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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 102040 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Agosto 09, 2012, 05:47:09 pm »

9/8/2012

Per risanare i conti dello Stato meglio usare l'oro

MARIO DEAGLIO

Il bilancio dello Stato in pareggio, al quale siamo impegnati ad arrivare entro il 2013, non porta automaticamente alla ripresa economica; e le misure di aumento delle imposte e riduzione della spesa non portano automaticamente a un bilancio in pareggio, anzi, l’esperienza greca fa balenare il rischio che, a causa dei tagli eccessivi, il deficit si avviti su se stesso. Il mondo della finanza sta prendendo atto in concreto di queste amare verità e, per conseguenza, sposta il discorso dal deficit al debito: se riuscissimo ad abbattere il debito - come d’altronde ci impone, nell’arco di vent’anni, il «patto fiscale» sottoscritto in sede europea - si ridurrebbero molto gli interessi sul debito stesso e navigheremmo in acque più tranquille. Nascono di qui gli studi e le proposte rese note in questi giorni per ridurre sensibilmente il debito pubblico mediante la vendita di beni di proprietà dello Stato e di altri enti.

Queste proposte vanno sicuramente nella direzione giusta, ma devono essere esaminate con molta cautela per non far sorgere aspettative che andrebbero troppo facilmente deluse. Prestano infatti il fianco a tre obiezioni molto serie che riguardano il prezzo di vendita, i tempi della vendita e l’opportunità stessa della vendita.

Per quanto riguarda il prezzo, è chiaro che i tempi di crisi non sono propizi per i venditori né sui mercati immobiliari né su quelli azionari. Ci si separa da un bene immobile a prezzi non ottimali, talora a prezzi stracciati; si vendono azioni a quotazioni non molto attraenti.

Sarebbe probabilmente più saggio, nell’ipotesi di una strategia di vendita, pensare a diluire questa politica in un arco di vent’anni, tanti quanti sono quelli del «patto fiscale».

Va inoltre considerato - ed è questa la seconda obiezione - che le vendite di beni pubblici non avvengono nello spazio di un mattino e neppure nell’arco di pochi mesi. Probabilmente occorrerebbe cambiare le leggi per accelerare le dismissioni di beni demaniali, mentre per molti immobili, a cominciare dalle ex-caserme, occorrerebbe prima modificare la destinazione d’uso e quindi i piani regolatori, per suscitare un vero interesse commerciale: tutte queste cose richiedono tempo e si inquadrano meglio in un discorso di lungo termine.

Infine, siamo proprio sicuri di voler vendere gran parte del patrimonio pubblico? Come dice un vecchio proverbio, «si vende una volta sola» e il depauperamento del patrimonio nazionale sarebbe un’altra spoliazione delle generazioni giovani, già chiamate a farsi carico del debito pensionistico. Occorre probabilmente decidere caso per caso: mentre è difficile trovare serie obiezioni alla vendita di una parte delle opere d’arte giacenti nei magazzini dei musei per finanziare il ministero dei Beni Culturali, sempre a corto di fondi, meno sicura sarebbe l’opportunità di disfarsi della quota pubblica dell’Eni, certamente molto appetibile sul mercato, in quanto si tratta dell’unica grande impresa italiana rimasta a carattere chiaramente globale e dal significato chiaramente strategico.

Probabilmente il bene patrimoniale più rapidamente disponibile è l’oro delle nostre riserve. Gli accordi internazionali ci permettono di metterne sul mercato solo piccole quantità ogni anno (pari all’incirca a uno-due miliardi di euro), ma il resto potrebbe essere dato in garanzia di una linea di credito con un ente internazionale per un pronto intervento in caso di spread troppo elevato, oppure per ricomprare una parte dei titoli di debito dagli interessi più costosi.

«Toccare l’oro» suscita forti reazioni emotive da parte dei molti che considerano quest’azione equivalente a disfarsi dei gioielli di famiglia, ma non è forse questo il momento giusto per un’operazione che valorizzi il metallo giallo, dal momento che nella classifica delle riserve ufficiali d’oro l’Italia occupa un posto anormalmente alto (il quarto)?

In definitiva, c’è spazio per una serie di operazioni non convenzionali che riducano il debito. Ma queste operazioni debbono essere effettuate in tempi lunghi e non costituiscono una bacchetta magica, bensì un importante coadiuvante di una strategia di risanamento finanziario. Occorrerebbe inoltre destinare una parte del ricavato a misure di rilancio per evitare di trovarsi con le finanze pubbliche avviate sulla strada del risanamento e l’economia reale avviata sulla strada del coma profondo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10415
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« Risposta #151 inserito:: Agosto 20, 2012, 06:45:29 pm »

20/8/2012

Usa, la frenata che i mercati non vedono

MARIO DEAGLIO

Secondo previsioni largamente condivise, quest’agosto avrebbe dovuto essere un mese di fuoco sui mercati finanziari. L’euro avrebbe dovuto subire l’attacco speculativo «finale» e semplicemente sparire dalla scena in uno scenario di forte disorientamento e di grande paura.
Privi dell’aiuto del fondo salva-stati la cui gestazione appare particolarmente laboriosa, i titoli del debito pubblico dei Paesi europei, a cominciare da Spagna e Italia, si sarebbero trovati ad affrontare uno «spread» sempre più alto, fino a diventare insostenibile.
In tutto il mondo i listini sarebbero stati caratterizzati da forti oscillazioni con una marcata tendenza al ribasso. Finora è, invece, successo l’esatto contrario.

Non c’è stato alcun crollo della moneta europea, il cui cambio è anzi rimbalzato da 1,20 a 1,23 dollari mentre il dollaro si è indebolito non solo verso l’euro ma anche verso le altre valute; gli «spread» sono diminuiti in maniera sensibile, smentendo, almeno temporaneamente, i profeti di sventura; con l’inizio di agosto le Borse hanno smesso di avere le convulsioni che ne avevano caratterizzato l’andamento nei 2-3 mesi precedenti, con sbalzi all’insù e all’ingiù di vari punti percentuali al giorno.

Così da mettere a segno un vistoso recupero con guadagni che, in Italia, si collocano attorno al 15 per cento da fine luglio. Naturalmente nelle prossime settimane potrà succedere di tutto e queste tendenze stabilizzatrici potranno essere cancellate. Occorre però dare atto che, se nelle città si respira a fatica per l’afa, nelle Borse si respira decisamente meglio di un paio di mesi fa.

Quali possono essere le ragioni di un simile cambiamento positivo che smentisce le previsioni di breve termine dei mercati finanziari?
La domanda è tanto più opportuna in quanto i miglioramenti sul fronte finanziario si accompagnano a un ulteriore peggioramento, a livello dell’insieme dei Paesi ricchi, del quadro dell’economia reale. In Europa, il prodotto lordo del secondo trimestre ha fatto registrare un segno meno; se nel terzo trimestre il segno non si invertirà – e per ora non se ne vede alcuna premessa - l’economia europea entrerà ufficialmente in recessione. La Germania, unico grande Paese a poter ancora vantare un segno positivo, vedrà comunque avvicinarsi rapidamente la prospettiva di un arresto della crescita.

Anche negli Stati Uniti, con l’approssimarsi delle elezioni politiche la si fa crescita sempre più lenta. Il prodotto interno è salito del 2 per cento nel primo trimestre e solo dell’1,5 per cento nel secondo, un tasso all’incirca pari all’aumento della popolazione, il che significa che, a livello dei singoli cittadini, la crescita è sostanzialmente nulla; la disoccupazione non scende; le costruzioni di nuove abitazioni – uno dei termometri più sensibili dell’economia – sono diminuite smentendo le generali previsioni di un aumento. Il solo Giappone, un tempo pecora nera, prevede per il 2013 un tasso di crescita soddisfacente. Nel confronto tra le due debolezze parallele del dollaro e dell’euro l’attenzione si sta, sia pure lentamente, spostando dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico. Gli andamenti favorevoli dell’euro e delle Borse non sono il risultato della forza economica europea (che non esiste proprio in questo momento) ma della stanchezza dell’economica americana, una stanchezza troppo a lungo trascurata dai mercati. Gli Stati Uniti mostrano segni strutturali di scarsa elasticità impensabili prima della crisi, dell’insufficiente credito concesso alle piccole e medie imprese – che normalmente trainano le riprese americane – alla ridotta mobilità dei giovani che rende loro più difficile la ricerca di un lavoro. In questa situazione a rafforzare il quadro europeo hanno contribuito alcuni gesti concilianti del cancelliere tedesco Angela Merkel che ha dichiarato che esiste «identità di vedute» tra Germania e Banca Centrale Europea, in netto contrasto con le posizioni dei «falchi» anti-euro.

Mentre i toni delle polemiche sull’euro si abbassano, quelli della campagna elettorale americana si accendono. Facendo proprie le tesi più estreme della destra americana, il candidato repubblicano alla presidenza, Mitt Romney, e il suo candidato alla vicepresidenza, Paul Ryan vogliono realizzare una riduzione generalizzata di imposte che, se darebbe apparentemente respiro all’economia, trasformerebbe in realtà la prospettiva di un «baratro fiscale» nel quale l’economia e la finanza americana potrebbero cadere immediatamente dopo l’insediamento del nuovo Presidente alla Casa Bianca. Le prospettive non sono certo rese più rosee dall’assottigliarsi dell’attivo commerciale cinese che fa sì che la Cina avrà meno dollari da investire nei titoli del debito pubblico americano.

L’insistenza sui mali europei, insomma, sembra essere stato il risultato di una «distorsione», una «montatura» dei media che ha lasciato in ombra i mali americani, forse più gravi di quelli europei; chi ha fantasia può anche immaginare che tale trascuratezza dei media non sia casuale bensì il risultato di un complotto (fallito) contro l’euro. Vittime di questa distorsione, o di questo complotto, i mercati si sono baloccati per mesi con una crisi dell’euro alla quale è stato dato un risalto esagerato, e hanno tralasciato la vera crisi, quella del dollaro che fa sempre più fatica a essere accettato dai mercati e dell’economia americana che riesce a galleggiare ma non a far da motore della ripresa mondiale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10440
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« Risposta #152 inserito:: Agosto 23, 2012, 04:48:19 pm »

23/8/2012

Molti sospetti su un prezzo non trasparente

MARIO DEAGLIO

La benzina oltre la soglia psicologica dei due euro al litro è un pessimo biglietto d’auguri per il dopo-ferie: in un paese come l’Italia, traumatizzato da una grave e prolungata congiuntura negativa, quel prezzo della benzina oltre euro 2.00 potrebbe diventare lo spartiacque tra speranze e frustrazione, tra voglia di ripartire e rinuncia a combattere, tra la risposta costruttiva alla crisi e il mugugno rassegnato. Per questo è opportuno guardare bene dentro a questo prezzo-chiave; si scopre così molta complessità, troppa oscurità e insufficiente trasparenza.

Più di metà del prezzo ossia più di un euro di quanto pagato dagli automobilisti per un litro di benzina è costituito da imposte. Una parte di queste imposte è rappresentata dall’Iva ed è quindi espressa in percentuale sul prezzo; il che significa che quando il prezzo della benzina aumenta, le casse dello Stato ne traggono beneficio.

Si potrebbe dire, quindi, che lo Stato, come i Paesi produttori, gode di una «rendita petrolifera», diventa uno «Stato-sceicco» e che gli incassi dell’Iva petrolifera contribuiscono (anche se poco) a smorzare le difficoltà finanziarie pubbliche. Oltre allo Stato, i proventi della tassazione possono andare anche, per qualche centesimo al litro, alle Regioni che, in base alle norme di legge, possono introdurre un’ulteriore addizionale. Il che contribuisce a spiegare perché si paga la benzina più cara in alcune parti d’Italia che in altre.

La parte restante, all’incirca 75-85 centesimi, è divisa tra i Paesi nei quali il petrolio è estratto e le imprese – di regola grandi multinazionali o società a esse collegate - che lo estraggono, trasportano e raffinano trasformandolo in benzina. E inoltre tra quelle che trasportano la benzina agli impianti di distribuzione e i distributori stessi, in grande maggioranza organizzati in reti dalle stesse multinazionali che garantiscono loro il rifornimento. E’ su questa quota del prezzo che agiscono i meccanismi di mercato che collegano direttamente il pieno pagato dal signor Bianchi alla quotazione del prezzo del greggio sui mercati di New York e Londra.

Tutto questo processo è molto opaco innanzitutto perché la benzina può essere il risultato di cicli produttivi assai diversi tra loro. La raffinazione di un barile di greggio fornisce infatti non già un prodotto solo bensì una gamma di prodotti, dalla benzina (molto leggera) all’olio combustibile e al bitume (molto pesanti); nel processo di lavorazione, a seconda delle politiche dei raffinatori e del tipo di greggio che riescono a comprare, la benzina può essere prodotto o sottoprodotto. Non solo, la benzina che si vende oggi alle pompe può derivare da greggio raffinato un mese, due mesi o anche sei mesi fa.

Questa complessità tecnica si traduce in un rebus contabile. Quando affronta le multinazionali petrolifere, il fisco dispone soltanto di due parametri molto vaghi, ossia il prezzo del greggio in dollari e il cambio del dollaro con l’euro. Questi parametri hanno mostrato una tendenza a cadere per buona parte dell’anno e la caduta si è effettivamente tradotta in una riduzione del prezzo della benzina che ha in parte cancellato un precedente aumento. Poi l’euro si è indebolito e il prezzo del greggio è risalito, due condizioni negative per l’acquirente italiano e ne stiamo sopportando le conseguenze. Ora però l’euro sta risalendo, sia pure in un panorama confuso, il che fa sperare che gli aumenti siano di breve durata.

Quando però gli aumenti – e il superamento di quota 2.00, per ora documentato solo in alcune parti del Paese – vengono annunciati a ridosso di uno dei fine-settimana dal traffico più intenso dell’anno, durante il quale milioni di automobilisti acquisteranno benzina, il sospetto che le grandi società di distribuzione vogliano trarre un rapido vantaggio commerciale non può essere del tutto trascurato. La stessa difficoltà di indagine tecnica sui costi dell’industria petrolifera, che impedisce al fisco accertamenti dettagliati, impedisce altresì di «assolvere» automaticamente i produttori da ogni dubbio sul funzionamento del mercato.

Uno spazio per miglioramenti indubbiamente c’è. Fisco e petrolieri dovrebbero «parlarsi» molto di più e mettere assieme un sistema di rilevazioni contabili che consenta maggiore trasparenza. E soprattutto sarebbe auspicabile che le società petrolifere dimostrassero sul mercato della benzina quello stesso tipo di lungimiranza di cui danno prova quando impostano piani più che decennali e affrontano spese gigantesche per la «coltivazione» di un giacimento petrolifero. Correre dietro agli spiccioli, togliere qualche decina di euro dalle tasche di milioni di famiglie italiane che fanno il pieno alla fine delle vacanze non è precisamente un atteggiamento coraggioso. E potrebbe risultare controproducente.

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10449
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« Risposta #153 inserito:: Settembre 04, 2012, 05:04:12 pm »

4/9/2012

Il triangolo che deciderà il nostro futuro

MARIO DEAGLIO

Non è azzardato affermare che il destino dell’euro, quello dell’Europa economica e forse, più in generale, quello dell’Europa come entità politica, dipende da un triangolo tedesco. Oscilla, infatti, in questi giorni fra tre poli, tutti collocati in Germania. Il primo si trova a Francoforte; si tratta della bella e moderna Euro Tower, sede della Banca Centrale Europea (Bce), una cittadella della moneta che si staglia in un deserto istituzionale in cui non esiste un ministro europeo dell’Economia con il quale costruire una politica economica per il continente. La sua solitudine la pone al centro delle speranze e dei risentimenti sull’euro, della crisi europea, delle misure per uscirne e in particolare della creazione di nuova liquidità per sostenere i Paesi debitori, una linea d’azione fieramente avversata dai Paesi creditori e soprattutto dai tedeschi.

Entra così in scena il secondo polo che svolge in questi giorni un ruolo cruciale, anch’esso localizzato a Francoforte, a pochissimi chilometri di distanza dal primo. In un edificio esso pure imponente, che ricorda il passato più di quanto non suggerisca il futuro, ha sede la Bundesbank.

La mitica Banca centrale tedesca, un tempo ferrea custode del marco e della crescita senza inflazione, senza intromissioni governative e senza aiuti facili ad altri Paesi. L’istituzione dell’euro - che ha comportato la fine del marco le ha sottratto importanza e potere ma ha voce autorevole, e la usa con durezza, nel consiglio della Bce. La Bce è da anni sotto attacco della Bundesbank che le rimprovera sostanzialmente di non essere tedesca, ossia di non avere trasferito a livello europeo il rigore al quale il marco aveva abituato l’Europa. Non vorremmo naturalmente che la «purezza della razza» di infausta memoria abbia subito una metamorfosi trasformandosi in una sorta di «purezza della moneta».

In queste condizioni, il governatore della Bce, Mario Draghi, liberale più che liberista, ha rifiutato qualche giorno fa di andare alla super-riunione annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole nelle Montagne Rocciose, riservando la descrizione del suo progetto di politica monetaria e finanziaria alla riunione a porte chiuse della commissione Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo. Il senso generale del suo discorso è naturalmente trapelato e ha rincuorato - si spera in maniera non prematura come successe meno di due mesi fa - le Borse europee.

I dettagli, importantissimi in questi casi, non sono naturalmente noti ma appare chiaro che Draghi si sta muovendo all’insegna del pragmatismo, in marcato contrasto con il dogmatismo della Bundesbank. Draghi ha indicato un limite di durata di tre anni, sotto il quale le operazioni di acquisto di titoli di uno Stato in difficoltà non deve essere configurato come finanziamento ma come semplice operazione di tesoreria. E’ sottinteso che Draghi, con questo, non vuole acquistare tonnellate di «Bonos» spagnoli, così come si è detto contrario a dare all’Esm, il nascente «fondo salva-Stati», le funzioni di una banca; vuole piuttosto ritagliarsi una certa libertà d’azione in modo da non dover chiedere a ogni operazione il permesso dei tedeschi.

Forse proprio per questo, magari anche in nome di una nostalgia storica per il marco, il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, fautore di un liberismo allo stato quasi puro - che vede come un grave errore qualsiasi politica attiva della Banca Centrale Europea - ha minacciato le dimissioni, temporaneamente arginate dal Cancelliere Merkel. Il suo predecessore, Alex Weber, si era dimesso per lo stesso motivo nell’aprile 2011.

Molto spesso, come scrisse Keynes ottant’anni fa, chi fa politica crede di essere libero di decidere ma in realtà è prigioniero di qualche economista defunto. In questo caso, Draghi si rifà a Franco Modigliani e all’ancora attivo Bob Solow, i premi Nobel con i quali ha studiato in America negli Anni Settanta, fautori di un liberalismo che non escludeva certo interventi delle istituzioni economiche. Weidmann, invece, è l’erede di una tradizione liberista dura e pura, più vicina al liberismo francese degli Anni Ottanta che alle storiche dottrine dei democristiani tedeschi, come l’«economia sociale di mercato». Naturalmente le Borse hanno salutato l’apparente vittoria di Draghi: sperano nell’allontanamento del tormentone dei debiti pubblici e quindi in un po’ di ossigeno con il quale cercare di compiere qualche passo sulla lunga strada dell’uscita dalla crisi.

Perché, al momento attuale, la vittoria di Draghi è ancora soltanto apparente? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tirare in ballo il terzo polo di questa vicenda largamente tedesca che tocca tutti gli europei. Il terzo polo non sta nella metropoli di Francoforte ma centocinquanta chilometri più a Sud, nella piccola città di Karlsruhe, circa trecentomila abitanti. Qui si trova il piccolo, moderno e arioso edificio della Corte Costituzionale tedesca, ai vertici della struttura pubblica tedesca e sarà questo tribunale tedesco a prendere, entro una decina di giorni, una decisione che, di fatto, potrà determinare le sorti dell’Europa.

La Corte dirà infatti se i trattati internazionali in base ai quali risorse finanziarie pubbliche tedesche vengono utilizzate per aiutare Paesi esteri in difficoltà sono o non sono conformi alla Costituzione tedesca. Otto giudici in solenni toghe rosse diranno un «sì» o un «no» che avrà in ogni caso ripercussioni radicali sulle Borse, sull’economia, sui governi del nostro continente.

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10488
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« Risposta #154 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:32:30 pm »

16/9/2012

Se la Fed spara con il bazooka dell'incertezza

MARIO DEAGLIO

Probabilmente già da domani la Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, comincerà a comprare sul mercato finanziario americano titoli a reddito fisso di ogni genere al ritmo di circa 1,3 miliardi di dollari (un miliardo di euro) al giorno. Con quali risorse? Con quelle che la stessa Fed «stamperà» sul momento gonfiando complessivamente la liquidità di 40 miliardi di dollari al mese. Per quanto tempo? Fino a quando ce ne sarà bisogno, ossia finché l’occupazione, la cui crescita è bassa, insufficiente a riassorbire i 7-8 milioni di lavoratori resi disoccupati dalla crisi, non darà segni di duratura risalita.

Anni prima della sua nomina, Bernanke, il governatore della Fed, aveva spiegato che seguire questa strategia equivale a stampare banconote, caricarle su un elicotte ro, alzarsi in volo e buttarle su una città: la gente le raccoglierà e co mincerà a spenderle e spendendole rilancerà l’economia.

L’aneddoto gli valse il soprannome di «Helicopter Ben» ed è la terza volta in quattro anni che «Helicopter Ben» riempie di miliardi di dollari nuovi di zecca l’elicottero della Fed per spargerli sull’economia americana. Le due volte precedenti, i dollari di Ben non sono riusciti né a dar vita a una vera ripresa né a ridurre sufficientemente la disoccupazione; è stato soltanto possibile tenere a galla l’economia americana, al massimo farla muovere a velocità complessivamente bassa.

Perché mai i soldi lanciati sull’America dall’elicottero della Fed non producono risultati? Perché, prima ancora di toccar terra, vengono intercettati e risucchiati verso impieghi, sparsi per il mondo, diversi dal finanziamento delle imprese. Le banche nelle quali approdano i nuovi dollari hanno infatti motivi ragionevoli per non prestarli ai piccoli imprenditori della California o del Massachusetts, con prospettive rese problematiche dalla crisi e investirli invece in titoli «artificiali», dal rischio controllato, dal risultato apparentemente meno incerto, legati alle speculazioni sulle materie prime e ad altre operazioni puramente finanziarie.

Nelle due volte precedenti, quindi, i dollari a bassissimo costo messi a disposizione dell’economia hanno stimolato soprattutto operazioni finanziarie sul petrolio o sull’oro e non investimenti nell’economia reale, fallendo così l’obiettivo di mettere l’America e il mondo al riparo da una perdurante precarietà e suscitando ostilità verso il dollaro. Brasile e Cina hanno eretto barriere fiscali per difendersi dall’«invasione» di «biglietti verdi», molti Paesi hanno deciso di non usarli più nei loro scambi reciproci. E l’euro, dato per spacciato da autorevoli commentatori americani all’inizio dell’estate, si è apprezzato di circa il dieci per cento da quando la nuova manovra della Fed ha cominciato a prendere corpo.

Errare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. Perché allora il governatore Bernanke – e con lui tutta la finanza americana – insiste addirittura per la terza volta in una politica scarsamente efficace? A questa domanda ci sono almeno tre risposte parziali che possono variamente combinarsi tra loro. La prima è che il governatore è probabilmente convinto di non avere, nelle volte precedenti, né fatto abbastanza né perseverato abbastanza a lungo. Il «bazooka» che questa volta ha imbracciato immetterà ogni giorno molti più dollari nuovi delle volte precedenti e lo farà senza limiti di tempo predeterminati. A questo punto, anche se al signor Smith arriveranno soltanto le briciole, si tratterà di briciole piuttosto corpose e l’economia potrebbe ripartire.

La seconda risposta è che l’America della finanza non conosce altre strategie che quella di accelerare sulla via della finanza. L’idea che si possa intervenire sul finanziamento delle banche, separando in qualche modo i flussi puramente speculativi da quelli «normali», destinati al finanziamento delle imprese, proprio non è popolare oltre Oceano. I progetti di penalizzazione finanziaria dei capitali speculativi vengono accolti con orrore da chi fa della finanza fine a se stessa la ragione della propria vita professionale. E quindi, come i medici durante le epidemie del passato, anche i banchieri centrali al tempo delle crisi tendono a ripetere le uniche strategie delle quali hanno veramente esperienza, indipendentemente dai risultati.

La terza risposta è più maliziosa e ci si deve augurare che entri solo marginalmente nelle ragioni di questa strategia: la Fed non vive sotto una campana di vetro e tiene conto delle elezioni incombenti. Di regola, non gioca mai contro un Presidente in carica che chiede al Paese di essere rieletto e anzi cerca, sia pure discretamente, di favorirlo un poco. Per Barack Obama, arrivare alle urne tra sette settimane con una Borsa euforica e un’economia ottimista può fare la differenza tra vittoria e sconfitta. A urne chiuse e a risultati proclamati, tanti problemi scomodi – come quelli che hanno portato molte banche a essere pesantemente multate dalle autorità di vigilanza – potranno appropriatamente riaffiorare.

Tutto ciò porta la Fed a stampare moneta al cospetto di un mondo inquieto. I titoli che acquisterà dal mercato con queste operazioni saranno, in genere, di bassa qualità e ridurrà la qualità dell’attivo del suo bilancio, già assai meno solido di quanto non fosse prima della crisi. L’incertezza sarà drenata dai mercati che festeggeranno e arriverà dritta al centro del sistema finanziario americano e mondiale; sistema che è pronto a un altro giro di valzer, più difficile e pericoloso di quelli che l‘hanno preceduto.

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10533
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« Risposta #155 inserito:: Settembre 27, 2012, 02:34:04 pm »

Editoriali

27/09/2012

Le brevi illusioni dei mercati

Mario Deaglio

Con l’arrivo, il 23 di settembre, dell’autunno astronomico, è finita non solo l’estate dei comuni mortali ma anche l’estate dei mercati finanziari. L’indice Ftse Mib della Borsa di Milano è passato dalla quota 16 mila di venerdì alla quota 15.400 di ieri, una perdita prossima al 4 per cento in 3 giorni lavorativi che mette la parola fine all’eccezionale recupero di agosto e della prima metà di settembre.

Naturalmente non si tratta di un fenomeno solo italiano, da Tokyo a New York, passando per l’Europa, i listini sono, pressoché dappertutto, seccamente in ritirata. Milano si trova così in buona compagnia: ieri le perdite di Francoforte e Parigi hanno superato il 2 per cento e le Borse americane sono in trincea. 

Che cosa sta succedendo? I mercati internazionali scontano la fine di tre illusioni che li hanno accompagnati nel corso dell’estate. La prima, piuttosto infantile ma molto diffusa, può essere definita l’«illusione della bacchetta magica». Secondo questa deformazione mentale, governi e banche centrali possono ribaltare, in poche settimane o in pochi mesi, tendenze negative radicate da anni. Basta un piccolo provvedimento di qualche riga, la modifica di qualche norma scomoda e tutto ripartirà, il giardino delle delizie finanziarie tornerà a far maturare i suoi frutti meravigliosi. 

In realtà, la crisi che stiamo vivendo da cinque anni è qualcosa di molto più serio, i suoi bacilli sono annidati pressoché dappertutto nell’economia e nella società, non soltanto nei listini di Borsa e la loro estirpazione, se riuscirà, richiederà anni. Le azioni di risanamento hanno poi i loro alti e bassi, non sono certo facili percorsi in discesa. Gli operatori finanziari che non ci vogliono credere rischiano di trovarsi con un pugno di mosche in mano.

La seconda illusione dei mercati è connessa alla prima e cioè che – bacchetta magica o non bacchetta magica - si sia già trovata la medicina sicuramente in grado di far ripartire l’economia reale, il che avrebbe immediate e positive ripercussioni in Borsa. In realtà le medicine proposte sono due, entrambe, al momento, non risolutive: l’immissione massiccia di liquidità, adottata dagli americani, che riesce appena a tenere a galla l’economia degli Stati Uniti ma non a farla ripartire davvero, e il mix europeo di austerità fiscale (oggi) e di stimoli produttivi con bilanci pubblici risanati (domani), che, per definizione, richiede molto tempo, molta pazienza e qualche sacrificio. Sempre che poi i risultati ci siano.

Gli europei sono davvero disposti ad accettare questi sacrifici e a dar prova di questa pazienza? Alla domanda si raccolgono di fatto risposte molto incerte ed ecco la terza illusione: che i governi possano decidere ogni tipo di misura tenendo soltanto conto della sostenibilità economica ed ignorando la sostenibilità politica, ossia i comportamenti della gente. L’esempio principale è naturalmente la Grecia, dove si insiste su un taglio dopo l’altro senza che il «buco» del bilancio pubblico possa essere chiuso ma ad ogni ulteriore giro di vite dell’austerità paiono aumentare le proteste popolari – come quelle molto gravi di ieri - e cresce il numero di coloro che sono tentati dall’idea di mandar tutto all’aria e uscire dall’euro. Il che non farebbe certo bene all’euro ma ancor meno ai greci i quali, visto lo stato della loro bilancia dei pagamenti, non sarebbero probabilmente neppure in grado di pagarsi il grano e il petrolio per il prossimo inverno.

In Spagna la situazione è migliore, ma il sentiero è molto stretto. In Italia il cammino dovrebbe essere più agevole secondo le dichiarazioni di personaggi noti per la loro severità come il presidente della Bundesbank sulle capacità del Paese di farcela senza aiuti esterni. L’Italia è uno dei pochi Paesi in cui le famiglie dispongono complessivamente di risparmi consistenti e la caduta dei consumi sembra dovuta non solo alla riduzione dei redditi di alcuni segmenti della popolazione particolarmente colpiti dalla crisi ma anche a una generalizzata paura per il futuro. Il che potrebbe significare che se il Paese ritrovasse fiducia in se stesso, l’economia potrebbe beneficiare subito di un moderato ritorno della domanda interna.

La sostenibilità politica è un problema che non si pone soltanto ai Paesi cosiddetti deboli. Lo dimostrano le quasi contemporanee notizie francesi del superamento dei tre milioni di disoccupati e del calo di 11 punti in un mese della popolarità del presidente Hollande; lo confermano i segni, ormai chiarissimi, di una frenata dell’economia tedesca e di un’atmosfera non proprio idillica nella coalizione di governo a Berlino. Quasi non esiste Paese europeo, per quanto apparentemente solido, che non stia vivendo un momento di inquietudine per le prospettive della sua economia.

Ecco perché le Borse calano o, quando va bene, sono estremamente guardinghe. Dopotutto, anche se spesso gli operatori finanziari credono di vivere su un altro pianeta, sono anch’esse espressione di questa società con i suoi timori e le sue incertezze. Il mondo non consiste solo dei listini delle Borse, anche delle liste della spesa, sempre più sofferte, delle massaie. E’ un’illusione che, nel medio e lungo periodo, i primi possano andar bene se le seconde vanno male.

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/2012/09/27/cultura/opinioni/editoriali/le-brevi-illusioni-dei-mercati-sqcK7e3f6k7YnIxPmfxZRJ/index.html
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« Risposta #156 inserito:: Ottobre 17, 2012, 10:13:40 pm »

Editoriali
17/10/2012

Energia il crocevia dei problemi

Mario Deaglio

Da quanto tempo gli italiani non sentivano parlare di un progetto economico di durata decennale? La nuova strategia energetica nazionale, delineata nel Consiglio dei ministri di ieri, rappresenta il primo tentativo serio di uscire dalla deprimente quotidianità di un’economia in difficoltà, di affrontare grandi argomenti di interesse nazionale nel lungo periodo invece di spendere tutte le energie a discutere affannosamente di quanto dovrà o potrà succedere nei prossimi mesi. 

Il passaggio dal mondo degli «spread» e dei «rating», delle detrazioni Irpef e della prossima rata dell’Imu a quello dei kilowatt, delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica che potremo realizzare in dieci anni non può che rappresentare una boccata d’aria fresca.

Si tratta di un tentativo di riappropriarsi del futuro, di fissare grandi obiettivi come la sensibile riduzione della dipendenza dall’estero, che oggi arriva in prossimità del novanta per cento, di delineare grandi idee su cui basare la nostra crescita, come la candidatura dell’Italia a diventare il punto nodale del commercio internazionale del gas nell’Europa del Sud. 

In questo modo si imposta una riflessione a molte dimensioni che va dall’ambiente alla realtà delle imprese, dalla geopolitica alle bollette delle famiglie. Il punto di partenza è naturalmente deludente: l’industria elettrica oggi non può che essere lo specchio del Paese, un settore stanco, con pochi investimenti, con prezzi alti (fino al 40 per cento in più dell’energia elettrica prodotta e venduta in Germania, come ben sanno le imprese italiane) e bassa produttività che ha però alle spalle un passato di estremo dinamismo. Aveva saputo rispondere efficacemente agli shock petroliferi del 1973-74 e del 1980 - pur in presenza del vincolo di non sviluppare il nucleare - diversificando le sue fonti di approvvigionamento e creando un’imponente rete di gasdotti; un settore che gestisce, in maniera almeno soddisfacente, una delle reti elettriche più difficili d’Europa per la complicazione della geografia italiana e la capillarità degli insediamenti produttivi e umani del Paese.

Appare, del resto, naturale per l’economia italiana che i discorsi veramente concreti di lungo periodo ripartano di qui, dalla messa a punto di una strategia energetica decennale, L’Italia ha un’economia moderna grazie alla sua passata eccellenza elettrica; a fine Ottocento, la creazione di sofisticate reti idroelettriche nell’Italia Settentrionale e in altre parti del Paese, liberò risorse dedicate all’importazione del carbone e le rese disponibili per investimenti interni; e nel giro di una quindicina d’anni, l’Italia si trovò in prima fila in quasi tutti i settori industriali, dall’automobile, alla chimica, all’industria tessile.

Ripartire dall’energia significa porsi a un crocevia al quale fanno capo sia le problematiche dell’ambiente e dell’inquinamento, con le emissioni di anidride carbonica, sia i bilanci famigliari e quelli delle imprese, con le bollette energetiche, sia infine equilibri internazionali di tipo non solo economico ma anche geopolitico. Se l’Italia economica ha un futuro, questo passa attraverso un programma (il governo ha prudentemente usato il termine «strategia» per evitare confusioni con le programmazioni del passato ma di programma finirà poi per trattarsi) di tipo energetico che metta fine all’insopportabile immobilismo degli ultimi anni, nei quali il veto di interessi incrociati ha bloccato quasi tutte le iniziative, tranne quelle di uno sviluppo disordinato dell’energia solare, prodotta dai privati, che ha incrinato i delicati equilibri del sistema impedendo un uso efficiente delle centrali a turbogas.

L’immobilismo italiano è descrivibile attraverso due episodi, uno di grandi e uno di piccole dimensioni, verificatisi negli ultimi dodici mesi. Il primo è la rinuncia dell’inglese British Gas alla costruzione del rigassificatore di Brindisi (una struttura essenziale per migliorare le caratteristiche dell’intero sistema energetico italiano) dopo undici anni di tentativi frustrati da normative contorte e da un’opinione pubblica locale visceralmente ostile a qualsiasi novità. Il secondo è l’arresto della piccola centrale termoelettrica di Mercure, in provincia di Cosenza che ne ha impedito la trasformazione in un impianto moderno, capace di funzionare con il legname derivante dalla manutenzione del vicino Parco del Pollino, dovuto a una sentenza del Consiglio di Stato per il vizio di forma di un decreto regionale.

Il fatto che si rimetta al centro degli interessi un problema disinvoltamente ignorato, ma sul quale concretamente si gioca una parte importante del nostro futuro, è di per sé di grande importanza. Gli obiettivi di recupero di competitività, di attenzione all’ambiente e alla qualità oltre che alla quantità della produzione elettrica, di sicurezza degli approvvigionamenti in un ambito di crescita sono a un tempo sufficientemente ambiziosi e sufficientemente realistici per rappresentare le basi di un grande dibattito. Il passaggio dall’uso del greggio a un mix di gas ed energie rinnovabili quale struttura portante del nuovo sistema, e lo spazio che viene aperto a nuovi investimenti privati, cercano di proiettare la strategia al di là delle ideologie e delle posizioni preconcette. La strategia energetica, in definitiva, potrebbe essere quel che ci vuole per dare una benefica scossa elettrica al Paese.

da - http://lastampa.it/2012/10/17/cultura/opinioni/editoriali/energia-il-crocevia-dei-problemi-JWobfchxsDnM7l8qXBeF4I/pagina.html
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« Risposta #157 inserito:: Novembre 04, 2012, 05:14:20 pm »

Editoriali
04/11/2012

Speriamo di non finire come gli Usa

Mario Deaglio


Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Mitt Romney, ha affermato, un paio di giorni addietro, che il suo Paese rischia di finire come l’Italia. Gli italiani potrebbero replicare che sperano di non finire come gli Stati Uniti: l’emergenza dell’uragano Sandy - per quanto correttamente gestita, a differenza di quella dell’uragano Katrina del 2005 - ha posto in luce una realtà di infrastrutture pubbliche deboli al punto che il maggior centro finanziario del mondo ha dovuto chiudere per due giorni, quasi quanto per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.

Pur spendendo per la sanità, in rapporto al prodotto interno lordo, circa il doppio di quanto spende l’Italia, gli Stati Uniti presentano indicatori sanitari nettamente peggiori: la speranza di vita alla nascita è di 78 anni contro gli 81 dell’Italia e il numero delle donne morte di parto è di 21 ogni centomila nati contro 4 dell’Italia. Se poi passiamo all’economia, scopriamo che il deficit pubblico degli Stati Uniti è pari circa l’8 per cento del prodotto interno lordo, quello dell’Italia a circa il 3 per cento. 

 

Naturalmente l’America di Obama/Romney può vantare iniziativa e innovazione, un mercato finanziario agile e una moneta rispettata, un’eccellenza tecnologica in molti settori, una forza militare senza rivali. Che a vincere sia Romney oppure Obama, però, le debolezze strutturali, sovente trascurate, finiranno per pesare e renderanno molto faticosa la vita del prossimo inquilino della Casa Bianca. Se poi, come è ben possibile, il partito del Presidente non avrà il controllo del Congresso, per l’America si porrà, come per diversi Paesi europei, un problema di governabilità reso più complicato dalla crisi.

 

Contrariamente a quanto può far credere una lettura ottimistica dei dati, gli Stati Uniti non sono ancora fuori dalla crisi. La cura nella quale gli americani ostinatamente persistono, ossia la «fabbricazione» di nuova liquidità da parte della banca centrale, riesce a tenere a galla l’economia ma non a farla veramente ripartire. Le vendite di autoveicoli, tanto per fare un esempio, sono in ripresa ma ancora lontane dalle cifre degli anni dei record. Gli investimenti sono del 15 per cento sotto i livelli precedenti la crisi (quelli in abitazioni risultano inferiori di oltre metà ai massimi del 2005). Il prodotto lordo è cresciuto ma meno velocemente della popolazione - per cui il potere d’acquisto medio degli americani nel 2011 è risultato ancora inferiore a quello del 2007 - e più velocemente dell’occupazione. Per questo il numero dei disoccupati scende soprattutto perché molti americani scoraggiati smettono di cercar lavoro; la diseguaglianza dei redditi continua inoltre ad aumentare, creando un divario che rischia di inghiottire la classe media. 

 

Il tavolo di Obama o Romney sarà quindi piuttosto ingombro di problemi, e il nuovo Presidente dovrà mettersi al lavoro subito perché il cosiddetto «precipizio fiscale» è dietro l’angolo. A fine anno terminano infatti importanti sconti fiscali e, in assenza di un accordo con il Congresso, in un Paese in cui il tetto del debito pubblico è fissato per legge, oltre all’inasprimento fiscale, potrebbero scattare, in maniera quasi automatica, anche tagli «lineari» alla spesa pubblica che in poco tempo metterebbero in ginocchio l’economia degli Stati Uniti e si ripercuoterebbero pesantemente sull’intera economia mondiale. Naturalmente nessuno pensa che il Congresso sarà così miope, ma il Fondo Monetario Internazionale ha già lanciato l’allarme: evitare di cadere nel precipizio sarà il primo compito di chi lavorerà nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca, tradizionale luogo di attività del Presidente degli Stati Uniti.

 

Questa tempesta potrà essere evitata, ma l’economia americana rimarrà con i suoi problemi di fondo, aggravati dalle preoccupazioni borsistiche. La caduta di circa il 10 per cento nelle quotazioni di Google nel mese di ottobre è un segnale d’allarme sul fronte di Internet che si aggiunge al disastro della quotazione di Facebook e a un certo numero di risultati poco lusinghieri di altre grandi società nel terzo trimestre; è quindi legittimo avere dei dubbi sull’effettiva capacità della nuova informatica di creare grandi profitti. Un equilibrio precario, insomma, un insieme di interrogativi che sono stati incautamente accantonati nel corso della campagna elettorale e ai quali il nuovo Presidente dovrà dare una risposta in tempi estremamente brevi.

 

L’Europa è stata quasi assente dal dibattito della campagna elettorale, se si eccettuano le accuse rituali – e largamente gratuite – all’euro che, con la sua particolare crisi, secondo il presidente Obama, sarebbe la causa dell’attuale rallentamento dell’economia. Si dovrebbe ricordare al Presidente la vecchia massima secondo la quale si vede facilmente la pagliuzza nell’occhio del vicino e si ignora la trave nel proprio. Forse sarebbe un bene per tutti, senza che con questo si voglia fare alcuna recriminazione o attribuire colpe, che il vincitore delle elezioni del 6 novembre si rendesse conto che la crisi è essenzialmente una crisi del sistema americano e che i rimedi devono partire dall’America.

 

Detto questo per gli europei sarebbe leggermente preferibile una vittoria elettorale di Obama: entrambi i candidati, infatti, hanno avuto scarsi contatti con l’Europa e non sembrano nutrire al suo riguardo alcuna particolare simpatia. Obama e la sua squadra, tuttavia, hanno avuto quattro anni per imparare a collaborare con l’Europa. Se invece vincesse Romney, con i suoi orizzonti pressoché esclusivamente americani, si dovrebbe ricominciare tutto da capo, con il rischio di nuove incomprensioni. 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2012/11/04/cultura/opinioni/editoriali/speriamo-di-non-finire-come-gli-usa-ScgmVJ6nMatVDNUxozba3J/pagina.html
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« Risposta #158 inserito:: Novembre 26, 2012, 05:30:25 pm »

Editoriali
25/11/2012

Il torpore che imprigiona il Paese

Mario Deaglio


Sarebbe facile immaginare che, nella breve stagione delle primarie, ci sarà davvero una sfida tra continuità e cambiamento. In realtà, la parte del Paese che è attratta dall’idea di cambiare, innovare, correggere, che considera il mutamento come essenziale, che prende come modello l’Europa e il mondo, è largamente minoritaria. Sono invece prevalenti coloro che prendono come modello il campanile, vogliono il minor cambiamento possibile, il recupero di ciò che hanno perduto in questi anni e, al massimo, una semplice riverniciatura dell’esistente. In un Paese in cui i giovani sono in netta minoranza (con i più preparati che, sempre più frequentemente, trovano lavoro all’estero) la maggioranza esprime un profondo, quasi disperato, desiderio di continuità, anzi di immobilità, profondamente anacronistico in un mondo in cui le dinamiche demografiche e quelle economiche impongono rapidi cambiamenti a tutti. 

Il risultato di questo conservatorismo di fondo degli italiani è la caduta, o, in ogni caso, il livello estremamente basso dell’Italia in tutte le classifiche internazionali degli ultimi 10-15 anni. Lasciamo da parte il solito Pil, il prodotto interno lordo, che vede il Paese perdere posizioni non solo a livello mondiale ma anche in ambito europeo; merita invece di essere sottolineato, tanto per fare qualche esempio, che ci sono oltre cento Paesi al mondo in cui è più facile che in Italia ottenere un permesso di costruzione o un allacciamento elettrico, e ben centotrenta in cui è più facile pagare le tasse. L’Italia è ai primi posti per l’inquinamento dell’aria delle città, mostra cattivi risultati per quanto riguarda il livello di istruzione, perde colpi nel turismo, pur essendo, in potenza, il maggior paese turistico del mondo. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. 

In Italia si invocano incessantemente nuove iniziative per creare lavoro ma chi si fa avanti con progetti di nuovi investimenti viene subito trattato con sospetto. Vuoi mettere una fabbrica nei nostri campi? Il piano regolatore non lo permette. Vuoi far passare una linea ferroviaria nel nostro territorio comunale? Ci pensa la «conferenza dei servizi» a imporre un «obolo», sotto forma di opere pubbliche compensative, per cui il costo al chilometro diventa il più caro del mondo. Vuoi costruire un’autostrada ritenuta utile da tutti, come la Brescia-Bergamo-Milano, senza alcun onere per lo Stato? Preparati a una snervante partita con le istituzioni che durerà una quindicina d’anni. Vuoi costruire, come effettivamente voleva la società britannica British Gas, il rigassificatore di Brindisi, un tipo di impianti di cui il sistema energetico italiano ha un bisogno essenziale? Dopo undici anni di «guerriglia giuridico-burocratica» contro il progetto, la British Gas ha rinunciato. 

La riluttanza ad accettare veramente il nuovo, o anche solo a discutere delle sue possibili implicazioni, sembra permeare di sé il mondo della politica così come la società che la esprime. Eppure un tempo non era così: l’Italia dei primi del Novecento, così come quella del «miracolo economico», accettavano con entusiasmo mutamenti profondissimi, primi fra tutti quelli derivanti dalle migrazioni interne che hanno fatto da motore alla crescita italiana. Oggi la società appare impaurita e ingessata e si arriva all’amara conclusione che il benessere diffusosi in Italia negli ultimi 3-4 decenni ha portato a un nuovo torpore. Questo nuovo torpore rischia oggi di far perdere il benessere: non a caso, nella crisi economica in atto, l’Italia ha avuto la maggiore caduta produttiva tra i Paesi avanzati, seguita dal minor rimbalzo.

In «Le sorprese della scienza», una novella pubblicata nella raccolta «Novelle per un anno» del 1922, Luigi Pirandello racconta il caso del comune di Milocca (oggi Milena, in provincia di Caltanissetta) ferocemente contrario alla costruzione dell’acquedotto e all’introduzione dell’energia elettrica. In una seduta (a lume di candela, naturalmente) il consiglio comunale, considera «della massima difficoltà» gli «impianti idro-termoelettrici» che serbano «dolorosissime sorprese». Conclusione? Il progetto di una centrale elettrica verrà bocciato, di fatto perché non vi sono previste spese generali, di direzione e di sorveglianza, legali e amministrative, ossia, come potremmo osservare oggi, perché così si sposterebbe la distribuzione dei redditi, lasciando poco o nulla alla politica e alla burocrazia locale. La bocciatura è però ammantata di alti principi: viene decretata la «sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte», un farsi scudo dei progressi della scienza di domani per evitare di far qualcosa oggi, un richiamo al futuro e alla modernità sotto il quale si nasconde il conservatorismo più profondo. 

Milocca oggi non è, come potrebbe sembrare, un comune siciliano di tremila abitanti. In realtà Milocca ha conquistato l’Italia, la maggioranza degli italiani ha la cittadinanza di Milocca. Milocca si annida nelle procedure di un’amministrazione pubblica pletorica, in un’opinione pubblica spesso apparentemente convinta che i posti di lavoro si possano creare indipendentemente dalla loro prevedibile produttività, che va in visibilio per i successi sportivi (quando ci sono) per non parlare di risultati economici poco brillanti. 

La speranza che le primarie di novembre-dicembre possano cambiare questo stato di cose è molto tenue. Come però dice un vecchio detto latino, la speranza è l’ultima a morire.

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2012/11/25/cultura/opinioni/editoriali/il-torpore-che-imprigiona-il-paese-WyTGYcFJlMIiJBW349mWBO/pagina.html
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« Risposta #159 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:41:05 pm »

Editoriali
28/11/2012

La doppia miopia dalla noncuranza all’iper-rigore

Mario Deaglio

Partito con difficoltà quasi 130 anni fa, l’acciaio italiano potrebbe oggi finire peggio, vittima della noncuranza con cui l’Italia sta affrontando le proprie scelte industriali: di una viscerale incomprensione dei processi economici e industriali da parte della magistratura e di un atteggiamento a dir poco non lungimirante della società proprietaria.

 

La costruzione della prima grande acciaieria italiana non fu decisa in base a calcoli economici ma a considerazioni militari e, forse, anche clientelari: si scelse Terni, città isolata dai mercati di consumo del Nord e con forti problemi di trasporti e comunicazioni. Lo si fece su pressione della Marina Militare, che non voleva dipendere dall’estero per l’acciaio necessario alla costruzione delle corazzate e che vedeva nell’isolamento una garanzia contro possibili invasioni straniere. Diversi studi indicano però anche possibili interessi personali del ministro competente, un copione italiano con radici antiche: alcuni suoi amici e parenti possedevano terreni nella zona e vi avevano già impiantato una fonderia.

 

Decisioni politiche e decisioni economiche, del resto, si intrecciano forse inevitabilmente, in ogni grande settore il che non è un male se tutto avviene con la dovuta trasparenza. La politica non poteva star fuori dalle decisioni cruciali relative a un materiale nuovo, com’era l’acciaio a metà Ottocento, che si identificava immediatamente con la forza. La potenzialità militare di un Paese si misurava in milioni di tonnellate d’acciaio ma, fino a pochissimi decenni fa, l’acciaio serviva anche a misurare la potenzialità economica in un mondo, uscito dalla Seconda guerra mondiale: oggi in parte sostituito dalla plastica e da altri materiali serviva a produrre tutto ciò che aveva a che fare con il miracolo economico, dal cemento armato alle utilitarie e alle pentole da cucina. 

 

Nel 1938, l’Italia, con oltre due milioni di tonnellate, era il sesto produttore mondiale, nel 2011, con 28 milioni, era al secondo posto in Europa e all’undicesimo in un mondo dominato dai colossi asiatici che hanno puntato sull’acciaio per uscire dalla povertà. L’Italia del dopoguerra impostò proprio nel settore siderurgico il suo piano industriale di maggior successo, dovuto a Oscar Sinigaglia, il carismatico esperto siderurgico posto a capo dell’Italsider: puntò su lavorazioni di grandi volumi, e quindi grandi stabilimenti, gli unici che potevano garantire costi bassi, specie se collocati sulla costa, dove potevano agevolmente ricevere via mare il minerale di ferro e spedire l’acciaio in ogni parte del mondo. 

 

Nascono così le acciaierie di Cornigliano (Genova), Bagnoli (Napoli) e a quel piano fa riferimento il polo siderurgico di Taranto, inaugurato nel 1961, quasi simbolo dell’Italia del miracolo e punta di diamante della scommessa di industrializzare il Mezzogiorno. Questi impianti si basavano sul «ciclo integrale» che permette di far produrre da un unico stabilimento non solo, o non tanto, acciaio grezzo ma anche una ricca gamma di prodotti, dal tondino per l’edilizia ai laminati e alle barre. 

 

Dall’Ilva di Taranto esce oggi circa un terzo dell’acciaio italiano; se chiuderà davvero, l’Italia forse perderà la distinzione di essere, dopo la Germania, il secondo Paese manifatturiero d’Europa ed entrerà a pieno titolo in una difficile e precaria era postindustriale della quale negli ultimi anni non sono mancati i segni premonitori. La fine di Olivetti e Montedison – imputabile a una sostanziale incomprensione da parte dei politici, e dell’opinione pubblica in genere, delle logiche dell’industria - l’hanno privata di una forte presenza rispettivamente nell’elettronica e nella chimica e si deve sempre più affidare al «made in Italy» e a piccoli, pur pregevoli, settori di nicchia. Il già ridotto peso del Mezzogiorno nell’economia nazionale riceverà un ulteriore colpo, contribuendo ad accrescere un divario economico tra diverse zone del Paese che non ha uguali nei Paesi avanzati. D’altra parte, perdendo un colosso industriale in cambio di niente, l’Italia si allontanerà ancora di più da questi Paesi. 

 

Per un’amarissima ironia, quest’Italia che pare proprio volersi privare dell’acciaio si terrà una città fortemente inquinata che solo dalla continuazione di un’efficiente produzione all’Ilva (e dall’uso dei relativi profitti per rimediare ai mali passati) può sperare di trovare le risorse per riportare a normalità un ambiente sconvolto da un’irresponsabile mancanza di controlli. Dopo decenni di grande noncuranza della società proprietaria e di assenza di controlli da parte pubblica, oggi lo Stato, mediante l’azione della magistratura, va all’estremo opposto: quello di un iper-rigore miope che potrebbe risultare altrettanto dannoso. 

 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/la-doppia-miopia-dalla-noncuranza-all-iper-rigore-RCp0ABb0b2ExRU76STWffL/pagina.html
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« Risposta #160 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:58:10 pm »

Editoriali
11/12/2012

Il partito del suicidio finanziario


Mario Deaglio

Borsa che scende, «spread» che sale. Può sembrare una alchimia finanziaria lontana dalla vita di tutti i giorni, dai bilanci di imprese e famiglie. Purtroppo non è così, come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque anni. Forse il modo migliore per rendersi conto dell’importanza di quest’infausta congiunzione consiste nel partire da una constatazione semplice e apparentemente incredibile: mediamente l’Italia deve restituire ai suoi creditori un miliardo di euro al giorno, domeniche escluse, ossia circa 300 miliardi l’anno per i prossimi 6-7 anni. 

 

Come fa l’Italia a restituire somme così ingenti? Immediatamente prima della scadenza, «rifinanzia» il debito, ossia si fa prestare, con le aste sul debito pubblico, una somma all’incirca pari a quella in scadenza, con questa rimborsa Btp, Cct, Bot e quant’altro, giunti al termine della loro vita. Sono ormai vent’anni che l’Italia fa così e ha gestito tutto sommato in maniera soddisfacente, dal punto di vista finanziario, un debito enorme. 

Grazie all’euro, il mercato ha a lungo attribuito il medesimo rischio al debito sovrano di tutti paesi della nuova moneta, e, per conseguenza, il costo di questo rifinanziamento è stato relativamente moderato. 

In un certo senso ci siamo fatti scudo dei bassi tassi applicati ai tedeschi.

 

Dalla metà del 2011 le cosa sono cambiate, sotto la spinta delle crisi greca, irlandese, portoghese e spagnola: i mercati hanno cominciato a guardare dentro alle strutture finanziarie dei paesi debitori. E quello che hanno visto per l’Italia proprio non li ha soddisfatti. Per conseguenza, il rifinanziamento del debito ha cominciato a costarci molto più caro di prima. Si consideri che, per ogni miliardo preso a prestito dallo Stato italiano - e quindi per ogni giorno lavorativo - 100 punti in più di «spread» equivalgono a un costo addizionale di 10 milioni di euro. 500 punti di spread si traducono in un aggravio di circa 50 milioni al giorno, ossia 18 miliardi l’anno: per procurarseli, lo Stato deve tagliare le spese o aumentare le entrate. A luglio 2011 si profilò un’ulteriore complicazione: alle aste si presentarono assai pochi aspiranti compratori, divenne difficile, anche a tassi estremamente elevati, trovare chi, un giorno dopo l’altro, volesse prestar soldi allo Stato italiano.

 

Questo è il baratro finanziario in cui l’Italia non è caduta perché è riuscita contemporaneamente a ridurre lo spread e migliorare i propri conti pubblici. La minaccia è però sempre lì, una sorta di infezione in agguato che può attaccare il «sistema nervoso centrale» della finanza pubblica e far precipitare nel caos il paese in poche settimane.

 

Di fronte a questa situazione viene sussurrata, ma a voce sempre più alta, da alcune forze politiche l’eventualità di non pagare, di non restituire il debito in scadenza, una sorta di rinascita del «menefreghismo» di marca fascista che, in una canzonetta di quel regime, proponeva precisamente la non restituzione del debito («Albione, la dea della sterlina/ s’ostina vuol sempre lei ragione/ ma Benito Mussolini/ se l’italici destini/ sono in gioco può ripetere così:/ me ne frego non so se ben mi spiego»). 

 

Il menefreghismo applicato al debito rappresenterebbe il suicidio finanziario, e non solo, del Paese per almeno tre motivi. Il primo - del quale si è avuto un segno premonitore con le forti cadute dei titoli bancari nella giornata di ieri - sarebbe rappresentato dal crollo delle banche, che hanno investito gran parte delle risorse finanziarie a loro disposizione precisamente in titoli del debito pubblico italiano, il cui valore precipiterebbe. Il secondo sarebbe la distruzione della cospicua parte dei risparmi finanziari degli italiani, investita in titoli statali. Il terzo sarebbe l’evidente difficoltà del Paese a trovare all’estero nuovi prestatori, dei quali avrebbe disperato bisogno. 

L’Italia sarebbe costretta a riadottare la lira - o una nuova moneta nazionale - che si svaluterebbe immediatamente nei confronti dell’euro e del dollaro. 

 

A questo punto, i risparmi non divorati dalla svalutazione del debito pubblico sarebbero distrutti da un’inflazione galoppante in quanto i prezzi dei beni importati andrebbero alle stelle, a cominciare da quelli dei prodotti petroliferi. Certo, le merci italiane ritornerebbero temporaneamente competitive, ma le imprese dovrebbero rapidamente rialzare i prezzi per l’aumento dei costi delle materie prime importate. La messa al bando dall’Unione Europea e la chiusura delle frontiere dei nostri partners alle merci italiane ne sarebbero ulteriori, possibili conseguenze.

 

Dietro al baratro finanziario si profilerebbe così un abisso economico-sociale, e quindi anche politico, un’eventualità della quale i cittadini devono prendere coscienza. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano ha affermato che il suo partito non vuole «mandare il paese a scatafascio». A scatafascio però sicuramente andrebbe se il suo partito imboccasse la deriva populista, eco sinistra di un menefreghismo lontano e disastroso. Il che, allo stato degli atti, non sembra proprio di poter escludere. 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2012/12/11/cultura/opinioni/editoriali/il-partito-del-suicidio-finanziario-QM45vt49ZEifkdBwFXFqdL/pagina.html
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« Risposta #161 inserito:: Dicembre 23, 2012, 06:08:53 pm »

Editoriali
23/12/2012

I passi obbligati per tornare a crescere

Mario Deaglio

Quale che sia il giudizio che si vuol dare del governo Monti, resta il fatto che, grazie alla sua azione, l’Italia ha superato una gravissima crisi che rischiava di portare a un improvviso collasso il suo sistema di finanza pubblica; che lo spread, termometro di questa crisi, si è fortemente abbassato.

 

Che il bilancio pubblico si avvia, nel 2013, a un pareggio di fatto (ossia tenendo conto degli effetti della fase negativa del ciclo economico); che la struttura finanziaria pubblica risulta sostanzialmente irrobustita. Indipendentemente dai motivi che hanno spinto il Presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni, siamo quindi di fronte alla necessità oggettiva di voltare pagina, ossia di formulare nuovi obiettivi di politica economica, risultando sostanzialmente raggiunti quelli legati al superamento dell’emergenza. 

 

Per una fortunata circostanza, questa necessità di voltar pagina si presenta nel momento in cui sta per iniziare una nuova legislatura. Gli elettori italiani hanno quindi la possibilità, e al tempo stesso la responsabilità, di determinare un nuovo corso. Nell’esaminare i programmi elettorali occorrerà porre particolare attenzione all’entità della crescita che si prevede di realizzare nel prossimo quinquennio, alla sua qualità, ossia all’origine settoriale e alla destinazione futura della produzione italiana e infine ai mezzi con i quali sarà possibile finanziarla. 

 

Per quanto riguarda l’entità, all’Italia – a differenza degli altri Paesi avanzati – non basta tornare sul sentiero di crescita precedente la crisi perché il Paese sta emergendo da quindici-vent’anni da dimenticare e non può accontentarsi di tornare a crescere di qualche decimale all’anno. Un livello di crescita ragionevole si deve collocare almeno nell’ambito dell’1,5-2,5 per cento all’anno, corrispondente al ritmo che l’Italia era riuscita agevolmente a mantenere fino agli Anni Ottanta del secolo scorso e che gli altri Paesi dell’Unione Europea riescono a mantenere tuttora, nel lungo periodo, senza troppa fatica. A questi tassi di crescita, le prospettive della finanza pubblica e dell’occupazione migliorerebbero automaticamente. 

 

Proporre una crescita stabilmente collocabile tra l’1,5 e il 2,5 per cento a un Paese che quest’anno segnerà una riduzione produttiva di circa il 2,5 per cento richiede una visione in campo lungo e un atto di coraggio. Di coraggio e ampie prospettive, di un modello di futuro da realizzare avrà bisogno la politica dei prossimi anni, oggi troppo miope e, assai spesso, anche meschina. Le forze politiche e il nuovo governo, in altre parole, non possono pensare di gestire un’Italia da Serie B, devono realizzare un’Italia da Serie A.

 

Una crescita di questa portata richiederà naturalmente condizioni internazionali favorevoli come la pace e il miglioramento della costruzione europea. E’ inoltre inevitabile ricorrere allo stimolo della domanda interna perché recuperi gradualmente i livelli passati; a tale scopo occorre procedere a una certa ridistribuzione di redditi in senso egualitario che restituisca almeno un po’ di potere d’acquisto a milioni di famiglie che l’hanno perduto. Per non restare sulla carta o produrre forti ingiustizie, colpendo i «soliti noti», tale ridistribuzione deve poggiare su un un’anagrafe dei patrimoni, di modello francese e procedere a un recupero strutturale dell’evasione fiscale. 

 

Il recupero del potere d’acquisto non spingerà gli italiani a replicare il consumismo di una decina d’anni fa: i gusti sono profondamente mutati, con il lento affermarsi di stili di vita più sobri e occorrerà, per certi consumi collettivi, guardare con grande attenzione al cosiddetto terzo settore, e cioè al volontariato, e alle collaborazioni tra pubblico e privato. Nei bilanci famigliari dovrà inoltre essere ricostituita la capacità di risparmio, fortemente ridotta negli ultimi cinque anni; e questo nuovo risparmio dovrà indirizzarsi verso gli investimenti produttivi assai più che verso il finanziamento del debito pubblico. 

 

Ma quali potranno essere questi nuovi investimenti? Le forze politiche dovrebbero presentare agli elettori la loro visione dell’Italia produttiva, da realizzare nei prossimi quinquenni, necessariamente sostenibile non solo da un punto di vista economico e finanziario ma anche a livello sociale ed ecologico e il nuovo governo dovrà facilitarne la realizzazione rimuovendo gli ostacoli che oggi di fatto impediscono, ritardano e distorcono quasi tutti i nuovi investimenti produttivi. Il nuovo governo, in altre parole, dovrà formulare una forte politica industriale, sciaguratamente messa in disparte negli ultimi quindici anni. 

 

Ridistribuzione dei redditi e politica industriale devono costituire la cornice di un quadro di economia di mercato, del quale, per motivi internazionali oltre che interni, non si può proprio fare a meno. Del resto, altri Paesi europei, segnatamente Francia e Germania – sia pure in maniera profondamente diversa tra loro – si muovono in questa direzione e non si vede perché l’Italia non possa collocarsi in questo ampio solco. La cosa peggiore nella prossima campagna elettorale sarebbe un’offerta politica sostanzialmente vuota di contenuto, basata sugli slogan, sulle battute, sulle personalità individuali. L’Italia proprio non se la meriterebbe.

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/2012/12/23/cultura/opinioni/editoriali/i-passi-obbligati-per-ritrovare-la-crescita-cyrwdNHiUmWgLO4CR6OW4J/pagina.html
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« Risposta #162 inserito:: Gennaio 03, 2013, 06:10:34 pm »

Editoriali
03/01/2013

L’economia può ripartire dal fisco

Mario Deaglio

La decisione del Congresso degli Stati Uniti di aumentare l’imposizione fiscale sui redditi elevati è molto più di una semplice, anche se importante, manovra di finanza pubblica dettata dalla necessità di scongiurare un collasso assurdo e perfettamente evitabile dell’economia americana. Al di là della sua portata pratica, rappresenta un momento di svolta, la fine di uno dei principi-guida del capitalismo moderno. 

 

Un principio-guida che ha permeato la politica economica americana dai tempi della presidenza Reagan, ossia negli ultimi trent’anni: la convinzione che sia sufficiente ridurre le imposte sui cittadini dai redditi elevati per ottenere un aumento della crescita e un aumento generalizzato della produzione, del reddito e del benessere. 

 

I risultati iniziali non furono sfavorevoli (la rivoluzione di Internet può essere considerata figlia non solo delle liberalizzazioni ma anche della tendenza a tassare benevolmente i redditi alti) ma, dopo una prima fase, sono emersi pesanti effetti collaterali negativi, appesantiti dalla crisi economica: solo una piccola parte degli americani ha tratto grandi benefici dalla crescita trainata da questo tipo di detassazione, spesso i lavoratori «normali» hanno dovuto aumentare le ore di lavoro per mantenere inalterato il proprio livello di consumi, la diseguaglianza dei redditi è cresciuta e il disagio sociale si è fatto più acuto. Tutto ciò si è verificato, e continua a verificarsi, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa e l’Italia non è certo un’eccezione: la detassazione dei redditi alti, realizzata dai governi precedenti nell’arco di una quindicina d’anni - in buona parte mediante il condono edilizio e fiscale del 2003 - non sembra aver avuto effetti positivi sull’irrisorio tasso di crescita dell’economia italiana. 

 

A causa di questi elementi negativi, che si sono sommati alla crisi economica, il vento è radicalmente cambiato. Quasi due anni fa, Warren Buffet, il finanziere miliardario che è una delle figure più tipiche della scena economica americana, fece sensazione quando denunciò come aberrante il sistema fiscale del suo Paese perché tassava troppo poco la gente come lui: i suoi proventi di Borsa venivano colpiti dal fisco meno duramente dei guadagni della sua segretaria. Due giorni fa in occasione della giornata mondiale della pace, Benedetto XVI, ha attaccato duramente il «capitalismo finanziario sregolato» (e anche assai poco tassato, si potrebbe aggiungere). 

 

In questo intervallo di tempo, l’Unione Europea ha dato il via libera alla cosidetta «Tobin tax» che colpisce le transazioni finanziarie e undici Paesi, tra i quali l’Italia, l’hanno adottata o la stanno per adottare. In Francia, dopo che la Corte costituzionale ha bocciato la «tassa sui ricchi», il governo ha riaffermato la volontà di procedere in quella direzione e nel suo grigio e frettoloso discorso di fine anno, il presidente Hollande, ha ribadito la necessità di un maggior contributo dei ricchi al risanamento delle finanze pubbliche. In Italia, l’Agenda Monti punta a una riduzione del prelievo fiscale complessivo dando la precedenza ai redditi più bassi.

 

Tutto questo individua un ritorno alla socialdemocrazia degli Anni Sessanta e Settanta? Non esattamente. Le riduzioni del carico fiscale a partire dai redditi più bassi e lo spostamento del carico stesso dai redditi più bassi a quelli più alti sembrano semplicemente rappresentare un tentativo globale per uscire dalla crisi, un obiettivo che non è stato raggiunto con la stampa di nuova moneta. Un alleggerimento fiscale di mille euro ai cittadini dai redditi bassi produce un aumento più elevato di domanda rispetto a mille euro di alleggerimento fiscale a cittadini dai redditi elevati. I primi, infatti, spenderanno tutto o quasi tutto per recuperare un livello di consumi perduto o per effettuare consumi forzosamente rinviati, mentre lo stile di vita e il livello dei consumi dei secondi potrebbe non esserne quasi influenzato. Una diversa distribuzione del carico fiscale può quindi essere uno strumento adatto a far ripartire i meccanismi inceppati dell’economia globale. Nel medio e lungo periodo, invece, i livelli di tassazione dei vari scaglioni di reddito paiono invece tutti da discutere. 

 

In realtà, per rilanciare l’economia, a chi ha redditi (e capitali) elevati si deve chiedere non tanto di consumare di più quanto di investire di più, di rischiare di più. Purtroppo, negli ultimi vent’anni non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, i maggiori redditi dei contribuenti di fascia alta non sono andati in questa direzione ma si sono tradotti soprattutto in impieghi finanziari scarsamente collegati con l’economia reale. Se questo comportamento non cambia, una delle condizioni di base in un sistema nel quale possano coesistere Stato e mercato, verrà a mancare: avremmo un’economia con scarsa crescita tendenziale e una società sempre più diseguale. 

 

In questa situazione, le istanze - portate avanti da alcune forze politiche italiane - di pura e semplice eliminazione di imposte impopolari come l’Imu, che, colpendo il patrimonio immobiliare, gravano maggiormente sui più ricchi, appaiono dissonanti con quelle degli altri Paesi avanzati e prive di veri effetti sulla crescita. 

 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/01/03/cultura/opinioni/editoriali/l-economia-puo-ripartire-dal-fisco-fPFwaAZOvii5RUStIKxguI/pagina.html
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« Risposta #163 inserito:: Gennaio 24, 2013, 05:57:08 pm »

Editoriali
24/01/2013

Tutti sconfitti nella guerra delle valute

Mario Deaglio


Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha deciso di spostare per un giorno la campagna elettorale italiana sulle nevi svizzere. Dal punto di vista della finanza internazionale, l’Italia è l’unico Paese, tra quelli a rischio, che (forse) «ce l’ha fatta», anche se a prezzo di sacrifici per l’economia reale maggiori del previsto e per questo è stato invitato a tenere, nel centro turistico svizzero di Davos, il discorso di apertura del World Economic Forum, una sorta di «salotto buono» della globalizzazione, luogo d’incontro di politici e banchieri, industriali e finanzieri di primo livello talvolta descritto come l’internazionale dei ricchi. 

 

Pur essendo un «salotto buono», quest’anno il World Economic Forum non è certo un salotto allegro. La cancelliera Angela Merkel è giunta a Davos sotto il peso di una sconfitta elettorale in un’importante elezione regionale, a otto mesi dalle elezioni politiche. I rappresentanti degli Stati Uniti vi sono arrivati sotto il peso di un collasso fiscale solo rinviato dal recente accordo al Congresso. 

 

Il ministro francese dell’economia, Pierre Moscovici ha portato con sé a Davos l’assillo di un deficit pubblico che cresce troppo; il primo ministro britannico Cameron quello di un’economia che cresce troppo poco e, anche per questo, vuol lanciare un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. 

La scontentezza non riguarda solo i leader: in un sondaggio effettuato ieri dalla Cnn tra i visitatori del suo sito economico, in quasi tutti i Paesi avanzati il 65-70 per cento delle risposte concorda sul fatto che viviamo in tempi duri. Fanno eccezione la Germania, verso il basso (solo il 43 per cento) e l’Italia verso l’alto (79 per cento). Come se questo malcontento non bastasse, il mondo ricco si trova stretto tra due tenaglie, una politico-strategica e una monetaria. 

 

Dal punto di vista politico-strategico, l’assalto islamista a Is Amenas, nel deserto algerino fa scendere un brivido lungo la schiena: data per defunta o irrilevante, Al Qaeda si è in realtà rivelata capace di un grave attacco di sorpresa nel settore energetico nel quale la vulnerabilità delle economie avanzate è estrema. Nell’Africa occidentale non solo i deserti ma anche ampie aree di Paesi come la Nigeria sono ormai sostanzialmente in mano agli islamisti. Contemporaneamente, il rumore delle armi rischia di rovinare la festa economica dell’Asia: tra due Paesi tradizionalmente prudenti, come Cina e Giappone, per il possesso delle disabitate isole Senkaku e tra India e Pakistan, entrambi potenze nucleari. Infine, subito dopo la sua risicata vittoria elettorale il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha usato toni durissimi contro l’Iran, quasi una dichiarazione di guerra.

 

Se le guerre reali sono, per fortuna, solo possibilità abbastanza remote, i partecipanti all’incontro di Davos si trovano davanti la realtà di nuove guerre finanziarie. Nel giro degli ultimi due anni, la fiducia in una grande ripresa economica si è dissolta, gli interessi nazionali hanno cominciato a divergere. La collaborazione tra le banche centrali è ormai quasi soltanto di facciata ed è stata sostituita da una competizione per svalutare al massimo la propria moneta, portar via agli altri Paesi, grazie al basso cambio, quote del mercato internazionale e rilanciare così la propria economia, senza curarsi dell’interesse collettivo alla crescita.

 

Nelle ultime settimane il Giappone ha annunciato un programma-urto di spesa pubblica finanziata da nuova moneta con lo scopo dichiarato di far scendere il cambio per favorire le esportazioni nipponiche e stimolare l’economia. Il dollaro, però, si era mosso per primo su questa strada offensiva, con la creazione in grande stile di nuova moneta (la terza volta dall’inizio della crisi) che ha depresso il cambio del dollaro nei confronti dell’euro facendogli perdere, da luglio, all’incirca il 10 per cento del suo valore. E’ una tradizionale strategia americana quella di far leva su un cambio debole che rende meno care agli stranieri le merci esportate. In passato, il successo era però più facile perché non c’erano sostituti al dollaro; ora il dollaro può essere rimpiazzato dall’euro e, in piccolissima parte, anche dallo yuan cinese. 

 

La Cina e molti altri Paesi, tra i quali il Brasile, si difendono dall’assalto dei dollari appena stampati scoraggiando con imposte, o addirittura vietando, importazioni e investimenti esteri sul loro territorio. L’aggressività della svalutazione monetaria provoca così, dall’Argentina alla Russia, un crescente protezionismo. Nel nuovo clima protezionistico, che dissolve molte illusioni sui vantaggi dei mercati totalmente liberi, persino Canada e Stati Uniti hanno bloccato negli ultimi mesi gli acquisti di importanti imprese nazionali da parte di acquirenti stranieri.

 

Per fortuna, la guerra delle valute e la sua appendice protezionista non producono morti o distruzioni fisiche. Contribuiscono però a creare disoccupati - più di 200 milioni nel mondo, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con un aumento di 67 milioni dall’inizio della crisi – e aspettative negative. La «malattia italiana» che il presidente del Consiglio ha presentato senza veli a Davos, si configura così come un caso acuto di una malattia mondiale contro la quale né i politici né gli economisti sembrano avere cure miracolose ma solo la tenue e non del tutto convincente promessa di una lenta guarigione: un male comune che, a dispetto del proverbio, proprio non ci procura un mezzo gaudio.

 

mario.deaglio@unito.it 

da - http://lastampa.it/2013/01/24/cultura/opinioni/editoriali/tutti-sconfitti-nella-guerra-delle-valute-RmEDXHUQqzHNs7Txw9SIrJ/pagina.html
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« Risposta #164 inserito:: Gennaio 30, 2013, 05:29:23 pm »

Società
20/01/2013

La sfida internazionale per una Fiat più moderna

focus  L’Avvocato dieci anni dopo   
 

In anticipo sui tempi, puntò sui mercati esteri.

E fu ponte tra l’Italia e il mondo

Mario Deaglio


Gianni Agnelli salì ai vertici della Fiat, nel 1966, dopo che, con un’espansione industriale che aveva avuto del miracoloso, l’Italia aveva riempito i mercati europei di prodotti innovativi e a basso costo come scooter e utilitarie, frigoriferi, macchine per scrivere e nuovi prodotti alimentari. L’economia italiana si stava modernizzando con un’internazionalizzazione aggressiva, gli italiani erano i «cinesi» di un’Europa che cercava di diventare un mercato unico. Di questo tentativo italiano di modernizzazione-internazionalizzazione, la Fiat poteva essere considerata la punta di diamante. 

 

Si trattava di un impero industriale oggi difficilmente immaginabile, che spaziava dal materiale ferroviario ai motori marini, dagli aerei ai trattori, dalle costruzioni alla finanza. La Fiat aveva infranto le regole della guerra fredda impegnandosi a costruire una grande fabbrica di automobili in Unione Sovietica e un cacciabombardiere progettato e costruito dalla Fiat – il mitico G.91 - era risultato primo alla selezione della Nato. Oltre centomila lavoratori erano alle sue dipendenze dirette e diverse centinaia di migliaia lavoravano per imprese fornitrici della Fiat.

Secondo un calcolo sommario, in quegli anni, quasi la metà del valore aggiunto dell’industria metalmeccanica italiana derivava, direttamente o indirettamente, dal Gruppo Fiat. La Fiat sovrastava quindi gli altri grandi gruppi privati - Olivetti, Pirelli e la neonata Montedison - e trattava direttamente con i grandi gruppi pubblici, ossia Eni e Iri, il sindacato, il governo, le autorità dell’Unione Europea e aveva contatti e rappresentanti ai massimi livelli nei principali Paesi del mondo. 

 

Per Agnelli, modernizzazione significava anzitutto espansione produttiva internazionale. Diede quindi nuovo impulso all’internazionalizzazione del gruppo anche in risposta alla sempre maggiore competizione interna, con i produttori tedeschi e francesi che cominciavano ad affacciarsi in forze sul mercato italiano mentre lo stesso Iri sfidava la Fiat lanciando lo stabilimento di Pomigliano d’Arco dove venne costruita l’Alfasud, una vettura dalle caratteristiche medie, in concorrenza (con i sussidi pubblici) con i modelli usciti da Mirafiori. Agnelli tentò, con molto anticipo sui tempi, di superare le dimensioni nazionali dell’industria dell’auto, acquisendo dalla famiglia Michelin il controllo della francese Citroen, ma quest’unione non decollò per l’ostilità del governo francese e dovette essere abbandonata dopo pochi anni. Avviò quindi l’espansione in Spagna, Yugoslavia, Polonia e in Brasile. La presenza su quest’ultimo mercato si rivelò più tardi, in anni finanziariamente molto difficili per la Fiat, l’ancora di salvezza del gruppo torinese. 

 

Per le sue caratteristiche personali, l’azione di Gianni Agnelli si inserì perfettamente in questo quadro complesso e rappresentò, per un buon quarto di secolo, un importante elemento di raccordo tra la realtà italiana e quella internazionale. Parlava un buonissimo inglese in anni in cui i politici italiani al massimo lo balbettavano e aveva rapporti diretti con il mondo politico americano mentre i politici italiani facevano la fila per essere ricevuti al Dipartimento di Stato. Una fila che spesso Agnelli riusciva ad accorciare. 

La modernizzazione italiana non aveva però solo una dimensione produttiva e negli anni 60 Agnelli era convinto che lo sviluppo del Paese passasse attraverso un’apertura, sia pure parziale e cauta, alle istanze e ai problemi di una società in rapido mutamento. Si trovò così a rappresentare un altro cruciale elemento di raccordo, quello dei rapporti tra la cultura italiana, largamente di sinistra, e la grande industria. Ciò fu possibile anche perché era intellettualmente curioso delle posizioni altrui e questa curiosità affascinava moltissimi intellettuali. Per conseguenza, una parte non piccola del mondo politico-culturale italiano vide in lui un contrappeso al conservatorismo, talora assai greve, di altri personaggi di spicco dell’industria e persino una garanzia contro eventuali progetti di colpi di Stato.

 

Oltre a essere a suo agio con l’inglese e nei contatti internazionali, se la cavava con il piemontese e sapeva occuparsi di problemi di entità molto minore; fu per oltre trent’anni sindaco di Villar Perosa, il comune della Val Chisone dal quale proveniva la sua famiglia, dove aveva sede la Riv (oggi parte del gruppo svedese Skf, forse lo stabilimento che gli era più caro) con l’accordo di fatto del locale Partito Comunista che esprimeva la maggioranza del consiglio. 

 

Forse proprio a Villar Perosa fece il suo apprendistato nelle relazioni politico-sindacali ma queste sue relative simpatie a sinistra non misero certo la Fiat al riparo da dure stagioni di lotte sindacali. «Agnelli-Pirelli ladri gemelli» era lo slogan più tipico dei cortei che percorrevano le città italiane durante gli scioperi, ma, al di là di questa esecrazione quasi rituale, ai vertici i canali di dialogo rimasero sempre aperti in un clima di rispetto personale reciproco, in particolare con Luciano Lama, il leader della Cgil. Riscuoteva un grande rispetto personale – che spesso copriva un dissenso anche profondo su singoli problemi – anche nel mondo industriale. Fu così che, nel 1974 divenne presidente di Confindustria, una carica che assunse senza troppo entusiasmo per una certa ritrosia ai ruoli pubblici e per la percezione di una «diversità» crescente della Fiat dal resto dell’industria italiana; la ricoprì per un solo biennio, facendosi poi sostituire da Guido Carli. 

Quelli della presidenza di Confindustria furono però due anni cruciali in cui proprio i rapporti diretti tra Agnelli e Lama consentirono la conclusione dell’accordo sul punto unico di contingenza che introdusse un meccanismo fortemente egualitario nella dinamica salariale. Con il senno di poi, è facile scorgere i limiti di quest’accordo che gravò sui conti delle imprese e non ridusse la conflittualità; forse però Agnelli e Lama avevano intuito il pericolo insito in un’Italia dilaniata, per così dire, da un benessere troppo rapido e non troppo ben distribuito. Senza la loro intesa, gli anni di piombo avrebbero potuto avere un esito molto più distruttivo. 

 

Di certo, Agnelli e Lama (e dietro a loro la grande industria e il sindacato operaio di massa) furono lasciati soli da una classe politica sempre più distante dalla realtà dell’economia. Lo dimostra un episodio, riferito da una buona fonte: appena firmato l’accordo sulla contingenza, Agnelli telefonò ad Aldo Moro, allora Presidente del Consiglio per dargli la grande notizia. Moro si complimentò in modo sbrigativo ma fermò subito Agnelli che voleva esporgli il contenuto, dicendo: «Se l’avete fatto voi è ben fatto». Come un numero crescente di politici italiani, Moro valutava prevalentemente la portata politico-sociale dell’intesa e si disinteressava del suo contenuto e dei suoi effetti economici. 

 

La posizione di Moro fece scuola e la distanza tra grande industria e politica andò aumentando: l’Olivetti fu lasciata affondare con indifferenza mentre ai problemi di finanziamento del gruppo Fiat, che imposero una sempre maggiore specializzazione produttiva, i governi reagirono cercando di favorire sistemazioni finanziarie assai più che strategie produttive. Alla fine del 1976, fece il suo ingresso nella Fiat il capitale libico; nel 1980, la «marcia dei quarantamila» segnalò la fine del lungo e tormentato equilibrio tra Fiat e sindacato operaio, nel 2001 l’alleanza con General Motors parve aprire nuovi orizzonti, durò invece assai poco. In tutto questo lungo e tormentato periodo, la figura di Gianni Agnelli rappresentò una garanzia di continuità, il perdurare dei valori. Alla morte, nel 2003, decine di migliaia di persone gli resero omaggio, un fatto senza precedenti per un leader industriale e non a caso: tutti sapevano bene che si trattava del tramonto di un’epoca, un tramonto che per oltre un decennio Agnelli era riuscito a contrastare.

mario.deaglio@unito.it 


da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/la-sfida-internazionale-per-una-fiat-piu-moderna-3zeYZjrTrS7vZcXh2ArwJK/pagina.html
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