, negando il suo assenso ad azioni incisive della Banca Centrale Europea. Si potrà anche sostenere che Angela Merkel sia abile quanto il suo predecessore, Helmut Kohl, che riuscì a riunificare il paese. Non le mancano, infatti, decisione e capacità argomentativa ma non sembra esser dotata delle grandi visioni del futuro di Kohl e, prima di lui, di Adenauer, Ehrhard e altri cancellieri tedeschi. Preferisce rivedere, in maniera taccagna, i conti della spesa piuttosto che domandarsi perché si fa la spesa. Non le importa di pronunciare una raffica di «no», come ha fatto ieri sugli Eurobond, apparentemente senza una visione complessiva dei circuiti finanziari, senza rendersi conto che un leader europeo, come aspira a essere, deve tenere in serbo qualche sì. Deve indicare una strada percorribile e non predicare principi inflessibili. C’è forse qualcosa di simbolico nel fatto che l’attuale presidente del Consiglio italiano sia arrivato ieri all’incontro di Strasburgo con cronometrica puntualità, mentre il suo predecessore aveva abituato i colleghi internazionali a mal sopportati ritardi. In ritardo, invece, è arrivato il cancelliere tedesco. Colpa, ahimè, di un guasto all’aereo: nemmeno l’efficientissima Germania è perfetta. Se Angela Merkel riuscirà a prendere coscienza delle imperfezioni tedesche, che i mercati in questi giorni le hanno pesantemente ricordato, forse c’è speranza per l’Europa. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9480 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il consenso per evitare il naufragio Inserito da: Admin - Novembre 29, 2011, 04:06:30 pm 29/11/2011
Il consenso per evitare il naufragio MARIO DEAGLIO Rapido deterioramento», «diffusione del contagio» e «ritardo della politica»: non ha usato mezzi termini Pier Carlo Padoan - vice-segretario dell’Ocse e terzo italiano, insieme con Mario Draghi e Mario Monti, in prima linea in questo periodo sulla scena dell’economia globale - nel presentare le previsioni semestrali sull’andamento dell’economia mondiale e, in particolare, di quella dei Paesi ricchi, nei prossimi due anni. Fino all’estate si discuteva della velocità della ripresa, ora, avverte l’Ocse (forse il più credibile dei grandi enti previsivi internazionali) si discute dell’esistenza della ripresa. Non si è trattato di un semplice aggiustamento, di una lieve correzione ma quasi di un’inversione di rotta. Se fino a due-tre mesi fa si pensava che la navicella dell’economia mondiale stesse riprendendo il largo, ora si può dire che passerà molto rasente agli scogli e che, se non si fa molta attenzione, potrebbe anche finirci sopra. Nel peggiore dei tre casi illustrati da Padoan, non si tratterebbe di un rallentamento bensì di una caduta. Una caduta destinata a prolungarsi per i prossimi due anni non soltanto in Italia (in ogni caso uno dei Paesi meno dinamici tra quelli avanzati) ma anche, sia pure in misura minore, nel resto della zona euro, negli Stati Uniti e in Giappone. Le grandi economie emergenti, a cominciare dalla Cina, non sfuggirebbero a un forte rallentamento del loro tasso di crescita. L’espansione del commercio mondiale, simbolo dell’integrazione economica del pianeta, appare comunque destinata a ridursi a poca cosa. Nella migliore delle ipotesi, il mondo, secondo l’Ocse, se la caverà per il rotto della cuffia. A queste prospettive si aggiungono quelle - per la verità alquanto fantascientifiche, che possono determinare allarmismi ingiustificati ma delle quali sarebbe errato non tenere conto - avanzate da Moody’s, una delle maggiori agenzie di rating, circa la possibilità di insolvenze a catena di Paesi europei. Perché questo pessimismo? Perché i guai della finanza si stanno abbattendo come un macigno sull’economia reale sia per il bavaglio imposto alle banche, soprattutto a quelle grandi, costrette a dotarsi di un capitale proprio forse eccessivo sia per il «tetto» al debito pubblico (e quindi alla spesa pubblica) imposto agli Stati Uniti da un partito repubblicano miope che, avendo il controllo di una delle Camere, blocca qualsiasi azione di effettivo stimolo all’economia. A far sembrare molto distante ogni prospettiva di vera ripresa contribuisce il numero, oggi anormalmente elevato, dei disoccupati dei Paesi ricchi. Esso pare destinato a rimanere ancorato attorno ai 45 milioni e reca con sé pesanti incognite politiche, si può senz’altro aggiungere, che un simile accumulo di scontentezza può provocare. C’è un marcato contrasto tra simili prospettive e l’andamento, apparentemente euforico, delle Borse mondiali che nel pomeriggio e nella serata di ieri hanno messo a segno miglioramenti del 3-4 per cento. In realtà le Borse mondiali hanno semplicemente cancellato qualche giorno di caduta in base alla notizia comparsa domenica su «La Stampa» - di un possibile, massiccio aiuto internazionale all’Italia, tale da coprire il fabbisogno finanziario del Paese per circa un anno in cambio dell’attuazione di un vasto programma di riforme. Al di là delle smentite ufficiali, si tratta di un progetto ragionevole, sia per l’Italia sia per la salute dei mercati mondiali, e non ci si può non augurare che abbia seguito, indipendentemente dalle modalità tecniche. Perché si realizzi la prospettiva di un’economia mondiale che riesce a non naufragare contro scogli particolarmente aguzzi sono necessari di fatto tre requisiti: il consenso tedesco, il consenso americano e il consenso del Parlamento italiano. Il consenso tedesco è indispensabile perché il «fondo salvastati» faticosamente creato tra i Paesi europei venga subito indirizzato a un aiuto di liquidità all’Italia, mettendo l’Italia stessa e l’intera economia finanziaria internazionale al riparo dall’attuale, crescente instabilità. Il consenso americano è a sua volta indispensabile perché il Fondo Monetario Internazionale possa aggiungere la sua «potenza di fuoco», ossia le sue risorse finanziarie, all’operazione riguardante l’Italia ed eventualmente altri Paesi. Per questa decisione, occorre infatti il voto favorevole di Paesi che complessivamente detengano l’85 per cento delle quote del Fondo stesso e gli Stati Uniti possiedono il 17 per cento delle quote e quindi dispongono di un diritto di veto. A queste due condizioni necessarie si aggiunge una condizione sufficiente, ossia che l’Italia si proponga, con la dovuta determinazione e la necessaria credibilità, di affrontare provvedimenti duri di politica economica che annullino già dal prossimo anno il deficit pubblico. In maniera molto tangibile, anche se indiretta, quindi, i problemi del mondo faranno tra breve il loro ingresso nelle aule di Palazzo Madama e di Montecitorio. In un modo che tutti avremmo preferito evitare, per un breve periodo Roma torna a essere il centro del mondo. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9495 Titolo: MARIO DEAGLIO. Serve un freno al potere delle agenzie Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 12:45:43 am 7/12/2011
Serve un freno al potere delle agenzie MARIO DEAGLIO Il «fronte italiano» di questa terribile crisi finanziaria mondiale si è, almeno temporaneamente, chiuso con la firma da parte del presidente Napolitano del «decreto salva Italia», in attesa di una chiusura definitiva con l’approvazione parlamentare. Prima ancora, però, che l’inchiostro presidenziale si fosse asciugato si è aperta un’altra, e ben più vasta, zona di incertezza. Ad aprirla è stata Standard & Poor’s che è, assieme a Moody’s e a Fitch, una delle grandi agenzie di rating, ossia di valutazione tecnica di tutti i titoli quotati del mondo: azioni, obbligazioni, titoli del debito pubblico e quant’altro. Il problema è che dalla valutazione tecnica - in cui hanno collezionato risultati altalenanti, promuovendo spesso banche e imprese americane fallite o crollate in Borsa di lì a poco - questi tre arbitri della finanza mondiale sono passati rapidamente negli ultimi sei mesi a giudizi sempre più apertamente politici: un Paese come gli Stati Uniti è stato declassato perché gli «esperti», sovente senza volto, di Standard & Poor’s, hanno ritenuto troppo debole Obama. E quindi di fatto non realizzabile la politica economica del Presidente americano. Sempre più spesso si avventurano in previsioni macroeconomiche, ben al di fuori delle loro competenze, con analisi che ieri il direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, ha giustamente definito «semplicistiche» e «superficiali». Le agenzie di rating stanno dando l’impressione di «giocare» con i debiti pubblici dei maggiori Paesi del mondo, tirandoli su e giù come burattini appesi ai fili di un teatrino. Due giorni fa, Moody’s ha promosso la Nigeria per le sue grandi potenzialità, ieri Standard & Poor’s ha «messo sotto osservazione» la Germania e altri quattordici Paesi europei per potenziale rischio di insolvenza. Meno di un mese fa, tuttavia, nessuna delle agenzie di rating si era accorta che era vicina all’insolvenza una grande società americana di brokeraggio, MF Global, il cui presidente Jon Corzine un tempo era presidente di Goldman Sachs, un altro grande della finanza americana. Ciò che colpisce è la loro arroganza: «Mettono sotto osservazione» chi vogliono e quando vogliono, comunicano sovente i loro risultati a mercati aperti, incuranti - o forse compiaciuti - delle oscillazioni dei titoli che i loro comunicati provocano. E per colmo di ironia, realizzano utili cospicui facendosi pagare per la loro opera di valutazione dalle loro «vittime» ossia dalle imprese e dai governi messi sotto osservazione. C’è un complotto dietro tutto questo? Probabilmente non lo sapremo mai anche se un filo conduttore volto a scardinare l’euro sarebbe del tutto plausibile, dal momento che la frenesia declassatoria ha colpito in questi giorni anche i fondi salva-Stati creati per difendere la moneta europea. Visto il seguito che hanno sui mercati, però, il risultato è lo stesso, con o senza complotto. Come osservava Keynes, quando si tratta di indovinare chi sarà la vincitrice di un concorso di bellezza, gli spettatori non indicheranno la ragazza che ritengono più bella ma quella che, secondo loro, sarà ritenuta più bella dalla maggior parte degli spettatori stessi. Allo stesso modo, molti vendono i titoli declassati da Moody’s e compagni non perché ritengono che i titoli meritino il declassamento ma perché pensano che tutti seguiranno le indicazioni di Moody’s e il valore dei titoli in ogni caso scenderà. Questo comportamento da gregge è una delle obiezioni più forti contro chi è in adorazione della razionalità dei mercati. Complotto o non complotto, è giunto il momento di finirla. Se vogliono che l’Europa abbia un futuro, i leader di Francia e Germania che stanno preparando il vertice dell’8-9 dicembre, nel quale sarà progettato, forse con apposite nuove istituzioni, il continente di qui a dieci-vent’anni, non possono permettere che qualcuno li faccia danzare come burattini. Eppure, in questo momento, pressoché tutto il continente è costretto a fare manovre di bilancio sicuramente necessarie ma che avrebbero potuto essere più diluite nel tempo, evitando disagi e sofferenze, sostanzialmente perché lo impongono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch. Un’Europa essenzialmente fondata sulla moneta e sui mercati - visto che ha rinunciato a basarsi sui valori - non può nascere se non si sottopongono non solo la moneta ma anche i mercati, a cominciare da quelli finanziari, a regole severe. Le agenzie di rating dovrebbero essere costrette alla periodicità delle analisi e alla regolarità degli annunci e le loro valutazioni dovrebbero limitarsi a parametri finanziari; e qualora non rispettassero queste regole potrebbero essere multate e dovrebbe essere loro impedito di agire. La funzione di valutazione dei titoli potrebbe anche essere affidata a enti pubblici internazionali, come il Fondo Monetario, proprio perché si tratta soprattutto di una funzione pubblica. mario.deaglio@unito.it http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9527 Titolo: MARIO DEAGLIO. La camicia di forza Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 04:39:49 pm 10/12/2011
La camicia di forza MARIO DEAGLIO Visto l’esito della caotica riunione di Bruxelles, non è proprio il caso che il normale cittadino stappi una bottiglia, anche se le Borse hanno brindato a quella che considerano, nel loro orizzonte di brevissimo termine, come la fine di un periodo di incertezza. Dopo una confusa nottata di contrasti e recriminazioni, l’Europa si ritrova pesantemente ridimensionata dal rifiuto inglese. Un no a un accordo che avrebbe comportato la perdita di autonomia dalla politica economica, alla quale i governi di Londra hanno sempre tenuto moltissimo, in favore di rigide regole generali di stampo tedesco. La mancata stretta di mano tra il presidente Sarkozy e il primo ministro inglese Cameron è quasi il simbolo di questa nuova situazione. Non c’è da illudersi: il Canale della Manica è diventato più largo con un possibile grave svantaggio sia per gli inglesi sia per gli altri europei. Per l’Europa, la perdita della Gran Bretagna - che a questo punto potrebbe anche uscire completamente dall’Unione Europea, limitandosi a mantenere un accordo doganale - non deriva tanto dalla cospicua sottrazione dal totale europeo del prodotto lordo inglese quanto dall’impoverimento qualitativo di un’Europa così divisa. La Gran Bretagna ha avuto, nell’ultimo secolo, il ruolo storico di controbilanciare, insieme alla Francia, il potere tedesco e di fornire un’alternativa, peraltro ridotta negli ultimi decenni, ai modelli culturali tedeschi. Questo ruolo pare ormai abbandonato mentre Londra si rifugia in un isolamento che non appare tanto splendido e ci si può attendere che rafforzi i suoi legami con gli Stati Uniti; Parigi, dal canto suo, con le elezioni ormai vicine, sembra aver perso l’iniziativa e aver consentito debolmente alle posizioni tedesche. Nel frattempo, le agenzie di rating hanno continuato a declassare allegramente le banche europee. Tutti avevano sperato che la signora Merkel avrebbe alla fine abbandonato la sua posizione rigida e accettato di fornire qualche facilitazione ai Paesi «meridionali»; invece non è stato così. Grazie anche alle pesantissime pressioni americane, che hanno visto gli interventi coordinati del presidente Obama, del segretario di Stato Clinton e del segretario al Tesoro Geithner, è prevalsa una soluzione che si può definire di tipo «tedesco», che limita la possibilità futura di deficit pubblici nazionali. Le istanze di tipo «francese» e «italiano» per una maggiore flessibilità con l’emissione di titoli sovrani europei (eurobonds), per sviluppi istituzionali che conferiscano a Bruxelles un effettivo potere di governo europeo, con il trasferimento a livello europeo di alcune competenze e di una parte delle imposte nazionali. La Banca centrale potrebbe finanziare questo governo, ma l’intera questione è stata diplomaticamente rinviata a una futura riunione. Per fortuna, le porte non sono definitivamente chiuse a questa visione europeista. Il «fondo salva Stati», però, continua ad apparire piuttosto esiguo, anche nella sua nuova versione, per far fronte a veri attacchi ai titoli pubblici di qualsiasi paese dell’Unione e il coinvolgimento del Fondo monetario risulta più limitato di quanto fosse inizialmente previsto. I Paesi europei hanno accettato una vera e propria camicia di forza per le loro finanze: il comunicato finale dice chiaramente che i bilanci degli stati membri dovranno essere in pareggio (con un deficit massimo dello 0,5 per cento del prodotto interno) e che questo principio dovrà essere inserito nelle costituzioni dei singoli Stati. Lodevole proposito in una situazione normale, ma nuova complicazione in una situazione di crisi. A un simile risultato si arriverà lentamente ma, se il deficit pubblico supererà il 3 per cento del prodotto interno, scatteranno sanzioni quasi automatiche contro il Paese che non si adegua. È questo il succo della cosiddetta «unione fiscale» che, se gestita in maniera maldestra, rischia di trasformarsi in un abbraccio soffocante. Tutti i Paesi dell’area euro, Germania compresa, saranno infatti impegnati a seguire politiche pubbliche prevalentemente restrittive anziché politiche più accomodanti. Siccome la congiuntura ha già svoltato verso il basso in molti di questi, ogni vero discorso di ripresa europea appare rinviato; nella stessa, fortissima Germania, è comparso il segno meno nella produzione industriale mentre è vano attendersi forti stimoli extraeuropei, dal momento che la stessa Cina presenta vistosi sintomi di rallentamento. Il 2012 non si prefigura quindi per nessuno come un anno di vacche grasse. E un’Europa in recessione e percorsa da inquietudini sociali potrebbe facilmente trasformarsi nel ventre molle di un’economia globale che sta rapidamente perdendo il sorriso. A questo punto, l’interrogativo diventa politico: è socialmente sostenibile una simile situazione, oppure i governi europei rischiano di essere travolti da una protesta sociale tanto più grave quanto più disordinata e priva di larghi orizzonti? Quanto dirompente potrebbe essere una simile protesta? Non sarebbe stato preferibile adottare un sentiero più flessibile, consentendo maggiore liquidità al sistema produttivo e bancario e impedendo che tutto sia condizionato da giudizi istantanei di Borse capricciose? Il tempo, senza dubbio, dirà se i leader europei hanno fatto complessivamente una scommessa giusta. I rischi, per l’Europa e l’economia mondiale, non sembrano, in ogni caso, essere stati sensibilmente ridotti ma soltanto trasferiti dall’economia e dalla finanza alla politica e alla società. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9534 Titolo: MARIO DEAGLIO. Una cura psicologica per la crisi Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 06:49:01 pm 16/12/2011
Una cura psicologica per la crisi MARIO DEAGLIO Per l’Europa il 2012 non sarà un anno gradevole». Questo a dir poco singolare, ma probabilmente veritiero, biglietto di auguri per il Vecchio Continente porta la firma di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ossia di quella grande istituzione i cui esperti verranno in visita (ispezione?) a Roma la settimana prossima. Gli ha fatto eco, a poche ore di distanza, il primo ministro polacco, Donald Tusk. Tusk ha pronunciato un durissimo discorso di saluto al Parlamento europeo, al termine del semestre di presidenza del suo Paese, l’unico in Europa che possa vantare risultati economici veramente buoni negli ultimi 2-3 anni. L’Europa, ha detto Tusk, è sull’orlo del precipizio, non si comporta più come una comunità ma come una somma di egoismi nazionali al punto che la crisi ormai si trova nei nostri cuori e non solo nelle nostre banche. Passando dai principi alle cifre, ancora una volta a poche ore di distanza, la Banca Centrale Europea ha rivisto ieri sensibilmente al ribasso le proprie stime per i Paesi dell’euro: mentre a settembre si prevedeva una crescita complessiva compresa tra lo 0,4 e il 2,2 per cento, in dodici settimane le cifre sono diventate -0,4 e 1,2 per cento. La caduta non risparmia la (apparentemente) virtuosa Germania, dove l’Ifo, il maggior istituto di previsioni economiche, nel giugno scorso si aspettava per il 2012 una crescita del 2,3 per cento e ora è sceso allo 0,4 per cento. Le stime del Centro Studi della Confindustria, rese note ieri, riflettono questo improvviso cambiamento di prospettive: il prodotto lordo italiano dovrebbe ridursi dell’1,6 per cento e non si tratterà certo di una decrescita felice, essendo accompagnata da un aumento della disoccupazione, da una stasi delle esportazioni e da una caduta secca (-4,8 per cento) degli investimenti. Come ha dichiarato il ministro delle Attività produttive, Corrado Passera, la situazione è peggiore delle attese e l’Italia «è già in recessione». A conferma di una situazione non certo lusinghiera, dal mondo dell’economia si ha notizia di innumerevoli casi di clienti che non pagano, fornitori che non vengono pagati, consumatori che riducono gli acquisti, imprese che riducono i programmi produttivi. A settembre ci si cullava nella prospettiva di una dolce ripresa che si lasciasse finalmente alle spalle questa crisi così diversa dalle altre; ora siamo alle prese con l’anno sgradevole promesso da Blanchard. Il lettore può ben domandarsi che cosa sia successo tra settembre e dicembre per provocare un simile, brusco ridimensionamento e troverà gli esperti molto cauti nel dare risposte. Come tutti i fenomeni complessi, anche questa brutta caduta ha cause complesse ma, in estrema sintesi, si può affermare che gli europei si stanno strozzando con le loro stesse mani: pongono vincoli sempre più severi sia alle finanze pubbliche sia all’operatività delle banche. Dicono all’atleta di correre e poi gli tolgono le scarpe adatte alla corsa. I tagli, più o meno orizzontali, ai bilanci pubblici di pressoché ogni Paese (ormai anche la Germania è entrata in quest’ottica) si uniscono infatti alla crescente impossibilità delle banche di fare il loro mestiere per mancanza di materia prima: siamo in presenza di una vera e propria carestia di liquidità, determinata da norme che, nel tentativo di blindare le banche di fronte alla prospettiva di una crisi, finiscono per rendere più probabile questa crisi per le difficoltà sempre più acute dei debitori, non blindati, delle banche stesse. Chi aveva scommesso sulla capacità del Cancelliere tedesco, Angela Merkel, di mediare all’ultimo minuto tra posizioni diverse non può non soffrire una cocente delusione: dicendo «no» agli eurobonds i tedeschi hanno reso più ripida la strada verso la stabilità di bilancio dei loro partner europei e si stanno assumendo una responsabilità storica di portare l’Europa in acque sempre più difficili e di allontanare in maniera inaccettabile le prospettive di ripresa. Contemporaneamente nulla è stato fatto né si prevede di fare in merito al funzionamento dei mercati finanziari che continuano a condurre la danza di ballerini sempre più stanchi quali sono gli Stati europei. In una simile situazione i rimedi sono psicologici prima che tecnici: occorre cominciare a pensare non tanto a come si gestisce una crisi ma come si esce da una crisi. Non tanto a come si può arrivare nudi alla meta, senza deficit e senza crescita, ma a come si possono rendere sostenibili i debiti, a come si può fare del mercato finanziario il proprio strumento, non il proprio padrone. E' un discorso politico prima che tecnico che purtroppo lascia i politici europei spauriti e senza parole. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9553 Titolo: MARIO DEAGLIO. I fuochi sul cammino del governo Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2011, 10:46:33 pm 30/12/2011
I fuochi sul cammino del governo MARIO DEAGLIO Molti italiani saranno rimasti sbalorditi alla vista di un presidente del Consiglio che si esprime con grafici; altri avranno trovato, tutto sommato, grigia un’esposizione in cui volutamente non si sono toccate corde emotive ma si è enunciata una lunga serie di fatti e di intenzioni. I telespettatori non erano preparati a una lezione in diretta, a un tipo insolito di comunicazione politica e continuano a restare spaesati di fronte a una griglia di provvedimenti che incide su moltissimi aspetti della società italiana. Per superare lo sbalordimento occorre probabilmente mettersi nei panni del Professor Monti, nella condizione, incredibile per l’italiano medio, di un presidente del Consiglio che dichiara di non avere alcuna particolare ambizione politica e di trovarsi in una posizione da superchirurgo incaricato di tagliare e ricucire là dove è risultato impossibile, a chi ne aveva il mandato politico, di fare altrettanto. Agli occhi di un osservatore esterno, la manovra del presidente del Consiglio si svolge tra due fuochi. Il primo è rappresentato dalla crisi del debito pubblico italiano sui mercati finanziari internazionali. La sua gravità non viene normalmente colta dal normale cittadino ma è difficile esagerarla: senza alcuna particolare «colpa» dell’Italia, i mercati hanno bruscamente cambiato opinione, negli ultimi mesi, sulla gravità dei debiti sovrani. La condizione debitoria italiana (1,2 euro di debiti per ogni euro di produzione annuale) prima ampiamente tollerata per la dimostrata capacità italiana di mantenere sostanzialmente stabile il debito stesso, è diventata insostenibile nel giro di pochi mesi: nessuno vuol più acquistare, senza un consistente premio per il rischio, i titoli del debito pubblico italiani e molti scommettono sull’incapacità italiana di restituire il debito. L’Italia si è trovata in condizioni di grande debolezza di fronte a imposizioni estremamente dure e qualcuno potrebbe osservare che le cifre complessive della manovra assomigliano alle imposizioni di un trattato di pace dopo una guerra persa; altri obietteranno che l’Italia sta pagando per tutti, in quanto la manovra italiana ha evitato che il ciclone monetario si scaricasse sui sistemi bancari di altri Paesi, meno solidi di quanto appaia. Il fatto è che l’affermazione del presidente del Consiglio circa l’impossibilità di pagare le tredicesime, se non si fosse accettata una rapidissima manovra, non è retorica. Senza il suo frettoloso viaggio a Bruxelles e la definizione di un programma radicale di rientro dal deficit, si sarebbe dovuto ricorrere ad altri tagli oppure ad altri inasprimenti fiscali almeno equivalenti a quelli messi in atto e per i quali la classe politica riteneva di non avere il mandato. Oltre a questo fuoco internazionale, il Professor Monti se la deve vedere con un secondo fuoco che cova, in maniera preoccupante all’interno del Paese, dove si moltiplicano i segnali di crescenti diseguaglianze economiche e di disgregazione sociale. Ieri una raffica di comunicati dell’Istat ha segnalato che il livello di fiducia delle imprese si è fortemente abbassato: la scarsità di liquidità del sistema bancario corre il rischio di portare a estese rotture del normale tessuto economico-commerciale. Sempre secondo l'Istat, un quarto della popolazione - con punte molto maggiori nel Mezzogiorno - si trova in condizioni di povertà o di rischio di povertà, con difficoltà a pagare le bollette, l’affitto o il mutuo. Poco importa che i totali degli indigenti mostrino variazioni minime negli ultimi due anni: con il persistere di una situazione così grave e così diffusa, che toglie dignità alle persone colpite, la trasformazione delle persone stesse da «indigenti» a «indignate» può essere un passo molto breve: sono ormai numerosi i casi, in Paesi ricchi e meno ricchi, di situazioni di rivolta, o, in ogni caso, di rifiuto dell’ordine esistente. All’altro estremo dello spettro sociale crescono invece incoscienti manifestazioni di arroganza, come quella del riccone che scende in elicottero sulla spiaggia per portare la mamma al ristorante. Per non parlare della Regione Sicilia che continua a garantire pingui indennità ai consiglieri regionali e ad assumere personale senza averne i mezzi. La logica vorrebbe che si portasse via reddito ai ricconi arroganti e lo si ridistribuisse a chi è vicino alla povertà. Si tratta però di un’operazione molto difficile perché il reddito dei ricchi è spesso ben al riparo, in Italia e all’estero. Per quanto i meccanismi messi in atto per stanare gli evasori facciano registrare un discreto successo, il risultato è, come minimo, incerto e soprattutto richiede tempo. Muoversi tra il fuoco dei mercati internazionali e quello dell’instabilità interna è, al tempo stesso, arduo e impopolare. Richiede, tra l’altro, che lo stupore di chi vede un presidente del Consiglio che illustra un grafico invece di fare della retorica si trasformi in un allargamento di vedute; che gli italiani si stacchino almeno un po’ da una visione egoistica che riferisce tutto a sé e alla propria famiglia nel massimo disinteresse per la dimensione pubblica; che escano da quello che Francesco Guicciardini, nella prima metà del Cinquecento, chiamava il loro «particulare». Allora miopia ed egoismo fecero scomparire molto rapidamente quasi tutti gli Stati italiani dalla mappa dei Paesi avanzati ed ebbe inizio una stagnazione dei redditi e un arretramento economico e civile durato tre secoli. C’è da augurarsi che questa volta vada meglio. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9596 Titolo: MARIO DEAGLIO. Penalizzati dai ritardi Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2012, 03:16:50 pm 14/1/2012
Penalizzati dai ritardi MARIO DEAGLIO È ben possibile che gli esperti di Standard&Poor’s siano arrivati ieri mattina all’aeroporto romano di Fiumicino e abbiano avuto molta difficoltà a trovare un taxi nel giorno della «rivolta» dei tassisti. Il giudizio negativo di Standard&Poor’s appare pesantemente politico, nel senso che suona come una dichiarazione di aperta sfiducia non tanto nelle cifre inoppugnabili - della manovra, ma nella capacità del governo Monti di realizzare il suo programma. Un giudizio ancor più grave perché pronunciato il giorno dopo l’aperto appoggio del cancelliere tedesco. Se però ce ne fosse stato bisogno, la «rivolta» dei tassisti di ieri ha rappresentato un chiaro esempio dei problemi strutturali del Paese e della difficoltà di risolverli. Per rendersene conto, si può far riferimento a una coraggiosa intervista mandata in onda mercoledì sera dal telegiornale TV7 di Enrico Mentana: un tassista di Bologna - che ci ha pure «messo la faccia», evitando quei filtri che sfocano le immagini fino a renderle irriconoscibili ma anzi puntando molto chiaramente lo sguardo verso la telecamera - ha affermato di dichiarare al fisco il 40 per cento in meno delle proprie entrate effettive. E ha sostenuto che la grande maggioranza dei suoi colleghi deve fare altrettanto se vuole arrivare alla fine del mese con un reddito decente. Il tassista in questione non è sicuramente ricco, fa turni di dodici ore per un incasso incerto che non dipende tanto dalla sua diligenza o abilità ma da fattori esterni come la congiuntura e magari la fortuna di incrociare i clienti giusti. Nella posizione del tassista probabilmente si trova gran parte dell’artigianato e del piccolo commercio, all’incirca 3-4 milioni di lavoratori: sui loro redditi effettivi, governi di ogni colore hanno, pressoché da sempre, chiuso bonariamente un occhio. In passato le cose possono essere state differenti ma oggi la loro è un’«evasione difensiva», ossia messa in atto per sostenere un tenore di vita e un piano di vita che sentono, talora drammaticamente, sfuggire tra le mani. Il fatto è che l’Italia non può andare avanti così: siamo di fronte una questione di aritmetica assai prima che a una questione di etica. Il problema sorge perché la finanza internazionale che dà il voto - come ha fatto duramente ieri sera - all’«allievo Italia» e dalla quale l’Italia dipende per rifinanziare, settimana dopo settimana, il suo debito pubblico si è fatta molto più severa nell’ultimo anno: se non cambia meccanismi sociali, come quelli legati all’«evasione difensiva», l’Italia non troverà più chi le presti, a un tasso di interesse accettabile, le risorse finanziarie che le servono per far quadrare i conti. Ecco allora da un lato i tagli ai servizi pubblici, a cominciare da quelli locali, inaugurati dal passato governo e dall’altro la nuova posizione in cui si trovano gli evasori: il tassista, il negoziante, l’artigiano sono costretti a cercare a pagamento nel settore privato quelle prestazioni che potrebbero ottenere gratuitamente dal settore pubblico se pagassero pienamente le tasse. E lo stesso devono fare, se lo possono, i cittadini che le tasse comunque le pagano. L’evasione si morde la coda e il Paese resta fermo, inefficiente e insoddisfatto. Da questo brutto pasticcio non si esce certo in poche settimane e non bastano le tradizionali trattative tra il governo di turno e i rappresentanti delle categorie interessate. Ancor più delle privatizzazioni sono necessarie due azioni parallele di lungo periodo: la riduzione, a parità di qualità, del costo sostenuto dalle amministrazioni per fornire i servizi pubblici che non può non comportare il loro ridisegno - e il recupero non punitivo dell’evasione «difensiva». Servizi che costano meno e minore evasione potranno, a lungo andare portare a una tassazione più bassa. Il recupero dell’evasione «difensiva» deve passare attraverso il riconoscimento che un’intera generazione di tassisti, edicolanti, negozianti ha acquistato, spesso parzialmente «in nero», la licenza che è alla base della loro attività. Si potrebbe riconoscere a questa licenza il carattere di bene produttivo, accettare la documentazione del prezzo complessivo pagato e concederne l’ammortamento anticipato, il che ridurrebbe per anni il carico fiscale nominale di questi lavoratori autonomi; in cambio, naturalmente, una revisione realistica delle loro dichiarazioni dei redditi e la riformulazione delle loro attività professionali. In un mondo che cambia molto rapidamente, mantenere per l’esercizio di attività di artigianato e piccolo commercio le regole di cinquanta, o anche solo vent’anni fa significherebbe condannare l’Italia a una sorta di Medioevo tecnologico e sociale. Ben diverso dovrebbe essere l’atteggiamento nei confronti dell’evasione «offensiva» o «d’assalto», ossia dell’operato di chi evade non per conservare ciò che vede minacciato ma per aumentare reddito e ricchezza. Per questi evasori, le cui cifre sono nettamente superiori e i cui strumenti sono assai più sofisticati, non ci può che essere un’azione di contrasto totale; anche con i «blitz» dell’Agenzia delle Entrate. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9646 Titolo: MARIO DEAGLIO. Una nave e un paese inclinati Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:48:53 pm 25/1/2012
Una nave e un paese inclinati MARIO DEAGLIO Nave senza nocchiero in gran tempesta»: già settecento anni fa Dante si servì di una metafora marittima per parlare dell’Italia. Anche oggi una nave che può servire da metafora del Paese e delle sue difficoltà. Si tratta naturalmente della «Concordia», abbandonata dal suo capitano, ossia «nocchiero», incagliata, con il pericolo di affondare, in prossimità di un bellissimo tratto di costa italiana. Non si tratta solo di accostamenti superficiali, occorre invece riflettere sulla «Concordia» quale concentrato delle debolezze italiane. Questa riflessione deve partire dalla società proprietaria, la Costa Crociere, quasi una sintesi dei successi e delle debolezze del capitalismo italiano. La Costa Crociere (allora Giacomo Costa fu Andrea) venne fondata sette anni prima dell’unità d’Italia e la famiglia Costa ha spesso giocato ruoli di primo piano nella storia imprenditoriale italiana. Angelo Costa, fu un leader storico degli industriali italiani e presiedette la Confindustria per ben 14 anni in due periodi distinti, ai tempi del miracolo economico. La Costa Crociere è tra le prime società italiane a sperimentare le opportunità e le durezze del capitalismo globale e le difficoltà italiane ad adeguarsi. Lancia le crociere come nuovo prodotto, si dota di navi modernissime nelle quali si fondono la tecnologia avanzata e la raffinatezza del made in Italy. Diventa così la prima impresa croceristica del mercato europeo, forse l’unica società italiana di servizi turistici che si rivolge davvero al mercato mondiale. Allarga l’azionariato, diversifica, entra in Borsa ma non basta: l’Italia non crede nelle sue imprese e non riesce a far affluire il risparmio - tra i maggiori del mondo verso le imprese e i loro progetti di espansione. A credere nella Costa Crociere è invece la multinazionale americana Carnival che nel 1997 ne acquista la maggioranza: la Carnival investe fortemente e, oltre alla Concordia, fa costruire per la Costa Crociere ben 10 grandi navi da crociera, sulle quali lavorano complessivamente oltre diecimila persone, capaci di trasportare 3-5 mila passeggeri l’una. La Costa Crociere contribuisce per circa il 25 per cento al fatturato e ai profitti della sua capogruppo. In queste condizioni, l’episodio del Giglio si configura come molto di più di un incidente, diventa il sintomo sia di un male oscuro del capitalismo italiano che, oltre certe dimensioni, non riesce a mettere assieme idee, strategie e capitali sia di un più vasto male oscuro: il caso della Concordia e le difficoltà italiane possono infatti essere entrambe ricondotte a una crisi di «governance», ossia del modo di funzionare della nave e, più in generale, del Paese. L’inchiesta scopre scatole nere non funzionanti, radar fuori uso, forse clandestini a bordo, manovre irregolari su una nave che andava troppo veloce in acque nelle quali non avrebbe dovuto trovarsi, con un ponte di comando pieno di gente che non avrebbe dovuto essere lì. Più in generale mette a nudo una diffusa atmosfera di faciloneria, un costante stiracchiamento delle regole. L’analogia può anche andare oltre. La Concordia ha «in pancia» diverse migliaia di tonnellate di carburante e di altri prodotti tossici che, se si squarciassero i serbatoi o la nave affondasse, procurerebbero un danno gravissimo a fondali e zone costiere che sono tra le più belle del Mediterraneo; la nave Italia ha «in pancia» circa millenovecento miliardi di debiti. In situazioni di grave turbolenza finanziaria potrebbero «inquinare» la finanza europea e globale qualora l’Italia non riuscisse a onorare il suo vasto debito pubblico, oggi rifinanziabile a tassi di interesse troppo elevati. Ecco allora il momento dei tecnici. I sommozzatori, i palombari, gli incursori della Marina impegnati ad aprire dei varchi nello scafo, gli specialisti olandesi dello svuotamento di serbatoi; e forse, in futuro, grandi rimorchiatori che cercheranno di raddrizzare la nave. A livello nazionale, ecco gli esperti chiamati al governo, con vari ruoli, non solo a Roma ma anche ad Atene e in molti paesi europei. Il risultato è una nave inclinata, in un Paese inclinato, in un’Europa inclinata. Per un’ironia della sorte, il nome «Concordia» era stato inteso, al momento del varo, appena cinque anni e mezzo fa, come un omaggio alla nuova Europa in cui Stati molto litigiosi cercavano di andare d’accordo. Tanto che a ciascuno dei suoi tredici ponti era stato dato il nome di uno Stato europeo. Sarebbe un incoraggiamento per l’Italia e per l’Unione Europea, entrambe chiamate in questi giorni a decisioni difficili, se la metafora volgesse in positivo. Evitare il disastro ecologico e raddrizzare la nave sarebbero di auspicio ad altri, ben più ampi, raddrizzamenti. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9688 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il Generale Inverno pesa sul Pil Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2012, 12:01:18 pm 8/2/2012
Il Generale Inverno pesa sul Pil MARIO DEAGLIO Non bastava l’emergenza finanziaria, ora ci si mette anche il Generale Inverno. L’economia italiana, già metaforicamente gelata da una caduta produttiva - sensibilmente superiore a quella degli altri paesi avanzati - è andata, anche da un punto di vista fisico, duramente sotto zero. I Tir che qualche settimana fa rimanevano fermi per l’agitazione degli autotrasportatori sono adesso bloccati dal ghiaccio; le derrate alimentari che prima marcivano sugli autotreni fermi ai posti di blocco, ora non vengono ritirati dagli stessi autotreni bloccati dalla neve. In aggiunta al maltempo, i problemi energetici che ci sono letteralmente cascati addosso negli ultimi dieci giorni, completano il cerchio. Dal momento che l’anno lavorativo delle industrie è di poco più di 200 giorni, ogni giorno di produzione industriale completamente perduta varrebbe all’incirca lo 0,5. L’arresto completo per tre giorni delle industrie per mancanza di combustibile - un’eventualità molto remota, quasi un’ipotesi scolastica, utile comunque a fissare le idee e le dimensioni del problema porterebbe così a una caduta dell’1,5 per cento della produzione industriale dell’intero 2012 introducendo un nuovo stimolo negativo. Tra blocchi dei Tir e maltempo, in ogni modo, il primo trimestre del 2012 mostrerà un segno negativo superiore alle previsioni di qualche settimana fa e un’economia con prodotto in diminuzione paga minori imposte. La caduta della colonnina del termometro potrebbe così riflettersi sull’indice delle Borse e sulla finanza pubblica. L’Italia, si scopre nuda non solo per il freddo eccezionale - e, in un certo senso, difficile da prevedere in una cultura dominata dalla convinzione semplicistica che il «riscaldamento globale» significhi che ogni anno farà progressivamente più caldo - ma anche per le tre vulnerabilità che la diminuzione delle forniture internazionali di gas stanno mettendo in luce: la rapidità e la mancanza di preavviso con cui si è manifestata l’emergenza energetica, la debolezza del controllo effettivo, a tutti i livelli, delle autorità competenti, la relativa opacità delle procedure unita alla discontinuità dell’informazione. La rapidità con cui il problema energetico è apparso all’orizzonte è naturalmente sotto gli occhi di tutti: in quattro-cinque giorni siamo passati dalle immagini-cartolina di Roma paralizzata dalla neve alle prospettive più preoccupanti di treni fermi e ciminiere spente, dall’idea di un fine settimana anomalo a quella di un freddo senza fine. Tutto questo ci è caduto addosso all’improvviso, a seguito di una riduzione - di entità notevole ma non catastrofica - delle forniture di gas in arrivo dalla Russia, mostrando che il sistema energetico italiano è, di fatto, molto carente in elasticità. Il che significa che siamo vissuti a lungo nell’anticamera dell’emergenza energetica senza saperlo veramente, o senza esserne informati. Sulla debolezza del controllo è inutile soffermarsi se non per ricordare che i due-tre anni di tagli ai bilanci degli enti locali hanno quasi inevitabilmente portato alla diminuzione degli spartineve e perfino del sale da spargere sulle strade con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’opacità deriva infine dal fatto che è difficile trovare risposte a domande fondamentali: a termini di contratto, i russi possono davvero ridurre senza preavviso il flusso di gas? Quale ruolo ha l’Ucraina, che in passato ha operato prelievi non autorizzati dai gasdotti che attraversano il suo territorio per arrivare in Italia, nell’improvviso aggravamento della crisi? Quanto incide sull’attuale scarsità energetica la situazione creatasi in Libia dopo Gheddafi con forniture che probabilmente non sono a pieno regime? Su tutti questi punti l’informazione è scarsa, discontinua, lacunosa, comunque insoddisfacente. La crisi del freddo ha poi provocato una crisi di funzionamento delle istituzioni. Lo dimostra il caso della Protezione Civile che, a detta del suo stesso capo «non è più operativa». Il suo collasso segna la fine del tentativo, durato circa un ventennio, di dotare il Paese di un organismo pubblico di pronto intervento che non venisse strangolato dalle regole della burocrazia e fosse quindi in grado di agire con immediatezza. E anche il caso dell’esercito che, in questi periodi di ristrettezze di bilancio, vuole essere pagato dai sindaci che richiedono il suo intervento per spalare la neve: la cifra non è del tutto trascurabile, trattandosi di settecento euro al giorno per ogni squadra di dieci spalatori. Lo scollamento nazionale spinge poi il sindaco di Roma a vedere nei servizi sul maltempo nella capitale che compaiono sui giornali del Nord una bieca congiura per togliere a Roma la possibilità di ospitare le Olimpiadi del 2020. Sotto le nevicate, insomma, è l’Italia che rischia di sfarinarsi. Nei Paesi di montagna di un tempo, neve e freddo portavano con sé impulsi di solidarietà e di condivisione. Invece di condivisione, la situazione attuale porta divisione, con i «forconi» siciliani che minacciano di bloccare le uscite dalle raffinerie dell’isola, nelle quali si «lavora» una quota importante del petrolio italiano per impedire che venga inviato nel resto d’Italia. Forse proprio di qui, dalla presa di coscienza della realtà di un Paese infreddolito, lacerato, oltre che in bolletta, occorre partire per cercare di rilanciare l’idea stessa di un Paese reso irriconoscibile, ancor più che da una coltre bianca, da una coltre di acrimonia ed egoismo. Senza tale presa di coscienza, qualsiasi politica di rilancio rischia di essere fondata sulla sabbia; o, se si preferisce, su un tappeto di neve scivolosa. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9750 Titolo: MARIO DEAGLIO. La speranza alla fine di un lungo inverno Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2012, 11:51:27 am 22/2/2012
La speranza alla fine di un lungo inverno MARIO DEAGLIO La maratona sul debito greco, che durava ormai da un paio d’anni, potrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere proprio finita. La notte ha portato consiglio e dalle lunghe ore buie tra lunedì e martedì è finalmente emerso un accordo che potrebbe rappresentare la conclusione, non certo dell’intera vicenda greca, ma almeno delle complicate storie del debito di Atene, dell’instabilità e della paralisi che esso ha determinato. Giunge così a termine una lunga storia intessuta di menzogne greche, di ipocrisie europee (in particolare tedesche), di miopia dei mercati, di disattenzione dei politici. L’Europa economica può ora voltare pagina. A ciò può contribuire il documento, reso noto quasi contestualmente alla conclusione dell’accordo greco, firmato da nove capi di governo dell’Unione Europea, i più entusiasti delle ricette del mercato, tra i quali il presidente del Consiglio italiano. E’ piuttosto raro che i capi di governo di alcuni Paesi membri si mettano assieme per scrivere una lettera al presidente dell’Unione Europea sollecitando la realizzazione di quello che in effetti è un programma di politica economica e si potrebbe certo discutere a lungo su vari aspetti del documento, quali la netta preferenza per legami profondi con gli Stati Uniti e l’assenza di riferimenti alla tassazione e alla politica industriale. Con questo documento, però, si può ritenere per lo meno incrinata l’unità di facciata dell’Unione Europea, incentrata sull’accordo tra Germania e Francia, che ha caratterizzato la sistemazione del debito greco, un’unità malinconica, il cui ingrediente principale è un’austerità che sembra fine a se stessa, fatta di imbarazzati silenti e di rassegnata unanimità. La visione franco-tedesca viene sfidata: i nove capi di governo fanno balenare la visione di un’Europa «giovane», con un mercato elettronico ben regolato, la fine dei privilegi delle categorie professionali. Il contenuto, però, conta relativamente poco: si è aperto, per usare un’espressione inglese, un nuovo «campo di gioco» e questo è più importante dello sport, più o meno liberista, che vi si praticherà. L’importante è che si torni a giocare, che si aprano scenari al di là del raggiungimento di un grigio pareggio dei bilanci pubblici e di un’ancor più grigia riduzione del debito. Il gioco sarà quello dello sviluppo. L’Europa - e l’Italia in particolare - ha smesso di praticarlo da parecchio tempo. Per far ripartire il motore inceppato le liberalizzazioni sono spesso soltanto una condizione necessaria ma non sufficiente. E’ necessario un insieme complesso di circostanze, solo in parte determinabili a livello italiano o europeo. Il discorso è particolarmente vero per l’Italia la cui economia esce sfinita da un durissimo inverno meteorologico e un ben più lungo inverno economico, con una produzione in forte calo ma forse, per la prima volta da molto tempo, con la voglia di ritrovare i sentieri della crescita. Le speranza, per ora debolissime, di una ripresa italiana, poggiano su tre pilastri. Il primo pilastro è la continuazione della crescita dell’economia globale e in particolare dell’economia europea. Tra i vari Paesi europei va naturalmente sottolineata la posizione della Germania: il proseguimento dell’espansione tedesca nei prossimi trimestri, è un fattore irrinunciabile per qualsiasi discorso di crescita italiana di breve periodo. Un ruolo secondario ma sempre più importante, per la rapida crescita di quei mercati è rappresentato dai Paesi dinamici dell’Asia. Su tutto ciò l’Italia può incidere assai poco e siamo nelle mani della congiuntura internazionale. Vi sono invece buone prospettive perché si realizzi un secondo pilastro, tipicamente italiano, rappresentato dal contrasto all’evasione fiscale e alla corruzione. La lotta a questi fenomeni sembra dare risultati insperati e questo potrebbe consentire di dedicare una parte dei maggiori introiti alla riduzione delle imposte sui redditi più bassi e non soltanto alla riduzione del deficit. La mole dei consumi realizzati con quei redditi sicuramente aumenterebbe dopo un lungo periodo di stagnazione o addirittura di arretramento. Un terzo pilastro di una ripresa possibile appare legato a un recupero spontaneo dei consumi nei prossimi mesi. Occorre infatti considerare che la possibilità materiale di provvedere alle spese normali è stata molto ridotta dalle condizioni atmosferiche che hanno fortemente scoraggiato l’accesso dei consumatori ai luoghi della grande distribuzione. Tale condizione dovrebbe cessare ed è ragionevole attendersi che una buona parte delle decisioni di spesa che non si sono tradotte in acquisti durante l’inverno - soprattutto per quanto riguarda beni durevoli - trovi il suo completamento in primavera: si potrebbe trattare di una modesta spinta iniziale per riavviare il motore. Manca, purtroppo, per il momento, il quarto pilastro, rappresentato dagli investimenti delle imprese private e, più in generale, da una condizione finanziaria e creditizia soddisfacente per le piccole imprese. Il credito alle imprese non è soltanto dovuto alla buona volontà dei banchieri, come talvolta si crede: il sistema bancario italiano è come schiacciato da scarsità di risorse ed eccessiva abbondanza di rischi. Un quadro ancora grigio, quindi, ma forse con qualche piccolo segno di un nuovo dinamismo. I prossimi mesi diranno se, in Italia e in Europa, qualcosa si sta davvero muovendo. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9802 Titolo: MARIO DEAGLIO. Una diversità virtuosa Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 05:07:52 pm 25/2/2012
Una diversità virtuosa MARIO DEAGLIO E’ mai possibile che a dicembre, ossia sotto le feste, nella stagione dei regali e dei cenoni, gli italiani abbiano speso, per gli acquisti nei negozi e nei supermercati meno di quel che avevano speso a novembre? Senza esitazione, l’Istat risponde di sì: rispetto al dicembre del 2010 è una vera e propria Caporetto, con il 3,7 per cento in meno per gli acquisti di beni non alimentari e l’1,7 per cento in meno per gli acquisti alimentari. La curva delle vendite del commercio al dettaglio degli ultimi due anni fa male agli occhi, con un lieve scivolamento dal dicembre 2009 al febbraio 2011 divenuto sempre più rapido a partire dal marzo dell’anno passato. I consumi hanno reagito molto peggio nel 2011 che nel 2008-09, quando la crisi finanziaria aveva cominciato a colpire duramente l’economia reale. In giugno siamo scesi sotto il livello di consumi del 2005 (quando i residenti in Italia erano due milioni e mezzo in meno); ora siamo scesi al livello del luglio 2004. E non si tratta certo di una «decrescita felice» auspicata da chi è contrario al consumismo ma di una contrazione che avviene in un clima di durezza e di crescente incertezza. Un’indagine del Cermes, il Centro di Ricerca su Marketing e Servizi dell’Università Bocconi, mostra chiaramente che questa caduta dei consumi si sta accompagnando a un forte mutamento qualitativo, che invece non si era verificato, per lo meno con questa ampiezza, nella contrazione dei consumi di tre anni fa. Il modello tradizionale del consumismo sembra tramontato: il consumatore «bamboccione», stregato dalla pubblicità, ha perso il suo sorriso un po’ assente, si è fatto, duro, attento, determinato a vender cara la propria pelle, ossia a centellinare i centesimi, invece di spendere allegramente gli euro. Forse si sta realizzando ora in Italia un mutamento di comportamenti consumistici parallelo a quello che si è verificato negli Stati Uniti a partire da 4-5 anni fa. Tale comportamento sembra articolarsi in due diverse strategie di consumo. La prima consiste nel trasferire all’interno delle pareti domestiche attività il cui prodotto veniva in precedenza acquistato all’esterno. Una buona colazione mattutina sostituisce sempre più frequentemente il «salto al bar» nella pausa caffè; si può prendere il caffè a casa, magari con le nuove macchinette a cialde, con le quali una tazzina costa più cara di quella della caffettiera normale ma assai meno di quella dei bar; e sono sempre più frequenti i casi di coloro che hanno ricominciato a fare il pane in casa invece di comprarlo. La seconda strategia consiste nell’adeguare la spesa alle (ridotte) risorse finanziarie che si intendono dedicare ai consumi, non solo per necessità ma qualche volta anche per scelta. Gli ipermercati diventano luoghi di tentazione invece che luoghi di soddisfazione dei bisogni; meglio quindi acquisti piccoli e frequenti, adatti ai soldi effettivamente in tasca, che la «gita» ai templi del consumo dalla quale si esce con il portabagagli strapieno di prodotti, una parte dei quali senza saper veramente perché. Le offerte «prendi tre, paghi due» non sono allettanti quando si ha necessità di un solo prodotto; le confezioni piccole sono preferite a quelle grandi anche se durano meno perché alleggeriscono meno il portafoglio. E naturalmente, bando agli sprechi: gli italiani stanno (ri)imparando a non buttar via nulla. Gli italiani non sembrano resistere con tagli «orizzontali» che toccano ogni tipo di prodotti, ma reagiscono, modellando i consumi sul reddito. Sembra così di intravedere un comportamento «attivo», quasi un riappropriarsi di facoltà di scelta, di decisioni che per vari decenni gli italiani, come i cittadini degli altri Paesi ricchi, avevano delegato di fatto ai pubblicitari. Il termine «frugalità», reintrodotto nel vocabolario americano quattro anni fa per indicare un atteggiamento responsabile rispetto ai beni, ha forse trovato la sua strada anche in Italia. Tale atteggiamento sembra far capolino anche nelle scelte lavorative, con casi recenti, da seguire con attenzione, di ritorno degli italiani verso occupazioni e mestieri fino a pochissimo tempo fa «snobbati» e lasciati agli immigrati. L’Italia che uscirà dalla crisi - che ha probabilmente toccato il picco a gennaio e febbraio, anche per motivi meteorologici, con il freddo che limitava l’offerta degli alimentari freschi e teneva i consumatori lontani dai luoghi dell’acquisto - sarà probabilmente diversa, più responsabile, più reattiva dell’Italia che vi è entrata, quasi senza accorgersene e dopo averne negato a lungo l’esistenza. Potrà sembrare una piccola cosa, ma è proprio su questa diversità di atteggiamento che occorre costruire, se questo Paese vuole avere un futuro. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9814 Titolo: MARIO DEAGLIO. Mille giorni per dimenticare il baratro Inserito da: Admin - Marzo 03, 2012, 11:18:56 pm 3/3/2012
Mille giorni per dimenticare il baratro MARCO DEAGLIO Con il «patto di bilancio», siglato ieri, ha inizio un esperimento indispensabile e pericoloso al tempo stesso: entro tempi brevi i Paesi della zona euro dovranno mettere in sicurezza i propri conti pubblici. Una scelta che obbedirà a direttive generali, che dovranno essere incluse nelle rispettive costituzioni. La loro applicazione sarà controllata nientemeno che dalla Corte di Giustizia europea e non saranno più possibili bilanci strutturalmente in deficit, anche se qualche piccolo valore negativo del saldo corrente sarà consentito nelle fasi sfavorevoli dei cicli economici. Perché il trattato entri in vigore è necessaria l’approvazione di dodici Paesi soltanto; il vecchio principio dell’unanimità è stato spazzato via. Si tratta di cambiamenti radicali che un’Italia (e un’Europa) distratta ha seguito con insufficiente attenzione: è la fine della finanza allegra da parte dei governi che non potranno più, come spesso hanno fatto i loro predecessori, lasciare debiti eccessivi a chi viene dopo di loro. Insieme alla finanza allegra, se ne va un altro pezzo di sovranità nazionale, rappresentato dalla libertà di decidere senza limiti sui proprio bilanci pubblici, una libertà di cui molti Paesi hanno fatto un uso irresponsabile. Non dobbiamo quindi essere scontenti, anzi, ma rimane un interrogativo fondamentale: come sarà possibile, in un continente sull’orlo della recessione, conciliare una simile «camicia di forza» sulla spesa pubblica con l’imperativo di sostenere l’economia evitando un tuffo nella disoccupazione di massa, e tagli socialmente insostenibili allo Stato assistenziale? Non si rischia di scatenare un rigetto viscerale da parte di Paesi finanziariamente stremati, come l’Italia e la Spagna e forse anche la Francia? A questo interrogativo ha cercato di rispondere anticipatamente la Bce, la Banca Centrale Europea: con le due aste del 21 dicembre 2011 e del 29 febbraio 2012 ha immesso nel circuito finanziario europeo circa mille miliardi di euro, prestati, a bassissimi tassi di interesse, a quasi altrettante banche europee. Gli obiettivi di questa gigantesca operazione sono tre: rinforzare le banche in difficoltà (fuori d’Italia ce ne sono parecchie), sostenere, ove necessario, i debiti pubblici sotto attacco speculativo sui mercati finanziari, e fornire le basi per rilanciare il credito alle imprese. L’intervento della Bce era assolutamente necessario, come l’ossigeno per un malato grave in crisi respiratoria. Sarà però anche sufficiente? Riuscirà il malato a riprendere la respirazione normale quando la bomboletta sarà finita, ossia quando, tra tre anni, questi prestiti scadranno? Non c’è alcun parametro certo per rispondere con sicurezza a questa domanda ed è proprio per questo che il nuovo esperimento europeo racchiude una buona dose di inevitabile pericolo. L’unica cosa che sappiamo con certezza e che tre anni fanno poco più di mille giorni: tra poco più di mille giorni, quindi, i mille miliardi dovranno esser restituiti. Per conseguenza, l’Europa ha mille giorni per coordinare i bilanci dei Paesi membri, per reimpostare, per ripensare, per rilanciare le sue ventisette economie. Negare l’ossigeno a un malato che ha gravi difficoltà di respirazione sarebbe stato assurdo. Pensare che il malato possa restare per sempre attaccato alla bombola dell’ossigeno sarebbe un’assurdità ancora più grande. Per questo non si può dar torto al cancelliere tedesco, Angela Merkel che, pur riconoscendo nel nuovo trattato una pietra miliare per l’Europa, invita a non abbassare la guardia, ammonisce che non siamo affatto fuori dal tunnel e considera la situazione essenzialmente fragile. Per l’Italia uno degli interrogativi cruciali per i prossimi mesi è quanti dei miliardi presi a prestito dalle banche italiane arriveranno veramente là dove sono assolutamente vitali, ossia al tessuto primario delle piccole e medie imprese che non dispongono di forza sufficiente per andare da sole sui mercati finanziari e hanno un bisogno vitale del credito bancario. «E’ cruciale», ha detto il governatore della Banca d’Italia il 18 gennaio nel suo importante discorso al Forex, «che l’economia non entri in asfissia creditizia». Per evitare l’asfissia creditizia sono essenziali le banche, chiamate a dosare e indirizzare l’ossigeno della Bce. Hanno ottenuto un consistente finanziamento a basso prezzo dalla stessa Bce e si chiede loro di erogare, con una parte di queste risorse a clienti la cui credibilità bancaria risulta, a seguito della difficile situazione economica, inferiore a quella di un anno o anche solo sei mesi fa. Il mondo bancario è in allarme perché nel decreto sulle liberalizzazioni è stata inserita (e approvata dal Senato) una norma che delle liberalizzazioni è l’opposto in quanto impone l’assenza di commissioni bancarie, una normale e importante fonte di reddito per gli istituti di credito. Si è trattato probabilmente di un incidente di percorso, che proprio non ci voleva e che ci si augura sia rapidamente corretto: perché, anche se finalmente ci stiamo avviando di buon passo e non siamo più sull’orlo del baratro, il sentiero è lungo, difficile e in salita. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9838 Titolo: MARIO DEAGLIO. Condannati alla povertà Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:22:32 am 9/3/2012
Condannati alla povertà MARIO DEAGLIO Alla fine la finanza ce l’ha fatta. Alle otto di ieri sera, ora italiana, è arrivato l’annuncio ufficiale: i possessori privati di debito greco hanno detto sì alla proposta di accettare la perdita di oltre metà del loro denaro. È stato così rinviato alle calende greche il rimborso del resto e i creditori si sono accontentati, per questo lungo periodo, di un tasso di interesse molto basso. Siccome l’adesione è stata volontaria - anche se certo non spontanea, viste le pressioni sui fondi e sulle banche che detenevano grandi quantità di titoli greci - la Grecia non è in fallimento; la valanga dei rimborsi sui Cds, i titoli-scommessa sul fallimento di Atene, ben più temibili del debito stesso, stimati in 1000-1500 miliardi di euro non si abbatterà quindi sulla finanza mondiale. A causa di questa valanga, alcuni grandi della finanza internazionale avrebbero potuto soccombere, ancora più facilmente della Grecia. L’equilibrio di fondo della finanza globale appare comunque salvo, per il momento; la testardaggine del cancelliere tedesco, temperata dai suoi partner italiani e francesi, consente ora a tutti di tirare un sospiro di sollievo. L’indice Dow Jones - leggendario termometro dei capitalismo finanziario - può riprendere la marcia verso quota 13 mila, superata di un soffio prima di ricadere nei giorni scorsi, proprio per il pericolo di un cedimento dell’euro. In questa situazione l’Italia incassa un bonus particolare: l’ormai famoso «spread», ossia la distanza tra i bassi rendimenti dei titoli decennali emessi dallo Stato tedesco e gli equivalenti emessi dallo Stato italiano, è sceso sotto il livello del 3 per cento. Siamo di nuovo un Paese rispettabile e l’estero non sembra dare gran peso al cicaleccio politico esploso improvvisamente due giorni fa, considerandolo normale amministrazione. Il che significa che lo Stato spenderà meno per ottenere il rifinanziamento dei debiti in scadenza nelle prossime settimane (e sperabilmente nel resto dell’anno). E gli spagnoli, nostri «cattivi» cugini, che hanno apertamente sfidato l’Europa annunciando che nel 2012 non rispetteranno l’obiettivo di deficit a loro assegnato, hanno avuto la «punizione» che si meritano: per la prima volta da molti mesi il loro «spread» è (un po’) più alto del nostro. Le distanze sono ristabilite, le normali gerarchie sono rispettate. Di fronte a questo complicato e fragile ritorno alla normalità occorre evitare manifestazioni premature di giubilo. E questo per tre motivi. Il primo è che quello che abbiamo fatto alla Grecia trascende i confini dell’economia: premesso che i Greci sono stati dei grandi mentitori (ma l’Europa finanziaria per anni ha voluto credere alle loro menzogne senza darsi la pena di indagare) va denunciato che il resto d’Europa li sta trattando, per certi aspetti, peggio di come gli alleati della seconda guerra mondiale trattarono la Germania sconfitta. L’accordo che mette al riparo l’euro, condanna infatti la Grecia: tra il 2009 e il 2011 il prodotto lordo greco ha già subito una caduta del 10 per cento e scenderà ancora (secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale) almeno del 2 per cento nel 2012. La disoccupazione è raddoppiata, le retribuzioni dei pubblici dipendenti sono state decurtate del 20 per cento. A fronte di questi enormi sacrifici, la Grecia non ha alcuna certezza che la cura funzioni. Può anzi trasformarsi in una trappola crudele: le imposte pagate da un’economia che si contrae in questa maniera si contraggono fortemente anch’esse e il sospirato pareggio di bilancio che sembra a portata di mano sfugge quando si crede di averlo afferrato. E’ già successo con il primo tentativo di salvataggio della Grecia, potrebbe succedere di nuovo. Impedendole di dichiarare ufficialmente il fallimento, l’Europa sta costringendo la Grecia a dissanguarsi goccia a goccia senza una chiara possibilità di ripresa. A questa tortura un giornale di Vienna ha dato il nome appropriato di «genocidio finanziario»: stiamo condannando quel Paese ad almeno 15 anni di relativa povertà. Dalla parte dell’Unione Europea non tutto è tranquillo. Il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) ha potuto ieri suonare il «cessato allarme» per l’euro e rallegrarsi pubblicamente per il superamento dell’ostacolo e il successo delle due recenti operazioni di finanziamento a tre anni, per complessivi mille miliardi di euro, che hanno fornito all’economia europea almeno una parte dell’ossigeno necessario per sopravvivere. La stessa Bce ha però ancora una volta tagliato le stime della crescita europea che ora oscilla tra -0,5 e +0,3 per cento, il che significa stagnazione. L’inflazione è prevista tra il 2,1 e il 2,7 per cento, in significativo aumento rispetto all’1,5-2,5 per cento di dicembre, soprattutto per l’aumento del prezzo del petrolio. Non è proprio un buon segnale. Lo stesso Draghi, inoltre, ha dovuto difendersi dalle critiche dei «falchi» della Bundesbank, arrivate ai giornali grazie a un’insolita indiscrezione tedesca: dietro l’unità di facciata dei banchieri europei vi sono differenze profonde e molta incertezza. In questa prospettiva si colloca l’incerta situazione italiana; il rallegramento per i risultati raggiunti negli ultimi quattro mesi non deve far dimenticare che la strada che il Paese deve percorrere è lunghissima. Abbiamo scalato una collinetta, appena una piccola asperità che fa da anticima alla montagna del nostro debito, accumulato in una generazione. Stiamo andando di buon passo, ma la strada davanti a noi è ancora davvero molta. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9860 Titolo: MARIO DEAGLIO. a nuova sfida è evitare la serie b Inserito da: Admin - Marzo 23, 2012, 11:19:43 pm 23/3/2012
La nuova sfida è evitare la serie b MARIO DEAGLIO Nell’Italia della frantumazione, in cui le forze politiche e sociali tendono a sbriciolarsi, la Confindustria ha a lungo costituito un’eccezione, riuscendo a rappresentare con efficacia, nel confronto sociale, le anime sempre più divergenti dell’imprenditoria italiana. La designazione alla presidenza di Giorgio Squinzi con pochissimi voti di scarto sull’altro candidato, Alberto Bombassei, non è indizio di insanabili dissensi ma piuttosto della difficoltà, riscontrabile in quasi ogni aspetto della società italiana, di raggiungere il consenso, di pervenire a posizioni veramente condivise. Si può facilmente constatare un processo di sbriciolamento che interessa la politica come il mondo del lavoro, le realtà territoriali, le categorie, le generazioni e che non genera tanto un «tutti contro tutti» quanto il rapido venir meno di motivi di coesione, una sorta di «nessuno con nessuno». Questo processo sta ora sfiorando la Confindustria, un paio di settimane dopo che il Centro Studi dell’organizzazione degli imprenditori ha confermato il quadro impressionante - purtroppo già noto nelle sue linee generali - di caduta produttiva dell’industria. L’attuale produzione industriale si colloca oltre il 22 per cento al di sotto del massimo pre-crisi che risale all’ormai lontano aprile 2008. Quelle che sembravano profezie di sventura sono state superate in peggio dalla realtà di un’economia - non solo italiana, ma più generalmente europea, anche se in Italia si toccano alcune delle punte peggiori - in rapida contrazione strutturale: più si indebolisce, più l’industria, e l’imprenditoria in genere, diventa gracile con il rischio di creare le premesse per ulteriori indebolimenti. All’organizzazione degli imprenditori, come alle altre parti sociali e alle forze politiche, incombe l’obbligo di uscire da questo circolo vizioso, di rafforzare la tendenza, sinora troppo timidamente manifestata, ad andare oltre alle difficoltà del momento, a disegnare un’ideale «città futura» e a confrontare con quell’ideale, senza pietà e senza falsi pudori, le proprie inadeguatezze attuali. A un’analisi di questo tipo, alcune caratteristiche peculiari dell’imprenditoria italiana appaiono inadeguate ad affrontare non solo l’economia globale ma anche la più vicina, e apparentemente più «facile», economia europea. Le imprese italiane sono gracili dal punto di vista finanziario e piccole dal punto di vista delle dimensioni; dispongono di un capitale troppo poco distinto da quello personale degli imprenditori e cercano troppo il sostegno delle banche. Mentre mostrano vivacità tecnologica ed eccellenza qualitativa in molti settori della produzione, solo raramente hanno il desiderio di crescere e di sottoporsi al giudizio delle Borse; per mantenere un carattere ostinatamente famigliare diventano perciò vulnerabili, specie nei momenti di passaggio generazionale, ad acquisti esterni. Occorrerebbe riflettere, a questo proposito, sull’ondata, attualmente in corso, di acquisizioni di eccellenti piccole e medie italiane da parte di concorrenti europei ed extra-europei che spesso le svuotano del loro patrimonio tecnologico e trasferiscono altrove la produzione. Dietro alla caduta del 22 per cento della produzione, insomma, c’è qualcosa di più profondo e di più difficile da combattere della crisi che stiamo dolorosamente attraversando: c’è il pericolo di un degrado permanente del potenziale produttivo del Paese, di un ritorno in serie B dopo oltre cent’anni di serie A. Tale pericolo è reso più evidente dal nanismo italiano in molti settori di punta dei nuovi modi di produzione, come sono quelli legati a Internet, e dallo scarso collegamento che le imprese riescono a realizzare con il mondo della ricerca universitaria, parte integrante e indispensabile del nuovo modo globale di produzione. Forse l’insistenza, che accomuna assai spesso sindacati e imprenditori, sull’importanza della «fabbrica» porta entrambi a trascurare quei settori «non-fabbrica» sui quali altri Paesi stanno costruendo o rilanciando la propria prosperità. La nuova presidenza di Confindustria dovrà avere questi problemi ben presenti e non certo limitarsi a ricercare una coesione di facciata di associati fortemente assorbiti dai gravi problemi che ciascuno deve singolarmente affrontare. Non è sicuramente evitabile l’interrogativo su quanto rilevante potrà essere il potenziale produttivo italiano in un’ottica mondiale nel giro di cinque-dieci anni; e nella creazione della «città futura» dell’economia italiana non è sufficiente che gli imprenditori avanzino richieste, pur doverose e più che legittime, di innovazioni legislative, fiscali e finanziarie. E’ essenziale che si interroghino anche su ciò che possono offrire al Paese, non solo in termini di progettualità, iniziativa, dinamismo ma anche nella prospettiva di evoluzione dei meccanismi proprietari, di sviluppo e utilizzo delle nuove tecnologie, di nuovi modi di ottenere risorse finanziarie: dei nuovi modi, in altre parole, di essere imprenditori in un mondo che non è certo intenzionato ad aspettarci. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9916 Titolo: MARIO DEAGLIO. L'Europa tra Scilla e Cariddi Inserito da: Admin - Aprile 01, 2012, 12:16:05 pm 1/4/2012
L'Europa tra Scilla e Cariddi MARIO DEAGLIO Nel dodicesimo canto dell’Odissea, Omero racconta che Ulisse non aveva scelta: se fosse passato troppo vicino a Cariddi, la sua nave sarebbe stata affondata in quel terribile gorgo; se, per contro, fosse passato troppo vicino a Scilla, avrebbe salvato la nave ma quel mostro a sei bocche gli avrebbe divorato sei buoni compagni. Ulisse non disse nulla ai suoi uomini, passò vicino a Scilla e perse sei buoni marinai. Optò quindi per il male minore, ma tale opzione provocò la rivolta del suo equipaggio che lo costrinse a fermarsi sull’isola Trinacria dove uccise alcuni buoi sacri, fonte di nuovi guai. Sia pure in forme molto diverse, tutti i governi dei Paesi ricchi devono affrontare il dilemma di Ulisse: per evitare di vedere le loro economie affondate dai mercati finanziari, ossia dal gorgo di Cariddi, devono adottare misure che provocano scontento sociale e politico, ossia le avvicinano alle bocche di Scilla. Le forme dello scontento vanno dallo sciopero generale spagnolo all’imprevisto successo, nei sondaggi pre-elettorali francesi, del candidato comunista Jean-Luc Mélenchon. A differenza di Ulisse, il vero pericolo è di subire contemporaneamente i due mali: di non riuscire a evitare né un ostacolo né l’altro, di vedere le economie avanzate, in particolare quelle europee, stritolate da un mercato finanziario fuori controllo e al tempo stesso scosse da un risentimento di fondo verso politiche non rapidamente efficaci. Del rischio finanziario è un ottimo esempio la cancellazione - a seguito di un litigio tra il presidente Jean-Claude Juncker e il ministro austriaco delle Finanze Maria Fekter - della conferenza stampa conclusiva della riunione dell’Eurogruppo, svoltasi venerdì a Copenhagen. Se avesse tenuto quella conferenza stampa, Juncker avrebbe dovuto ammettere che l’Europa ha quasi soltanto «riverniciato», non realmente rafforzato, il fondo anti-crisi e che non si è ancora trovato l’accordo sul nome del suo successore: due non-decisioni indicative l’una del persistere della debolezza finanziaria e l’altra della mancanza di una vera volontà politica europea. La debolezza finanziaria è molto evidente. Sui conti pubblici della Grecia è stato posto solo un vistoso rattoppo e il suo primo ministro ha dichiarato venerdì che gli aiuti ottenuti forse non basteranno (un modo diplomatico per chiederne dei nuovi); il Portogallo può vantare una forte riduzione del deficit pubblico, accompagnata, però, nel 2012, da una contrazione produttiva di oltre il 3 per cento; le sorti finanziarie di Italia e Spagna rimangono appese agli spread e soggette a un esame giornaliero; anche i rigorosissimi Paesi Bassi dovranno operare dei tagli per rimanere sotto il «tetto» del 3 per cento e il deficit francese, pur lievemente ridotto rispetto alle previsioni, rimane sopra il 5 per cento. L’intera zona euro rischia così di avvitarsi in una spirale perversa: deficit pubblico - tagli alle spese per cancellarlo - riduzione della produzione a seguito dei tagli - minor gettito fiscale a seguito di tale riduzione - nuovo deficit pubblico (sia pure inferiore al precedente) invece dello sperato pareggio. Ne è un esempio la Spagna che ha dovuto varare la manovra finanziaria più severa - e più impopolare - dai tempi di Franco e che, nonostante questo, alla fine del 2012, avrà, se tutto va bene, un deficit pubblico pari a oltre il 5 per cento del prodotto interno lordo. Le analisi dell’Ocse, diffuse venerdì, mostrano che, nel loro complesso, le tre maggiori economie europee (Germania, Italia e Francia) hanno tristemente celebrato con la fine di marzo il secondo trimestre di caduta produttiva. Altri segnali di grave debolezza provengono dalla produzione industriale italiana, specie nel settore auto. L’Unione europea non può semplicemente accettare una situazione del genere e continuare a inchinarsi ai mercati finanziari perdendo di vista la sostenibilità sociale delle manovre in corso e considerando gli andamenti di tali mercati come una (l’unica?) variabile indipendente, alla quale bisogna sempre adeguarsi senza discutere. Dovrebbe invece da un lato porre ordine in tali mercati, impedendo ondate speculative troppo brusche e rimuovendo l’opacità che ne caratterizza certi segmenti e dall'altro spostare in avanti gli obiettivi di pareggio dei bilanci pubblici e di riduzione dei debiti pubblici troppo frettolosamente fissati nel patto fiscale o «patto di bilancio» dei primi di marzo. Un pareggio troppo frettoloso potrebbe destabilizzare il sistema europeo per un lungo periodo. Potrebbe poi introdurre qualche forma di tassazione dei circuiti finanziari (spesso sinteticamente indicata come «Tobin tax»): gli introiti di tale imposta, come anche una parte degli introiti derivanti dalle manovre dei vari Paesi, dovrebbero essere subito reimmessi nell’economia sotto forma di misure di stimolo invece di venire passivamente sacrificati al dio Moloch del pareggio da raggiungere al più presto possibile. Se non si vuole seguire questa linea, non va scartata a priori la proposta avanzata venerdì a Cernobbio da Nouriel Roubini - l’economista turco-americano, laureato alla Bocconi che è stato uno dei pochi a prevedere la crisi - di immettere una fortissima liquidità nel sistema fino a far svalutare l’euro del 30 per cento. Per non finire nelle bocche di Scilla o sugli scogli di Cariddi l’Europa deve in ogni caso fare un salto di qualità e smetterla con il suo compiaciuto linguaggio burocratico, con le conferenze stampa annullate per nascondere i contrasti, con una visione troppo miope e troppo pericolosa. mario.deaglio@unito.it DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9951 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il tramonto dei parametri finanziari Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:29:29 pm 24/4/2012
Il tramonto dei parametri finanziari MARIO DEAGLIO La caduta generalizzata delle Borse mondiali nella giornata di ieri rappresenta un sintomo importante dei gravi pericoli di sfaldamento di quell’ampia e sofistica costruzione che è la globalizzazione economica. E questo non tanto per l’entità - pur molto importante su alcune piazze europee tra cui Milano - quanto per i motivi della caduta, ossia per ciò che vi sta dietro. I tradizionali fattori economici si intrecciano infatti con fattori politici nel delineare un quadro in movimento in cui i pilastri della collaborazione internazionale e della stabilità interna vengono duramente posti in discussione. L’avvenimento al quale si attribuisce la maggiore influenza sui listini è naturalmente il risultato del primo turno dell’elezione presidenziale francese con l’affermazione dell’estrema destra di Marine Le Pen e la, almeno temporanea, sconfitta del presidente Nicolas Sarkozy. Dietro Sarkozy, però, la vera sconfitta è Angela Merkel, che aveva appoggiato, in maniera molto pesante, il presidente uscente. Merkel rappresenta naturalmente l’ortodossia economico finanziaria, con il suo forse ipotetico - obbiettivo di bilanci ordinati da raggiungere attraverso sensibili sacrifici. In realtà, il grande disegno di una normalizzazione finanziaria rappresentato dal «patto fiscale» tra venticinque Paesi europei, faticosamente varato meno di due mesi fa, sarà sicuramente rimesso in discussione da una vittoria dei socialisti di François Hollande che, se conquisterà l’Eliseo, lo farà con l’aiuto determinante del «partito della sinistra» di Jean-Luc Mélenchon: nessuna simpatia per i mercati da queste parti, ma anzi una dichiarata avversione per la finanza internazionale, un’antipatia per l’euro e una forte insofferenza per la stabilizzazione economico-finanziaria europea voluta dai tedeschi. Non vanno però trascurate le altre componenti della caduta di ieri, in modo particolare l’apertura di una crisi di governo in Olanda determinata da un contrasto sui tagli alla spesa pubblica. I mezzi di informazione seguono assai poco le vicende del Paese dei «Mulini a vento» e per questo molti lettori si stupiranno nell’apprendere che l’Olanda, uno dei simboli del perbenismo, una delle icone di una società europea ordinata e bene organizzata, si è retta per oltre 18 mesi con un traballante governo di minoranza di centrodestra, sostenuto dall’esterno da un imbarazzante partito di estrema destra. Questo Paese, al quale i mercati finanziari hanno sempre mostrato grande fiducia, si porta sulle spalle un deficit pubblico pari al 4,7 per cento del prodotto interno, sensibilmente superiore a quello italiano (3,9 per cento). E’ stato proprio Geert Wilders, il leader dell’imbarazzante partito di estrema destra, a dire no, in sintonia con quanto chiede in Francia il Fronte Nazionale di Le Pen, a sacrifici in nome dell’Europa. Del resto, un articolo di Tonia Mastrobuoni su «La Stampa» di domenica documentava la rapidissima ascesa, nella Germania di Angela Merkel, del «partito dei pirati», una delle maggiori espressioni dell’antipolitica a livello europeo. I «pirati» tedeschi, dal canto loro, si ispirano all’analogo partito svedese che già nel 2009 ha ottenuto il 7 per cento dei voti nelle elezioni europee e oggi sicuramente ne otterrebbe molti di più. Oltre a queste imponenti manifestazioni della malattia sociale, anche la malattia finanziaria dei Paesi europei sembra estendersi rapidamente, dai Paesi meridionali alla Francia (dove il rendimento dei titoli pubblici di lungo termine ha raggiunto il 3 per cento, con un balzo in avanti di un terzo in pochi giorni) e da questa, oltre all’Olanda anche alla Danimarca. Nykredit, una delle maggiori società danesi di servizi finanziari, si è «ribellata» alle agenzie di rating e ha deciso di non sottoporre più i suoi bilanci al loro impietoso scrutinio in quello che sembra un movimento in grado di coinvolgere tutti i maggiori istituti di credito di quel Paese. E non possiamo certo trarre conforto dagli Stati Uniti dove il motore dell’economia, pur alimentato da un fiume di dollari allegramente stampati, non riesce proprio a girare in maniera sostenuta; il motore cinese, intanto, dà segni di rallentamento, con le imprese quotate in Borsa che mostrano un peggioramento complessivo dei profitti realizzati nel primo trimestre del 2012 e delle previsioni dei profitti per il resto dell’anno. Evoluzioni finanziarie ed evoluzioni politico-sociali sembrano andare entrambe nel senso di una minore stabilità. Soprattutto sembra tramontare il disegno merkeliano dell’austerità come cura di tutti i mali. Per troppo tempo le Borse hanno guardato soprattutto ai parametri finanziari. Si accorgono ora, a loro danno, di avere colpevolmente trascurato parametri sociali quali il crescente divario dei redditi, la sempre più difficile situazione dei giovani, l’opposizione viscerale a sacrifici troppo grandi. Il predominio dei parametri finanziari appare chiaramente sulla via del tramonto senza che si sappia con che sostituirlo per salvaguardare le molte buone cose che, assieme a molti sconquassi, la globalizzazione ha portato. La ricerca di un compromesso tra disagio finanziario e disagio sociale dovrebbe essere al primo punto nell’agenda di quanti, in Italia e nel resto d’Europa, si apprestano a mettere a punto nuovi progetti politici. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10028 Titolo: MARIO DEAGLIO. La miopia della Germania priva di un grande disegno Inserito da: Admin - Maggio 12, 2012, 10:23:04 am 12/5/2012
La miopia della Germania priva di un grande disegno MARIO DEAGLIO Nell’aprile 2011 le «previsioni di primavera» della Commissione dell’Unione Europea attribuivano all’Italia una crescita del prodotto interno lordo pari all’1 per cento nel 2011 e all’1,3 per cento nel 2012. L’analogo documento per il 2012, reso noto ieri, ammette che nel 2011 si è realizzato solo un aumento dello 0,4 per cento e per quest’anno prevede addirittura una forte decrescita (-1,4 per cento). Il tutto senza un’analisi dei motivi dell’errore, che non è certo il primo. Tale errore sarebbe forse scusabile se si trattasse di un’esercitazione accademica. Questo documento è però alla base delle raccomandazioni, talora molto pressanti, che la Commissione rivolge ai governi dell’Unione per realizzare il pareggio di bilancio del settore pubblico. Bruxelles si basa quindi su un radar che fornisce indicazioni all’insegna dell’incertezza sulla rotta e sulla velocità della navicella economica dell’Europa; tanto che il commissario Olli Rehn si è ieri affrettato a precisare che all’Italia non serve una nuova manovra in quando il deficit strutturale, ossia depurato della cattiva (e imprevista) congiuntura sarà comunque colmato. L’incertezza, unita a una buona dose di nervosismo, trapela anche dalle dichiarazioni del cancelliere tedesco, Angela Merkel, la quale ripete che la Francia ha ormai firmato il «patto fiscale» e che non può tornare indietro, dimenticando che un documento siglato da un presidente battuto alle elezioni poche settimane più tardi e non approvato dal Parlamento è apertissimo ai cambiamenti. Perché entri in vigore, gli elettori irlandesi inoltre dovranno approvarlo con un referendum il prossimo 31 maggio. Nel 2008, rispondendo «no» a un referendum sul Trattato di Lisbona, ne avevano ritardato l’applicazione di circa un anno. In realtà, Merkel sa benissimo che il patto dovrà e potrà essere migliorato o accompagnato da altri accordi ma più che al nuovo Presidente francese parla agli elettori della Renania Settentrionale-Westfalia, la regione più ricca e popolosa della Germania. Le elezioni locali di domani potrebbero, se i sondaggi sono affidabili, decretare la sua ennesima sconfitta alle urne e dalla gravità di questa sconfitta può dipendere il destino dell’attuale governo tedesco. Merkel però non è il solo leader a farsi guidare alla convenienza elettorale: è purtroppo molto deludente leggere sui giornali di ieri la denuncia del Presidente americano Barack Obama di un «contagio europeo» che potrebbe danneggiare l’economia americana. Anche Obama parla ai suoi elettori che tra sei mesi decideranno se confermarlo per altri quattro anni alla Casa Bianca e volutamente dimentica che la cosiddetta ripresa americana è un mezzo insuccesso e che la crisi è nata e cresciuta in America. Merkel e Obama sono profondamente diversi tra loro ma risultano accomunati dalla miopia dei loro comportamenti. La Germania, in particolare, sta ricevendo un fiume di euro da parte di operatori del resto d’Europa che cercano per i loro capitali un impiego sicuro anche se non molto redditizio; tale spostamento facilita i tedeschi, che possono rinnovare il proprio debito a un basso tasso di interesse e rende più difficile il compito agli italiani, agli spagnoli e ai francesi, che pagano un interesse più che doppio per la medesima operazione. Per essere davvero leader europei, i tedeschi dovrebbero utilizzare questi capitali per un qualche «grande disegno» a base di finanziamenti e investimenti nel resto d’Europa, come gli americani fecero dopo la seconda guerra mondiale con il piano Marshall. Invece del «grande disegno» l’Europa continua a ricevere da Berlino dei grandi consigli pressanti inviti a «fare le riforme» senza alcuna vera indicazione di quali riforme si tratta o di come le riforme - che rafforzano la struttura economica ma richiedono in ogni caso un tempo non indifferente per essere introdotte e per produrre effetti - possano contrastare una congiuntura negativa dalla quale derivano un crescente disagio sociale e una debolezza economica che rischia di auto-alimentarsi. In questa situazione a francesi, italiani e spagnoli non resta che proseguire con avvedutezza nelle riforme, senza illudersi che queste possano modificare la congiuntura e inoltre introdurre nell’economia le poche gocce di «ricostituente» di cui dispongono, come ha fatto ieri il governo italiano con il «piano per l’equità» e l’altro ieri il governo spagnolo con i salvataggi bancari. Ed è presumibile che, nei suoi prossimi incontri con i tedeschi, il neo-presidente francese François Hollande accetti lo schema generale del patto fiscale firmato dal suo predecessore ma richieda parallele misure di rilancio con il coinvolgimento finanziario tedesco. E se Merkel non si fida degli eurobond dovrà probabilmente accettare i project bond, strumenti con cui finanziare programmi di investimenti infrastrutturali a livello europeo, non affidati ai governi nazionali ma gestiti dalla Commissione che, tra non molti giorni, ne esaminerà l’attuazione nella speranza di farli partire entro agosto. Anche se questa speranza si realizzerà, prima che i project bond si trasformino in ordini alle imprese e in lavoro passeranno, nel migliore dei casi, diversi mesi. In questi mesi tutti i Paesi della zona euro di fatto potranno contare soltanto su se stessi in un orizzonte mondiale tempestoso e instabile. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10092 Titolo: MARIO DEAGLIO. I creditori non sono senza colpe Inserito da: Admin - Maggio 16, 2012, 05:06:35 pm 16/5/2012
I creditori non sono senza colpe MARIO DEAGLIO La rinuncia dei partiti politici greci a formare un nuovo governo è, nei fatti, un «no» al piano di rientro dal debito preparato a Bruxelles e proposto ad Atene dall’Unione Europea. Mentre il rifiuto veniva pronunciato, un Presidente francese appena insediato si preparava a incontrare il cancelliere tedesco Angela Merkel, uno dei pochissimi leader sopravvissuti al terremoto politico che, negli ultimi tre anni, ha fatto crollare pressoché tutti i governanti europei coinvolti nel tentativo, finora sostanzialmente fallito, di trovare una via d’uscita dalla crisi. Ad aggiungere un tocco di drammaticità, caso mai ce ne fosse bisogno, l’aereo presidenziale francese è stato sfiorato da un fulmine e ha dovuto tornare indietro costringendo a rinviare l’incontro, sia pure solo di quale ora; si è così provocato l’ennesimo, sia pur quasi simbolico, ritardo europeo nell’affrontare i problemi dell’Europa. La politica torna così a recitare, per quanto in tono minore, il ruolo che la contrappone, spesso controvoglia, alla finanza internazionale. E questo avviene non solo a Parigi, Berlino e Atene. Ma anche negli Stati Uniti, dove il presidente Obama ha lanciato accuse durissime a Wall Street e invocato regole più severe per le banche anche a seguito delle perdite impreviste di JP Morgan, uno dei colossi della finanza internazionale. Queste perdite sono la prova che le grandi banche internazionali non hanno imparato molto dalla crisi e si sono illuse di poter riprendere tutte le vecchie abitudini dopo essere state, in molti casi, salvate con soldi pubblici. A spingere una classe politica riluttante a un confronto con la finanza internazionale c’è una società civile in ebollizione, con le manifestazioni degli indignados non solo in Spagna e Grecia ma anche a Londra e negli Stati Uniti. Il problema si può sintetizzare in una serie di interrogativi che stanno diventando sempre più pressanti: fino a che punto la società civile - e gli uomini di governo che la rappresentano - può accettare la «dittatura dello spread» per usare la felice espressione del Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, alla presentazione del suo rapporto annuale? Fino a che punto decisioni importanti per una collettività nazionale possono venir sottratte ai suoi organi politici e sommariamente decise dal «mercato» in sedi diverse dai Parlamenti, chiamati ormai solo a ratificare sbrigativamente intese che sono dei veri e propri «diktat»? Quando si concedono finanziamenti «sbagliati» a Paesi che non sono in grado di restituirli, l’errore viene commesso da due parti, non solo dal debitore ma anche da chi concede il prestito. Non si vede perché quest’errore debba ricadere solo sul Paese debitore, ossia sulla parte normalmente più debole in questo tipo di transazioni, e non invece suddivisa tra quanti hanno sbagliato, ossia tra debitori e creditori in base a qualche criterio che non sia puramente finanziario. Alla dittatura dello spread occorrerebbe contrapporre una sorta di «democrazia del debito» in cui ciascuno paga per i propri errori. E questo dovrebbe valere in maniera del tutto particolare all’interno dell’Unione Europea, dove i greci furono indotti a contrarre debiti anche dalla facilità con la quale numerose banche europee e americane erano pronte a offrire loro credito. Imporre alla Grecia (e forse domani ad altri Paesi) di pagare i debiti nei tempi stabiliti può significare una condanna di questo Paese - e domani forse di altri in Europa e altrove - a lunghi periodi non solo di incertezza ma perfino di povertà. Occorrerebbe considerare che un debitore esoso può attirare su di sé un risentimento molto maggiore di quello che si attira un nemico vincitore in guerra e che un simile risentimento è pericoloso per gli stessi creditori non solo sul piano civile ma anche su quello finanziario. Non bisogna dimenticare, infatti, che, quando il deficit pubblico si azzera, il manico del coltello passa dal creditore al debitore. Non dovendo richiedere risorse aggiuntive, il debitore si rinforza mentre il creditore si indebolisce: il debitore potrebbe infatti decidere di ritardare la restituzione del debito o ridurre gli interessi sotto il livello pattuito. Una severità eccessiva nei confronti del debitore che non ce la fa rischia di porre le basi di risentimenti dai quali potrebbero sorgere nuovi, e più forti, motivi di instabilità. Nella storia i casi di questo genere sono piuttosto frequenti (i tedeschi dovrebbero rammentare che il risentimento contro le riparazioni di guerra successive alla Prima guerra mondiale spianò la strada a Hitler) ma - si sa nelle scuole alle quali si formano gli attuali uomini della finanza la storia non ha certo il posto d’onore. E’ essenziale che il Presidente Hollande e il cancelliere Merkel superino il livello della miopia prevalente negli ultimi mesi nell’affrontare i problemi dell’euro, nel cercare di stabilire una posizione comune che tenga conto di giustificate riserve tedesche ma anche di un quadro più generale in cui queste riserve appaiono meschine. Sarebbe uno di quei piccoli miracoli ai quali l’Unione Europea ci ha abituato se dall’incontro scaturisse una posizione comune, flessibile e ragionevole, in luogo del pericoloso dogmatismo al quale i tedeschi ci hanno abituato negli ultimi tempi. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10111 Titolo: MARIO DEAGLIO. L'europa può scegliere il suo destino Inserito da: Admin - Giugno 15, 2012, 11:47:02 pm 13/6/2012
L'europa può scegliere il suo destino MARIO DEAGLIO Solo molto raramente gli operatori finanziari e i responsabili dell’economia globale sono uomini di lettere. A pochissimi di loro, quindi, saranno tornati in mente, nelle recenti, pesantissime sedute dei mercati finanziari, i celebri versi di Rudyard Kipling, il romanziere e poeta della globalizzazione ottocentesca: «Se riesci a tenere la testa a posto mentre tutti attorno a te la perdono... allora, figlio mio, tutta la terra sarà tua con quanto contiene». Negli ultimi giorni, invece, la testa l’hanno persa in molti su tutti i mercati finanziari del mondo, dando l’impressione di essere sul punto di perdere il controllo che continuano a esercitare sulla terra e su quanto contiene. Una pioggia di parole, più pesanti di pietre, si è abbattuta sui listini e sugli spread, con una particolare predilezione per la Spagna e per l’Italia il che denota una sostanziale immaturità dei mercati, nella loro versione attuale: forse per troppo tempo si è lasciato a loro il governo di fatto dell’economia globale. La lista di queste parole pesanti sarebbe molto lunga - e comprende molte analisi frettolose e sommarie di stimate banche d’affari internazionali - ma si può cominciare con quanto detto da George Soros, il finanziere che vent’anni fa fece crollare la sterlina, il quale ha solennemente affermato che, se non si agisce subito, l’euro ha tre mesi di vita. Soros non è nuovo a drammatizzazioni di questo genere e proprio per questo è incredibile che Christine Lagarde, già navigato ministro francese delle Finanze e oggi direttore del Fondo Monetario Internazionale, gli abbia fatto eco in un’intervista alla rete televisiva americana Cnn che ha poi dovuto faticosamente rettificare dopo che le sue parole avevano contribuito al non brillante andamento dei listini. E si può finire con il ministro delle Finanze austriaco, Maria Fekter, che ha tranciato giudizi negativi sulla situazione finanziaria italiana della quale non ha alcuna conoscenza specifica. Il lettore non specialista è indotto a credere che la moneta nella quale vengono pagati i suoi redditi, nella quale detiene i suoi risparmi e con la quale effettua i suoi acquisti - la moneta, insomma, che rappresenta al momento attuale la massima espressione di economie avanzate e solide, fondamento di una pace e di una cultura continentale - possa sparire dalla sera alla mattina per effetto della «speculazione». Non è così. L’attuale debolezza dell’euro può e deve stimolare azioni correttive da parte dei governi, ma ci vorrebbe in ogni caso un’incompetenza totale per farla sparire in una tempesta finanziaria, come per un incantesimo malefico. Naturalmente per l’euro è indispensabile la volontà politica degli europei di avere un’unica moneta e sarà probabilmente questo il vero tema centrale dell’incontro romano dei principali leader del continente che si terrà a Roma tra non molti giorni. La volontà politica è alla base di un uso efficace dei giganteschi strumenti di difesa dell’euro, a cominciare dal «Fondo salva Stati» e dal «Meccanismo Europeo di Stabilità». Ci sono poi azioni specifiche di sostegno in condizioni di emergenza che possono essere poste in atto dalla Banca Centrale Europea e, se richiesto, dal Fondo Monetario Internazionale. E non vanno trascurate le enormi riserve auree di Francia, Germania e Italia che potrebbero, se fosse veramente necessario, essere date in garanzia sulla solidità della moneta. Che, dopo una giornata di fuoco sui mercati finanziari, l’euro possa semplicemente cessare di esistere è una leggenda metropolitana che i mezzi di informazione purtroppo tendono a legittimare. È molto più realistico pensare che il cambio dell’euro possa subire una forte correzione al ribasso - che del resto sembra in atto -, il che non deve impressionare più di tanto. Gli americani sostengono da sempre che «il valore di un dollaro è un dollaro». È tempo che gli europei imparino che «il valore di un euro è un euro»; e una riduzione del cambio dell’euro in un periodo di prezzi calanti del petrolio non sarebbe certo una cattiva cosa in quanto si importerebbe poca inflazione mentre potrebbero esserne rilanciate le esportazioni verso altre aree economiche e valutarie. Va infine ricordato che non è affatto detto che l’euro debba continuare a subire passivamente le azioni chiaramente offensive di una parte del mondo finanziario internazionale. Le normative che dovrebbero disciplinare le società di rating - causa prossima di molti terremoti finanziari - giacciono da troppo tempo all’attenzione di un Parlamento europeo distratto; anche la diffusione di notizie finanziarie imprecise e allarmistiche non può essere tollerata all’infinito; e va ricordato che certe operazioni finanziarie, di tipo chiaramente speculativo, possono essere limitate o vietate in determinati periodi. In definitiva, nel governo della propria moneta l’Europa può e deve dimostrare di essere padrona del proprio destino. Il che non significa, naturalmente, abbandonarsi a una finanza allegra ma può significare in un’intervista su «La Stampa» di oggi il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, che, come altre volte nella storia dell’Unione Europea, un passo indietro, come quello dell’euro sotto attacco, ci può portare a un più lungo passo in avanti: una cessione parziale di sovranità fiscale dei vari Stati nazionali a un governo centrale europeo è forse il tassello che ci manca perché l’Europa non debba più aver paura di assalti speculativi contro la propria moneta. mario.deaglio@unito.it DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10223 Titolo: MARIO DEAGLIO. I dieci giorni della svolta Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:13:18 pm 20/6/2012
I dieci giorni della svolta MARIO DEAGLIO Le riunioni dei G8 e dei G20 sono caratterizzate, di regola, da un buonismo di facciata. Tutti sono d’accordo su grandi ovvietà, tutti sorridono nella «foto di famiglia», i contrasti e i litigi trovano spazio, con discrezione, dietro le quinte e non emergono nel comunicato finale, già scritto prima che la riunione abbia inizio. Non è andata così al G20 di Los Cabos: non ci sono stati risparmiati i confronti, le polemiche e neppure i dispetti. Dall’invettiva del presidente della Commissione Europea contro gli americani, ai quali ha ricordato, in modo brusco e poco diplomatico, di essere loro i responsabili della crisi economica mondiale fino alla cancellazione, o quanto meno al rinvio, di un incontro tra il Presidente degli Stati Uniti e i leader europei, largamente interpretato come uno «sgarbo» di Obama. Questo nervosismo superficiale cela in realtà un colossale scontro di potere che si è chiuso negativamente per l’Europa: gli europei sono andati a Los Cabos con due convinzioni parzialmente errate. La prima è che la crisi greca fosse, in quale modo considerata come l’elemento centrale della crisi economica globale, un’opinione alimentata dai mezzi di informazione, mentre rappresenta in realtà un elemento secondario di un contrasto assai più profonda sulla natura dell’Europa economica. La seconda convinzione è che, in ogni caso, i rapporti tra l’euro e il dollaro, le due principali monete internazionali, avrebbe segnato il momento centrale dell’incontro. Dalle prime indicazioni, la realtà si è rivelata ben diversa: gli europei nel loro complesso sono stati, senza troppi complimenti, «spintonati» e messi in seconda fila dall’azione coordinata dei Brics, una sigla che indica i paesi emergenti più dinamici o importanti, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che, proprio a Los Cabos, hanno compiuto la metamorfosi definitiva da entità statistica a entità politica. Per quanto estremamente diversi tra loro dal punto di vista economico e politico, sono riusciti a varare un’azione incisiva e unitaria che controbilancia la loro crescente irruenza sui mercati finanziari. E’ sufficiente ricordare che i cinesi di Hong Kong si sono appena comprati il London Metal Exchange, una Borsa specializzata, principale luogo di contrattazione dei metalli non ferrosi, tra i quali alcuni piuttosto rari che molto interessano ai Paesi emergenti. In particolare, annunciando (assieme all’Arabia Saudita) un loro contributo abbastanza sostanzioso all’aumento delle risorse del Fondo Monetario Internazionale destinate a contrastare la debolezza dell’euro, i Brics hanno quasi certamente ottenuto un aumento dei loro diritti di voto negli organi esecutivi dello stesso Fondo, sicuramente giustificabile, già all’ordine del giorno da molto tempo ma sempre rinviato per latente opposizione europea. E’ facile immaginare, infatti, che i diritti aggiuntivi di voto attribuiti a questi Paesi saranno tolti all’Europa assai più che agli Stati Uniti e che il successore della francese Christine Lagarde, attuale direttore generale del Fondo, sarà un brasiliano o un asiatico. La debolezza europea non è naturalmente provocata tanto da partner esterni quanto da contrasti interni all’Europa. Gli europei sono profondamente divisi su ciò che dovrà essere l’Europa economica del prossimo futuro e hanno di fatto ricevuto al vertice di Los Cabos una solenne ramanzina per non esser riusciti a sanare le loro profonde divergenze. Sapremo nei prossimi giorni se la sempre più glaciale Angela Merkel abbia in realtà fatto qualche concessione delle quali non c’è per ora traccia e come evolverà il confronto con il quasi altrettanto glaciale neo-presidente francese François Hollande. La grande giornata delle Borse europee si spiega con un parziale recupero di un ribasso provocato da forti movimenti speculativi, ancora assai piccolo di fronte alle perdite degli ultimi tre mesi. L’Europa esce dal G20 senza alibi: il suo problema non è l’euro, che può contare su una solidità di fondo – se comparata con il dollaro – in termini di debiti complessivi e deficit di bilancio, bensì il patto politico che tiene assieme gli europei. Stretto circa sessant’anni fa, era basato sull’orrore per le distruzioni provocate da una delle guerre più terribili dell’umanità e sulla necessità che gli europei smettessero di considerarsi nemici e diventassero fratelli anche grazie alla cooperazione economica. Ma oggi, con l’aumento del peso elettorale francesi, tedeschi, italiani e quant’altri vogliono davvero diventare fratelli? O si accontenterebbero, in definitiva, di essere lontani cugini, sommariamente legati da un patto doganale? E’ una domanda legittima visti gli andamenti elettorali dei movimenti xenofobi e di quelli ultra-regionalisti, Il compito di cercare di uscire da questa terribile stasi è stato delegato al presidente del Consiglio italiano. Mario Monti ha parlato di scelte da prendere entro dieci giorni, con un occhio all’incontro di dopodomani a Roma, al quale parteciperanno i capi di stato e di governo di Germania, Francia e Spagna, oltre che naturalmente dell’Italia. L’Italia è il Paese ideale per un’opera di mediazione in quanto è il più piccolo tra i grandi e il più grande tra i piccoli Paesi d’Europa, è al tempo stesso «settentrionale» e «meridionale» e ha un debito molto elevato ma ha compiuto in questi mesi i passi più rapidi per uscire della crisi. Speriamo che, con queste premesse, alla fine dei dieci giorni, si abbiano decisioni e accordi veri e non un ennesimo rinvio. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10247 Titolo: MARIO DEAGLIO. Nuove regole per uscire dalla crisi Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 06:29:29 pm 13/7/2012
Nuove regole per uscire dalla crisi MARIO DEAGLIO L’Europa non è certo un malato immaginario. Altrettanto sicuramente, però, mostra una sorta di perversa soddisfazione a parlare in continuazione dei propri mali, a girarci attorno, a convocare riunioni con lo scopo di cambiare tutto per scoprire due settimane più tardi di non aver cambiato nulla; il «vecchio continente», insomma, si scopre davvero vecchio e soggetto ad attacchi di ipocondria. In questa atmosfera, il «percorso di guerra» dell’economia italiana, evocato dal Presidente del Consiglio nel suo discorso di mercoledì all’Abi, trova pienamente il suo contrappunto nel Bollettino Mensile pubblicato dalla Banca Centrale Europea nella giornata di ieri, un autentico «bollettino di guerra» dove si trova soprattutto una sconsolata rassegna di tutto ciò che non va. La Banca Centrale Europea rileva, tra l’altro, che la volatilità dei mercati obbligazionari è storicamente molto elevata, prossima a quella osservata poco prima del fallimento di Lehman Brothers. È dubbio che l’istituto di Francoforte abbia valutato fino in fondo la portata di quest’allusione che ha fatto cadere pesantemente le Borse di tutto il mondo. Da troppo tempo ormai si intrecciano mormorii sulla salute generale delle banche; si tratta di mormorii complessivamente pericolosi. Se dalla posizione di difficoltà, o altrimenti anomala, di alcune grandi banche derivano davvero rischi di sistema, non è proprio il caso di nascondere l’immondizia sotto il tappeto. Se i rischi non sussistono sarebbe opportuno non accreditare con accenni indiretti situazioni soltanto ipotetiche. In questa condizione di scarsa percezione del valore mediatico delle parole si collocano le dichiarazioni sempre più apocalittiche del direttore del Fondo Monetario Internazionale, la francese Christine Lagarde, per la quale la fine della crisi proprio non si vede e l’euro corre pericoli gravissimi. Ancora pochi giorni fa, i governi europei potevano proporre ai loro cittadini una crisi grave con qualche accenno di ripresa in autunno; ora tutto si sta cancellando e il quadro appare più fosco, con una caduta molto più pronunciata, come quella del prodotto interno lordo italiano, prevista dal presidente della Confindustria il quale afferma che «probabilmente» il calo produttivo italiano sarà superiore al -2,4 per cento ipotizzato dalla sua organizzazione. Le previsioni dai contorni sfumati, così come le previsioni troppo affrettate, potrebbero riflettersi negativamente sulla situazione dell’economia reale. A questa faccia europea della crisi, fatta di pericolosa malinconia – o forse scarsa sensibilità – mediatica e di vertici europei che annunciano azioni risolutive cui non seguono fatti immediati, fa da contrappunto la faccia americana. Gli Stati Uniti appaiono immersi nelle vicende della battaglia politica per la carica di Presidente - oltre che in una paurosa ondata di calore estivo e i visi e le dichiarazioni dei responsabili economici, pur certo non sorridenti, non risultano particolarmente corrucciati. Con grande disinvoltura, una buona dose di cinismo e di opportunismo politico ritorcono sull’Europa l’accusa di essere all’origine dei mali dell’economia del mondo. Senza che l’Europa controbatta seriamente. In realtà, l’economia americana proprio non riesce a ripartire (se si tiene conto dell’aumento della popolazione si scopre che il reddito per abitante è praticamente fermo) nonostante l’accanimento terapeutico derivante dall’iniezione di sempre nuova liquidità, ed è più indebitata ogni giorno che passa. Se si usasse il medesimo metodo di calcolo, si vedrebbe che il livello di disoccupazione negli Stati Uniti è pressoché uguale a quello europeo, ma i disoccupati americani preoccupano decisamente meno di quelli europei. I toni apocalittici che si sprecano in Europa sono pressoché totalmente assenti dall’altra parte dell’Atlantico. Gli ingredienti per uscire dalla crisi non sono soltanto fiscali o monetari; un ruolo crescente è svolto dai mezzi di informazione che influenzano le scelte di risparmio e di consumo, di investimento e concessione di credito di decine di milioni di operatori economici. Non si verrà a capo della crisi se, attraverso i mezzi di informazione, qualcuno non indicherà vie d’uscita e futuri possibili. Gli addetti ai lavori hanno detto abbastanza chiaramente di non sapere che cosa fare se si mantengono intatte le regole attuali in base alle quali il peso della crisi si scarica più sui lavoratori che sui percettori di redditi di capitali, più sui giovani che sui vecchi. Spesso, in questi casi, è l’ora dei politici: non di quelli che promettono la Luna, bensì di quelli che non si limitano a invitare a richiedere, in stile thatcheriano, le proverbiali «lacrime e sangue», ma propongono un cambiamento delle regole tale da portare il sistema economico mondiale da qualche parte. E’ su questa via di nuove regole del gioco che dovranno muoversi coloro che vogliono competere alle elezioni che, nel giro di un anno, interesseranno, oltre che Stati Uniti e Germania, anche l’Italia. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10327 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il duello tra finanza e democrazia Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 04:59:45 pm 24/7/2012
Il duello tra finanza e democrazia MARIO DEAGLIO Negli ultimi giorni, e in particolare con la seduta di Borsa di ieri, il moderno sistema finanziario ha dato il peggio di sé. Per comprendere bene quest’insuccesso occorre ricordare un antefatto troppo spesso trascurato: la finanza globale è fortemente squilibrata dall’abbondante creazione di liquidità degli Stati Uniti, a fronte della quale manca una vera ripresa dell’economia americana. Il presidente Obama, con una difficile campagna elettorale in corso, ha demagogicamente assolto il proprio paese e la propria amministrazione da ogni colpa per la situazione economica, addossando all’Europa tutta la responsabilità della crisi. In questo clima assai teso, è giunta la settimana scorsa un’incredibile presa di posizione del Fondo Monetario Internazionale l’istituzione di vertice del sistema finanziario globale. Uno studio ufficiale reso pubblico venerdì, con l’apparente scopo di dare consigli (venati di un fastidioso senso di superiorità) si schiera nettamente dalla parte dei pessimisti sul futuro dell’euro, qualcuno direbbe dei suoi nemici. Secondo il Fondo, il mercato finanziario europeo è sempre più frammentato, le banche acquistano sempre più titoli del debito pubblico del loro paese, la crisi dell’euro «ha raggiunto nuovi livelli di criticità». I mercati leggono in particolare quest’espressione come l’annuncio del decesso imminente, vero e proprio incitamento a disfarsi della moneta europea, che, infatti, subisce un ulteriore calo, e dei titoli europei, soprattutto quelli bancari, le cui quotazioni accumulano perdite su perdite. Da Bruxelles, non giunge alcuna reazione, forse perché siamo ormai nel week-end; silenzio anche da Berlino e Parigi. La sola Banca Centrale Europea, troppo timida negli ultimi tempi, ribadisce sabato, per bocca del governatore Draghi, che l’euro non è in liquidazione e che anzi costituisce un blocco di economie complessivamente assai solido. Nessuno però, apparentemente, prepara difese mentre altrove si prepara l’attacco. Arriviamo così alla giornata di ieri, con le Borse che cadono fortemente mentre si impenna il famigerato «spread», ossia la differenza di rendimento tra i titoli a lungo termine di un Paese e gli analoghi titoli tedeschi, considerato il termometro della salute delle finanze pubbliche dei vari Paesi. I meccanismi di difesa, recentemente approvati ai vertici europei, avrebbero dovuto entrare immediatamente in azione ma sono intrappolati nel lungo processo delle approvazioni parlamentari. Nessuno imbraccia il decantato «scudo» europeo, si dichiara che, per l’intervento, occorre una richiesta ufficiale di aiuto del paese minacciato. Il governo spagnolo, i cui titoli sono al centro della caduta, esita ad avanzare questa richiesta nel timore di peggiorare la situazione. La situazione viene invece peggiorata dalla notizia, poi rivelatasi prematura, forse gonfiata ad arte e forse falsa, dell’interruzione degli aiuti del Fondo Monetario alla Grecia. Non è la prima volta che si verificano episodi del genere. Passano così all’incirca quattro ore, nelle quali la Borsa italiana ha tempo di perdere il 4 per cento, prima che si cominci a fare la cosa più ragionevole, ossia vietare le vendite allo scoperto che rendono troppo facile il gioco al massacro sui titoli pubblici spagnoli, del quale risentono pesantemente anche i titoli pubblici italiani. Alla fine, questa semplice misura, unita a qualche «buona parola» a sostegno dell’Europa, fa sì che la caduta si corregga e che una metà del terreno perduto venga recuperato, anche se lo spread italiano rimane a livelli troppo elevati per poter offrire un senso di sicurezza. Non è possibile continuare così, con ondate speculative basate sul nulla che devastano le economie di mezzo continente mentre le ben maggiori debolezze finanziarie e reali dell’economia americana non vengono poste sotto vera osservazione. I Paesi europei dovrebbero ricordarsi che non sono impotenti di fronte a mercati, nei quali, tra l’altro, i comportamenti fraudolenti non sono certo infrequenti e non vengono perseguiti con molto entusiasmo. E invece, a ogni ondata speculativa, tutti si ritrovano con le mani in mano senza saper bene che cosa fare e senza un vero coordinamento operativo. A prescindere dalle misure tecniche per smorzare le punte speculative dei mercati, gli europei avrebbero naturalmente molte altre carte da giocare ma tutte queste implicherebbero penalizzazioni e limitazioni alla finanza internazionale che i Paesi debitori non si sentono di approvare nel timore che la stessa finanza non acquisti più i nuovi titoli dei debiti pubblici quando quelli vecchi arrivano alla scadenza. Tale scontro può anche essere inteso come un duello tra finanza e democrazia in quanto nella valutazione del debito pubblico di un paese, la finanza utilizza sempre più parametri politici, ossia la propria valutazione, o meglio il proprio gradimento per determinati politici o per determinate politiche. Le democrazie hanno il dovere di pagare i debiti ma anche il diritto alla non interferenza dei creditori nei loro affari. Quest’incertezza non può durare a lungo: lo scontro tra la finanza e gli Stati difficilmente potrà essere rinviato indefinitamente, e questo per la pressione dell’opinione pubblica, sempre meno propensa ad accettare decisioni che implicano sacrifici di anni e che poi sostengono i titoli in Borsa al massimo per qualche giorno. Occorrono però strategie coordinate di intervento se si vuole evitare che tutto ciò ci precipiti nel caos. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10366 Titolo: MARIO DEAGLIO. Per risanare i conti dello Stato meglio usare l'oro Inserito da: Admin - Agosto 09, 2012, 05:47:09 pm 9/8/2012
Per risanare i conti dello Stato meglio usare l'oro MARIO DEAGLIO Il bilancio dello Stato in pareggio, al quale siamo impegnati ad arrivare entro il 2013, non porta automaticamente alla ripresa economica; e le misure di aumento delle imposte e riduzione della spesa non portano automaticamente a un bilancio in pareggio, anzi, l’esperienza greca fa balenare il rischio che, a causa dei tagli eccessivi, il deficit si avviti su se stesso. Il mondo della finanza sta prendendo atto in concreto di queste amare verità e, per conseguenza, sposta il discorso dal deficit al debito: se riuscissimo ad abbattere il debito - come d’altronde ci impone, nell’arco di vent’anni, il «patto fiscale» sottoscritto in sede europea - si ridurrebbero molto gli interessi sul debito stesso e navigheremmo in acque più tranquille. Nascono di qui gli studi e le proposte rese note in questi giorni per ridurre sensibilmente il debito pubblico mediante la vendita di beni di proprietà dello Stato e di altri enti. Queste proposte vanno sicuramente nella direzione giusta, ma devono essere esaminate con molta cautela per non far sorgere aspettative che andrebbero troppo facilmente deluse. Prestano infatti il fianco a tre obiezioni molto serie che riguardano il prezzo di vendita, i tempi della vendita e l’opportunità stessa della vendita. Per quanto riguarda il prezzo, è chiaro che i tempi di crisi non sono propizi per i venditori né sui mercati immobiliari né su quelli azionari. Ci si separa da un bene immobile a prezzi non ottimali, talora a prezzi stracciati; si vendono azioni a quotazioni non molto attraenti. Sarebbe probabilmente più saggio, nell’ipotesi di una strategia di vendita, pensare a diluire questa politica in un arco di vent’anni, tanti quanti sono quelli del «patto fiscale». Va inoltre considerato - ed è questa la seconda obiezione - che le vendite di beni pubblici non avvengono nello spazio di un mattino e neppure nell’arco di pochi mesi. Probabilmente occorrerebbe cambiare le leggi per accelerare le dismissioni di beni demaniali, mentre per molti immobili, a cominciare dalle ex-caserme, occorrerebbe prima modificare la destinazione d’uso e quindi i piani regolatori, per suscitare un vero interesse commerciale: tutte queste cose richiedono tempo e si inquadrano meglio in un discorso di lungo termine. Infine, siamo proprio sicuri di voler vendere gran parte del patrimonio pubblico? Come dice un vecchio proverbio, «si vende una volta sola» e il depauperamento del patrimonio nazionale sarebbe un’altra spoliazione delle generazioni giovani, già chiamate a farsi carico del debito pensionistico. Occorre probabilmente decidere caso per caso: mentre è difficile trovare serie obiezioni alla vendita di una parte delle opere d’arte giacenti nei magazzini dei musei per finanziare il ministero dei Beni Culturali, sempre a corto di fondi, meno sicura sarebbe l’opportunità di disfarsi della quota pubblica dell’Eni, certamente molto appetibile sul mercato, in quanto si tratta dell’unica grande impresa italiana rimasta a carattere chiaramente globale e dal significato chiaramente strategico. Probabilmente il bene patrimoniale più rapidamente disponibile è l’oro delle nostre riserve. Gli accordi internazionali ci permettono di metterne sul mercato solo piccole quantità ogni anno (pari all’incirca a uno-due miliardi di euro), ma il resto potrebbe essere dato in garanzia di una linea di credito con un ente internazionale per un pronto intervento in caso di spread troppo elevato, oppure per ricomprare una parte dei titoli di debito dagli interessi più costosi. «Toccare l’oro» suscita forti reazioni emotive da parte dei molti che considerano quest’azione equivalente a disfarsi dei gioielli di famiglia, ma non è forse questo il momento giusto per un’operazione che valorizzi il metallo giallo, dal momento che nella classifica delle riserve ufficiali d’oro l’Italia occupa un posto anormalmente alto (il quarto)? In definitiva, c’è spazio per una serie di operazioni non convenzionali che riducano il debito. Ma queste operazioni debbono essere effettuate in tempi lunghi e non costituiscono una bacchetta magica, bensì un importante coadiuvante di una strategia di risanamento finanziario. Occorrerebbe inoltre destinare una parte del ricavato a misure di rilancio per evitare di trovarsi con le finanze pubbliche avviate sulla strada del risanamento e l’economia reale avviata sulla strada del coma profondo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10415 Titolo: MARIO DEAGLIO. Usa, la frenata che i mercati non vedono Inserito da: Admin - Agosto 20, 2012, 06:45:29 pm 20/8/2012
Usa, la frenata che i mercati non vedono MARIO DEAGLIO Secondo previsioni largamente condivise, quest’agosto avrebbe dovuto essere un mese di fuoco sui mercati finanziari. L’euro avrebbe dovuto subire l’attacco speculativo «finale» e semplicemente sparire dalla scena in uno scenario di forte disorientamento e di grande paura. Privi dell’aiuto del fondo salva-stati la cui gestazione appare particolarmente laboriosa, i titoli del debito pubblico dei Paesi europei, a cominciare da Spagna e Italia, si sarebbero trovati ad affrontare uno «spread» sempre più alto, fino a diventare insostenibile. In tutto il mondo i listini sarebbero stati caratterizzati da forti oscillazioni con una marcata tendenza al ribasso. Finora è, invece, successo l’esatto contrario. Non c’è stato alcun crollo della moneta europea, il cui cambio è anzi rimbalzato da 1,20 a 1,23 dollari mentre il dollaro si è indebolito non solo verso l’euro ma anche verso le altre valute; gli «spread» sono diminuiti in maniera sensibile, smentendo, almeno temporaneamente, i profeti di sventura; con l’inizio di agosto le Borse hanno smesso di avere le convulsioni che ne avevano caratterizzato l’andamento nei 2-3 mesi precedenti, con sbalzi all’insù e all’ingiù di vari punti percentuali al giorno. Così da mettere a segno un vistoso recupero con guadagni che, in Italia, si collocano attorno al 15 per cento da fine luglio. Naturalmente nelle prossime settimane potrà succedere di tutto e queste tendenze stabilizzatrici potranno essere cancellate. Occorre però dare atto che, se nelle città si respira a fatica per l’afa, nelle Borse si respira decisamente meglio di un paio di mesi fa. Quali possono essere le ragioni di un simile cambiamento positivo che smentisce le previsioni di breve termine dei mercati finanziari? La domanda è tanto più opportuna in quanto i miglioramenti sul fronte finanziario si accompagnano a un ulteriore peggioramento, a livello dell’insieme dei Paesi ricchi, del quadro dell’economia reale. In Europa, il prodotto lordo del secondo trimestre ha fatto registrare un segno meno; se nel terzo trimestre il segno non si invertirà – e per ora non se ne vede alcuna premessa - l’economia europea entrerà ufficialmente in recessione. La Germania, unico grande Paese a poter ancora vantare un segno positivo, vedrà comunque avvicinarsi rapidamente la prospettiva di un arresto della crescita. Anche negli Stati Uniti, con l’approssimarsi delle elezioni politiche la si fa crescita sempre più lenta. Il prodotto interno è salito del 2 per cento nel primo trimestre e solo dell’1,5 per cento nel secondo, un tasso all’incirca pari all’aumento della popolazione, il che significa che, a livello dei singoli cittadini, la crescita è sostanzialmente nulla; la disoccupazione non scende; le costruzioni di nuove abitazioni – uno dei termometri più sensibili dell’economia – sono diminuite smentendo le generali previsioni di un aumento. Il solo Giappone, un tempo pecora nera, prevede per il 2013 un tasso di crescita soddisfacente. Nel confronto tra le due debolezze parallele del dollaro e dell’euro l’attenzione si sta, sia pure lentamente, spostando dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico. Gli andamenti favorevoli dell’euro e delle Borse non sono il risultato della forza economica europea (che non esiste proprio in questo momento) ma della stanchezza dell’economica americana, una stanchezza troppo a lungo trascurata dai mercati. Gli Stati Uniti mostrano segni strutturali di scarsa elasticità impensabili prima della crisi, dell’insufficiente credito concesso alle piccole e medie imprese – che normalmente trainano le riprese americane – alla ridotta mobilità dei giovani che rende loro più difficile la ricerca di un lavoro. In questa situazione a rafforzare il quadro europeo hanno contribuito alcuni gesti concilianti del cancelliere tedesco Angela Merkel che ha dichiarato che esiste «identità di vedute» tra Germania e Banca Centrale Europea, in netto contrasto con le posizioni dei «falchi» anti-euro. Mentre i toni delle polemiche sull’euro si abbassano, quelli della campagna elettorale americana si accendono. Facendo proprie le tesi più estreme della destra americana, il candidato repubblicano alla presidenza, Mitt Romney, e il suo candidato alla vicepresidenza, Paul Ryan vogliono realizzare una riduzione generalizzata di imposte che, se darebbe apparentemente respiro all’economia, trasformerebbe in realtà la prospettiva di un «baratro fiscale» nel quale l’economia e la finanza americana potrebbero cadere immediatamente dopo l’insediamento del nuovo Presidente alla Casa Bianca. Le prospettive non sono certo rese più rosee dall’assottigliarsi dell’attivo commerciale cinese che fa sì che la Cina avrà meno dollari da investire nei titoli del debito pubblico americano. L’insistenza sui mali europei, insomma, sembra essere stato il risultato di una «distorsione», una «montatura» dei media che ha lasciato in ombra i mali americani, forse più gravi di quelli europei; chi ha fantasia può anche immaginare che tale trascuratezza dei media non sia casuale bensì il risultato di un complotto (fallito) contro l’euro. Vittime di questa distorsione, o di questo complotto, i mercati si sono baloccati per mesi con una crisi dell’euro alla quale è stato dato un risalto esagerato, e hanno tralasciato la vera crisi, quella del dollaro che fa sempre più fatica a essere accettato dai mercati e dell’economia americana che riesce a galleggiare ma non a far da motore della ripresa mondiale. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10440 Titolo: MARIO DEAGLIO. Molti sospetti su un prezzo non trasparente Inserito da: Admin - Agosto 23, 2012, 04:48:19 pm 23/8/2012
Molti sospetti su un prezzo non trasparente MARIO DEAGLIO La benzina oltre la soglia psicologica dei due euro al litro è un pessimo biglietto d’auguri per il dopo-ferie: in un paese come l’Italia, traumatizzato da una grave e prolungata congiuntura negativa, quel prezzo della benzina oltre euro 2.00 potrebbe diventare lo spartiacque tra speranze e frustrazione, tra voglia di ripartire e rinuncia a combattere, tra la risposta costruttiva alla crisi e il mugugno rassegnato. Per questo è opportuno guardare bene dentro a questo prezzo-chiave; si scopre così molta complessità, troppa oscurità e insufficiente trasparenza. Più di metà del prezzo ossia più di un euro di quanto pagato dagli automobilisti per un litro di benzina è costituito da imposte. Una parte di queste imposte è rappresentata dall’Iva ed è quindi espressa in percentuale sul prezzo; il che significa che quando il prezzo della benzina aumenta, le casse dello Stato ne traggono beneficio. Si potrebbe dire, quindi, che lo Stato, come i Paesi produttori, gode di una «rendita petrolifera», diventa uno «Stato-sceicco» e che gli incassi dell’Iva petrolifera contribuiscono (anche se poco) a smorzare le difficoltà finanziarie pubbliche. Oltre allo Stato, i proventi della tassazione possono andare anche, per qualche centesimo al litro, alle Regioni che, in base alle norme di legge, possono introdurre un’ulteriore addizionale. Il che contribuisce a spiegare perché si paga la benzina più cara in alcune parti d’Italia che in altre. La parte restante, all’incirca 75-85 centesimi, è divisa tra i Paesi nei quali il petrolio è estratto e le imprese – di regola grandi multinazionali o società a esse collegate - che lo estraggono, trasportano e raffinano trasformandolo in benzina. E inoltre tra quelle che trasportano la benzina agli impianti di distribuzione e i distributori stessi, in grande maggioranza organizzati in reti dalle stesse multinazionali che garantiscono loro il rifornimento. E’ su questa quota del prezzo che agiscono i meccanismi di mercato che collegano direttamente il pieno pagato dal signor Bianchi alla quotazione del prezzo del greggio sui mercati di New York e Londra. Tutto questo processo è molto opaco innanzitutto perché la benzina può essere il risultato di cicli produttivi assai diversi tra loro. La raffinazione di un barile di greggio fornisce infatti non già un prodotto solo bensì una gamma di prodotti, dalla benzina (molto leggera) all’olio combustibile e al bitume (molto pesanti); nel processo di lavorazione, a seconda delle politiche dei raffinatori e del tipo di greggio che riescono a comprare, la benzina può essere prodotto o sottoprodotto. Non solo, la benzina che si vende oggi alle pompe può derivare da greggio raffinato un mese, due mesi o anche sei mesi fa. Questa complessità tecnica si traduce in un rebus contabile. Quando affronta le multinazionali petrolifere, il fisco dispone soltanto di due parametri molto vaghi, ossia il prezzo del greggio in dollari e il cambio del dollaro con l’euro. Questi parametri hanno mostrato una tendenza a cadere per buona parte dell’anno e la caduta si è effettivamente tradotta in una riduzione del prezzo della benzina che ha in parte cancellato un precedente aumento. Poi l’euro si è indebolito e il prezzo del greggio è risalito, due condizioni negative per l’acquirente italiano e ne stiamo sopportando le conseguenze. Ora però l’euro sta risalendo, sia pure in un panorama confuso, il che fa sperare che gli aumenti siano di breve durata. Quando però gli aumenti – e il superamento di quota 2.00, per ora documentato solo in alcune parti del Paese – vengono annunciati a ridosso di uno dei fine-settimana dal traffico più intenso dell’anno, durante il quale milioni di automobilisti acquisteranno benzina, il sospetto che le grandi società di distribuzione vogliano trarre un rapido vantaggio commerciale non può essere del tutto trascurato. La stessa difficoltà di indagine tecnica sui costi dell’industria petrolifera, che impedisce al fisco accertamenti dettagliati, impedisce altresì di «assolvere» automaticamente i produttori da ogni dubbio sul funzionamento del mercato. Uno spazio per miglioramenti indubbiamente c’è. Fisco e petrolieri dovrebbero «parlarsi» molto di più e mettere assieme un sistema di rilevazioni contabili che consenta maggiore trasparenza. E soprattutto sarebbe auspicabile che le società petrolifere dimostrassero sul mercato della benzina quello stesso tipo di lungimiranza di cui danno prova quando impostano piani più che decennali e affrontano spese gigantesche per la «coltivazione» di un giacimento petrolifero. Correre dietro agli spiccioli, togliere qualche decina di euro dalle tasche di milioni di famiglie italiane che fanno il pieno alla fine delle vacanze non è precisamente un atteggiamento coraggioso. E potrebbe risultare controproducente. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10449 Titolo: MARIO DEAGLIO. Il triangolo che deciderà il nostro futuro Inserito da: Admin - Settembre 04, 2012, 05:04:12 pm 4/9/2012
Il triangolo che deciderà il nostro futuro MARIO DEAGLIO Non è azzardato affermare che il destino dell’euro, quello dell’Europa economica e forse, più in generale, quello dell’Europa come entità politica, dipende da un triangolo tedesco. Oscilla, infatti, in questi giorni fra tre poli, tutti collocati in Germania. Il primo si trova a Francoforte; si tratta della bella e moderna Euro Tower, sede della Banca Centrale Europea (Bce), una cittadella della moneta che si staglia in un deserto istituzionale in cui non esiste un ministro europeo dell’Economia con il quale costruire una politica economica per il continente. La sua solitudine la pone al centro delle speranze e dei risentimenti sull’euro, della crisi europea, delle misure per uscirne e in particolare della creazione di nuova liquidità per sostenere i Paesi debitori, una linea d’azione fieramente avversata dai Paesi creditori e soprattutto dai tedeschi. Entra così in scena il secondo polo che svolge in questi giorni un ruolo cruciale, anch’esso localizzato a Francoforte, a pochissimi chilometri di distanza dal primo. In un edificio esso pure imponente, che ricorda il passato più di quanto non suggerisca il futuro, ha sede la Bundesbank. La mitica Banca centrale tedesca, un tempo ferrea custode del marco e della crescita senza inflazione, senza intromissioni governative e senza aiuti facili ad altri Paesi. L’istituzione dell’euro - che ha comportato la fine del marco le ha sottratto importanza e potere ma ha voce autorevole, e la usa con durezza, nel consiglio della Bce. La Bce è da anni sotto attacco della Bundesbank che le rimprovera sostanzialmente di non essere tedesca, ossia di non avere trasferito a livello europeo il rigore al quale il marco aveva abituato l’Europa. Non vorremmo naturalmente che la «purezza della razza» di infausta memoria abbia subito una metamorfosi trasformandosi in una sorta di «purezza della moneta». In queste condizioni, il governatore della Bce, Mario Draghi, liberale più che liberista, ha rifiutato qualche giorno fa di andare alla super-riunione annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole nelle Montagne Rocciose, riservando la descrizione del suo progetto di politica monetaria e finanziaria alla riunione a porte chiuse della commissione Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo. Il senso generale del suo discorso è naturalmente trapelato e ha rincuorato - si spera in maniera non prematura come successe meno di due mesi fa - le Borse europee. I dettagli, importantissimi in questi casi, non sono naturalmente noti ma appare chiaro che Draghi si sta muovendo all’insegna del pragmatismo, in marcato contrasto con il dogmatismo della Bundesbank. Draghi ha indicato un limite di durata di tre anni, sotto il quale le operazioni di acquisto di titoli di uno Stato in difficoltà non deve essere configurato come finanziamento ma come semplice operazione di tesoreria. E’ sottinteso che Draghi, con questo, non vuole acquistare tonnellate di «Bonos» spagnoli, così come si è detto contrario a dare all’Esm, il nascente «fondo salva-Stati», le funzioni di una banca; vuole piuttosto ritagliarsi una certa libertà d’azione in modo da non dover chiedere a ogni operazione il permesso dei tedeschi. Forse proprio per questo, magari anche in nome di una nostalgia storica per il marco, il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, fautore di un liberismo allo stato quasi puro - che vede come un grave errore qualsiasi politica attiva della Banca Centrale Europea - ha minacciato le dimissioni, temporaneamente arginate dal Cancelliere Merkel. Il suo predecessore, Alex Weber, si era dimesso per lo stesso motivo nell’aprile 2011. Molto spesso, come scrisse Keynes ottant’anni fa, chi fa politica crede di essere libero di decidere ma in realtà è prigioniero di qualche economista defunto. In questo caso, Draghi si rifà a Franco Modigliani e all’ancora attivo Bob Solow, i premi Nobel con i quali ha studiato in America negli Anni Settanta, fautori di un liberalismo che non escludeva certo interventi delle istituzioni economiche. Weidmann, invece, è l’erede di una tradizione liberista dura e pura, più vicina al liberismo francese degli Anni Ottanta che alle storiche dottrine dei democristiani tedeschi, come l’«economia sociale di mercato». Naturalmente le Borse hanno salutato l’apparente vittoria di Draghi: sperano nell’allontanamento del tormentone dei debiti pubblici e quindi in un po’ di ossigeno con il quale cercare di compiere qualche passo sulla lunga strada dell’uscita dalla crisi. Perché, al momento attuale, la vittoria di Draghi è ancora soltanto apparente? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tirare in ballo il terzo polo di questa vicenda largamente tedesca che tocca tutti gli europei. Il terzo polo non sta nella metropoli di Francoforte ma centocinquanta chilometri più a Sud, nella piccola città di Karlsruhe, circa trecentomila abitanti. Qui si trova il piccolo, moderno e arioso edificio della Corte Costituzionale tedesca, ai vertici della struttura pubblica tedesca e sarà questo tribunale tedesco a prendere, entro una decina di giorni, una decisione che, di fatto, potrà determinare le sorti dell’Europa. La Corte dirà infatti se i trattati internazionali in base ai quali risorse finanziarie pubbliche tedesche vengono utilizzate per aiutare Paesi esteri in difficoltà sono o non sono conformi alla Costituzione tedesca. Otto giudici in solenni toghe rosse diranno un «sì» o un «no» che avrà in ogni caso ripercussioni radicali sulle Borse, sull’economia, sui governi del nostro continente. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10488 Titolo: MARIO DEAGLIO. Se la Fed spara con il bazooka dell'incertezza Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:32:30 pm 16/9/2012
Se la Fed spara con il bazooka dell'incertezza MARIO DEAGLIO Probabilmente già da domani la Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, comincerà a comprare sul mercato finanziario americano titoli a reddito fisso di ogni genere al ritmo di circa 1,3 miliardi di dollari (un miliardo di euro) al giorno. Con quali risorse? Con quelle che la stessa Fed «stamperà» sul momento gonfiando complessivamente la liquidità di 40 miliardi di dollari al mese. Per quanto tempo? Fino a quando ce ne sarà bisogno, ossia finché l’occupazione, la cui crescita è bassa, insufficiente a riassorbire i 7-8 milioni di lavoratori resi disoccupati dalla crisi, non darà segni di duratura risalita. Anni prima della sua nomina, Bernanke, il governatore della Fed, aveva spiegato che seguire questa strategia equivale a stampare banconote, caricarle su un elicotte ro, alzarsi in volo e buttarle su una città: la gente le raccoglierà e co mincerà a spenderle e spendendole rilancerà l’economia. L’aneddoto gli valse il soprannome di «Helicopter Ben» ed è la terza volta in quattro anni che «Helicopter Ben» riempie di miliardi di dollari nuovi di zecca l’elicottero della Fed per spargerli sull’economia americana. Le due volte precedenti, i dollari di Ben non sono riusciti né a dar vita a una vera ripresa né a ridurre sufficientemente la disoccupazione; è stato soltanto possibile tenere a galla l’economia americana, al massimo farla muovere a velocità complessivamente bassa. Perché mai i soldi lanciati sull’America dall’elicottero della Fed non producono risultati? Perché, prima ancora di toccar terra, vengono intercettati e risucchiati verso impieghi, sparsi per il mondo, diversi dal finanziamento delle imprese. Le banche nelle quali approdano i nuovi dollari hanno infatti motivi ragionevoli per non prestarli ai piccoli imprenditori della California o del Massachusetts, con prospettive rese problematiche dalla crisi e investirli invece in titoli «artificiali», dal rischio controllato, dal risultato apparentemente meno incerto, legati alle speculazioni sulle materie prime e ad altre operazioni puramente finanziarie. Nelle due volte precedenti, quindi, i dollari a bassissimo costo messi a disposizione dell’economia hanno stimolato soprattutto operazioni finanziarie sul petrolio o sull’oro e non investimenti nell’economia reale, fallendo così l’obiettivo di mettere l’America e il mondo al riparo da una perdurante precarietà e suscitando ostilità verso il dollaro. Brasile e Cina hanno eretto barriere fiscali per difendersi dall’«invasione» di «biglietti verdi», molti Paesi hanno deciso di non usarli più nei loro scambi reciproci. E l’euro, dato per spacciato da autorevoli commentatori americani all’inizio dell’estate, si è apprezzato di circa il dieci per cento da quando la nuova manovra della Fed ha cominciato a prendere corpo. Errare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. Perché allora il governatore Bernanke – e con lui tutta la finanza americana – insiste addirittura per la terza volta in una politica scarsamente efficace? A questa domanda ci sono almeno tre risposte parziali che possono variamente combinarsi tra loro. La prima è che il governatore è probabilmente convinto di non avere, nelle volte precedenti, né fatto abbastanza né perseverato abbastanza a lungo. Il «bazooka» che questa volta ha imbracciato immetterà ogni giorno molti più dollari nuovi delle volte precedenti e lo farà senza limiti di tempo predeterminati. A questo punto, anche se al signor Smith arriveranno soltanto le briciole, si tratterà di briciole piuttosto corpose e l’economia potrebbe ripartire. La seconda risposta è che l’America della finanza non conosce altre strategie che quella di accelerare sulla via della finanza. L’idea che si possa intervenire sul finanziamento delle banche, separando in qualche modo i flussi puramente speculativi da quelli «normali», destinati al finanziamento delle imprese, proprio non è popolare oltre Oceano. I progetti di penalizzazione finanziaria dei capitali speculativi vengono accolti con orrore da chi fa della finanza fine a se stessa la ragione della propria vita professionale. E quindi, come i medici durante le epidemie del passato, anche i banchieri centrali al tempo delle crisi tendono a ripetere le uniche strategie delle quali hanno veramente esperienza, indipendentemente dai risultati. La terza risposta è più maliziosa e ci si deve augurare che entri solo marginalmente nelle ragioni di questa strategia: la Fed non vive sotto una campana di vetro e tiene conto delle elezioni incombenti. Di regola, non gioca mai contro un Presidente in carica che chiede al Paese di essere rieletto e anzi cerca, sia pure discretamente, di favorirlo un poco. Per Barack Obama, arrivare alle urne tra sette settimane con una Borsa euforica e un’economia ottimista può fare la differenza tra vittoria e sconfitta. A urne chiuse e a risultati proclamati, tanti problemi scomodi – come quelli che hanno portato molte banche a essere pesantemente multate dalle autorità di vigilanza – potranno appropriatamente riaffiorare. Tutto ciò porta la Fed a stampare moneta al cospetto di un mondo inquieto. I titoli che acquisterà dal mercato con queste operazioni saranno, in genere, di bassa qualità e ridurrà la qualità dell’attivo del suo bilancio, già assai meno solido di quanto non fosse prima della crisi. L’incertezza sarà drenata dai mercati che festeggeranno e arriverà dritta al centro del sistema finanziario americano e mondiale; sistema che è pronto a un altro giro di valzer, più difficile e pericoloso di quelli che l‘hanno preceduto. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10533 Titolo: MARIO DEAGLIO. Le brevi illusioni dei mercati Inserito da: Admin - Settembre 27, 2012, 02:34:04 pm Editoriali
27/09/2012 Le brevi illusioni dei mercati Mario Deaglio Con l’arrivo, il 23 di settembre, dell’autunno astronomico, è finita non solo l’estate dei comuni mortali ma anche l’estate dei mercati finanziari. L’indice Ftse Mib della Borsa di Milano è passato dalla quota 16 mila di venerdì alla quota 15.400 di ieri, una perdita prossima al 4 per cento in 3 giorni lavorativi che mette la parola fine all’eccezionale recupero di agosto e della prima metà di settembre. Naturalmente non si tratta di un fenomeno solo italiano, da Tokyo a New York, passando per l’Europa, i listini sono, pressoché dappertutto, seccamente in ritirata. Milano si trova così in buona compagnia: ieri le perdite di Francoforte e Parigi hanno superato il 2 per cento e le Borse americane sono in trincea. Che cosa sta succedendo? I mercati internazionali scontano la fine di tre illusioni che li hanno accompagnati nel corso dell’estate. La prima, piuttosto infantile ma molto diffusa, può essere definita l’«illusione della bacchetta magica». Secondo questa deformazione mentale, governi e banche centrali possono ribaltare, in poche settimane o in pochi mesi, tendenze negative radicate da anni. Basta un piccolo provvedimento di qualche riga, la modifica di qualche norma scomoda e tutto ripartirà, il giardino delle delizie finanziarie tornerà a far maturare i suoi frutti meravigliosi. In realtà, la crisi che stiamo vivendo da cinque anni è qualcosa di molto più serio, i suoi bacilli sono annidati pressoché dappertutto nell’economia e nella società, non soltanto nei listini di Borsa e la loro estirpazione, se riuscirà, richiederà anni. Le azioni di risanamento hanno poi i loro alti e bassi, non sono certo facili percorsi in discesa. Gli operatori finanziari che non ci vogliono credere rischiano di trovarsi con un pugno di mosche in mano. La seconda illusione dei mercati è connessa alla prima e cioè che – bacchetta magica o non bacchetta magica - si sia già trovata la medicina sicuramente in grado di far ripartire l’economia reale, il che avrebbe immediate e positive ripercussioni in Borsa. In realtà le medicine proposte sono due, entrambe, al momento, non risolutive: l’immissione massiccia di liquidità, adottata dagli americani, che riesce appena a tenere a galla l’economia degli Stati Uniti ma non a farla ripartire davvero, e il mix europeo di austerità fiscale (oggi) e di stimoli produttivi con bilanci pubblici risanati (domani), che, per definizione, richiede molto tempo, molta pazienza e qualche sacrificio. Sempre che poi i risultati ci siano. Gli europei sono davvero disposti ad accettare questi sacrifici e a dar prova di questa pazienza? Alla domanda si raccolgono di fatto risposte molto incerte ed ecco la terza illusione: che i governi possano decidere ogni tipo di misura tenendo soltanto conto della sostenibilità economica ed ignorando la sostenibilità politica, ossia i comportamenti della gente. L’esempio principale è naturalmente la Grecia, dove si insiste su un taglio dopo l’altro senza che il «buco» del bilancio pubblico possa essere chiuso ma ad ogni ulteriore giro di vite dell’austerità paiono aumentare le proteste popolari – come quelle molto gravi di ieri - e cresce il numero di coloro che sono tentati dall’idea di mandar tutto all’aria e uscire dall’euro. Il che non farebbe certo bene all’euro ma ancor meno ai greci i quali, visto lo stato della loro bilancia dei pagamenti, non sarebbero probabilmente neppure in grado di pagarsi il grano e il petrolio per il prossimo inverno. In Spagna la situazione è migliore, ma il sentiero è molto stretto. In Italia il cammino dovrebbe essere più agevole secondo le dichiarazioni di personaggi noti per la loro severità come il presidente della Bundesbank sulle capacità del Paese di farcela senza aiuti esterni. L’Italia è uno dei pochi Paesi in cui le famiglie dispongono complessivamente di risparmi consistenti e la caduta dei consumi sembra dovuta non solo alla riduzione dei redditi di alcuni segmenti della popolazione particolarmente colpiti dalla crisi ma anche a una generalizzata paura per il futuro. Il che potrebbe significare che se il Paese ritrovasse fiducia in se stesso, l’economia potrebbe beneficiare subito di un moderato ritorno della domanda interna. La sostenibilità politica è un problema che non si pone soltanto ai Paesi cosiddetti deboli. Lo dimostrano le quasi contemporanee notizie francesi del superamento dei tre milioni di disoccupati e del calo di 11 punti in un mese della popolarità del presidente Hollande; lo confermano i segni, ormai chiarissimi, di una frenata dell’economia tedesca e di un’atmosfera non proprio idillica nella coalizione di governo a Berlino. Quasi non esiste Paese europeo, per quanto apparentemente solido, che non stia vivendo un momento di inquietudine per le prospettive della sua economia. Ecco perché le Borse calano o, quando va bene, sono estremamente guardinghe. Dopotutto, anche se spesso gli operatori finanziari credono di vivere su un altro pianeta, sono anch’esse espressione di questa società con i suoi timori e le sue incertezze. Il mondo non consiste solo dei listini delle Borse, anche delle liste della spesa, sempre più sofferte, delle massaie. E’ un’illusione che, nel medio e lungo periodo, i primi possano andar bene se le seconde vanno male. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2012/09/27/cultura/opinioni/editoriali/le-brevi-illusioni-dei-mercati-sqcK7e3f6k7YnIxPmfxZRJ/index.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Energia il crocevia dei problemi Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 10:13:40 pm Editoriali
17/10/2012 Energia il crocevia dei problemi Mario Deaglio Da quanto tempo gli italiani non sentivano parlare di un progetto economico di durata decennale? La nuova strategia energetica nazionale, delineata nel Consiglio dei ministri di ieri, rappresenta il primo tentativo serio di uscire dalla deprimente quotidianità di un’economia in difficoltà, di affrontare grandi argomenti di interesse nazionale nel lungo periodo invece di spendere tutte le energie a discutere affannosamente di quanto dovrà o potrà succedere nei prossimi mesi. Il passaggio dal mondo degli «spread» e dei «rating», delle detrazioni Irpef e della prossima rata dell’Imu a quello dei kilowatt, delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica che potremo realizzare in dieci anni non può che rappresentare una boccata d’aria fresca. Si tratta di un tentativo di riappropriarsi del futuro, di fissare grandi obiettivi come la sensibile riduzione della dipendenza dall’estero, che oggi arriva in prossimità del novanta per cento, di delineare grandi idee su cui basare la nostra crescita, come la candidatura dell’Italia a diventare il punto nodale del commercio internazionale del gas nell’Europa del Sud. In questo modo si imposta una riflessione a molte dimensioni che va dall’ambiente alla realtà delle imprese, dalla geopolitica alle bollette delle famiglie. Il punto di partenza è naturalmente deludente: l’industria elettrica oggi non può che essere lo specchio del Paese, un settore stanco, con pochi investimenti, con prezzi alti (fino al 40 per cento in più dell’energia elettrica prodotta e venduta in Germania, come ben sanno le imprese italiane) e bassa produttività che ha però alle spalle un passato di estremo dinamismo. Aveva saputo rispondere efficacemente agli shock petroliferi del 1973-74 e del 1980 - pur in presenza del vincolo di non sviluppare il nucleare - diversificando le sue fonti di approvvigionamento e creando un’imponente rete di gasdotti; un settore che gestisce, in maniera almeno soddisfacente, una delle reti elettriche più difficili d’Europa per la complicazione della geografia italiana e la capillarità degli insediamenti produttivi e umani del Paese. Appare, del resto, naturale per l’economia italiana che i discorsi veramente concreti di lungo periodo ripartano di qui, dalla messa a punto di una strategia energetica decennale, L’Italia ha un’economia moderna grazie alla sua passata eccellenza elettrica; a fine Ottocento, la creazione di sofisticate reti idroelettriche nell’Italia Settentrionale e in altre parti del Paese, liberò risorse dedicate all’importazione del carbone e le rese disponibili per investimenti interni; e nel giro di una quindicina d’anni, l’Italia si trovò in prima fila in quasi tutti i settori industriali, dall’automobile, alla chimica, all’industria tessile. Ripartire dall’energia significa porsi a un crocevia al quale fanno capo sia le problematiche dell’ambiente e dell’inquinamento, con le emissioni di anidride carbonica, sia i bilanci famigliari e quelli delle imprese, con le bollette energetiche, sia infine equilibri internazionali di tipo non solo economico ma anche geopolitico. Se l’Italia economica ha un futuro, questo passa attraverso un programma (il governo ha prudentemente usato il termine «strategia» per evitare confusioni con le programmazioni del passato ma di programma finirà poi per trattarsi) di tipo energetico che metta fine all’insopportabile immobilismo degli ultimi anni, nei quali il veto di interessi incrociati ha bloccato quasi tutte le iniziative, tranne quelle di uno sviluppo disordinato dell’energia solare, prodotta dai privati, che ha incrinato i delicati equilibri del sistema impedendo un uso efficiente delle centrali a turbogas. L’immobilismo italiano è descrivibile attraverso due episodi, uno di grandi e uno di piccole dimensioni, verificatisi negli ultimi dodici mesi. Il primo è la rinuncia dell’inglese British Gas alla costruzione del rigassificatore di Brindisi (una struttura essenziale per migliorare le caratteristiche dell’intero sistema energetico italiano) dopo undici anni di tentativi frustrati da normative contorte e da un’opinione pubblica locale visceralmente ostile a qualsiasi novità. Il secondo è l’arresto della piccola centrale termoelettrica di Mercure, in provincia di Cosenza che ne ha impedito la trasformazione in un impianto moderno, capace di funzionare con il legname derivante dalla manutenzione del vicino Parco del Pollino, dovuto a una sentenza del Consiglio di Stato per il vizio di forma di un decreto regionale. Il fatto che si rimetta al centro degli interessi un problema disinvoltamente ignorato, ma sul quale concretamente si gioca una parte importante del nostro futuro, è di per sé di grande importanza. Gli obiettivi di recupero di competitività, di attenzione all’ambiente e alla qualità oltre che alla quantità della produzione elettrica, di sicurezza degli approvvigionamenti in un ambito di crescita sono a un tempo sufficientemente ambiziosi e sufficientemente realistici per rappresentare le basi di un grande dibattito. Il passaggio dall’uso del greggio a un mix di gas ed energie rinnovabili quale struttura portante del nuovo sistema, e lo spazio che viene aperto a nuovi investimenti privati, cercano di proiettare la strategia al di là delle ideologie e delle posizioni preconcette. La strategia energetica, in definitiva, potrebbe essere quel che ci vuole per dare una benefica scossa elettrica al Paese. da - http://lastampa.it/2012/10/17/cultura/opinioni/editoriali/energia-il-crocevia-dei-problemi-JWobfchxsDnM7l8qXBeF4I/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Speriamo di non finire come gli Usa Inserito da: Admin - Novembre 04, 2012, 05:14:20 pm Editoriali
04/11/2012 Speriamo di non finire come gli Usa Mario Deaglio Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Mitt Romney, ha affermato, un paio di giorni addietro, che il suo Paese rischia di finire come l’Italia. Gli italiani potrebbero replicare che sperano di non finire come gli Stati Uniti: l’emergenza dell’uragano Sandy - per quanto correttamente gestita, a differenza di quella dell’uragano Katrina del 2005 - ha posto in luce una realtà di infrastrutture pubbliche deboli al punto che il maggior centro finanziario del mondo ha dovuto chiudere per due giorni, quasi quanto per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Pur spendendo per la sanità, in rapporto al prodotto interno lordo, circa il doppio di quanto spende l’Italia, gli Stati Uniti presentano indicatori sanitari nettamente peggiori: la speranza di vita alla nascita è di 78 anni contro gli 81 dell’Italia e il numero delle donne morte di parto è di 21 ogni centomila nati contro 4 dell’Italia. Se poi passiamo all’economia, scopriamo che il deficit pubblico degli Stati Uniti è pari circa l’8 per cento del prodotto interno lordo, quello dell’Italia a circa il 3 per cento. Naturalmente l’America di Obama/Romney può vantare iniziativa e innovazione, un mercato finanziario agile e una moneta rispettata, un’eccellenza tecnologica in molti settori, una forza militare senza rivali. Che a vincere sia Romney oppure Obama, però, le debolezze strutturali, sovente trascurate, finiranno per pesare e renderanno molto faticosa la vita del prossimo inquilino della Casa Bianca. Se poi, come è ben possibile, il partito del Presidente non avrà il controllo del Congresso, per l’America si porrà, come per diversi Paesi europei, un problema di governabilità reso più complicato dalla crisi. Contrariamente a quanto può far credere una lettura ottimistica dei dati, gli Stati Uniti non sono ancora fuori dalla crisi. La cura nella quale gli americani ostinatamente persistono, ossia la «fabbricazione» di nuova liquidità da parte della banca centrale, riesce a tenere a galla l’economia ma non a farla veramente ripartire. Le vendite di autoveicoli, tanto per fare un esempio, sono in ripresa ma ancora lontane dalle cifre degli anni dei record. Gli investimenti sono del 15 per cento sotto i livelli precedenti la crisi (quelli in abitazioni risultano inferiori di oltre metà ai massimi del 2005). Il prodotto lordo è cresciuto ma meno velocemente della popolazione - per cui il potere d’acquisto medio degli americani nel 2011 è risultato ancora inferiore a quello del 2007 - e più velocemente dell’occupazione. Per questo il numero dei disoccupati scende soprattutto perché molti americani scoraggiati smettono di cercar lavoro; la diseguaglianza dei redditi continua inoltre ad aumentare, creando un divario che rischia di inghiottire la classe media. Il tavolo di Obama o Romney sarà quindi piuttosto ingombro di problemi, e il nuovo Presidente dovrà mettersi al lavoro subito perché il cosiddetto «precipizio fiscale» è dietro l’angolo. A fine anno terminano infatti importanti sconti fiscali e, in assenza di un accordo con il Congresso, in un Paese in cui il tetto del debito pubblico è fissato per legge, oltre all’inasprimento fiscale, potrebbero scattare, in maniera quasi automatica, anche tagli «lineari» alla spesa pubblica che in poco tempo metterebbero in ginocchio l’economia degli Stati Uniti e si ripercuoterebbero pesantemente sull’intera economia mondiale. Naturalmente nessuno pensa che il Congresso sarà così miope, ma il Fondo Monetario Internazionale ha già lanciato l’allarme: evitare di cadere nel precipizio sarà il primo compito di chi lavorerà nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca, tradizionale luogo di attività del Presidente degli Stati Uniti. Questa tempesta potrà essere evitata, ma l’economia americana rimarrà con i suoi problemi di fondo, aggravati dalle preoccupazioni borsistiche. La caduta di circa il 10 per cento nelle quotazioni di Google nel mese di ottobre è un segnale d’allarme sul fronte di Internet che si aggiunge al disastro della quotazione di Facebook e a un certo numero di risultati poco lusinghieri di altre grandi società nel terzo trimestre; è quindi legittimo avere dei dubbi sull’effettiva capacità della nuova informatica di creare grandi profitti. Un equilibrio precario, insomma, un insieme di interrogativi che sono stati incautamente accantonati nel corso della campagna elettorale e ai quali il nuovo Presidente dovrà dare una risposta in tempi estremamente brevi. L’Europa è stata quasi assente dal dibattito della campagna elettorale, se si eccettuano le accuse rituali – e largamente gratuite – all’euro che, con la sua particolare crisi, secondo il presidente Obama, sarebbe la causa dell’attuale rallentamento dell’economia. Si dovrebbe ricordare al Presidente la vecchia massima secondo la quale si vede facilmente la pagliuzza nell’occhio del vicino e si ignora la trave nel proprio. Forse sarebbe un bene per tutti, senza che con questo si voglia fare alcuna recriminazione o attribuire colpe, che il vincitore delle elezioni del 6 novembre si rendesse conto che la crisi è essenzialmente una crisi del sistema americano e che i rimedi devono partire dall’America. Detto questo per gli europei sarebbe leggermente preferibile una vittoria elettorale di Obama: entrambi i candidati, infatti, hanno avuto scarsi contatti con l’Europa e non sembrano nutrire al suo riguardo alcuna particolare simpatia. Obama e la sua squadra, tuttavia, hanno avuto quattro anni per imparare a collaborare con l’Europa. Se invece vincesse Romney, con i suoi orizzonti pressoché esclusivamente americani, si dovrebbe ricominciare tutto da capo, con il rischio di nuove incomprensioni. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2012/11/04/cultura/opinioni/editoriali/speriamo-di-non-finire-come-gli-usa-ScgmVJ6nMatVDNUxozba3J/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Il torpore che imprigiona il Paese Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 05:30:25 pm Editoriali
25/11/2012 Il torpore che imprigiona il Paese Mario Deaglio Sarebbe facile immaginare che, nella breve stagione delle primarie, ci sarà davvero una sfida tra continuità e cambiamento. In realtà, la parte del Paese che è attratta dall’idea di cambiare, innovare, correggere, che considera il mutamento come essenziale, che prende come modello l’Europa e il mondo, è largamente minoritaria. Sono invece prevalenti coloro che prendono come modello il campanile, vogliono il minor cambiamento possibile, il recupero di ciò che hanno perduto in questi anni e, al massimo, una semplice riverniciatura dell’esistente. In un Paese in cui i giovani sono in netta minoranza (con i più preparati che, sempre più frequentemente, trovano lavoro all’estero) la maggioranza esprime un profondo, quasi disperato, desiderio di continuità, anzi di immobilità, profondamente anacronistico in un mondo in cui le dinamiche demografiche e quelle economiche impongono rapidi cambiamenti a tutti. Il risultato di questo conservatorismo di fondo degli italiani è la caduta, o, in ogni caso, il livello estremamente basso dell’Italia in tutte le classifiche internazionali degli ultimi 10-15 anni. Lasciamo da parte il solito Pil, il prodotto interno lordo, che vede il Paese perdere posizioni non solo a livello mondiale ma anche in ambito europeo; merita invece di essere sottolineato, tanto per fare qualche esempio, che ci sono oltre cento Paesi al mondo in cui è più facile che in Italia ottenere un permesso di costruzione o un allacciamento elettrico, e ben centotrenta in cui è più facile pagare le tasse. L’Italia è ai primi posti per l’inquinamento dell’aria delle città, mostra cattivi risultati per quanto riguarda il livello di istruzione, perde colpi nel turismo, pur essendo, in potenza, il maggior paese turistico del mondo. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. In Italia si invocano incessantemente nuove iniziative per creare lavoro ma chi si fa avanti con progetti di nuovi investimenti viene subito trattato con sospetto. Vuoi mettere una fabbrica nei nostri campi? Il piano regolatore non lo permette. Vuoi far passare una linea ferroviaria nel nostro territorio comunale? Ci pensa la «conferenza dei servizi» a imporre un «obolo», sotto forma di opere pubbliche compensative, per cui il costo al chilometro diventa il più caro del mondo. Vuoi costruire un’autostrada ritenuta utile da tutti, come la Brescia-Bergamo-Milano, senza alcun onere per lo Stato? Preparati a una snervante partita con le istituzioni che durerà una quindicina d’anni. Vuoi costruire, come effettivamente voleva la società britannica British Gas, il rigassificatore di Brindisi, un tipo di impianti di cui il sistema energetico italiano ha un bisogno essenziale? Dopo undici anni di «guerriglia giuridico-burocratica» contro il progetto, la British Gas ha rinunciato. La riluttanza ad accettare veramente il nuovo, o anche solo a discutere delle sue possibili implicazioni, sembra permeare di sé il mondo della politica così come la società che la esprime. Eppure un tempo non era così: l’Italia dei primi del Novecento, così come quella del «miracolo economico», accettavano con entusiasmo mutamenti profondissimi, primi fra tutti quelli derivanti dalle migrazioni interne che hanno fatto da motore alla crescita italiana. Oggi la società appare impaurita e ingessata e si arriva all’amara conclusione che il benessere diffusosi in Italia negli ultimi 3-4 decenni ha portato a un nuovo torpore. Questo nuovo torpore rischia oggi di far perdere il benessere: non a caso, nella crisi economica in atto, l’Italia ha avuto la maggiore caduta produttiva tra i Paesi avanzati, seguita dal minor rimbalzo. In «Le sorprese della scienza», una novella pubblicata nella raccolta «Novelle per un anno» del 1922, Luigi Pirandello racconta il caso del comune di Milocca (oggi Milena, in provincia di Caltanissetta) ferocemente contrario alla costruzione dell’acquedotto e all’introduzione dell’energia elettrica. In una seduta (a lume di candela, naturalmente) il consiglio comunale, considera «della massima difficoltà» gli «impianti idro-termoelettrici» che serbano «dolorosissime sorprese». Conclusione? Il progetto di una centrale elettrica verrà bocciato, di fatto perché non vi sono previste spese generali, di direzione e di sorveglianza, legali e amministrative, ossia, come potremmo osservare oggi, perché così si sposterebbe la distribuzione dei redditi, lasciando poco o nulla alla politica e alla burocrazia locale. La bocciatura è però ammantata di alti principi: viene decretata la «sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte», un farsi scudo dei progressi della scienza di domani per evitare di far qualcosa oggi, un richiamo al futuro e alla modernità sotto il quale si nasconde il conservatorismo più profondo. Milocca oggi non è, come potrebbe sembrare, un comune siciliano di tremila abitanti. In realtà Milocca ha conquistato l’Italia, la maggioranza degli italiani ha la cittadinanza di Milocca. Milocca si annida nelle procedure di un’amministrazione pubblica pletorica, in un’opinione pubblica spesso apparentemente convinta che i posti di lavoro si possano creare indipendentemente dalla loro prevedibile produttività, che va in visibilio per i successi sportivi (quando ci sono) per non parlare di risultati economici poco brillanti. La speranza che le primarie di novembre-dicembre possano cambiare questo stato di cose è molto tenue. Come però dice un vecchio detto latino, la speranza è l’ultima a morire. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2012/11/25/cultura/opinioni/editoriali/il-torpore-che-imprigiona-il-paese-WyTGYcFJlMIiJBW349mWBO/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. La doppia miopia dalla noncuranza all’iper-rigore Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:41:05 pm Editoriali
28/11/2012 La doppia miopia dalla noncuranza all’iper-rigore Mario Deaglio Partito con difficoltà quasi 130 anni fa, l’acciaio italiano potrebbe oggi finire peggio, vittima della noncuranza con cui l’Italia sta affrontando le proprie scelte industriali: di una viscerale incomprensione dei processi economici e industriali da parte della magistratura e di un atteggiamento a dir poco non lungimirante della società proprietaria. La costruzione della prima grande acciaieria italiana non fu decisa in base a calcoli economici ma a considerazioni militari e, forse, anche clientelari: si scelse Terni, città isolata dai mercati di consumo del Nord e con forti problemi di trasporti e comunicazioni. Lo si fece su pressione della Marina Militare, che non voleva dipendere dall’estero per l’acciaio necessario alla costruzione delle corazzate e che vedeva nell’isolamento una garanzia contro possibili invasioni straniere. Diversi studi indicano però anche possibili interessi personali del ministro competente, un copione italiano con radici antiche: alcuni suoi amici e parenti possedevano terreni nella zona e vi avevano già impiantato una fonderia. Decisioni politiche e decisioni economiche, del resto, si intrecciano forse inevitabilmente, in ogni grande settore il che non è un male se tutto avviene con la dovuta trasparenza. La politica non poteva star fuori dalle decisioni cruciali relative a un materiale nuovo, com’era l’acciaio a metà Ottocento, che si identificava immediatamente con la forza. La potenzialità militare di un Paese si misurava in milioni di tonnellate d’acciaio ma, fino a pochissimi decenni fa, l’acciaio serviva anche a misurare la potenzialità economica in un mondo, uscito dalla Seconda guerra mondiale: oggi in parte sostituito dalla plastica e da altri materiali serviva a produrre tutto ciò che aveva a che fare con il miracolo economico, dal cemento armato alle utilitarie e alle pentole da cucina. Nel 1938, l’Italia, con oltre due milioni di tonnellate, era il sesto produttore mondiale, nel 2011, con 28 milioni, era al secondo posto in Europa e all’undicesimo in un mondo dominato dai colossi asiatici che hanno puntato sull’acciaio per uscire dalla povertà. L’Italia del dopoguerra impostò proprio nel settore siderurgico il suo piano industriale di maggior successo, dovuto a Oscar Sinigaglia, il carismatico esperto siderurgico posto a capo dell’Italsider: puntò su lavorazioni di grandi volumi, e quindi grandi stabilimenti, gli unici che potevano garantire costi bassi, specie se collocati sulla costa, dove potevano agevolmente ricevere via mare il minerale di ferro e spedire l’acciaio in ogni parte del mondo. Nascono così le acciaierie di Cornigliano (Genova), Bagnoli (Napoli) e a quel piano fa riferimento il polo siderurgico di Taranto, inaugurato nel 1961, quasi simbolo dell’Italia del miracolo e punta di diamante della scommessa di industrializzare il Mezzogiorno. Questi impianti si basavano sul «ciclo integrale» che permette di far produrre da un unico stabilimento non solo, o non tanto, acciaio grezzo ma anche una ricca gamma di prodotti, dal tondino per l’edilizia ai laminati e alle barre. Dall’Ilva di Taranto esce oggi circa un terzo dell’acciaio italiano; se chiuderà davvero, l’Italia forse perderà la distinzione di essere, dopo la Germania, il secondo Paese manifatturiero d’Europa ed entrerà a pieno titolo in una difficile e precaria era postindustriale della quale negli ultimi anni non sono mancati i segni premonitori. La fine di Olivetti e Montedison – imputabile a una sostanziale incomprensione da parte dei politici, e dell’opinione pubblica in genere, delle logiche dell’industria - l’hanno privata di una forte presenza rispettivamente nell’elettronica e nella chimica e si deve sempre più affidare al «made in Italy» e a piccoli, pur pregevoli, settori di nicchia. Il già ridotto peso del Mezzogiorno nell’economia nazionale riceverà un ulteriore colpo, contribuendo ad accrescere un divario economico tra diverse zone del Paese che non ha uguali nei Paesi avanzati. D’altra parte, perdendo un colosso industriale in cambio di niente, l’Italia si allontanerà ancora di più da questi Paesi. Per un’amarissima ironia, quest’Italia che pare proprio volersi privare dell’acciaio si terrà una città fortemente inquinata che solo dalla continuazione di un’efficiente produzione all’Ilva (e dall’uso dei relativi profitti per rimediare ai mali passati) può sperare di trovare le risorse per riportare a normalità un ambiente sconvolto da un’irresponsabile mancanza di controlli. Dopo decenni di grande noncuranza della società proprietaria e di assenza di controlli da parte pubblica, oggi lo Stato, mediante l’azione della magistratura, va all’estremo opposto: quello di un iper-rigore miope che potrebbe risultare altrettanto dannoso. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/la-doppia-miopia-dalla-noncuranza-all-iper-rigore-RCp0ABb0b2ExRU76STWffL/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Il partito del suicidio finanziario Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:58:10 pm Editoriali
11/12/2012 Il partito del suicidio finanziario Mario Deaglio Borsa che scende, «spread» che sale. Può sembrare una alchimia finanziaria lontana dalla vita di tutti i giorni, dai bilanci di imprese e famiglie. Purtroppo non è così, come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque anni. Forse il modo migliore per rendersi conto dell’importanza di quest’infausta congiunzione consiste nel partire da una constatazione semplice e apparentemente incredibile: mediamente l’Italia deve restituire ai suoi creditori un miliardo di euro al giorno, domeniche escluse, ossia circa 300 miliardi l’anno per i prossimi 6-7 anni. Come fa l’Italia a restituire somme così ingenti? Immediatamente prima della scadenza, «rifinanzia» il debito, ossia si fa prestare, con le aste sul debito pubblico, una somma all’incirca pari a quella in scadenza, con questa rimborsa Btp, Cct, Bot e quant’altro, giunti al termine della loro vita. Sono ormai vent’anni che l’Italia fa così e ha gestito tutto sommato in maniera soddisfacente, dal punto di vista finanziario, un debito enorme. Grazie all’euro, il mercato ha a lungo attribuito il medesimo rischio al debito sovrano di tutti paesi della nuova moneta, e, per conseguenza, il costo di questo rifinanziamento è stato relativamente moderato. In un certo senso ci siamo fatti scudo dei bassi tassi applicati ai tedeschi. Dalla metà del 2011 le cosa sono cambiate, sotto la spinta delle crisi greca, irlandese, portoghese e spagnola: i mercati hanno cominciato a guardare dentro alle strutture finanziarie dei paesi debitori. E quello che hanno visto per l’Italia proprio non li ha soddisfatti. Per conseguenza, il rifinanziamento del debito ha cominciato a costarci molto più caro di prima. Si consideri che, per ogni miliardo preso a prestito dallo Stato italiano - e quindi per ogni giorno lavorativo - 100 punti in più di «spread» equivalgono a un costo addizionale di 10 milioni di euro. 500 punti di spread si traducono in un aggravio di circa 50 milioni al giorno, ossia 18 miliardi l’anno: per procurarseli, lo Stato deve tagliare le spese o aumentare le entrate. A luglio 2011 si profilò un’ulteriore complicazione: alle aste si presentarono assai pochi aspiranti compratori, divenne difficile, anche a tassi estremamente elevati, trovare chi, un giorno dopo l’altro, volesse prestar soldi allo Stato italiano. Questo è il baratro finanziario in cui l’Italia non è caduta perché è riuscita contemporaneamente a ridurre lo spread e migliorare i propri conti pubblici. La minaccia è però sempre lì, una sorta di infezione in agguato che può attaccare il «sistema nervoso centrale» della finanza pubblica e far precipitare nel caos il paese in poche settimane. Di fronte a questa situazione viene sussurrata, ma a voce sempre più alta, da alcune forze politiche l’eventualità di non pagare, di non restituire il debito in scadenza, una sorta di rinascita del «menefreghismo» di marca fascista che, in una canzonetta di quel regime, proponeva precisamente la non restituzione del debito («Albione, la dea della sterlina/ s’ostina vuol sempre lei ragione/ ma Benito Mussolini/ se l’italici destini/ sono in gioco può ripetere così:/ me ne frego non so se ben mi spiego»). Il menefreghismo applicato al debito rappresenterebbe il suicidio finanziario, e non solo, del Paese per almeno tre motivi. Il primo - del quale si è avuto un segno premonitore con le forti cadute dei titoli bancari nella giornata di ieri - sarebbe rappresentato dal crollo delle banche, che hanno investito gran parte delle risorse finanziarie a loro disposizione precisamente in titoli del debito pubblico italiano, il cui valore precipiterebbe. Il secondo sarebbe la distruzione della cospicua parte dei risparmi finanziari degli italiani, investita in titoli statali. Il terzo sarebbe l’evidente difficoltà del Paese a trovare all’estero nuovi prestatori, dei quali avrebbe disperato bisogno. L’Italia sarebbe costretta a riadottare la lira - o una nuova moneta nazionale - che si svaluterebbe immediatamente nei confronti dell’euro e del dollaro. A questo punto, i risparmi non divorati dalla svalutazione del debito pubblico sarebbero distrutti da un’inflazione galoppante in quanto i prezzi dei beni importati andrebbero alle stelle, a cominciare da quelli dei prodotti petroliferi. Certo, le merci italiane ritornerebbero temporaneamente competitive, ma le imprese dovrebbero rapidamente rialzare i prezzi per l’aumento dei costi delle materie prime importate. La messa al bando dall’Unione Europea e la chiusura delle frontiere dei nostri partners alle merci italiane ne sarebbero ulteriori, possibili conseguenze. Dietro al baratro finanziario si profilerebbe così un abisso economico-sociale, e quindi anche politico, un’eventualità della quale i cittadini devono prendere coscienza. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano ha affermato che il suo partito non vuole «mandare il paese a scatafascio». A scatafascio però sicuramente andrebbe se il suo partito imboccasse la deriva populista, eco sinistra di un menefreghismo lontano e disastroso. Il che, allo stato degli atti, non sembra proprio di poter escludere. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2012/12/11/cultura/opinioni/editoriali/il-partito-del-suicidio-finanziario-QM45vt49ZEifkdBwFXFqdL/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. I passi obbligati per tornare a crescere Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2012, 06:08:53 pm Editoriali
23/12/2012 I passi obbligati per tornare a crescere Mario Deaglio Quale che sia il giudizio che si vuol dare del governo Monti, resta il fatto che, grazie alla sua azione, l’Italia ha superato una gravissima crisi che rischiava di portare a un improvviso collasso il suo sistema di finanza pubblica; che lo spread, termometro di questa crisi, si è fortemente abbassato. Che il bilancio pubblico si avvia, nel 2013, a un pareggio di fatto (ossia tenendo conto degli effetti della fase negativa del ciclo economico); che la struttura finanziaria pubblica risulta sostanzialmente irrobustita. Indipendentemente dai motivi che hanno spinto il Presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni, siamo quindi di fronte alla necessità oggettiva di voltare pagina, ossia di formulare nuovi obiettivi di politica economica, risultando sostanzialmente raggiunti quelli legati al superamento dell’emergenza. Per una fortunata circostanza, questa necessità di voltar pagina si presenta nel momento in cui sta per iniziare una nuova legislatura. Gli elettori italiani hanno quindi la possibilità, e al tempo stesso la responsabilità, di determinare un nuovo corso. Nell’esaminare i programmi elettorali occorrerà porre particolare attenzione all’entità della crescita che si prevede di realizzare nel prossimo quinquennio, alla sua qualità, ossia all’origine settoriale e alla destinazione futura della produzione italiana e infine ai mezzi con i quali sarà possibile finanziarla. Per quanto riguarda l’entità, all’Italia – a differenza degli altri Paesi avanzati – non basta tornare sul sentiero di crescita precedente la crisi perché il Paese sta emergendo da quindici-vent’anni da dimenticare e non può accontentarsi di tornare a crescere di qualche decimale all’anno. Un livello di crescita ragionevole si deve collocare almeno nell’ambito dell’1,5-2,5 per cento all’anno, corrispondente al ritmo che l’Italia era riuscita agevolmente a mantenere fino agli Anni Ottanta del secolo scorso e che gli altri Paesi dell’Unione Europea riescono a mantenere tuttora, nel lungo periodo, senza troppa fatica. A questi tassi di crescita, le prospettive della finanza pubblica e dell’occupazione migliorerebbero automaticamente. Proporre una crescita stabilmente collocabile tra l’1,5 e il 2,5 per cento a un Paese che quest’anno segnerà una riduzione produttiva di circa il 2,5 per cento richiede una visione in campo lungo e un atto di coraggio. Di coraggio e ampie prospettive, di un modello di futuro da realizzare avrà bisogno la politica dei prossimi anni, oggi troppo miope e, assai spesso, anche meschina. Le forze politiche e il nuovo governo, in altre parole, non possono pensare di gestire un’Italia da Serie B, devono realizzare un’Italia da Serie A. Una crescita di questa portata richiederà naturalmente condizioni internazionali favorevoli come la pace e il miglioramento della costruzione europea. E’ inoltre inevitabile ricorrere allo stimolo della domanda interna perché recuperi gradualmente i livelli passati; a tale scopo occorre procedere a una certa ridistribuzione di redditi in senso egualitario che restituisca almeno un po’ di potere d’acquisto a milioni di famiglie che l’hanno perduto. Per non restare sulla carta o produrre forti ingiustizie, colpendo i «soliti noti», tale ridistribuzione deve poggiare su un un’anagrafe dei patrimoni, di modello francese e procedere a un recupero strutturale dell’evasione fiscale. Il recupero del potere d’acquisto non spingerà gli italiani a replicare il consumismo di una decina d’anni fa: i gusti sono profondamente mutati, con il lento affermarsi di stili di vita più sobri e occorrerà, per certi consumi collettivi, guardare con grande attenzione al cosiddetto terzo settore, e cioè al volontariato, e alle collaborazioni tra pubblico e privato. Nei bilanci famigliari dovrà inoltre essere ricostituita la capacità di risparmio, fortemente ridotta negli ultimi cinque anni; e questo nuovo risparmio dovrà indirizzarsi verso gli investimenti produttivi assai più che verso il finanziamento del debito pubblico. Ma quali potranno essere questi nuovi investimenti? Le forze politiche dovrebbero presentare agli elettori la loro visione dell’Italia produttiva, da realizzare nei prossimi quinquenni, necessariamente sostenibile non solo da un punto di vista economico e finanziario ma anche a livello sociale ed ecologico e il nuovo governo dovrà facilitarne la realizzazione rimuovendo gli ostacoli che oggi di fatto impediscono, ritardano e distorcono quasi tutti i nuovi investimenti produttivi. Il nuovo governo, in altre parole, dovrà formulare una forte politica industriale, sciaguratamente messa in disparte negli ultimi quindici anni. Ridistribuzione dei redditi e politica industriale devono costituire la cornice di un quadro di economia di mercato, del quale, per motivi internazionali oltre che interni, non si può proprio fare a meno. Del resto, altri Paesi europei, segnatamente Francia e Germania – sia pure in maniera profondamente diversa tra loro – si muovono in questa direzione e non si vede perché l’Italia non possa collocarsi in questo ampio solco. La cosa peggiore nella prossima campagna elettorale sarebbe un’offerta politica sostanzialmente vuota di contenuto, basata sugli slogan, sulle battute, sulle personalità individuali. L’Italia proprio non se la meriterebbe. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2012/12/23/cultura/opinioni/editoriali/i-passi-obbligati-per-ritrovare-la-crescita-cyrwdNHiUmWgLO4CR6OW4J/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. L’economia può ripartire dal fisco Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2013, 06:10:34 pm Editoriali
03/01/2013 L’economia può ripartire dal fisco Mario Deaglio La decisione del Congresso degli Stati Uniti di aumentare l’imposizione fiscale sui redditi elevati è molto più di una semplice, anche se importante, manovra di finanza pubblica dettata dalla necessità di scongiurare un collasso assurdo e perfettamente evitabile dell’economia americana. Al di là della sua portata pratica, rappresenta un momento di svolta, la fine di uno dei principi-guida del capitalismo moderno. Un principio-guida che ha permeato la politica economica americana dai tempi della presidenza Reagan, ossia negli ultimi trent’anni: la convinzione che sia sufficiente ridurre le imposte sui cittadini dai redditi elevati per ottenere un aumento della crescita e un aumento generalizzato della produzione, del reddito e del benessere. I risultati iniziali non furono sfavorevoli (la rivoluzione di Internet può essere considerata figlia non solo delle liberalizzazioni ma anche della tendenza a tassare benevolmente i redditi alti) ma, dopo una prima fase, sono emersi pesanti effetti collaterali negativi, appesantiti dalla crisi economica: solo una piccola parte degli americani ha tratto grandi benefici dalla crescita trainata da questo tipo di detassazione, spesso i lavoratori «normali» hanno dovuto aumentare le ore di lavoro per mantenere inalterato il proprio livello di consumi, la diseguaglianza dei redditi è cresciuta e il disagio sociale si è fatto più acuto. Tutto ciò si è verificato, e continua a verificarsi, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa e l’Italia non è certo un’eccezione: la detassazione dei redditi alti, realizzata dai governi precedenti nell’arco di una quindicina d’anni - in buona parte mediante il condono edilizio e fiscale del 2003 - non sembra aver avuto effetti positivi sull’irrisorio tasso di crescita dell’economia italiana. A causa di questi elementi negativi, che si sono sommati alla crisi economica, il vento è radicalmente cambiato. Quasi due anni fa, Warren Buffet, il finanziere miliardario che è una delle figure più tipiche della scena economica americana, fece sensazione quando denunciò come aberrante il sistema fiscale del suo Paese perché tassava troppo poco la gente come lui: i suoi proventi di Borsa venivano colpiti dal fisco meno duramente dei guadagni della sua segretaria. Due giorni fa in occasione della giornata mondiale della pace, Benedetto XVI, ha attaccato duramente il «capitalismo finanziario sregolato» (e anche assai poco tassato, si potrebbe aggiungere). In questo intervallo di tempo, l’Unione Europea ha dato il via libera alla cosidetta «Tobin tax» che colpisce le transazioni finanziarie e undici Paesi, tra i quali l’Italia, l’hanno adottata o la stanno per adottare. In Francia, dopo che la Corte costituzionale ha bocciato la «tassa sui ricchi», il governo ha riaffermato la volontà di procedere in quella direzione e nel suo grigio e frettoloso discorso di fine anno, il presidente Hollande, ha ribadito la necessità di un maggior contributo dei ricchi al risanamento delle finanze pubbliche. In Italia, l’Agenda Monti punta a una riduzione del prelievo fiscale complessivo dando la precedenza ai redditi più bassi. Tutto questo individua un ritorno alla socialdemocrazia degli Anni Sessanta e Settanta? Non esattamente. Le riduzioni del carico fiscale a partire dai redditi più bassi e lo spostamento del carico stesso dai redditi più bassi a quelli più alti sembrano semplicemente rappresentare un tentativo globale per uscire dalla crisi, un obiettivo che non è stato raggiunto con la stampa di nuova moneta. Un alleggerimento fiscale di mille euro ai cittadini dai redditi bassi produce un aumento più elevato di domanda rispetto a mille euro di alleggerimento fiscale a cittadini dai redditi elevati. I primi, infatti, spenderanno tutto o quasi tutto per recuperare un livello di consumi perduto o per effettuare consumi forzosamente rinviati, mentre lo stile di vita e il livello dei consumi dei secondi potrebbe non esserne quasi influenzato. Una diversa distribuzione del carico fiscale può quindi essere uno strumento adatto a far ripartire i meccanismi inceppati dell’economia globale. Nel medio e lungo periodo, invece, i livelli di tassazione dei vari scaglioni di reddito paiono invece tutti da discutere. In realtà, per rilanciare l’economia, a chi ha redditi (e capitali) elevati si deve chiedere non tanto di consumare di più quanto di investire di più, di rischiare di più. Purtroppo, negli ultimi vent’anni non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, i maggiori redditi dei contribuenti di fascia alta non sono andati in questa direzione ma si sono tradotti soprattutto in impieghi finanziari scarsamente collegati con l’economia reale. Se questo comportamento non cambia, una delle condizioni di base in un sistema nel quale possano coesistere Stato e mercato, verrà a mancare: avremmo un’economia con scarsa crescita tendenziale e una società sempre più diseguale. In questa situazione, le istanze - portate avanti da alcune forze politiche italiane - di pura e semplice eliminazione di imposte impopolari come l’Imu, che, colpendo il patrimonio immobiliare, gravano maggiormente sui più ricchi, appaiono dissonanti con quelle degli altri Paesi avanzati e prive di veri effetti sulla crescita. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/01/03/cultura/opinioni/editoriali/l-economia-puo-ripartire-dal-fisco-fPFwaAZOvii5RUStIKxguI/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Tutti sconfitti nella guerra delle valute Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2013, 05:57:08 pm Editoriali
24/01/2013 Tutti sconfitti nella guerra delle valute Mario Deaglio Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha deciso di spostare per un giorno la campagna elettorale italiana sulle nevi svizzere. Dal punto di vista della finanza internazionale, l’Italia è l’unico Paese, tra quelli a rischio, che (forse) «ce l’ha fatta», anche se a prezzo di sacrifici per l’economia reale maggiori del previsto e per questo è stato invitato a tenere, nel centro turistico svizzero di Davos, il discorso di apertura del World Economic Forum, una sorta di «salotto buono» della globalizzazione, luogo d’incontro di politici e banchieri, industriali e finanzieri di primo livello talvolta descritto come l’internazionale dei ricchi. Pur essendo un «salotto buono», quest’anno il World Economic Forum non è certo un salotto allegro. La cancelliera Angela Merkel è giunta a Davos sotto il peso di una sconfitta elettorale in un’importante elezione regionale, a otto mesi dalle elezioni politiche. I rappresentanti degli Stati Uniti vi sono arrivati sotto il peso di un collasso fiscale solo rinviato dal recente accordo al Congresso. Il ministro francese dell’economia, Pierre Moscovici ha portato con sé a Davos l’assillo di un deficit pubblico che cresce troppo; il primo ministro britannico Cameron quello di un’economia che cresce troppo poco e, anche per questo, vuol lanciare un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. La scontentezza non riguarda solo i leader: in un sondaggio effettuato ieri dalla Cnn tra i visitatori del suo sito economico, in quasi tutti i Paesi avanzati il 65-70 per cento delle risposte concorda sul fatto che viviamo in tempi duri. Fanno eccezione la Germania, verso il basso (solo il 43 per cento) e l’Italia verso l’alto (79 per cento). Come se questo malcontento non bastasse, il mondo ricco si trova stretto tra due tenaglie, una politico-strategica e una monetaria. Dal punto di vista politico-strategico, l’assalto islamista a Is Amenas, nel deserto algerino fa scendere un brivido lungo la schiena: data per defunta o irrilevante, Al Qaeda si è in realtà rivelata capace di un grave attacco di sorpresa nel settore energetico nel quale la vulnerabilità delle economie avanzate è estrema. Nell’Africa occidentale non solo i deserti ma anche ampie aree di Paesi come la Nigeria sono ormai sostanzialmente in mano agli islamisti. Contemporaneamente, il rumore delle armi rischia di rovinare la festa economica dell’Asia: tra due Paesi tradizionalmente prudenti, come Cina e Giappone, per il possesso delle disabitate isole Senkaku e tra India e Pakistan, entrambi potenze nucleari. Infine, subito dopo la sua risicata vittoria elettorale il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha usato toni durissimi contro l’Iran, quasi una dichiarazione di guerra. Se le guerre reali sono, per fortuna, solo possibilità abbastanza remote, i partecipanti all’incontro di Davos si trovano davanti la realtà di nuove guerre finanziarie. Nel giro degli ultimi due anni, la fiducia in una grande ripresa economica si è dissolta, gli interessi nazionali hanno cominciato a divergere. La collaborazione tra le banche centrali è ormai quasi soltanto di facciata ed è stata sostituita da una competizione per svalutare al massimo la propria moneta, portar via agli altri Paesi, grazie al basso cambio, quote del mercato internazionale e rilanciare così la propria economia, senza curarsi dell’interesse collettivo alla crescita. Nelle ultime settimane il Giappone ha annunciato un programma-urto di spesa pubblica finanziata da nuova moneta con lo scopo dichiarato di far scendere il cambio per favorire le esportazioni nipponiche e stimolare l’economia. Il dollaro, però, si era mosso per primo su questa strada offensiva, con la creazione in grande stile di nuova moneta (la terza volta dall’inizio della crisi) che ha depresso il cambio del dollaro nei confronti dell’euro facendogli perdere, da luglio, all’incirca il 10 per cento del suo valore. E’ una tradizionale strategia americana quella di far leva su un cambio debole che rende meno care agli stranieri le merci esportate. In passato, il successo era però più facile perché non c’erano sostituti al dollaro; ora il dollaro può essere rimpiazzato dall’euro e, in piccolissima parte, anche dallo yuan cinese. La Cina e molti altri Paesi, tra i quali il Brasile, si difendono dall’assalto dei dollari appena stampati scoraggiando con imposte, o addirittura vietando, importazioni e investimenti esteri sul loro territorio. L’aggressività della svalutazione monetaria provoca così, dall’Argentina alla Russia, un crescente protezionismo. Nel nuovo clima protezionistico, che dissolve molte illusioni sui vantaggi dei mercati totalmente liberi, persino Canada e Stati Uniti hanno bloccato negli ultimi mesi gli acquisti di importanti imprese nazionali da parte di acquirenti stranieri. Per fortuna, la guerra delle valute e la sua appendice protezionista non producono morti o distruzioni fisiche. Contribuiscono però a creare disoccupati - più di 200 milioni nel mondo, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con un aumento di 67 milioni dall’inizio della crisi – e aspettative negative. La «malattia italiana» che il presidente del Consiglio ha presentato senza veli a Davos, si configura così come un caso acuto di una malattia mondiale contro la quale né i politici né gli economisti sembrano avere cure miracolose ma solo la tenue e non del tutto convincente promessa di una lenta guarigione: un male comune che, a dispetto del proverbio, proprio non ci procura un mezzo gaudio. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/01/24/cultura/opinioni/editoriali/tutti-sconfitti-nella-guerra-delle-valute-RmEDXHUQqzHNs7Txw9SIrJ/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. La sfida internazionale per una Fiat più moderna Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2013, 05:29:23 pm Società
20/01/2013 La sfida internazionale per una Fiat più moderna focus L’Avvocato dieci anni dopo In anticipo sui tempi, puntò sui mercati esteri. E fu ponte tra l’Italia e il mondo Mario Deaglio Gianni Agnelli salì ai vertici della Fiat, nel 1966, dopo che, con un’espansione industriale che aveva avuto del miracoloso, l’Italia aveva riempito i mercati europei di prodotti innovativi e a basso costo come scooter e utilitarie, frigoriferi, macchine per scrivere e nuovi prodotti alimentari. L’economia italiana si stava modernizzando con un’internazionalizzazione aggressiva, gli italiani erano i «cinesi» di un’Europa che cercava di diventare un mercato unico. Di questo tentativo italiano di modernizzazione-internazionalizzazione, la Fiat poteva essere considerata la punta di diamante. Si trattava di un impero industriale oggi difficilmente immaginabile, che spaziava dal materiale ferroviario ai motori marini, dagli aerei ai trattori, dalle costruzioni alla finanza. La Fiat aveva infranto le regole della guerra fredda impegnandosi a costruire una grande fabbrica di automobili in Unione Sovietica e un cacciabombardiere progettato e costruito dalla Fiat – il mitico G.91 - era risultato primo alla selezione della Nato. Oltre centomila lavoratori erano alle sue dipendenze dirette e diverse centinaia di migliaia lavoravano per imprese fornitrici della Fiat. Secondo un calcolo sommario, in quegli anni, quasi la metà del valore aggiunto dell’industria metalmeccanica italiana derivava, direttamente o indirettamente, dal Gruppo Fiat. La Fiat sovrastava quindi gli altri grandi gruppi privati - Olivetti, Pirelli e la neonata Montedison - e trattava direttamente con i grandi gruppi pubblici, ossia Eni e Iri, il sindacato, il governo, le autorità dell’Unione Europea e aveva contatti e rappresentanti ai massimi livelli nei principali Paesi del mondo. Per Agnelli, modernizzazione significava anzitutto espansione produttiva internazionale. Diede quindi nuovo impulso all’internazionalizzazione del gruppo anche in risposta alla sempre maggiore competizione interna, con i produttori tedeschi e francesi che cominciavano ad affacciarsi in forze sul mercato italiano mentre lo stesso Iri sfidava la Fiat lanciando lo stabilimento di Pomigliano d’Arco dove venne costruita l’Alfasud, una vettura dalle caratteristiche medie, in concorrenza (con i sussidi pubblici) con i modelli usciti da Mirafiori. Agnelli tentò, con molto anticipo sui tempi, di superare le dimensioni nazionali dell’industria dell’auto, acquisendo dalla famiglia Michelin il controllo della francese Citroen, ma quest’unione non decollò per l’ostilità del governo francese e dovette essere abbandonata dopo pochi anni. Avviò quindi l’espansione in Spagna, Yugoslavia, Polonia e in Brasile. La presenza su quest’ultimo mercato si rivelò più tardi, in anni finanziariamente molto difficili per la Fiat, l’ancora di salvezza del gruppo torinese. Per le sue caratteristiche personali, l’azione di Gianni Agnelli si inserì perfettamente in questo quadro complesso e rappresentò, per un buon quarto di secolo, un importante elemento di raccordo tra la realtà italiana e quella internazionale. Parlava un buonissimo inglese in anni in cui i politici italiani al massimo lo balbettavano e aveva rapporti diretti con il mondo politico americano mentre i politici italiani facevano la fila per essere ricevuti al Dipartimento di Stato. Una fila che spesso Agnelli riusciva ad accorciare. La modernizzazione italiana non aveva però solo una dimensione produttiva e negli anni 60 Agnelli era convinto che lo sviluppo del Paese passasse attraverso un’apertura, sia pure parziale e cauta, alle istanze e ai problemi di una società in rapido mutamento. Si trovò così a rappresentare un altro cruciale elemento di raccordo, quello dei rapporti tra la cultura italiana, largamente di sinistra, e la grande industria. Ciò fu possibile anche perché era intellettualmente curioso delle posizioni altrui e questa curiosità affascinava moltissimi intellettuali. Per conseguenza, una parte non piccola del mondo politico-culturale italiano vide in lui un contrappeso al conservatorismo, talora assai greve, di altri personaggi di spicco dell’industria e persino una garanzia contro eventuali progetti di colpi di Stato. Oltre a essere a suo agio con l’inglese e nei contatti internazionali, se la cavava con il piemontese e sapeva occuparsi di problemi di entità molto minore; fu per oltre trent’anni sindaco di Villar Perosa, il comune della Val Chisone dal quale proveniva la sua famiglia, dove aveva sede la Riv (oggi parte del gruppo svedese Skf, forse lo stabilimento che gli era più caro) con l’accordo di fatto del locale Partito Comunista che esprimeva la maggioranza del consiglio. Forse proprio a Villar Perosa fece il suo apprendistato nelle relazioni politico-sindacali ma queste sue relative simpatie a sinistra non misero certo la Fiat al riparo da dure stagioni di lotte sindacali. «Agnelli-Pirelli ladri gemelli» era lo slogan più tipico dei cortei che percorrevano le città italiane durante gli scioperi, ma, al di là di questa esecrazione quasi rituale, ai vertici i canali di dialogo rimasero sempre aperti in un clima di rispetto personale reciproco, in particolare con Luciano Lama, il leader della Cgil. Riscuoteva un grande rispetto personale – che spesso copriva un dissenso anche profondo su singoli problemi – anche nel mondo industriale. Fu così che, nel 1974 divenne presidente di Confindustria, una carica che assunse senza troppo entusiasmo per una certa ritrosia ai ruoli pubblici e per la percezione di una «diversità» crescente della Fiat dal resto dell’industria italiana; la ricoprì per un solo biennio, facendosi poi sostituire da Guido Carli. Quelli della presidenza di Confindustria furono però due anni cruciali in cui proprio i rapporti diretti tra Agnelli e Lama consentirono la conclusione dell’accordo sul punto unico di contingenza che introdusse un meccanismo fortemente egualitario nella dinamica salariale. Con il senno di poi, è facile scorgere i limiti di quest’accordo che gravò sui conti delle imprese e non ridusse la conflittualità; forse però Agnelli e Lama avevano intuito il pericolo insito in un’Italia dilaniata, per così dire, da un benessere troppo rapido e non troppo ben distribuito. Senza la loro intesa, gli anni di piombo avrebbero potuto avere un esito molto più distruttivo. Di certo, Agnelli e Lama (e dietro a loro la grande industria e il sindacato operaio di massa) furono lasciati soli da una classe politica sempre più distante dalla realtà dell’economia. Lo dimostra un episodio, riferito da una buona fonte: appena firmato l’accordo sulla contingenza, Agnelli telefonò ad Aldo Moro, allora Presidente del Consiglio per dargli la grande notizia. Moro si complimentò in modo sbrigativo ma fermò subito Agnelli che voleva esporgli il contenuto, dicendo: «Se l’avete fatto voi è ben fatto». Come un numero crescente di politici italiani, Moro valutava prevalentemente la portata politico-sociale dell’intesa e si disinteressava del suo contenuto e dei suoi effetti economici. La posizione di Moro fece scuola e la distanza tra grande industria e politica andò aumentando: l’Olivetti fu lasciata affondare con indifferenza mentre ai problemi di finanziamento del gruppo Fiat, che imposero una sempre maggiore specializzazione produttiva, i governi reagirono cercando di favorire sistemazioni finanziarie assai più che strategie produttive. Alla fine del 1976, fece il suo ingresso nella Fiat il capitale libico; nel 1980, la «marcia dei quarantamila» segnalò la fine del lungo e tormentato equilibrio tra Fiat e sindacato operaio, nel 2001 l’alleanza con General Motors parve aprire nuovi orizzonti, durò invece assai poco. In tutto questo lungo e tormentato periodo, la figura di Gianni Agnelli rappresentò una garanzia di continuità, il perdurare dei valori. Alla morte, nel 2003, decine di migliaia di persone gli resero omaggio, un fatto senza precedenti per un leader industriale e non a caso: tutti sapevano bene che si trattava del tramonto di un’epoca, un tramonto che per oltre un decennio Agnelli era riuscito a contrastare. mario.deaglio@unito.it da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/la-sfida-internazionale-per-una-fiat-piu-moderna-3zeYZjrTrS7vZcXh2ArwJK/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Un’occasione che dobbiamo cogliere Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 04:00:50 pm Editoriali
09/02/2013 Un’occasione che dobbiamo cogliere Mario Deaglio Dopo oltre ventiquattr’ore filate di trattative difficili, l’Europa ha raggiunto un accordo non scontato in partenza. Il che è certamente positivo. Si è però scoperta sempre più pragmatica e sempre meno idealista, potremmo dire sempre più «democristiana» nel senso che nessuno esulta e nessuno piange, nessuno ha stravinto e nessuno esce da questo confronto veramente sconfitto. Tranne, forse, l’idea stessa d’Europa ormai piuttosto lontana da quest’Unione Europea nella quale il compromesso sembra regnare sovrano, con tutti gli svantaggi che questo comporta in un momento di crisi quando sarebbero necessarie scelte di alto profilo. I rigoristi tedeschi, per una volta d’accordo con i britannici (un asse Berlino-Londra che di fatto ha sostituito, almeno in quest’occasione, il tradizionale asse Berlino-Parigi) e con l’aiuto di qualche paese nordico, hanno fatto passare il principio che anche il bilancio dell’Unione Europea si può tagliare: la parola «austerità», finora sconosciuta, comincerà ad aleggiare nei palazzi di Bruxelles. I non rigoristi, ossia i francesi, gli italiani, gli spagnoli e molti altri hanno ottenuto che i tagli vengano effettuati in modo da non danneggiare le loro economie. Si dovrebbe anzi, in molti casi, verificare un miglioramento nel rapporto tra i contributi che questi paesi versano e i fondi che questi paesi ricevono dall’Europa. Per ottenere questo risultato, per accontentare tutti, almeno un poco si sono fatte due operazioni distinte: la prima è consistita nel trasferimento a un nuovo fondo, dedicato alla lotta contro la disoccupazione giovanile, di una parte dei fondi per lo sviluppo, il che significa che ciascun paese dovrà contare, più che in passato, sulle proprie forze per far crescere l’economia. Se non si farà attenzione, potremmo avere minore crescita e più assistenzialismo. Non è detto che questo sia necessariamente un male dato l’emergere di dure condizioni di povertà non solo in Italia o in Spagna ma nell’intera Unione, ma sicuramente non aiuta gli europei a cercare di mantenere il peso dell’Europa nel mondo. La seconda operazione chiama in causa i «residui», ossia il fatto che non tutti i fondi stanziati per i prossimi cinque anni (la rispettabile somma di 960 miliardi di euro, contro 994 del quinquennio 2007-13) saranno effettivamente spesi (il tetto è stato posto a 908 miliardi, il 3 per cento in meno del quinquennio precedente). Che cosa effettivamente sarà speso e che cosa sarà rinviato, lo si vedrà in seguito. Per intanto, l’annuncio del taglio degli impegni fa contenti i rigoristi, la possibilità che i tagli alla spesa effettiva siano minori fa contenti i non rigoristi; e tutti possono tornare a casa con almeno mezza vittoria in tasca. Inoltre, la cancelliera Merkel può segnare al proprio attivo di aver fatto da mediatrice tra il primo ministro britannico Cameron e il presidente francese Hollande. Non a caso, la cancelliera Merkel è leader della democrazia cristiana tedesca. Sembra far capolino, dietro ai grandi principi, l’esigenza di economie nelle «spese generali» dell’Unione, una vera e propria svolta culturale che coinvolgerà sia la burocrazia europea, molto efficace ma non certo a buon mercato, sia il Parlamento Europeo, piuttosto costoso, con la sua sede «staccata» di Strasburgo, e alla ricerca di un vero ruolo deliberante. Precisamente da questo Parlamento potrebbero derivare ostacoli all’approvazione o quanto meno un senso di fastidio nel dover approvare un accordo in cui non ha avuto molta parte: i leader dei quattro principali gruppi politici (popolari, socialisti, liberali ed ecologisti) hanno subito espresso forti critiche. Ben al di là delle semplici critiche potrebbero spingersi le modifiche quando dai grandi principi si passerà alle disposizioni attuative, scritte in carattere più piccolo: il diavolo, come dicono gli inglesi, potrebbe annidarsi nei dettagli ancora da mettere a punto. Per l’Italia i risultati sulla carta sono positivi, in quanto il rapporto tra quanto il Paese versa a Bruxelles e quando riceve da Bruxelles pare destinato a migliorare sensibilmente. Attualmente siamo il Paese che contribuisce di più in percentuale del proprio reddito nazionale lordo (0,38 per cento, contro 0,34 per cento di paesi più ricchi e più rigoristi, come Germania e Finlandia) al bilancio dell’Unione e uno di quelli che ricevono di meno. Nel prossimo quinquennio, questo divario dovrebbe essere attenuato o annullato, un successo da non sottovalutare. Anche qui, però, il diavolo si anniderà nei dettagli: l’Italia dovrà «guadagnarsi» i fondi europei. Questa attività compete soprattutto alle Regioni che dovranno presentare progetti e rendiconti adeguatamente documentati secondo le minuziose regole dell’Unione che molte regioni italiane proprio non riescono a seguire. In sostanza, anche in quest’Europa dei compromessi c’è qualche buona occasione per l’Italia. Sempre che l’Italia la sappia cogliere. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/02/09/cultura/opinioni/editoriali/un-occasione-che-l-italia-deve-cogliere-ibCrAoxZcloOeECd7zhBeJ/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. La politica che dimentica l’economia Inserito da: Admin - Marzo 06, 2013, 12:26:50 pm Editoriali
06/03/2013 La politica che dimentica l’economia Mario Deaglio Da circa una settimana, ossia da quando sono stati resi noti i risultati elettorali, tutte le forze politiche si comportano come se l’economia non esistesse: l’attenzione è pressoché totalmente indirizzata a uscire dal vicolo cieco in cui la politica stessa si è cacciata, senza alcuna vera attenzione né per la crisi economica né per le regole e i vincoli di un’economia che, come le altre dell’Unione Europea, non può più dirsi totalmente sovrana, risultando vincolata da regole che non è possibile trasgredire disinvoltamente. Un atteggiamento del genere rischia di distruggere in poche settimane il risultato di un anno e più di sacrifici: l’Italia ha riacquistato credibilità ma deve prendere a prestito quasi un miliardo di euro al giorno solo per rifinanziare il debito in scadenza, un’operazione che già è ridiventata sensibilmente più cara. In queste condizioni il dialogo con l’Europa non può essere condotto burocraticamente; al tavolo devono sedere un presidente del Consiglio e un ministro dell’Economia pienamente legittimati, ossia in grado di impegnarsi sulla base di un sostegno generale espresso dal Parlamento con un voto di fiducia. L’agenda degli argomenti che attende questo presidente del Consiglio e questo ministro dell’Economia è fitta e urgente: il 14 marzo si riunirà a Bruxelles il Consiglio Europeo di primavera, primo di una serie di appuntamenti in cui sarà messa a punto la strategia economica europea per i prossimi 6-12 mesi. E’ naturalmente troppo presto perché l’iter politico italiano sia stato completato ma qualche indicazione dovrà essere chiara: l’Italia proprio non può sedersi al tavolo e far scena muta, deve partecipare a decisioni collettive e usare l’autorevolezza conquistata per fare richieste precise. Queste richieste potrebbero essere tre. In primo luogo, dovrebbe essere avviato un confronto sulla differenza tra Francia (alla quale si consente di arrivare al pareggio del bilancio nel 2017) e Italia (costretta, per impegni del precedente governo, al pareggio nel 2013). Non si tratta di guadagnare qualche rinvio ma di consentire una rapida messa a punto di strumenti di rilancio della domanda. Un’Italia divenuta più credibile deve ricevere un trattamento più prossimo a quello dei «cugini» francesi che consenta misure di rilancio; e deve sottolineare che l’Europa è ormai attanagliata dalla crisi, la stessa Germania ne è almeno sfiorata e la pazienza politica degli europei non è eterna. Uno dei possibili strumenti di rilancio riguarda il debito dello Stato e degli enti pubblici verso le imprese, nell’ordine di 80 miliardi di euro. Le norme europee lo considerano un debito «commerciale» e pertanto non è incluso nel debito pubblico. Debito commerciale, però, non è più: successivi governi hanno ritenuto comodo non pagare i fornitori per rendere meno brutto il quadro della finanza pubblica. Chi andrà a Bruxelles deve richiedere che almeno una parte di questo debito venga «finanziarizzato», il che consentirebbe a Stato ed enti pubblici di farsi anticipare le risorse per pagarlo dal mondo bancario, per il quale si tratterebbe di un investimento analogo a un Btp o a un Cct. Il pagamento dei debiti (ex)-commerciali è assolutamente prioritario per evitare il collasso di un gran numero di fornitori dell’amministrazione pubblica: l’immissione rapida nel circuito finanziario di almeno 40-50 miliardi sarebbe uno stimolo sufficiente a far ripartire l’economia, anche se non basterebbe a conservarne lo slancio e dovrebbe essere seguito da altre misure espansive. Una parte di queste risorse tornerebbe rapidamente al settore pubblico sotto forma di maggiori entrate fiscali e potrebbe essere nuovamente utilizzata per sostenere interventi pubblici rallentati o sospesi negli ultimi dodici mesi. L’elenco è lunghissimo c’è solo l’imbarazzo della scelta. Nell’attuale emergenza economica non si può, inoltre, non rimettere sul tappeto il problema delle riserve auree italiane, molto ingenti e contabilmente valutate a circa 40 dollari l’oncia contro un prezzo di mercato di oltre 1500 dollari. La mera rivalutazione contabile (per un valore di circa 150 miliardi di euro) probabilmente indurrebbe i mercati finanziari a giudizi meno severi sull’Italia e a una riduzione dello spread. Com’è noto, spread più basso significa deficit più basso o più alta capacità di spesa pubblica a parità di deficit. L’oro potrebbe poi essere dato in garanzia a un ente internazionale - il miglior candidato è il Fondo Monetario - per ottenere non un nuovo prestito, di cui non c’è bisogno, bensì una linea di credito per fronteggiare attacchi speculativi: una sorta di Fondo Salva Italia, senza passare necessariamente per l’europeo Fondo Salva Stati. Naturalmente per ottenere qualcosa è necessario che al tavolo di Bruxelles l’Italia non mandi degli «zombie» bensì ministri nella pienezza dei loro poteri, appoggiati da un voto di fiducia parlamentare. In ogni modo, la partita europea che si giocherà nei prossimi 2-3 mesi è essenziale perché l’Italia possa rimanere in serie A. Se le Camere e le forze politiche ritenessero di dedicare tutto il loro tempo, in questo periodo cruciale, a parlare dei loro problemi, della riduzione dei costi della politica, di fatto la politica potrebbe uccidere l’economia. E sarebbe inutile che dopo venisse a portare fiori sulla sua tomba. da - http://lastampa.it/2013/03/06/cultura/opinioni/editoriali/la-politica-che-dimentica-l-economia-EvwuojxZ7ZCkMiL7s4SzZK/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Atene, errore umano a Nicosia diabolico Inserito da: Admin - Marzo 19, 2013, 11:43:08 am Editoriali
19/03/2013 Atene, errore umano a Nicosia diabolico Mario Deaglio Errare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. E c’è sicuramente qualcosa di diabolico in un’Unione Europea che non ha imparato nulla dagli errori compiuti con la Grecia. Ha condannato i greci ad almeno dieci anni di dura austerità, con un forte costo finanziario per i Paesi membri. Senza peraltro riuscire a risolvere il problema ma anzi mettendo a repentaglio la stabilità dell’euro. E ora supera se stessa con Cipro: grazie alla goffaggine europea, dopo un anno di trattative, i problemi finanziari dei suoi 800 mila abitanti, un po’ meno di quelli di Torino, riescono a innescare una caduta generalizzata delle Borse mondiali, a riportare ombre sull’euro, già in difficoltà per una recessione largamente artificiale, uscita dal laboratorio di Bruxelles. Anche ieri, la lentezza dei compassati - e impacciati - comunicati ufficiali e semiufficiali ha fatto da contrappunto alla rapidità con cui i mercati declassavano in blocco l’euro, la seconda moneta del mondo. Cipro è diventato il simbolo dell’incapacità europea con le banche chiuse in attesa del soffertissimo voto parlamentare, chiamato ad approvare (forse) oggi una forte imposta patrimoniale sui depositi bancari, che assomiglia a una taglia medievale. A molti italiani fa ancora venire i brividi il ricordo dell’analoga imposta dello 0,6 per cento sui depositi bancari introdotta dal governo Amato, ma quella era una carezza in confronto al 9 e più per cento che, per taluni tipi di depositi, viene proposto per Cipro. Dimenticando che Cipro è il principale punto di passaggio dei capitali russi in uscita e quindi creando una nuova tensione internazionale di cui non si sentiva proprio il bisogno. Non vi è nessuna ragione logica per cui le crisi dei Paesi in difficoltà strutturali debbano essere risolte in tempi congiunturali, ossia brevissimi: perché sono stati concessi a Grecia, Cipro, Spagna pochissimi anni per raggiungere il pareggio dei bilanci pubblici, perché l’Italia deve arrivarci entro il 2013 e non il 2014 o il 2015 (il mero spostamento dell’obiettivo libererebbe le risorse per una ripresa e quindi la renderebbe molto più facile da realizzare)? Perché alla Francia si consente invece un pareggio di bilancio al 2017 e attualmente un deficit pari al 4,5 per cento del prodotto lordo, ben al di sopra dei parametri del patto di stabilità? Dietro una simile miopia nei confronti dei Paesi mediterranei (per la quale si distingue spesso il commissario finlandese Olli Rehn) e una simile disparità di trattamento non può mancare il sospetto di un occulto senso di superiorità dei Paesi settentrionali nei confronti della supposta pigrizia dei «mediterranei» e magari persino un’invidia sotterranea per il buon clima e il buon cibo. In realtà ciò che sta veramente bloccando tutto è la pigrizia dei capitali e degli imprenditori tedeschi, e, più in generale, nordici: non utilizzano i fiumi di denaro a buon mercato che l’andamento dei mercati sta mettendo temporaneamente nelle loro mani a un tasso di interesse prossimo allo zero per investimenti industriali e finanziari davvero rilevanti nei Paesi deboli. Solo così, con un flusso di investimenti paragonabile a quello del Piano Marshall, i tedeschi potrebbero davvero trasformare un predominio finanziario, probabilmente temporaneo, in un primato industriale accettato e condiviso, come fu, a lungo, quello degli americani. Al contrario, si preferiscono investimenti industriali molto vicini alle porte di casa, come in Ungheria, sulla cui deriva autoritaria si preferisce chiudere gli occhi, aspettando di vedere se Angela Merkel sarà confermata alla Cancelleria dopo le prossime elezioni tedesche: non si prendono decisioni vere e si calca la mano su Cipro. Chi scrive è, come tanti, quasi certamente la maggioranza degli europei, è un sostenitore dell’Europa, intesa come progetto a un tempo civile e culturale oltre che economico. Un’Europa come l’attuale, economicamente frammentata, culturalmente segnata dal ritorno dei particolarismi regionali e linguistici, poco attenta ai problemi di civiltà e libertà sembra invece sentirsi davvero europea solo nel calcio. Non solo non risponde a questo ideale ma non sembra neppure avere un futuro in un mondo globale in cui una struttura portante come la Chiesa Cattolica è diventata, con l’elezione del nuovo Papa, sicuramente meno europea e più universale mentre Paesi un tempo periferici stanno avanzando rapidamente sulla scena. Con il caso di Cipro è appropriato domandarsi se abbia ancora senso un’Europa aggrappata soltanto alla moneta che non sa più guardare avanti, mentre una parte importante del continente sta vivendo una decrescita sempre più infelice. Da questo piano inclinato occorre uscire verso l’alto, non verso il basso. E forse una spinta in questa direzione può derivare dalla nuova domanda politica, emersa con clamore nelle recenti elezioni italiane: dietro a un teatrale rifiuto dell’euro è possibile trovare, sia pure con qualche fatica, istanze di un’unione non solo economica. Forse il «precariato», individuato dall’economista britannico Guy Standing come una classe sociale emergente, riuscirà là dove il proletariato ha fallito, ossia nell’imbastire, sulla base delle proprie ragioni, un confronto non distruttivo con il mondo dell’economia. Questo potrebbe forse succedere tra breve in Italia e tra non molto in Europa. Speriamo che non si tratti dell’ennesima occasione perduta. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/03/19/cultura/opinioni/editoriali/atene-errore-umano-a-nicosia-diabolico-m3IncFmyGWsd3AJaTHk5DN/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. L’economia su un sentiero pericoloso Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 07:13:15 pm Editoriali
03/04/2013 L’economia su un sentiero pericoloso Mario Deaglio Ha ragione il presidente Napolitano a definire «surreale» l’atmosfera in cui si sta muovendo la politica italiana: nonostante gli sconvolgimenti elettorali e il profondo senso di disagio civile e sociale impietosamente messo in luce dai risultati delle urne, il mondo politico continua ad occuparsi soprattutto, se non esclusivamente, dei propri problemi interni. Appare sordo e cieco, o quanto meno largamente indifferente, ai segnali di grave pericolo che con sempre maggiore insistenza provengono dal mondo dell’economia. E non è certo che ai saggi - alcuni dei quali, assai poco saggiamente, si sono profusi in esternazioni pubbliche prima ancora di cominciare il proprio lavoro - siano chiare le dimensioni del problema economico-finanziario, la cui evoluzione non può non condizionare, in questo momento, le dimensioni di tipo giuridico-istituzionale. Il mondo politico sembra essersi di fatto convinto - con un semplicismo sempre più diffuso - che, dopo la riunione del Consiglio europeo del 14-15 marzo, e l’annuncio del presidente del Consiglio della «probabile» (oggi meno di allora) prossima uscita dell’Italia in aprile dalla «procedura di deficit eccessivo», i vincoli alla spesa siano scomparsi. In realtà, da Bruxelles si è avuto solo un esiguo allentamento di questi vincoli, secondo modalità ancora da definire. Il panorama del 2013 è invece ancora dominato dalla prospettiva di un aumento dell’Iva nel prossimo mese di luglio, oltre al nuovo gravame fiscale rappresentato dalla Tares di cui La Stampa ha fornito ieri un ampio resoconto. Continuiamo a rimanere sulla graticola, e, nonostante i buoni risultati di ieri, lo stallo politico ravviva un fuoco finanziario che sembrava prossimo a spegnersi ma continua a covare sotto la cenere. Questa situazione non è frutto di qualche mente perversa nei palazzi europei del potere, anche se l’Unione Europea si è dimostrata per lo meno scandalosamente miope, come dimostrano le vicende cipriote: è invece la conseguenza di un programma di risanamento strutturale della finanza pubblica italiana, al quale si era impegnato il governo Berlusconi nell’agosto 2011, successivamente messo in pratica dal governo Monti per evitare una crisi finanziaria devastante e fulminante. Il giudizio sul debito pubblico italiano, preannunciato per i prossimi giorni dall’agenzia di rating Moody’s, ci ricorda che ci siamo certo allontanati dal baratro fiscale ma vi ci potremmo riavvicinare rapidamente. Questa griglia finanziaria strettissima è il punto dal quale i saggi dovrebbero partire. Hanno davanti a sé due alternative: la prima è quella di cercare di aprire con l’Europa un nuovo negoziato sul rientro dal deficit, o quanto meno mirare a qualche ulteriore alleggerimento delle condizioni pattuite nell’agosto 2011. Proprio ieri, peraltro, la Commissione europea ha detto duramente di no all’estensione all’Italia dei margini temporali concessi alla Francia, un paese in cui le finanze pubbliche si stanno deteriorando rapidamente. Possiamo quindi realisticamente cercare di aumentare i nostri margini di manovra ma questo sarà possibile solo a piccole dosi e in modeste quantità. La seconda alternativa è quella di mantenersi nel solco prefissato, eventualmente facendo miglior uso di alcune entrate pubbliche, come quelle derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, destinandone una porzione maggiore a obiettivi di crescita o di riduzione delle imposte, e puntare l’attenzione sulla riorganizzazione dei servizi pubblici, finora appena sfiorata. Si potrebbe partire con mutamenti profondi nei meccanismi della burocrazia italiana che attualmente consentono solo molto lentamente di ripagare i debiti commerciali dell’amministrazione pubblica verso i fornitori. Potrebbe esserci anche spazio per una modestissima riduzione del carico fiscale in modo da non soffocare gli esigui, ma incoraggianti, segnali positivi sul fronte della produzione (cinque settori industriali con segnali positivi a gennaio) e dell’occupazione (cinquantamila occupati in più a febbraio, secondo i dati resi noti ieri). Di tutto questo, nel dibattito in corso almeno apparentemente non si discute: si sottolineano problemi sociali che purtroppo tutti conoscono senza proporre alcuna realistica via d’uscita, si invocano «iniezioni di liquidità» trascurando che ogni vero aumento della liquidità non può che derivare dalla Banca centrale europea e che i pagamenti dei debiti pubblici verso le imprese fornitrici saranno impiegati, almeno all’inizio, per ridurre esposizioni insostenibili sia per le imprese sia per le banche e non si tradurranno in uno slancio a nuovi investimenti. La nostra strada, insomma, continua a essere molto stretta oltre che largamente obbligata. Basterebbe un colpo di vento sui mercati finanziari a farci perdere l’equilibrio: già oggi, i 70-80 punti di maggiore spread accumulati nella fase post-elettorale si traducono in svariati milioni al giorno di maggiori interessi. Questo costo occulto della politica è superiore alle economie programmate nel funzionamento delle Camere. Su questo stretto sentiero non servono geometrie politiche variabili, mentre possono risultare del tutto dannosi rinvii e polemiche. Di rinvii e di polemiche, purtroppo, in queste ore sembra esser costellato il panorama politico italiano: un panorama surreale come quello di un brutto sogno. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/04/03/cultura/opinioni/editoriali/l-economia-su-un-sentiero-pericoloso-X29j0OW75YUBvxoPmzJSDM/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Semplicismo, malattia italiana Inserito da: Admin - Aprile 09, 2013, 11:24:38 am Editoriali
09/04/2013 Semplicismo, malattia italiana Mario Deaglio Il trascinarsi della crisi politica e l’aggravarsi della crisi economica sembrano andare di pari passo con la banalizzazione delle posizioni sull’economia: un numero sempre maggiore di persone pensa infatti che la crisi si possa risolvere con facilità. La convinzione che tutto sia facile è una grave malattia che si potrebbe definire «semplicismo». I semplicisti - in questa categoria bisogna purtroppo includere anche buona parte della classe politica - pensano che per invertire la congiuntura negativa, far ripartire la crescita, risanare le finanze pubbliche sia sufficiente qualche piccolo provvedimento da scegliere a piacere tra i seguenti (tutti lodevoli di per sé): ridurre le imposte, colpire gli evasori fiscali, pagare i debiti delle amministrazioni pubbliche verso le imprese, ridurre i costi della politica. Il semplicista ritiene che, se si adottasse la misura, o una delle misure, da lui preferita, il meccanismo economico italiano si rimetterebbe in moto, come per incanto, e l’economia rifiorirebbe. Le ricette miracolose dei semplicisti vengono spesso espresse in messaggi di «twitter» da 140 caratteri; così che tutti gli italiani dotati di computer le possano leggere in un minuto e commentare al bar nel tempo necessario a prendere il caffè. Tutto ciò non sarebbe un gran male se tracce sempre più consistenti di semplicismo si possono rilevare sui siti e nei blog delle forze politiche, nei discorsi dei leader, negli abbozzi di programma dei partiti che cercano, con scarso successo finora, di dar vita a un nuovo governo. Le cose, purtroppo, non sono semplici in alcun Paese del mondo; meno che mai il semplicismo può funzionare in Italia, un Paese in cui, anche per la sua intricata struttura sociale, geografica e produttiva, l’economia è una macchina al tempo stesso molto complicata e molto delicata. Eppure l’idea che siano necessarie medicine economiche complesse e ben calibrate, che sono efficaci soltanto in tempi lunghi, non viene neppure presa in considerazione dai semplicisti. Il semplicismo comporta due effetti collaterali piuttosto seri. Il primo è la convinzione che i problemi, in realtà, non esistono, sono soltanto il risultato di montature mediatiche, oppure che sono comunque lievi, complicati dalla cattiva volontà dei politici. La crisi? Non c’è, guardate ai ristoranti sempre pieni, disse non più tardi di due anni fa l’allora presidente del Consiglio, (trascurando, tra l’altro, che al ristorante la gente, per spendere meno, riduceva il numero delle portate). Chi ricorda la ventennale mancanza di crescita dell’Italia, sintomo di declino del Paese, viene spesso guardato con sospetto, fino a poco tempo lo si definiva «sfascista» e gli si rimproverava di credere troppo alle statistiche e di non vedere i successi mondiali del calcio e del «made in Italy». Il secondo effetto collaterale consiste nel credere che le soluzioni semplici possano meglio essere adottate da un leader che prenda in mano la situazione, forse un riflesso del mussoliniano «uomo della Provvidenza». In tempi brevissimi questo leader potrebbe uscire dall’euro, tagliare gli sprechi, vendere beni pubblici. Ci si dimentica che all’euro l’Italia è legata da un trattato internazionale; che tagliare gli sprechi significa in ogni caso tagliare posti di lavoro e che occorre contemporaneamente incrementare direttamente le spese produttive se si vogliono evitare effetti recessivi; e che la vendita di beni pubblici deve seguire, nella stragrande maggioranza dei casi, una disperante procedura giuridica che può durare diversi anni. Un particolare caso di semplicismo riguarda il recente provvedimento del governo sul pagamento dei debiti alle aziende fornitrici. E’ un’illusione che questi denari – che lo Stato, tra l’altro, metterà a disposizione degli enti debitori solo con il contagocce – possano da soli far ripartire l’economia. Le imprese alle quali saranno accreditati, infatti, vedranno con molta soddisfazione alleggerirsi il colore rosso nei loro conti bancari, alcune emetteranno un sospiro di allievo per essere così riuscite a evitare il fallimento; passerà però come minimo un po’ di tempo perché si mettano a pensare a nuovi investimenti. Le banche creditrici, dal canto loro, saranno liete del rientro dei clienti da posizioni difficili, spesso incagliate, ma solo molto lentamente questa minor difficoltà si tradurrà nella volontà di correre nuovi rischi prestando ad altre imprese. Per usare le parole di un portavoce del commissario Olli Rehn, che ieri ha commentato il provvedimento italiano, «accelerare il pagamento dei debiti non è una bacchetta magica». E si potrebbe aggiungere che sarebbe ora che gli italiani smettessero di credere che le bacchette magiche esistono. In realtà ciò che esiste è un Paese seriamente malato che ha di fronte a sé cure incerte e di lunga durata, un «long, hard, slog», ossia una «sfacchinata lunga e dura», come disse Winston Churchill in un discorso durante la Seconda guerra mondiale che Margaret Thatcher riprese frequentemente nel presentare agli inglesi la sua ricetta di risanamento economico. Probabilmente non abbiamo oggi in Italia alcun bisogno delle ricette thatcheriane, ma la lunghezza e la durezza del percorso dovrebbero essere ricordate dai politici agli italiani; molti dei quali continuano a ritenere che il loro futuro economico, grazie a semplici provvedimenti, sia una piacevole gita fuori porta. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/04/09/cultura/opinioni/editoriali/semplicismo-malattia-italiana-T5DEB20BgkNWuYDGx0yZXP/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Adesso serve la fiducia di Ue e mercati Inserito da: Admin - Maggio 09, 2013, 11:58:13 pm Editoriali
01/05/2013 Adesso serve la fiducia di Ue e mercati Mario Deaglio Con il voto di fiducia al Senato, il governo Letta ha completato ieri il suo rapidissimo cammino parlamentare di insediamento, ma questa è sicuramente la parte più facile, quasi scontata, del suo compito. Sulla strada della credibilità lo attendono ora infatti, due altri «voti di fiducia» molto impegnativi e assai poco scontati: quello dell’Europa e quello dei mercati. La fiducia dell’Unione Europea deve essere ottenuta in un momento molto difficile, ossia proprio quando i rapporti politici all’interno dell’Europa sono eccezionalmente perturbati a causa dei contrasti sempre più duri tra Francia e Germania. Il presidente francese Nicholas Sarkozy era riuscito a stemperarli e a sopirli, ma il suo successore François Hollande è stato trascinato dal suo stesso partito socialista in una polemica durissima nella quale la cancelliera tedesca Angela Merkel è stata bollata per la sua «austerità egoista» mentre il portavoce della cancelliera ha stigmatizzato «l’insolenza dei socialisti francesi». Non è facile trovare, negli ultimi cinquant’anni, toni così accesi ed è proprio su questi carboni ardenti che dovranno passare il presidente del Consiglio Enrico Letta e il ministro degli Esteri, Emma Bonino. L’incontro di ieri sera a Berlino del Presidente del Consiglio con il cancelliere tedesco Angela Merkel e quelli che avrà oggi a Bruxelles con il presidente della Commissione Europea e con il Presidente francese sono destinati a essere i primi di una lunga serie in cui toccherà all’Italia di sollevare il problema del difficile – se non impossibile - equilibrio tra austerità e ripresa. Si tratta di incontri preliminari in cui si affermano principi ma si tralasciano dettagli, come è successo, appunto, nel primo scambio Letta-Merkel. Ai dettagli ha pensato invece uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi, il Frankfurter Allgemeine Zeitung il quale, in un duro editoriale, ha rilevato come, da Monti a Letta, il numero dei ministri italiani sia passato da dodici a ventuno. L’Italia cercherà con forza di ottenere quanto è stato garantito a Spagna, Portogallo e Irlanda, ossia uno slittamento di due anni dell’obiettivo del pareggio del bilancio pubblico, ora fissato a fine 2013. Va ricordato che questo termine, che ora appare soffocante, era stato accettato, in forma più o meno ufficiale dall’ultimo governo di Silvio Berlusconi e necessariamente fatto proprio dal governo tecnico di Mario Monti. E’ bene dire chiaramente che, senza uno slittamento di quelle proporzioni, sarà molto difficile, per non dire impossibile, trovare risorse sufficienti per rilanciare l’occupazione, ridurre l’Imu, detassare le imprese e quant’altro. Lo slittamento, invece, porterebbe a una disponibilità pubblica non facilmente determinabile ma nell’ordine di 10-20 miliardi di euro con i quali cercare di sostenere l’economia per farle superare il punto morto in cui oggi si trova. Oggi l’Italia si trova in una situazione assurda: nel 2012 il Paese ha contribuito in maniera cospicua al Meccanismo Europeo di Stabilità, che ha lo scopo di salvare le economie di altri Paesi, a cominciare dalla Grecia. Le viene però, di fatto, impedito di spendere anche un solo miliardo per rilanciare l’economia italiana. Non si tratta precisamente di una situazione ideale per rendere popolare l’Unione europea che già oggi viene percepita da pressoché tutti gli italiani come lontana, e da molti come potenzialmente ostile. Il presidente del Consiglio dovrà far leva proprio su queste assurdità e sulla necessità della loro rapida rimozione per realizzare quanto ha promesso nelle aule parlamentari. Mentre cercheranno di convincere i colleghi europei, Enrico Letta e il suo governo dovranno anche guadagnarsi la fiducia dei mercati. Apparentemente questa è stata data a piene mani: il famigerato spread è sceso e non ci sono state nelle scorse settimane difficoltà particolari a collocare le nuove emissioni di titoli di stato italiani. Tutto questo però è stranamente accaduto per motivi che hanno poco a che fare con la situazione italiana ma hanno origine in Giappone, un paese lontano che la globalizzazione finanziaria ha reso inaspettatamente vicinissimo. Per motivi interni, il Giappone sta creando una quantità enorme di nuova liquidità, una mossa disperata per uscire da una stagnazione ventennale, che ha l’obiettivo di far cadere il cambio della propria moneta e rendere più competitive le proprie esportazioni. E’ piuttosto difficile che questa manovra abbia successo ma intanto banche e società finanziarie di mezzo mondo stanno prendendo a prestito i nuovi yen a prezzi bassissimi e li reimpiegano in titoli del debito pubblico di vari Paesi. I titoli italiani sono tra i più interessanti perché, almeno nel breve periodo (l’unico che interessa a questi operatori) l’Italia terrà, dal momento che è riuscita a eleggere un Presidente della Repubblica e a votare la fiducia al nuovo governo. Questa buona disposizione dei mercati internazionali potrebbe svanire con la stessa rapidità con la quale si è formata, senza che l’Italia ne abbia colpa. La fiducia dei mercati va riconquistata tutte le mattine, alla riapertura dei listini. Il nuovo governo dovrà quindi districarsi tra una maggioranza parlamentare sicuramente ampia ma, altrettanto sicuramente, poco entusiasta, un’Unione Europea burocratica, sospettosa e indebolita dai contrasti interni e operatori finanziari che fanno il conto dei decimali e non pensano troppo al futuro. Dalla sua capacità di azione su tutti e tre i fronti può ben dipendere il futuro del paese. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/05/01/cultura/opinioni/editoriali/adesso-serve-la-fiducia-di-ue-e-mercati-J0MEqQWcgejsaOJ9BXVOBL/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. La “generazione perfetta” Un dibattito sull’Italia di oggi. Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:27:00 pm Società 16/05/2013 - L’INIZIATIVA La “generazione perfetta” di Deaglio Un dibattito sull’Italia di ieri e di oggi Ha fatto discutere il racconto-analisi con il quale l’economista ed editorialista de «La Stampa» ha fotografato la realtà dei settantenni nello scenario del nostro Paese. Ora il dibattito si trasferisce sul web, con un blog aperto ai vostri contributi «Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti»: così Mario Deaglio riassumeva, su «La Stampa» del 5 maggio scorso, la condizione della sua generazione. I nati come lui nel 1943 - spiegava l’economista ed editorialista - hanno vissuto l’Italia del boom economico e hanno conquistato migliori condizioni di vita. Ma oggi guardano avanti con meno ottimismo. LaStampa.it ripropone ora l’analisi di Deaglio in un blog dedicato proprio alla “Generazione Perfetta”, per allargare la discussione. Nello spazio dei commenti ci piacerebbe raccogliere ricordi di settantenni che si confrontano con le parole di Deaglio, ma anche di giovani (e meno giovani) che abbiano voglia di condividere le loro riflessioni su un grande dibattito generazionale. Aspettiamo i vostri contributi, certi che ci offrirete spunti per portare avanti il dibattito. Nei prossimi giorni vi segnaleremo le idee e i ricordi più interessanti che sono emersi. 1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni Scritto da silver il 17/05/2013 ore 09:43 Sono del 1947 e come tutti i nati nel dopoguerra ho dovuto combattere e soffrire per avere il necessario.Quando qualcuno punta il dito sul debito pubblico che stiamo lasciando va ricordato – circostanza cui nessuno fa mai riferimento – che il debito pubblico ha cominciato a salire vertiginosamente – dal 50% all’odierno 120% del PIL – dal 1981, anno in cui l’allora governatore Carlo Azelio Ciampi ottenne dal ministro Beniamino Andreatta una legge che esentava la banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i titoli emessi dallo Stato. Con ciò, da allora ad oggi, il ministero del tesoro è stato costretto a rivolgersi soprattutto al mercato controllato dalla speculazione internazionale e i tassi sui titoli anno cominciato a salire, gravando – in modo determinante – sul bilancio dello Stato. L’ammontare del debito pubblico italiano ha attualmente raggiunto la cifra di 2.000 miliardi di euro – quattro milioni di miliardi delle vecchie lire – che corrisponde esattamente alla somma degli interessi corrisposti dallo Stato italiano sui titoli emessi dal 1990 ad oggi. Non un euro in più, non un euro di meno. Il "pareggio di bilancio obbligatorio" messa in atto dalla banda Monti & C. fa sì che la somma dei deficit di bilancio accumulati dal 1990 al 2008 corrisponde a 1.092 miliardi di euro, mentre quella degli interessi pagati sui titoli nello stesso periodo a 1.605 miliardi di euro. Cioè, se l’emissione della moneta tornasse nelle mani dello Stato e la gestione dei titoli fosse sottratta al mondo della speculazione finanziaria, non solo sarebbe risolta la questione del debito pubblico, ma si potrebbe arrivare anche ad un attivo di bilancio che consentirebbe il ridimensionamento della pressione fiscale e un aumento degli investimenti pubblici con la conseguente soluzione del problema dell’occupazione e del ristagno economico. E' quindi inutile addossare alla ns generazione i danni che pochi intrallazzatori politici dell'epoca hanno causato al paese; il voto è l'unica arma che ha il cittadino, quindi usiamola. Scritto da Felix64 il 17/05/2013 ore 09:26 mi sorprende, in questa sua ricostruzione un po' troppo veltroniana, l'assenza di qualsiasi riferimento al rapporto della sua generazione con la questione del debito pubblico accumulato negli anni '70 e '80 ed esploso subito dopo. Negli anni 70-80 la classe produttiva e portante era quella dei settantenni di oggi. Spiace essere brutali, ma un minimo di assunzione di responsabilità da parte di una generazione che adesso guarda i disastri compiuti dall'alto delle sue ricche pensioni maturate in quegli anni, non dispiacerebbe. Scritto da fra2k9 il 17/05/2013 ore 09:25 Considerando la gerontocrazia che in Italia imperversa e comanda è stata una generazione socialmente fallimentare, in grado di emanciparsi nel loro presente ma cancellando il futuro di tutte le altre generazioni, con violenza e sopraffazione e una pessima, se non inesistente, educazione trasmessa a figli e nipoti. Non ci lasciate un mondo migliore. Siete stati e siete tutt'ora ladri di libertà. Scritto da Max Robur il 17/05/2013 ore 05:15 Ricordo bene i treni con motrici a vapore, la terza classe con i sedili in legno e l'odore di lisoformio dei vagoni. Poi quando, per democrazia, abolirono la terza classe tutto restò come prima, salvo il numero sul vagone che da 3 passò a 2 e il prezzo del biglietto. Ricordo anche gli inverni freddi, si riscaldavano la cucina e al massimo il soggiorno (quando c'era). Camere da letto gelide e quando diventava impossibile lo scaldino nel letto. Pantaloni corti estate ed inverno fino alla terza media. A colazione caffelatte, pane e marmellata (fatta in casa). Le vacanze erano dai nonni, che stessero o meno in un luogo gradevole. A scuola si veniva bocciati o "rimandati a ottobre" anche alle elementari. Non esistevano le problematiche giovanili, o si sapeva quello che c'era scritto sui libri e/o diceva a lezione il Maestro/Professore o non si sapeva. Alle elementatari (allora si chiamavano così) ad ogni conato di giustificazione delle proprie svelate inadempienze il Maestro sentenziava: Stultum est dicere putabam" Il nozionismo era considerato la base del sapere e i classici della poesia si imparavano a memoria. Pedagogicamente e politicamente scorrettissimo. Curiosamente io, persona di modesta cultura, oggi vengo considerato un pozzo di scienza dai miei figli, che in effetti hanno forse ricevuto più attenzioni sul piano affettivo-esistenziale che culturale. Come convinzione personale non credo nel determinismo della Storia. Sono anche perfettamente consapevole che, nonostante il fallimento di fascismi e comunismi e liberismi siamo comunque immersi in un clima di storicismo postidealista per cui l'Uomo "fa la storia", più o meno quello che pensavano Hitler, Mussolini e Stalin. Non ho mai sentito mio padre o mio nonno inveire contro le generazioni precedenti per averli cacciati in due guerre mondiali in rapida successione. "Nessuna strategia resiste ai primi cinque minuti di battaglia" diceva Von Clausewitz e così nessuna progettualità che non sia a breve termine (5-10 anni), in un sistema socio-economico strutturalmente "caotico" ha reali probabilità di realizzarsi. Scritto da paolo boffa il 16/05/2013 ore 20:41 Bellissimo articolo, letto con commozione e condivisione anche se sono di qualche anno più giovane dell'autore. Mi auguro che lo spirito di questa generazione possa dare ancora qualcosa a questo paese smarrito e mortificato, se non altro in termini di ideali, valori e principi. Scritto da Ludwig Maximilian il 16/05/2013 ore 18:46 Prof Deaglio, ho letto il Suo articolo e non ho trovato in esso una assunzione di responsabilitá per gli accadimenti degli ultimi settant´anni da parte della Sua generazione o quantomeno una rassegnazione passiva di fronte agli eventi che si sono succeduti. Forse interpreto male... La guarra non l´avete vissuta (convengo con Lei nel dire: fortunatamente!), ma chi la guarra l´ha vissuta mi sembra abbia una "scorza piú dura" e guardacaso questa generazione ancor oggi guida le sorti dell´Italia dall´alto del Quirinale. Successivamente, la scelta politica che avevate di fronte era facile: DC o PCI/ destra o sinistra, non frutto di una "sensibilità (e cultura) politica nettamente superiore" (scusi, ma i giovani non sono bamboccioni...), ma forse figlia della guerra fredda. Semplicisticamente si potrebbe dire che oggi non ci si puó riconoscere in un ideale o in un partito politico perché chi lo rappresenta (l´intera classe politica italiana) rispecchia ció che la vostra generazione non ha fatto: non ha contrastato il ´68, non ha difeso il vecchio esame di maturitá, non ha costruito una successione al proprio ruolo (es. quanti professori universitari hanno oltre 60 anni e non hanno ancora individuato un successore alla propria cattedra o ancor meglio lasciato la cattedra? lo stesso vale per la politica, per l´industria etc...). I politici che ci avete lasciato, o sono indagati o sono inesperti emergenti. In modo piú articolato credo invece che la complessitá generata dalla globalizzazione, le nuove tecnologie, la facilitá di spostamento (di persone/ capitali) ed il conflitto generazionale in atto/emergente (la vostra generazione ha tutto, quella dei ventenni neanche piú la speranza…) necessitano di una analisi piú attenta o meglio di giudizi piú ponderati. La mia non vuole essere una critica, ma un grido di dolore, il grido di un figlio verso un padre (che mi permetto di dire, Lei potrebbe essere per me): perché non avete agito? perché non siete stati leader? Perché non ci avete educati e cresciuti? Forse la Sua generazione ha ancora qualcosa da dare a questa Italia stordita, vi prego, FATELO! Nel frattempo, inorridito e spaventato, fuggendo alle mie responsabilità e non assumendo un ruolo da leader o di impegno civile nel mio paese, o forse molto piú semplicemente, seguendo l´esempio della Vostra generazione, sono fuggito all´estero e qui crescerò i miei figli. Con speranza Ludwig Maximilian Scritto da Luis il 16/05/2013 ore 13:50 Che fortuna ?? Mah io sono nato nel 1958 e senz'altro invidio chi ha 10 anni in più. Li invidio epperò mi fanno anche rabbia perchè come Deaglio sono stati lì al comando (e lo sono ancora in molti ambiti), fanno analisi ma mai che rinunciano ad una "fettina" del bene che è toccato loro.... Diciamo quindi che sono fortunati e non incazziamoci !! Scritto da Titta il 16/05/2013 ore 18:55 Solo che la stessa generazione ha creato il "mostro" di cui si duole. Chi erano i rampanti di 30 anni fa? chi erano i manager di 20 anni fa? Scritto da salvo il 16/05/2013 ore 18:17 la generazione perfetta che non ha pensato ai figli. sta lasciando un mondo con tanti detriti, mi sconforta che nessun governo o forza politica pensi in grande Scritto da Antonio Nota il 16/05/2013 ore 17:52 Si potrebbe chiamare generazione perfetta oppure generazione di cavallette che hanno distrutto il futuro mangiando a sbafo nel presente. E' vero e stata una generazione che fortunatamente ha evitato la guerra ma analiziamo con attenzione le date e confrontiamole con il periodo produttivo di una persona (25-60 anni) e di massima produttività di un individuo che si assume sia tra i 35 -50 anni. Senza stare qui a discutere di teorie economiche quali " il ciclo vitale" di Modigliani, voglio far notare che la sua generazione, caro Deaglio, si è trovata nel periodo 35 anni -50 anni, esattamente negli anni a cavallo tra il 1978 ed il 1993 che guarda caso coincidono con il periodo in cui i deficit pubblici aumentavano a dismisura ( si sono raggiunte le due cifre per diversi anni); sono stati anni in cui i dipendenti pubblici potevano andare in pensione a 36-40 anni, la pensione e'stata a lungo con il metodo retributivo, nonostante segnalazioni di eloquenti economisti negli anni 80 nonchè della corte dei conti. Insomma io di generazione perfetta ne vedo poca. Sa quale è stata la generazione perfetta? Quella dei suoi padri,miei nonni, persone nate a fine anni '20, uscite dalla guerra che negli anni 60 ( a 30-40anni) hanno permesso a lei e altre persone come lei di studiare e le hanno lasciato una società in cui se lavoravi bene eri premiato. La vostra generazione è stata quella delle raccomandazioni, dello svilimento delle individualità e del merito, nonchè quella del debito. Vede l'italia nn ha saputo reagire alla crisi perchè la vostra generazione non ha voglia di cambiare ( la mediana della popolazione italiana è intorno ai 50 anni e lei come economista sa a cosa mi riferisco) e migliorare e si continua a comportare come se dovesse vivere in eterno. Io nel mio piccolo quello che ho fatto è stato andarmene ( ormai da piu' di dieci anni) da un paese che odio dal profondo,un paese che appena laureato mi ha trattato come un figlio di papà ( nonstante sia figlio di impiegati) e nn come una risorsa. Il mio sogno era di migliorare la mia condizione economica rispetto a quella di provenienza ( discreta) e per il momento direi di esserci riuscito ma continuero' a lavorare cercando di insegnare a mio figlio che le azioni individuali hanno effetto anche sulle dinamiche collettive. Lei e la sua generazione questa lezione non l'ha imparata perchè ha creato il sistema in cui adesso l'italia versa. Scritto da sicula il 16/05/2013 ore 17:51 Vorrei rivolgermi ai 35/40 enni: è vero che abbiamo goduto di un periodo di pace; è vero che “abbiamo respirato il clima fiducioso tra sforzi e risultati”. È vero che lo Stato assumeva e siamo vissuti in un periodo di pace sociale. Ma non ci si può addebitare la tremenda crisi in cui ci dibattiamo tutti; essa viene da lontano, perpetrata da logiche politiche al di fuori della nostra portata (calcoli elettorali, soddisfacimento degli interessi dei rispettivi bacini elettorali, miopia politica ed etica, spartizione del potere, ecc.). E vorrei aggiungere che: a) gli over 60 si stanno facendo carico dell’accudimento dei nipoti a tempo pieno ed è impegnativo da tutti i punti di vista, oltre che una grande gioia. b) La nostra generazione è forse l’ultima che si è fatta carico dell’assistenza dei genitori anziani (cosa che non potremo certo aspettarci dai nostri figli, per le peggiorate condizioni di lavoro, per minore tempo libero, per le distanze geografiche, e forse anche per la minore capacità di sacrificio...) c) la nostra generazione supporta economicamente i figli . La nostra generazione è quella che attualmente regge il maggior carico fisico ed economico , trovandosi impegnata tra il fronte dei nipoti, quello dei figli e quello dei genitori non più autosufficienti. Quindi , per favore, non sparate sugli over 60. Stiamo facendo di tutto per aiutare chi è venuto dopo di noi. Non ci buttate la croce addosso solo perché siamo vissuti in un periodo in cui si viveva meglio di oggi. Abbiamo lavorato, abbiamo dato e continuiamo a farlo. Non permettete che ci nutriamo di fatica e senso di colpa. Non ce lo meritiamo. C.L.N. Scritto da lepor il 16/05/2013 ore 17:08 sono nato nel 1950 e ho vissuto i benefici della ricostruzione economica italiana senza lacci e laccioli fino a quando si è iniziato a regolamentare tutto e la parola d'ordine fu: grande è bello e salutare per l'economia! così ho visto chiudere tutti i negozi della piazza e al loro posto sorgere i centri commerciali: hanno tolto reddito a tante famiglie e hanno ridotto le entrate dello stato perché le grandi imprese trovano sempre la maniera di non pagarle e gli utili vanno ai pochi soci senza che si abbia una effettiva riduzione dei prezzi; anzi si sono formati dei veri e propri monopoli: non solo per i beni, ma anche per le tariffe. Ci stanno ripigliando quello che abbiamo risparmiato e messo da parte: naturalmente a beneficio delle grandi imprese multinazionali che si spostano nei paesi dove è più conveniente senza che la politica intervenga, controllata dalle lobby. sono pessimista e vedo un futuro di miseria per i nostri figli. Scritto da CAMPIA ROBERTO il 16/05/2013 ore 16:10 Anche se ne comprendo le ragioni, non mi piace pensare a questa nostra societa' come lotta fra generazioni. I piu' anziani hanno sofferto e lavorato, e ottenuto tutele che ora paiono privilegi agli occhi dei piu' giovani che si trovano a combattere in uno scenario di recessione. Ma se dobbiamo uscire dallo stallo, e io continuo ad augurarmelo, credo che dovra' perfezionarsi una sorta di collaborazione tra le persone di diversa eta', ognuno lasciando qualcosa sul campo ma tutti potendo offrire le qualita' di cui disponiamo. Credo fermamente che il nostro paese abbia le risorse umane e materiali per ripartire; mi urta sentire che si puo' solo piu' emigrare e che la partita ( e il lavoro, e le opportunita',...) e' solo piu' scontro tra vecchi e giovani. Io personalmente conosco (ma credo tutti) persone validissime sia anziane che giovani, cosi' come vedo purtroppo giovani che non vogliono crescere e adulti mai cresciuti. Mi sforzo piuttosto di dividere la societa' tra persone di buona volonta' a cui posso rivolgermi con fiducia, e persone egoiste e presuntuose, che cerco di evitare. Scritto da gratiss il 16/05/2013 ore 14:14 "Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati" "Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti)" "Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita" Prima di voi c'era "correlazione tra sforzi e risultati" mentre quello che avete lasciato è "la grande crescita dell'Italia era ormai finita", è sbalorditivo quanto male abbia fatto una sola generazione. da - http://www.lastampa.it/2013/05/16/blogs/la-generazione-perfetta/la-generazione-perfetta-compie-settant-anni-Kc9JijqTRLzOE38K7cKUjM/commenti.html?page=2 Titolo: MARIO DEAGLIO. 1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:27:49 pm 16/05/2013
1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni Mario DEAGLIO I nati nel ’43 hanno vissuto l’Italia del boom economico e hanno conquistato migliori condizioni di vita. Oggi guardano avanti con meno ottimismo Sono nato settant’anni fa, in un ospedale gremito di soldati feriti. Il mio era stato un parto lungo, difficile, faticoso che aveva tenuto in ansia tutti e, a cose felicemente concluse, i miei genitori offrirono un piccolo rinfresco. I soldati brindarono alla mia salute e mi fecero un augurio speciale: quello di non dover mai vedere una guerra. Negli ultimi decenni i rumori delle guerre si sono fatti sempre più vicini ma per la mia generazione l’augurio si è finora realizzato. Della guerra noi settantenni non abbiamo quasi memoria, il dopoguerra è rimasto un ricordo nebuloso e semi conscio di stufe fumose in inverni freddi, di elettricità che manca improvvisamente, di macerie lungo le strade. Forse alla guerra e al primo dopoguerra dobbiamo una certa mancanza di ottimismo che ci differenzia da chi è nato anche pochi anni più tardi ed è figlio del miracolo economico. Questa carenza, però, è stata a lungo spazzata via dagli entusiasmi del miracolo economico. Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati: accantonate le armi, si lavorava e si migliorava. La Vespa, brevettata nel 1946, è il simbolo di questa fiducia e anche della trasformazione, di biblica memoria, delle spade in aratri e delle lance in falci: deriva, infatti, dalla riconversione a usi pacifici degli stabilimenti e delle energie progettuali utilizzati per costruire un bombardiere Piaggio. Nei ricordi di quasi tutti noi settantenni c’è quello di un giro in Vespa, in piedi, protetti dalle braccia, poggiate sul manubrio, del papà o di uno zio. La Vespa ci accompagnò alle elementari; ne uscimmo con la nascita della Fiat 600, la prima utilitaria del mondo, per andare alle medie inferiori (o all’Avviamento Professionale, una scuola che, pur socialmente discriminante, insegnava con efficacia una serie di mestieri che hanno permesso a molti buone carriere e buoni redditi). Il ciclomotore e l’utilitaria erano rivoluzionari per tutta l’Europa non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista sociale: permettevano a decine di milioni di famiglie di ogni parte d’Europa di muoversi come volevano, un privilegio prima dei soli ricchi. I treni - dove esisteva la terza classe - odoravano ancora di guerra, di tradotte, di percorsi forzati, l’auto e il ciclomotore sapevano di libertà. Alle medie trovammo qualche insegnante che usava la modernissima Lettera 22, la macchina per scrivere portatile dell’Olivetti. E la Lettera 22 rappresentava un’altra forma di libertà: assieme alla penna biro, che si diffuse negli stessi anni, ci sottraeva dalla tirannia del pennino e del calamaio con i quali avevamo riempito innumerevoli quaderni, sporcandoci le dita d’inchiostro (che si puliva con la pietra pomice perché il sapone era troppo caro) e rendeva più immediato il processo pensiero-scrittura cambiando almeno un poco sia il modo di pensare sia quello di scrivere. E di qui, come dagli elettrodomestici, dai grandi stabilimenti tessili, meccanici e alimentari arrivavano i nuovi posti di lavoro, i nuovi redditi. Per ottenerli, milioni di italiani si spostarono dal Mezzogiorno al Triangolo Industriale contribuendo a nuove produzioni che creavano a loro volta nuovi redditi, nuova domanda, nuove migrazioni interne. Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti. Milano era come l’America, non era proibito al figlio dell’immigrato di sognare e di raggiungere i vertici professionali, con lo studio e con il lavoro. Nella nostra storia non era mai stato così. Sogni e progetti di vita si intrecciavano con nuovi consumi. Non lo sapevamo, ma quella in cui siamo stati giovani era forse una «vera» società dei consumi, dove i beni venivano ambiti, gustati, rispettati, apprezzati con una sensibilità merceologica oggi quasi perduta. Il consumatore medio sapeva distinguere al tatto le diverse qualità di lana e al gusto le infinite varietà di frutta e verdura. Oggi molto spesso si guarda al marchio e al cartellino in un consumo sovente banalizzato, in un acquisto sovente fatto per mantenere il proprio status sociale più che per un genuino amore del prodotto, residuo di società povere. Un decennio più tardi la società del consumo divenne società del consumismo. Gli anni Sessanta non erano certo un paradiso, ma per moltissime famiglie italiane rappresentò l’uscita dall’inferno della povertà senza speranza. La guerra era ancora molto vicina e tutti i giorni i giornali ci ricordavano che ci poteva piovere in testa l’atomica. Della guerra, come di politica, si raccontava e si discuteva nelle lunghe sere dell’era pre-televisiva. Per questo, quando eravamo quindicenni-diciottenni la nostra sensibilità (e cultura) politica era nettamente superiore a quella attuale dei quindicenni-diciottenni di oggi. Ci distinguevamo istintivamente in «di sinistra» o «di destra», il fossato tra comunisti e democristiani era profondissimo nella vita di tutti i giorni Le sezioni dei partiti e gli oratori parrocchiali erano molto frequentati. La televisione fu l’elemento dirompente che scardinò questo panorama culturale. Fino a metà anni Sessanta solo pochi l’avevano in casa: la si guardava soprattutto nei bar e nei cinema, che sospendevano gli spettacoli in occasione di partite calcistiche importanti, o anche solo di «Lascia o raddoppia?», mitico programma di quiz. Con la televisione, la Rai cominciò a creare l’italiano parlato (negli anni sessanta, quasi la metà delle famiglie si esprimeva in dialetto quanto meno in casa con i famigliari). La pubblicità entrò, all’ora di cena, anche nelle case di chi non comprava il giornale. Si concentrava in «Carosello», assai più gentile degli aggressivi spot pubblicitari di oggi: chi voleva proporre un suo prodotto doveva costruire una storia di due minuti e aveva a disposizione solo pochi secondi per presentare il marchio e il nome. Siamo stati l’ultima generazione ad aver sostenuto l’esame di maturità con le vecchie regole, su un programma che, al liceo classico, comportava la conoscenza minuta di numerosi testi latini e greci, in poesia e in prosa. Alla fine degli anni Sessanta, quando avevamo 25-30 anni, eravamo quasi tutti «inseriti», che ci piacesse o no, parte di un processo produttivo e di un meccanismo di consumo («il sistema», come si diceva allora). Proprio grazie a questo inserimento fummo, in larga misura, estranei o sostenitori tiepidi delle barricate sessantottine: un diverso modo di percepire e di pensare ci separava nettamente dai nostri fratelli minori. Precisamente nel Sessantotto, per noi, a differenza dei più giovani, la stabilità cominciava a far premio sulla crescita, la normalità sull’innovazione. Una canzoncina della mia gioventù diceva: «Lavoro in banca/ stipendio fisso/ così mi piazzo/ e non se ne parla più». Per questo, ancor più che il Sessantotto, ci scosse la crisi petrolifera: le domeniche senza auto e le città con l’illuminazione semispenta erano la fine di un’epoca. Cercammo affannosamente di riprendercela quando finì l’emergenza petrolifera ma il clima era cambiato: l’onda lunga e forte della crescita continuava a salire ma si era frantumata. Cominciammo a conoscere l’inflazione e la confusione, il personalismo nella politica, l’iperdivismo nel calcio e nello spettacolo, il proliferare delle stazioni televisive. Venivano a mancare obiettivi comuni e la certezza del lavoro cominciò a incrinarsi; il terrorismo cercò di sostituirsi a un’azione politica sempre meno efficace. Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita. L’Italia uscì da molti settori produttivi, facendo progressi nel solo «made in Italy»; il «design» sostituì la ricerca, le campagne pubblicitarie attiravano più energie degli investimenti produttivi. I distretti industriali dei «padroncini» divennero molto popolari, i poli industriali della grande industria non furono più rispettati come fonti di ricchezza ma biasimati come fonti di inquinamento. Una cultura individualista, in cui ciascuno si gioca la propria vita con le proprie forze, si sostituì gradatamente (per fortuna non totalmente) alla cultura basata sul senso di appartenenza e sulla solidarietà. Guardammo con stupore, e un po’ di sgomento, i giovani degli anni Novanta cercare di costruire il proprio successo personale quasi con ferocia, all’ombra del motto «lavoro, guadagno, pago, pretendo»; guardammo con sgomento e un po’ di stupore il diffondersi a macchia d’olio della mafia. L’Olivetti andò in crisi e poi chiuse. La Montedison divenne Edison lasciando perdere la chimica e concentrandosi sull’elettricità. L’Alitalia entrò nell’orbita di Air France. La Borsa fu privatizzata, divenne Borsa Italiana e fu acquistata dal London Stock Exchange. L’Italia cominciava a perdere lentamente terreno, la spesa per la cassa integrazione si sostituiva a quella per nuovi investimenti e il bilancio dello Stato si deteriorò sensibilmente. Il costo del lavoro aumentava, ma il potere d’acquisto dei salari in busta paga stagnava o diminuiva; i laureati migliori presero a cercare (e a trovare) lavoro all’estero. Il tutto in un clima tra il frivolo e lo spensierato, con la politica ridotta a teatrino. Per questo il sussulto di crisi mondiale che ha colpito in maniera durissima l’Italia negli ultimi due anni ha trovato gli italiani largamente impreparati. Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti. In un momento di crisi profonda, però, in quanto estremi portatori di valori che hanno contribuito al successo passato di questo Paese, anche i testimoni del passato servono. Forse questa generazione - ancora largamente in salute grazie ai progressi della medicina - può ancora dare qualcosa a un Paese stordito. Sempre sperando che l’augurio che fu fatto alla mia nascita continui a tenerci lontani dalle guerre. DA - http://www.lastampa.it/2013/05/16/blogs/la-generazione-perfetta/la-generazione-perfetta-compie-settant-anni-Kc9JijqTRLzOE38K7cKUjM/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Qualche idea per usare il tesoretto Inserito da: Admin - Giugno 09, 2013, 10:44:38 am Editoriali
02/06/2013 Qualche idea per usare il tesoretto Mario Deaglio Proviamo a fare un esercizio di ottimismo, non fosse altro che per reagire alla malinconia delle statistiche congiunturali. Ammettiamo che, nel lunghissimo tunnel che sta percorrendo, l’economia italiana andando avanti scopra, l’una dopo l’altra, diverse monete; che queste monete tutte assieme costituiscano un tesoretto; che, usato oculatamente, questo tesoretto possa sensibilmente accelerare l’uscita dal tunnel. Non si tratta di un’ipotesi assurda, dopo che l’Europa ci ha tolto di dosso il macigno della procedura per deficit eccessivo. È vero che Barroso ha gelato la nostra soddisfazione avvertendo che l’Italia «ha ancora un gran lavoro da fare», ma comunque siamo stati promossi e la prima moneta del tesoretto è proprio conseguenza della promozione, della minore rigidità del tetto alla spesa che ne può derivare, dalla possibilità di effettuare qualche investimento non permesso dal regime precedente. La seconda moneta, del valore di qualche miliardo di euro l’anno, potrebbe risultare da un uso più intenso dei fondi di ricerca e dei fondi regionali europei, la terza potrebbe rendersi disponibile in autunno, dopo le elezioni tedesche, e consisterebbe in un trattamento analogo a quello ottenuto da Francia e Spagna, ossia in uno slittamento di due anni degli obiettivi per il bilancio pubblico, il che aprirebbe un polmone valutabile in almeno dieci miliardi di euro l’anno. Dall’eventuale sottoscrizione di un accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani investiti in quel Paese potrebbe provenire un vero e proprio gruzzoletto del valore di qualche decina di miliardi. Non va poi trascurato il notevole risparmio di interessi sul debito pubblico, derivante dalla sensibile riduzione dello spread. Non si tratta certo di somme straordinarie. In ogni caso, però, grazie all’azione del suo predecessore, e ai sacrifici sopportati da milioni di famiglie italiane, il governo Letta, ha una marcia in più rispetto al predecessore stesso. Non deve (e politicamente non può) limitarsi a una politica difensiva; può, e deve, insieme alle forze politiche che lo sostengono, mettere a punto e realizzare una politica di sviluppo. Di questa politica di sviluppo ancora non si vedono tracce sicure. Lo dice chiaramente il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco nelle sue Considerazioni Finali lette, com’è tradizione, alla fine di maggio dinanzi al Gotha dell’economia, della finanza e della vita pubblica italiana. Visco ha respinto vigorosamente la tendenza italiana all’autocompiacimento; pur riconoscendone la validità, ha giudicato insufficienti i progressi sinora compiuti, ha sottolineato la necessità di non disperderli e di consolidarli per avviare la ripresa. Ha parlato di risultati ancora fragili, e la fragilità della struttura economica italiana fa da sfondo a tutto il suo discorso. Ha giustamente messo in risalto il sonno italiano di un quarto di secolo, l’incapacità di rispondere a venticinque anni di cambiamenti «geopolitici, tecnologici e demografici». In questa prospettiva, l’Italia del governo Letta assomiglia a un paziente che risvegliandosi da un lungo coma – nel quale l’ha metaforicamente rappresentata Bill Emmott in un fortunato documentario – si trova in un mondo diverso. Riuscirà a capirlo, a interagire con una realtà globale in movimento che non perde tempo ad aspettarci? La risposta deriverà in gran parte dall’uso che il governo saprà fare di questo non pingue tesoretto che si renderà disponibile gradualmente nei prossimi dodici-diciotto mesi. E nel decidere come usarlo si troverà di fronte a scelte molto scomode perché dovrà tirare da una parte o dall’altra una coperta troppo stretta. Si preferirà ridurre (purtroppo necessariamente di poco vista la situazione delle finanze pubbliche) il costo del lavoro per tutte le imprese, come sostanzialmente chiede la Confindustria, oppure operare in maniera selettiva, aiutando, in maniera più consistente, le sole imprese che compiono determinate azioni «virtuose», ossia che investono e che assumono? Si dovrà cercare genericamente di salvare i posti di lavoro in pericolo, come chiedono il sindacato e una buona parte dell’opinione pubblica, oppure dare la precedenza alla creazione di posti di lavoro nuovi, in settori più efficienti, e favorire la formazione dei lavoratori giovani? Si preferirà ridurre le inefficienze dell’amministrazione pubblica oppure si cercherà di modificarne radicalmente la struttura, a cominciare dalla soppressione di province e tribunali? Da un punto di vista teorico, i risultati migliori in termini di crescita si ottengono con le politiche selettive, che favoriscono i migliori e i più preparati. Quando però dalla teoria si passa alla pratica e ci si trova davanti a un impressionante panorama di decine di migliaia di imprese e di milioni di bilanci famigliari in difficoltà occorre ricordarsi che la politica non si fa a tavolino e che delle eccezioni alla selettività dovranno essere ammesse, anche se questo richiederà un tempo di ripresa più lungo. L’eccezione, tuttavia, non può diventare la regola: e la bilancia deve pendere dal lato della flessibilità, della crescita, dei giovani, del recupero dei venticinque anni perduti. Gli italiani devono rendersi conto che nessun governo è uno sciamano, in grado di curare con qualche formula magica i mali accumulati nel nostro sonno di un quarto di secolo. E che nessun cittadino, nessuna categoria può legittimamente aspettarsi che i sacrifici li facciano solo gli altri. Solo se questa consapevolezza si diffonderà nella classe politica e nell’opinione pubblica avrà senso continuare in un’esperienza di governo all’insegna di un recupero di fiducia, solo così il tesoretto potrà essere speso bene. mario.deaglio@unito.it DA - http://lastampa.it/2013/06/02/cultura/opinioni/editoriali/qualche-idea-per-usare-il-tesoretto-ISeLskijm3HUC2sqfTxgHI/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. Istanbul è più vicina di Londra Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:47:45 am Editoriali
13/06/2013 Istanbul è più vicina di Londra Mario Deaglio Duramente provati dalla crisi che non passa, gli italiani stanno guardando agli avvenimenti turchi con una sorta di annoiata indifferenza. Forse siamo provinciali, certo non possiamo dirci molto curiosi di quello che accade al di là delle Alpi e del mare, troppo attenti alle vicende di casa nostra. Perché occuparci dei disordini di Istanbul? Non ci basta la debolezza della nostra economia che le durissime cifre su produzione e occupazione in Piemonte hanno posto in una luce ancora più preoccupante? In realtà, facciamo male, molto male a non guardare oltre al Bel Paese (o a spingerci, al massimo, fino a Bruxelles). E questo perché la Turchia è molto più importante per l’Italia (e per l’Europa) di quanto normalmente si creda e meriterebbe un po’ più di attenzione e forse anche un po’ più di azione. E questo per almeno tre buoni motivi. Il primo motivo, di rilevanza immediata, destinato ad aumentare negli anni, è che la Turchia è diventata il corridoio energetico da noi preferito per portare in Italia e in Europa, soprattutto attraverso il gasdotto Nabucco, idrocarburi estratti in Asia, necessari per scaldare le nostre case e far funzionare le nostre industrie. In un futuro non molto distante, incertezze e incomprensioni con Ankara potrebbero tradursi, almeno indirettamente, in incertezze e anomalie nel flusso dei rifornimenti energetici. Il secondo motivo deriva dall’importanza sottovalutata della Turchia per l’economia italiana. Al di là della quantità degli scambi commerciali, tendenzialmente in crescita molto forte, è importante la qualità: la Turchia è uno dei pochi Paesi importanti nei quali l’Italia economica conta davvero. Dal settore bancario a quello alimentare, dagli elettrodomestici alle costruzioni la presenza italiana è massiccia e moderna. E’ proprio grazie alla presenza in Turchia che molte imprese medio-grandi italiane respirano l’aria dell’economia globale e del resto sono molto numerose le imprese turche che rientrano nelle filiere produttive italiane alle quali forniscono soprattutto componenti e semilavorati. Per tutto il Medio Oriente e per buona parte dell’Asia Centrale (dove si parlano spesso lingue dello stesso ceppo di quella turca) è proprio la Turchia il Paese più vicino in cui si fabbricano frigoriferi, televisori, automobili e i normali oggetti di consumo durevole o semidurevole che sono associati alla vita moderna e dal quale possono essere agevolmente importati. Se la Turchia continuerà in futuro a crescere ai tassi degli ultimi anni, essa costituirà una sorta di trampolino per le imprese italiane che vi si sono stabilite. Il terzo motivo, più dichiaratamente europeo, è che se le difficoltà politiche della Turchia si traducessero in una permanente debolezza finanziaria (la moneta e la borsa turca hanno perso sensibilmente terreno dopo l’inizio degli scontri di piazza) una nuova ondata di incertezza potrebbe colpire di riflesso la finanza della zona euro, nella quale molte banche sono sostanzialmente esposte nei confronti di Istanbul. Sulla strada della definitiva stabilizzazione della moneta europea potrebbe sorgere così un nuovo ostacolo. Vi è poi un ulteriore motivo, di carattere non economico: la Turchia è l’unico paese al cui governo siedono esponenti di un islam relativamente moderato e sicuramente aperto alla modernità. Il dialogo con questo islam, la messa a punto di qualche legame di tipo culturale, e non semplicemente utilitaristico, appare importante per un’Europa destinata, non foss’altro che per motivi demografici a perdere terreno nel quadro mondiale dei prossimi decenni. Naturalmente gli avvenimenti turchi ritardano ancora l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, se mai quest’ingresso ci sarà. Alla crescente tiepidezza, che talvolta si traduce in aperta ostilità, di una buona parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica europea si aggiunge ora una mancanza di entusiasmo da parte turca: se così non fosse, la polizia di Erdogan non sarebbe stata così dura nei confronti dei manifestanti di Piazza Taksim e del parco Gezi. L’obiettivo di un rapido ingresso della Turchia nell’Unione Europea è sicuramente spostato in là nel tempo dagli avvenimenti degli ultimi giorni ma questo non significa che qualche forma intermedia di associazione possa essere tentata, in un più vasto orizzonte di dialogo tra i valori europei e quelli dell’Islam moderato. In termini di distanza geografica, Roma è più vicina a Istanbul che a Londra e a molte capitali dell’Europa settentrionale. Sarebbe già questo un motivo sufficiente perché gli italiani, dedicassero a quanto succede a Istanbul e Ankara un’attenzione non passeggera, magari sottraendo un briciolo di attenzione ai battibecchi tra i grillini e Beppe Grillo, alle polemiche all’interno dei partiti e tanti altri aspetti del teatrino politico nostrano. mario.deaglio@unito.it DA - http://lastampa.it/2013/06/13/cultura/opinioni/editoriali/istanbul-pi-vicina-di-londra-30R966WAa1k58ZSCwAVUkJ/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. - Un mostro fiscale divide il G8 Inserito da: Admin - Giugno 18, 2013, 05:43:33 pm Editoriali
18/06/2013 Un mostro fiscale divide il G8 Mario Deaglio Negli Anni Ottanta e Novanta le riunioni del G8 si tenevano nelle grandi città o nelle loro immediate vicinanze: i governi ospitanti erano fieri di mostrare le bellezze di Tokyo, Londra, Venezia, Toronto. Con l’aumento mondiale delle tensioni sociali - e dei divari nella distribuzione dei redditi - queste riunioni tra grandi si svolgono ormai in luoghi isolati, difficili, se non impossibili da raggiungere da parte di manifestanti ostili. Così è per Lough Erne, incantevole e sperduta località dell’Irlanda del Nord il cui nome, secondo la leggenda, ricorda una bella dama che vi cercò rifugio, terrorizzata da un gigante uscito da una caverna. Gli otto capi di governo che partecipano all’incontro, nella quiete del lago e dei boschi, sfuggendo alle folle, hanno probabilmente potuto, guardandosi negli occhi, individuare anch’essi una comune paura. Il «gigante» che sta loro davanti ha contorni indefiniti, talvolta assomiglia a un insorto siriano, dalle intenzioni incerte e insondabili; talaltra a un giovane di un Paese ricco che non riesce a trovar lavoro, non lo cerca più, non studia e non vota; talaltra infine a una grande società che paga somme enormi ai propri dirigenti e somme bassissime al fisco degli Stati in cui opera. Sulla Siria gli otto grandi non potranno probabilmente far altro che registrare la propria divergenza, specie dopo l’altolà russo all’istituzione di una «no-fly zone» a protezione degli insorti; su disoccupazione e libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea si stanno spendendo nobili parole, intrise di retorica (come i 30 milioni di nuovi occupati in Occidente, promessi dal Presidente Obama) mentre in realtà nessuno sa bene come muoversi; sulla lotta all’evasione fiscale delle grandi società, in particolare quelle finanziarie, invece, è possibile che ci siano sviluppi concreti e importanti, anche al di là dei comunicati ufficiali, tradizionalmente laconici. E questo perché in molti Paesi avanzati si sta verificando un rapidissimo cambiamento di umore popolare contro le multinazionali che fanno uso di «schemi fiscali creativi» ossia, per dirla in italiano schietto, che non pagano le tasse che dovrebbero. La Apple, molto popolare per i suoi prodotti, è accusata di aver sottratto al fisco americano ben 74 miliardi di dollari in quattro anni; una cifra del genere porterebbe l’Italia molto avanti sulla via del risanamento ma nemmeno il governo degli Stati Uniti la disprezza, stretto com’è da vincoli alla spesa stabiliti da un Parlamento ostile. Alla Apple si contesta che tutte le sue operazioni europee vengono gestite da una società irlandese priva di dipendenti e che il grande produttore dell’iPad paga all’Irlanda – in forti difficoltà economiche – imposte pari ad appena il due per cento degli utili, a seguito di un accordo fiscale. Qualcosa di simile avrebbe fatto anche Google, accusata di aver realizzato in Gran Bretagna utili per 18 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2011 e di aver pagato appena 16 milioni di imposte. Un lungo elenco di altre imprese, che comprende Vodafone, il gigante dei telefonini, e Starbucks, grande catena mondiale di caffè e bar, si trova in situazioni analoghe. Tutti si difendono dicendo di aver rispettato le regole, ma sono proprio le regole a essere scandalosamente inadeguate e dal G8 potrebbe derivare una rapida spinta a un cambiamento coordinato a livello globale. All’elusione/evasione fiscale si intrecciano le pratiche illecite in campo finanziario. Un anno fa si scoprì che il tasso Libor, uno dei cardini del mercato finanziario mondiale, era tranquillamente manipolato da un gruppo di poche grandi banche. L’amministratore delegato della Barclays Bank si dimise subito ma questo non fece altro che togliere il coperchio al vaso di Pandora; un lungo elenco di grandi banche internazionali accusate di frode fiscale o riciclaggio. Naturalmente tutta quest’attività, al limite del lecito o dichiaratamente illecita, fa aumentare i profitti delle grandi imprese globali, il che si riflette sulla retribuzione dei dirigenti e sull’aumento del valore delle azioni, base frequente di calcolo dei «bonus» dei dirigenti stessi. Si comprende così come sia possibile, negli Stati Uniti e in altri Paesi, che singole persone ricevano, in anni fortunati, anche più di un miliardo di euro in pagamento delle loro prestazioni, il più delle volte riuscendo a pagare pochissime imposte. E ancor di più si comprende come una situazione di questo genere sia intollerabile mentre la disoccupazione si diffonde a larghissimi strati sociali, ai quali si chiede una serie di maggiori sacrifici fiscali: potrebbero sentirsi presi in giro e agire di conseguenza. Ecco allora il premier britannico chiedere un’azione coordinata che conduca a nuove regole anche se gran parte dei «paradisi fiscali» che andranno posti sotto controllo battono bandiera inglese, e il presidente francese annunciare un inasprimento della normativa. Un coordinamento internazionale della legislazione fiscale che metta un freno a un’anomala distribuzione di redditi di questo tipo è forse l’unico risultato effettivo che ci si può attendere dal G8 convocato sul lago che fu rifugio di una dama spaventata da un mostro. Sempre che i leader di questi otto Paesi siano essi stessi sufficientemente spaventati dai nuovi «mostri» che si agitano a casa loro; il loro spavento sarebbe, in ogni caso, un bene per tutti. mario.deaglio@unito.it da - http://lastampa.it/2013/06/18/cultura/opinioni/editoriali/un-mostro-fiscale-divide-il-g-vtAzYQEuvZxOej6Mhx1fRP/pagina.html Titolo: MARIO DEAGLIO. 1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni Inserito da: Admin - Giugno 27, 2013, 04:04:57 pm 16/05/2013 1943-2013 - La generazione perfetta compie settant’anni Mario DEAGLIO I nati nel ’43 hanno vissuto l’Italia del boom economico e hanno conquistato migliori condizioni di vita. Oggi guardano avanti con meno ottimismo Sono nato settant’anni fa, in un ospedale gremito di soldati feriti. Il mio era stato un parto lungo, difficile, faticoso che aveva tenuto in ansia tutti e, a cose felicemente concluse, i miei genitori offrirono un piccolo rinfresco. I soldati brindarono alla mia salute e mi fecero un augurio speciale: quello di non dover mai vedere una guerra. Negli ultimi decenni i rumori delle guerre si sono fatti sempre più vicini ma per la mia generazione l’augurio si è finora realizzato. Della guerra noi settantenni non abbiamo quasi memoria, il dopoguerra è rimasto un ricordo nebuloso e semi conscio di stufe fumose in inverni freddi, di elettricità che manca improvvisamente, di macerie lungo le strade. Forse alla guerra e al primo dopoguerra dobbiamo una certa mancanza di ottimismo che ci differenzia da chi è nato anche pochi anni più tardi ed è figlio del miracolo economico. Questa carenza, però, è stata a lungo spazzata via dagli entusiasmi del miracolo economico. Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati: accantonate le armi, si lavorava e si migliorava. La Vespa, brevettata nel 1946, è il simbolo di questa fiducia e anche della trasformazione, di biblica memoria, delle spade in aratri e delle lance in falci: deriva, infatti, dalla riconversione a usi pacifici degli stabilimenti e delle energie progettuali utilizzati per costruire un bombardiere Piaggio. Nei ricordi di quasi tutti noi settantenni c’è quello di un giro in Vespa, in piedi, protetti dalle braccia, poggiate sul manubrio, del papà o di uno zio. La Vespa ci accompagnò alle elementari; ne uscimmo con la nascita della Fiat 600, la prima utilitaria del mondo, per andare alle medie inferiori (o all’Avviamento Professionale, una scuola che, pur socialmente discriminante, insegnava con efficacia una serie di mestieri che hanno permesso a molti buone carriere e buoni redditi). Il ciclomotore e l’utilitaria erano rivoluzionari per tutta l’Europa non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista sociale: permettevano a decine di milioni di famiglie di ogni parte d’Europa di muoversi come volevano, un privilegio prima dei soli ricchi. I treni - dove esisteva la terza classe - odoravano ancora di guerra, di tradotte, di percorsi forzati, l’auto e il ciclomotore sapevano di libertà. Alle medie trovammo qualche insegnante che usava la modernissima Lettera 22, la macchina per scrivere portatile dell’Olivetti. E la Lettera 22 rappresentava un’altra forma di libertà: assieme alla penna biro, che si diffuse negli stessi anni, ci sottraeva dalla tirannia del pennino e del calamaio con |