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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 102112 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Settembre 10, 2011, 10:54:57 pm »

10/9/2011

Germania, troppa virtù fa male

MARIO DEAGLIO

Le dimissioni a sorpresa di Juergen Stark - rappresentante tedesco nel comitato esecutivo della Banca Centrale Europea e «padre» del «patto di stabilità» al quale è ancorato l’euro - sono il risultato di uno specifico e crescente malessere tedesco più che della solita debolezza europea. Si accompagnano a molti interrogativi sulla capacità della Germania di continuare a essere indefinitamente la «prima della classe» e sulle linee-guida della politica economica del governo tedesco e, naturalmente, complicano gravemente il panorama economico-finanziario del continente.

Sullo sfondo c’è il clamoroso taglio da parte dell’Ocse alle previsioni della crescita tedesca, pari all’incirca a zero nel secondo trimestre del 2011 con la possibilità di scendere a -1,4 per cento nel quarto trimestre. Il che può far sembrare l’Italia maestra di crescita economica e fa sospettare una verità molto scomoda: il «modello tedesco» di ripresa, che pur presenta molti lodevoli aspetti, specie nella gestione delle imprese, non sta funzionando a livello di sistema.

Del resto la «virtuosa» Germania è molto meno virtuosa di quel che sembra: come ha scritto Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di tre giorni fa, se al debito pubblico si aggiungono i debiti del KfW (un ente pubblico simile al nostro vecchio Iri) il debito complessivo di Berlino sale dall’80 al 97 per cento del prodotto interno lordo. Si aggiungano l’esposizione di molte banche tedesche a titoli «difficili» - sovrani e non - e le non brillanti finanze di molti Laender, le regioni tedesche.

Di fronte al manifestarsi di queste debolezze, il liberismo tedesco che pone in cima alle priorità il pareggio del bilancio di tutti i Paesi della zona euro, non sa bene quali risposte offrire. L'Fdp, il partito liberale tedesco, sovente schierato su posizioni ultra-liberiste, è uscito letteralmente polverizzato dalle ultime elezioni regionali, svoltesi nel Meclemburgo domenica scorsa, dove è crollato dall’8,8 al 2,7 per cento, a coronamento di una stagione di sconfitte durissime in elezioni locali; queste sconfitte hanno, tra l’altro, provocato le dimissioni dalla carica di segretario generale del partito del ministro degli Esteri, Westerwelle. Se si dovesse andare oggi alle urne il partito avrebbe, secondo i sondaggi, meno del 5 per cento dei voti e nessun suo rappresentante entrerebbe nel Parlamento federale.

Le dimissioni di Stark, un economista di stampo nettamente liberista, che ha svolto tutta la sua carriera all’interno della Bundesbank, la banca centrale tedesca, vanno collocate in questo quadro difficile. Stark, «diplomatico» e gradualista, si era opposto alla ristrutturazione del debito greco e riteneva necessario che le banche che avevano aiutato la Grecia a indebitarsi l’aiutassero ora a sdebitarsi, prendendo su di sé una parte degli oneri del rimborso. Possono perciò essere lette come un’ammissione di impotenza più che come una protesta nei confronti dell’aiuto che la Banca Centrale Europea sta dando ai Paesi in difficoltà, tra cui l’Italia, con l’acquisto dei loro titoli sovrani per sostenerne la quotazione. Quest’aiuto, insomma, serve a poco e non porta ad alcuna soluzione.

Le sue dimissioni appaiono direttamente collegabili a quelle di un altro importante banchiere centrale tedesco, Axel Weber, presidente della Bundesbank che lasciò il suo incarico all’inizio di aprile, anch’egli per «motivi personali», rinunciando alla possibilità di succedere al governatore Trichet a capo della Bce e rifugiandosi a fare il professore all’Università di Chicago, cittadella (oggi forse assediata) del liberismo spinto.

Dietro a tutte queste dimissioni e alle sconfitte elettorali c’è l’incapacità del liberismo di dare risposte immediatamente positive alla crisi, ossia risposte che non passino per una riduzione ulteriore della spesa pubblica e un aumento della disoccupazione. La Germania credeva di essere immune da queste scelte scomode e adesso sa di non esserlo. Sa anche che, se lascia affondare l’Italia e la Spagna (ma neppure la Francia è in condizioni sicurissime, tanto che sta apprestando misure non troppo dissimili da quelle italiane) avrà ripercussioni importanti sulla propria economia: le conseguenze di una crisi dura di questi due Paesi sull’economia tedesca sarebbero almeno nell’ordine di grandezza di un milione di disoccupati in più. Questo sarebbe il prezzo di insegnare agli altri la «virtù finanziaria». Forse i tedeschi stanno imparando che in economia, così come nessun pasto è gratis, neppure la virtù si può praticare senza conseguenze.

Un eventuale governo rosso-verde (ossia una coalizione tra il partito socialista, altre formazioni della sinistra tedesca e i «verdi» ecologisti) che succedesse all’attuale avrebbe certo molto più a cuore il numero dei disoccupati, che cercherebbe di ridurre al minimo, che il saldo del bilancio pubblico e l’ammontare del debito pubblico.

Il compito di Mario Draghi, prossimo governatore della Banca Centrale Europea, che assumerà il suo incarico a novembre, si delinea come quello di evitare alla zona euro la caduta nel baratro che l’insistenza eccessiva sulla virtù finanziaria le ha spalancato davanti. Per questo non saranno certo sufficienti le risorse a disposizione della Banca e occorrerà agire cercando di imporre ai mercati regole più restrittive che facciano da contrappeso alle regole restrittive di finanza pubblica che gli Stati si sono autoimposti.

Per l’Italia, al momento, c’è ben poco da fare: con una manovra che ridurrà pressoché a zero la nostra già scarsissima crescita, non rimane altro che aspettare le ondate della tempesta monetaria e finanziaria, contro la quale abbiamo pochissime difese, sperare che non facciano troppi danni e diano magari una spinta decisiva al rinnovamento della nostra classe politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9179
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« Risposta #121 inserito:: Settembre 25, 2011, 11:07:40 am »

23/9/2011

Separare la speculazione dal credito

MARIO DEAGLIO

Un unico termine è veramente appropriato per descrivere la situazione di ieri sui mercati internazionali, una situazione in cui tutto è andato giù, le azioni come i titoli di stato, il petrolio come l’oro, le piazze asiatiche come quelle europee e americane. Si tratta di un vocabolo che i mezzi di informazione usano malvolentieri per le implicazioni negative che evoca. Questo termine è «panico», un senso misterioso di sgomento a tutto campo, una voglia di scappare a qualsiasi costo che fa abbandonare, a chi ne è vittima, qualsiasi pretesa di razionalità.

Ebbene, per diverse ore, ieri, gran parte degli operatori finanziari di tutto il mondo è stata vittima di un gigantesco attacco di panico. Quel che più colpisce non è l’entità della caduta dei listini (molto rilevante, ma ormai ci siamo abituati) bensì la qualità di tale caduta, il senso di confusione, l’incapacità di esprimere per più di dieci minuti comportamenti coerenti, la tendenza ad accomunare, in maniera isterica, titoli «buoni» e «cattivi» in un unico grande fascio da bruciare sul falò della caduta dei listini.

Come è spesso avvenuto negli ultimi mesi, sperabilmente già oggi e nei prossimi giorni le angosce si placheranno e rialzi temporanei attenueranno, o addirittura cancelleranno, le cadute di ieri. Questa auspicabile pausa - perché solo di una pausa verosimilmente si tratta - lascerà tempo per pensare con un minimo di pacatezza ai rimedi alla grave situazione dell’economia e della finanza; una situazione, tanto per intenderci, che può avere su un Paese come l’Italia effetti ben più gravi di quelli, già molto seri, delle attuali disfunzioni politiche.

E’ prima di tutto necessario constatare che ci troviamo di fronte a un fallimento generalizzato di tutte le politiche anticrisi. L’attacco di panico di ieri si è infatti verificato immediatamente dopo l’annuncio della Fed, la banca centrale americana, dell’«operazione twist», ossia della vendita da parte della stessa Fed di una grande quantità di titoli a breve e del contemporaneo acquisto di titoli a lungo termine, che infatti sono saliti di prezzo mentre parallelamente il loro rendimento è calato. In questo modo la Fed spera(va) di stimolare gli operatori a uscire dal circuito finanziario i cui rendimenti erano stati abbassati per investire nell’economia reale e attivare la crescita. Ha probabilmente ottenuto l’effetto contrario.

L’ennesimo rimedio della Fed, che fa seguito a due ondate di immissione di nuova moneta in enormi quantità, i cosiddetti quantitative easing, non sta funzionando, come non sta funzionando nessuna delle misure che, dal 2009 a oggi, sono state tentate sulle due sponde dell’Atlantico per combattere la crisi. C’è una generale impressione di impotenza, di cui possono essere ben prese a simbolo le norme di Basilea 3 che regolano l’attività delle banche e le obbligano a iperproteggersi e proprio per questa protezione eccessiva fanno sì che la liquidità non riesca a trovare la strada dell’economia. E nel frattempo si moltiplicano i sintomi dell’insofferenza dell’opinione pubblica, come dimostra - ultimo episodio tra tanti - l’«occupazione», alcuni giorni fa, di Wall Street, la strada in cui ha sede la Borsa americana, simbolo del capitalismo finanziario, da parte di un numero non piccolissimo di manifestanti.

La consapevolezza di non avere una ricetta dovrebbe indurre governi e banche centrali ad atteggiamenti più pragmatici, mentre invece avviene l’esatto contrario: le agenzie di rating rendono più negativo il giudizio sul debito pubblico di un Paese o sul bilancio di una banca ed ecco che mercati e governi immediatamente si adeguano con conseguenze che generalmente peggiorano la situazione di quel Paese o di quella banca. Se la tendenza prosegue immediatamente si chiede a quel Paese di varare nuove misure. Si studiano con colossale indifferenza provvedimenti che colpiscono duramente non solo i bilanci famigliari ma i progetti di vita di milioni di persone sulla base dell’andamento di pochi giorni o poche settimane delle quotazioni dei titoli pubblici di quel Paese.

Il vero coraggio che oggi i cittadini di tutti i Paesi colpiti dalla crisi devono richiedere ai loro governanti è quello di sottrarsi almeno parzialmente alla tirannia anonima del mercato mondiale. Il che significa sottoporre i mercati e gli operatori a regole che riducano la carica distruttiva, che questi mercati purtroppo hanno dimostrato di possedere senza distruggerne il meccanismo che invece presenta numerosi aspetti positivi; regole che limitino il potenziale speculativo senza alterare il funzionamento base dei mercati finanziari.

Un esempio di sviluppi in questa direzione viene dalla Gran Bretagna, dove il governo ha introdotto una nuova legge che dovrebbe separare, all’interno delle banche, il circuito speculativo dal normale circuito del credito. Il circuito speculativo dovrebbe poi essere sottoposto a norme più severe: non si può riservare la severità ai cittadini normali e poi pensare tranquillamente che al mondo della finanza internazionale tutto debba essere permesso.

mario.deaglio@unito.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9232
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« Risposta #122 inserito:: Ottobre 04, 2011, 05:07:47 pm »

4/10/2011

La vera partita per il Paese

MARIO DEAGLIO

Con la decisione della Fiat di uscire dalla Confindustria, l’amministratore delegato Marchionne si configura una volta di più come avversario del «gattopardismo», un termine che vuole indicare un cambiamento di facciata che lascia intatti i sottostanti meccanismi e rapporti di potere. Derivato da «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, dove il nipote del protagonista, Tancredi, pronuncia una frase divenuta emblematica della realtà italiana: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» descrive purtroppo molto bene la nostra disperante immobilità.

Marchionne, può essere ammirato o criticato, può trovare consensi o dissensi ma di sicuro non è un Gattopardo. La sua azione di amministratore delegato della Fiat continua a configurarsi come il principale elemento di discontinuità, o, se si preferisce, di rottura, con la tradizione italiana di rapporti tra imprese e politica, tra imprese e mondo del lavoro, tra imprese e estero.

La decisione del 2009 di correre l’avventura americana con l’ingresso nel capitale della Chrysler, un’impresa più grande della Fiat - di cui la Fiat oggi detiene la maggioranza assoluta - non rientra certo negli schemi normali del capitalismo italiano, spesso molto attenti a non «offendere» i grandi concorrenti stranieri ma piuttosto a collaborare con loro; così come non vi rientrano gli accordi sindacali relativi agli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori e ex Bertone che hanno, in varia misura e con varie modalità, scardinato la bene oliata macchina delle normali contrattazioni sindacali; e il disinteresse che in più di un’occasione recente la Fiat ha mostrato verso gli sgravi fiscali per sostenere la domanda di auto in Italia.

La strategia degli investimenti di un gruppo delle dimensioni della Fiat non può non condizionare in gran parte la politica industriale dell’Italia, specie quando questa politica, come è successo negli ultimi 2-3 anni, può considerarsi praticamente inesistente. Quella che si è venuta definitivamente precisando con gli annunci di ieri è sicuramente una strategia scomoda, che, per di più, va contro a molta saggezza convenzionale. Il ritorno in Italia dalla Polonia di lavorazioni industriali «pesanti», la conferma di un ruolo tecnologico-produttivo importante per lo stabilimento torinese di Mirafiori, il tentativo di riaccendere la competizione della Fiat nel settore delle auto di qualità, in competizione con grandi case straniere, a partire dallo stabilimento ex Bertone sono mosse audaci, specie in un momento di difficile congiuntura mondiale come quello presente. Sono scommesse importanti, dall’esito non scontato, in un mondo industriale che non ama molto scommettere e che cerca spesso garanzie pubbliche e coperture bancarie, oltre che l’assenso informale del sindacato, a gran parte delle proprie iniziative.

Tutto ciò non significa che il mondo industriale non possa trovare una sua dimensione internazionale o che l’ambiente in cui operano le imprese italiane sia oggettivamente privo di punti di forza; di sicuro, però, tale ambiente si è rivelato poco adatto al quadro competitivo che, per il momento almeno, prevale nel mondo. Per valutare bene la portata dell’inadeguatezza italiana occorre ricordare che da vari anni nessuna grande impresa, italiana o estera che sia, compie investimenti importanti nel Mezzogiorno - se si eccettua qualche iniziativa dell’industria pubblica - e che il resto d’Italia vive in un clima economico stagnante in marcato contrasto, anche in questo periodo di crisi, con il carattere estremamente dinamico dell’economia mondiale. Una ricerca del Fraser Institute che viene presentata in questi giorni a Torino dal Centro Einaudi, pone l’Italia al 70˚ posto nel mondo e al terzultimo in Europa per quanto riguarda la libertà economica; nel 2008 era al 66˚ posto, nel 2003 al 50˚, 10 anni fa al 35˚.

Questi numeri parlano da soli. O forse no. L’Italia può anche legittimamente scegliere la strada del «piccolismo», dell’irrilevanza internazionale, del Paese-museo; delle relazioni sindacali in cui si stabilisce che tutto cambi, come con l’articolo 8 della recente manovra che consente di regolare con accordi anche i licenziamenti individuali, salvo poi procedere a un’intesa Confindustria-sindacato che impegna i contraenti a non applicare tale articolo. Precisamente tale intesa è stata la causa prossima dell’uscita della Fiat dalla Confindustria.

L’importante in questa vicenda non è stabilire se Marchionne abbia ragione o torto; è prima di tutto importante che gli impegni presi vengano rispettati e sin qui questo è successo. Occorre poi che l’Italia, di tutti i colori politici e di tutte le convinzioni, decida se vuole cercar di giocare una partita economica di primo piano. Se lo vuol fare non potrà difendere i diritti attuali di tutti se non riducendo di fatto i diritti di chi è senza lavoro e delle nuove generazioni, come purtroppo sta succedendo. Di fronte a alternative del genere, rinviare le scelte e fare i Gattopardi non serve a nulla.

mario.deaglio@unito.it
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9279
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« Risposta #123 inserito:: Ottobre 09, 2011, 06:13:32 pm »

9/10/2011

Banche, una riforma necessaria

MARIO DEAGLIO

Il governo tedesco, e con esso l’Unione Europea, è pronto a spendere qualsiasi somma per salvare le grandi banche, le cui gravi difficoltà sono emerse nelle ultime settimane, praticamente senza porre condizioni preliminari. Lo stesso governo tedesco e la stessa Unione Europea non sono disposti ad aiutare, oltre gli impegni già presi, i Paesi in difficoltà - e soprattutto la Grecia - se prima questi Paesi non adempiono a condizioni preliminari molto pesanti con riduzione sensibile del livello di vita della maggioranza dei cittadini per un periodo certamente non breve.

Due pesi e due misure, quindi. In questi due pesi e due misure sta la contraddizione di valori alla base della crisi che stiamo vivendo, che è precisamente crisi di valori prima di essere crisi di meccanismi finanziari. Tale contraddizione è venuta lentamente alla luce nel corso degli ultimi mesi, man mano che si dissolveva l’ottimismo superficiale di chi riteneva prossima una rapida ripresa. In altre parole, l’attuale capitalismo finanziario non sembra fatto per le persone, ma per le grandi banche internazionali, considera di fatto secondari gli interessi della gente rispetto alla stabilità del sistema, delle stesse grandi banche.

Non si tratta certo di una posizione priva di logica. I governi che si preparano ad aiutare ancora una volta le banche tedesche e francesi, belghe e olandesi sanno bene che le banche sono un ingrediente essenziale del sistema dei pagamenti e che, se le banche venissero lasciate fallire, la vita di tutti i giorni sarebbe gravemente a rischio perché la gente non saprebbe più come pagare e come farsi pagare.

Non è un caso che, in Grecia e altrove, stiano facendo la loro ricomparsa forme antiche di scambio senza moneta, tra gente che di moneta ne ha poca, facilitate da uno strumento moderno come il computer: sul computer cerco chi sia disposto a darmi lezioni di pianoforte in cambio, tanto per fare un esempio, della tinteggiatura della casa.

Solo una quantità molto limitata di scambi può però svolgersi senza moneta. E quindi le banche e le istituzioni affini vanno tenute a galla anche se questo può implicare pesanti sacrifici individuali e collettivi. Sin qui siamo nella sfera del ragionevole. Ciò che non è ragionevole, è invece che per le banche così tenute a galla non cambi nulla o quasi: non i dirigenti, non le retribuzioni, non le regole e le procedure interne né quelle dei mercati. Ci si limita a turare il buco e a sperare che le banche abbiano «capito la lezione» e si comportino meglio in futuro: così ha fatto il presidente Obama che ha di fatto apportato solo mutamenti secondari ai rimedi anticrisi abbozzati dal suo predecessore, equivalenti di fatto a dare carta bianca alle banche su tutto.

Il fallimento della ripresa produttiva sta contrapponendo questo mondo bancario in cui non cambia nulla a un mondo reale in cui milioni di persone sono costrette a ridimensionare stili di vita, ridurre speranze sul futuro, vivere in maggiore incertezza. La contrapposizione tra i cambiamenti degli uni e i non-cambiamenti degli altri provoca «indignazione», è cioè un’offesa alla dignità prima ancora che un danno materiale. L’indignazione sta correndo veloce, spesso in forme pacifiche come i cortei sempre più lunghi di chi a New York sfila contro la Borsa proprio a Wall Street dove la Borsa ha la sua sede. Nei giorni scorsi si sono aggiunte le manifestazioni degli studenti italiani che hanno lanciato uova e vernice contro sedi bancarie, anche se per la verità le banche italiane, soggette a una vigilanza molto severa, sono pressoché totalmente estranee a queste situazioni.

L’indignazione esige una risposta che non può certo essere repressiva ma deve portare a un nuovo modo di funzionare del sistema bancario. Ci stanno provando gli inglesi con un progetto di riforma bancaria mirante a separare nettamente, all’interno delle singole banche, la normale attività bancaria dall’attività di investimento e di speculazione; si tratterebbe in parte di un ritorno al passato, ossia alle riforme bancarie con le quali si arginò la crisi degli Anni Trenta, che ridurrebbe sostanzialmente il volume delle attività finanziarie più tipicamente speculative, il potere e l’importanza delle grandi banche.

Vi è una sottile ironia nel fatto che la finanza internazionale inviti i singoli Paesi a «fare le riforme» (Jean-Claude Trichet, il governatore uscente della Banca Centrale Europea l’ha ripetuto, quasi meccanicamente, per anni in pressoché tutte le sue dichiarazioni pubbliche) il che implica un’esortazione a realizzare complessi programmi di ingegneria sociale, mentre la stessa finanza internazionale non riesce a riformare se stessa. Mario Draghi, che è sul punto di prendere il posto di Trichet, potrebbe avere maggiori possibilità di successo, data la sua esperienza di prima mano della complessità e della necessità del cambiamento finanziario, quale presidente del Financial Stability Board, l’unico organismo internazionale interamente dedicato allo studio e al miglioramento del sistema finanziario internazionale.

Alle riforme che riguardano «la gente», più che mai necessarie, specie in un Paese come l’Italia, come lo stesso Draghi ha ricordato in un vibrante intervento venerdì scorso, devono fare da contrappunto le riforme che riguardano «le banche», specie nei Paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania e agli Stati Uniti le cui banche sono largamente all’origine della crisi attuale. Senza questo contrappunto, senza questo parallelismo ogni progetto di uscita dalla crisi è fondato sulla sabbia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9298
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« Risposta #124 inserito:: Ottobre 22, 2011, 06:07:00 pm »

22/10/2011

Merkel-Sarkò e la polmonite italiana

MARIO DEAGLIO

L’Europa che è uscita dalla settimana finanziaria conclusasi ieri è un’Europa ben diversa da quella di una settimana fa. Due giorni fa, infatti, in quello che è stato definito il «supervertice» di Francoforte, è nato l’embrione operativo di un governo europeo, una sorta di «esecutivo di fatto», privo di qualsiasi investitura, di durata forse limitata ma dotato, appunto, di forza esecutiva. Tale anomalo governo detiene la chiave delle politiche economiche: nei prossimi mesi, i governi ufficiali di tutta Europa saranno chiamati solo più a mettere a punto nei dettagli, e i Parlamenti soltanto a ratificare, le manovre restrittive – possibilmente con qualche «ricostituente» espansivo – che rappresentano la via europea per tentare di uscire dalla crisi.

Dalle decisioni sui tagli ai bilanci pubblici questo «governo europeo» non potrà escludere la Francia, Paese in cui comincia ad affiorare una situazione strutturale debole, e forse neppure la Germania, dove due giorni fa, all’asta più recente, nessuno voleva più comprare i mitici Bund tedeschi.

E dove ieri è stato reso noto l’indice della fiducia delle imprese tedesche che ha fatto registrare il quarto mese di caduta consecutiva.
E dovrà fare in fretta, perché ai primi di novembre nella città francese di Cannes si svolgerà qualcosa di più del normale festival cinematografico: vi si terrà la riunione dei G-20 (il gruppo delle maggiori economie del mondo, in cui Cina, India e Brasile assumono atteggiamenti sempre più severi) dove gli europei dovranno spiegare perché è bene aiutare l’euro e non lasciarlo affondare.

Questo autonominato «comitato di salute pubblica europea» non è certo la migliore delle soluzioni ma rappresenta l’ultima risorsa di un’Europa che, per almeno due anni, si è gingillata con la crisi e non ha saputo prendere alcuna decisione su nessuno dei problemi importanti che ha davanti. Il suo asse portante è quello tradizionale franco-tedesco, e i suoi membri decisivi sono pertanto il Cancelliere tedesco e il Presidente francese.

Anche se i loro Paesi rappresentano meno della metà della popolazione e del prodotto lordo dell’Unione Europea, tocca a loro l’ultima parola; ne fanno inoltre parte il governatore della Banca Centrale Europea (al supervertice di Francoforte erano presenti sia il governatore uscente, Jean-Claude Trichet sia quello entrante, Mario Draghi) e, quasi a far da segretario e notaio, il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, unico investito di un’autorità europea formale. Il direttore del Fondo Monetario Internazionale, la francese Christine Lagarde, era l’ospite esterno portavoce delle esigenze (non ancora del «diktat») della comunità finanziaria internazionale.

Almeno dal punto di vista dell’informazione e del dialogo con l’opinione pubblica, questa nuova «Europa di fatto» muove però molto male i suoi primi e incerti passi. Anche i più piccoli screzi del confronto Merkel-Sarkozy sono rimbalzati – amplificati e deformati – sulle agenzie di stampa nel giro di poche ore, talvolta di pochi minuti, con l’effetto di una doccia scozzese sulle Borse di tutto il mondo, costrette a un continuo, disordinato saliscendi. Del resto, poche settimane fa, le dimissioni del rappresentante tedesco, Jürgen Stark, dal direttivo della Banca Centrale Europea vennero incautamente rese pubbliche un venerdì pomeriggio, a Borse aperte. I mercati finanziari mondiali persero mediamente il 3 per cento, il che avrebbe potuto essere evitato se la notizia fosse stata divulgata qualche ora più tardi. Una divulgazione a Borse chiuse avrebbe infatti dato tempo ai mercati di valutare (e ridimensionare) la gravità di quelle dimissioni.

Oltre che cercare di parlar meno, la nuova, incerta, Europa finanziaria deve impedire ad altri di parlare troppo. Non è concepibile che i maggiori Paesi del mondo danzino al ritmo stabilito dalle agenzie di «rating» che quanto meno introducono un elemento di confusione, forse favoriscono la speculazione e comunque decidono autonomamente non solo il «voto» a singole banche e Paesi ma anche quali Paesi esaminare e come diffondere le notizie, il che ha accentuato le convulsioni delle Borse. Tutto questo non va: si potrebbe arrivare a proibire almeno temporaneamente l’attività di queste agenzie come ha proposto il commissario europeo ai servizi finanziari, Michel Barnier, e successivamente ad affiancarle, se non a sostituirle, con un servizio veramente indipendente, forse pubblico, con un «bollettino» delle valutazioni da rendersi note a date fisse.

Se si fosse svolto un paio d’anni fa, questo «supervertice» avrebbe quasi certamente annoverato un rappresentante italiano, ma «sic transit gloria mundi», così tramonta la gloria di questo mondo, come ha detto il presidente del Consiglio italiano, in maniera gelida e piuttosto cinica, a proposito della morte del colonnello Gheddafi. In maniera sicuramente meno violenta e meno tragica, le sue parole latine potrebbero purtroppo riferirsi proprio all’Italia: la mancanza di una poltrona italiana al vertice di Francoforte è un chiaro segnale del declino economico del Paese, sempre più evidente nonostante gli sforzi per farlo apparire poco più di un semplice episodio congiunturale. In realtà, l’Italia non ha il raffreddore, ha la polmonite, anche se continua a curarsi come se avesse soltanto il raffreddore in un’Europa che, come dimostra il caso greco, sta perdendo la pazienza con chi fa soltanto finta di esser sano.

mario.deaglio@unito.it
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9349
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« Risposta #125 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:43:32 am »

1/11/2011

A Cannes senza tappeto rosso

MARIO DEAGLIO

Grazie alla nascita di una bambina, il numero degli esseri umani presenti sulla Terra ha superato ieri i sette miliardi. Si tratta di una bambina asiatica, il che, del resto, è ragionevole perché in Asia si concentra più della metà delle nascite; mentre difficilmente avrebbe potuto essere europea, dal momento che dall’Europa proviene una piccolissima percentuale dei nuovi abitanti del pianeta.

Tra una decina d’anni, questa bambina forse leggerà nei suoi libri di scuola che il mutamento relativamente lento degli equilibri mondiali, in atto ormai da un ventennio, ricevette un’accelerazione decisiva un paio di giorni prima della sua nascita. E che in Europa, un continente piccolo e lontano, pieno di vecchi e di debiti - dove di bambini ne nascono pochi e quei pochi hanno crescenti difficoltà a trovare un lavoro stabile e a impostare un proprio programma di vita - si arrivò a un momento cruciale in cui i governanti non sapevano bene come affrontare questi debiti.

E che l’Italia, uno dei Paesi europei di più antica civiltà e di maggior indebitamento pubblico, si trovò nell’occhio del ciclone del mutamento: la fiducia dei mercati internazionali sulle sue possibilità di pagare i debiti toccò nuovi, preoccupanti, livelli minimi.
I dolorosi tagli di successive manovre economiche rischiavano di servire a pagare interessi più alti invece che a ridurre il deficit pubblico.

In questo senso, la giornata di ieri è stata un lungo susseguirsi di notizie economico-finanziarie non incoraggianti. In Italia l’inflazione di ottobre è risalita ai livelli di tre anni fa, anche a seguito dell’aumento dell’Iva introdotto dalla più recente manovra finanziaria, il che la dice lunga sulle possibilità di correzioni indolori dei deficit pubblici; sono contemporaneamente cresciuti anche la disoccupazione e i prezzi alla produzione dell’industria e il temibile «spread», ossia la maggiorazione che misura il «rischio Italia». A livello europeo, l’intesa Merkel-Sarkozy, peraltro ancora poco chiara su diversi punti importanti, non è stata ben ricevuta dai mercati finanziari e l’Ocse ha ridotto praticamente a zero le previsioni di crescita dell’Europa.

Sull’altra riva dell’Atlantico ha avuto inizio la procedura fallimentare di MF Global, grande società di intermediazione finanziaria. I suoi debiti, oltre 40 miliardi di dollari, sono di un ordine di grandezza non troppo distante da quello della Grecia, il fallimento è dovuto anche a speculazioni sbagliate proprio sul debito greco, ma gli attentissimi valutatori delle agenzie di rating se ne sono accorti solo all’ultimo momento.

Sempre ieri è stato reso noto che le famiglie americane negli ultimi mesi hanno ridotto i risparmi a meno del 4 per cento dei loro redditi; non hanno soldi per acquistare nuove case, per le quali non si escludono nuove cadute di prezzi. E molti, per di più, sono al freddo: oltre due milioni di abitazioni sulla costa orientale sono rimaste a lungo prive di luce e calore grazie a una tempesta di neve fuori stagione (e all’inefficienza della rete elettrica americana, nella quale si è investito poco perché i mercati hanno premiato assai più le operazioni finanziarie che quelle reali).

È con queste premesse che tra due giorni si riuniranno a Cannes, in Francia, i rappresentanti delle venti maggiori economie mondiali. I mezzi di informazione talvolta li presentano come architetti di piani che rilanceranno l’economia globale, rimetteranno a punto i bilanci pubblici dei Paesi europei, ridisegneranno le istituzioni internazionali, ci faranno uscire (quasi) subito da questa crisi già troppo lunga. È molto più probabile che si tratti di uomini e donne spaventati di fronte ad andamenti di congiuntura e mercati che non sono in grado di controllare e dirigere, relativamente impotenti di fronte a una malattia economica che non segue gli andamenti previsti dai libri di testo. E che, come avverte un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, anch’esso reso noto nella frenetica giornata di ieri, potrebbe trasformarsi in grave crisi sociale: nei prossimi due anni sono necessari nel mondo ottanta milioni di nuovi posti di lavoro e si prevede che se ne creeranno soltanto la metà.

Nella lunga storia del suo annuale Festival del Cinema, Cannes ha visto e vissuto molti tipi di storie; forse, però, nessuna è come questa anche perché lo spettacolo sarà dal vivo, senza schermo e senza tappeto rosso. Dobbiamo naturalmente sperare che, come spesso succede nei film e forse ancora più spesso nella vita, nonostante le premesse le cose si aggiustino: che la pasticciata intesa europea tenga, che le anchilosate economie ricche ripartano, che i mercati mondiali ritrovino almeno un poco della tranquillità perduta. Per far questo è probabilmente inevitabile intervenire sul funzionamento di questi mercati che, dopo essere stati veicolo di sviluppo, si sono trasformati in grave veicolo di crisi. Senza questi interventi è difficile che i posti di lavoro mancanti vengano davvero creati e il mondo potrebbe avvitarsi in una spirale depressiva priva di senso.

Si deve quindi auspicare che la bambina asiatica nata ieri possa leggere, tra dieci anni, nei suoi libri di testo che, contro le aspettative della vigilia, da Cannes partì la stabilizzazione e la risistemazione dell’economia mondiale con le quali fu possibile affrontare a livello mondiale i problemi chiave dell’energia e dell’ambiente. E sull’Italia? Sarebbe meglio che la bambina asiatica non debba leggere niente perché vorrebbe dire che siamo ritornati a essere un Paese normale.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #126 inserito:: Novembre 08, 2011, 10:08:20 am »

8/11/2011

Il vuoto che affonda il Paese

MARIO DEAGLIO

Non c’è forse mai stata nel mondo, tanta attenzione per l’Italia come nella giornata di ieri. Non l’attenzione benevola che si riserva a un Paese curioso, noto per non rispettare sempre fino in fondo le regole ma dotato di inventiva e flessibilità, con i suoi paesaggi e i suoi musei; ma l’attenzione fredda e ostile di chi considera l’Italia come un rischio per tutti, di chi sa che da quel che succede in Italia può dipendere il futuro del sistema globale e anche il proprio.

L’attenzione di chi ha visto il disastro greco e sa che un analogo disastro italiano sarebbe molte volte maggiore, sconvolgerebbe gli equilibri economici, già precari, di tutto il pianeta; e che, se questo dovesse succedere, subito dopo sarebbe la volta della Francia - che non a caso ieri ha varato il suo piano di austerità con aumento dell'Iva - e dopo la Francia, forse, degli Stati Uniti.

I mercati pensano che l’Italia possa fare la differenza tra il collasso mondiale e la ripresa globale. In queste circostanze, Silvio Berlusconi ha smesso di essere considerato all’estero un signore un po’ strano che spesso fa battute imbarazzanti.

Uno vicino al quale da un paio d’anni i capi di Stato e di governo degli altri Paesi non si fanno fotografare volentieri. E’ diventato una fonte, quasi «la» fonte di rischio, una mina vagante nel mare tempestoso di una crisi mondiale dalle dimensioni sempre maggiori. Ecco allora i media mondiali, la «Reuters» e il «New York Times», domandarsi se questo sia il «finale di partita» per l’Italia, ecco «Wall Street Journal» e «Financial Times» scoprire quanto stereotipata sia l’immagine dell’Italia e quanto poco il resto del mondo sappia di questo anello della catena mondiale divenuto improvvisamente debole.

Mentre il resto del mondo si pone interrogativi così gravi, il presidente del Consiglio, assai prima di occuparsi degli affari di Stato, è in riunione, nella sua villa di Arcore, con i figli e con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che siede nel consiglio di amministrazione delle principali aziende di famiglia, con le Borse che esultano prematuramente per le dimissioni ormai ritenute questione di ore. Poi vede i vertici della Lega, forse su come avviare le «riforme» (di cui Umberto Bossi è il ministro responsabile), quelle riforme che l’estero interpreta in maniera così diversa da noi, che molti in Italia, opposizione compresa, sperano di fare soprattutto a parole. Solo più tardi parte per Roma, per andare a fare (ancora) il presidente del Consiglio.

Il piano degli interessi personali di Silvio Berlusconi si contrappone così al piano dei problemi europei e dell’economia mondiale. Forse è sempre stato così ma il mondo non se ne era curato, così come non se ne erano curati molti italiani. Tra questi due piani, quello globale e quello personale, si colloca l’Italia, un’Italia costretta a farsi dettare le politiche e controllare i conti dai mercati globali perché ha difficoltà a pagare i debiti. Con il resto del mondo interessato soprattutto al programma, indipendentemente dal governo e il mondo politico italiano interessato soprattutto al governo, quasi indipendentemente dal programma. Quest’Italia si configura come un vuoto; un vuoto politico, con le dimissioni-non dimissioni del premier e con le forze politiche dell’opposizione incapaci di posizioni sufficientemente chiare. L’Italia purtroppo si configura anche, e forse è questo l'aspetto più preoccupante, come un terribile vuoto sociale, con quasi un giovane su quattro più di due milioni di persone in tutto - tra i 15 e i 29 anni che non lavora né studia, come ha messo in luce ieri una ricerca della Banca d’Italia, mentre di quel lavoro e di quello studio il Paese avrebbe grandissimo bisogno.

In questo vuoto l’Italia rischia di affondare. Prima di tutto perché si tratta di un vuoto che costa. E’ possibile, anche se complicato, calcolare quanto costa al Tesoro un giorno in più di permanenza, in queste condizioni, di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Questo costo si misura in termini di maggiori interessi sul debito italiano che viene via via rinnovato a tassi fortemente crescenti, così che il beneficio che dovrebbe derivare all’erario dall’aumento dell’Iva viene divorato dall’aumento dei tassi. Oggi si misura in 500 punti base, cinque punti percentuali in più che il mercato pretende, come «premio per il rischio Italia» per sottoscrivere titoli italiani invece di titoli tedeschi. Vi è poi il costo occulto, dato dalla perdita di prestigio e di credibilità dell’Italia nel mondo della finanza, e non solo; un costo che gli imprenditori conoscono benissimo e il resto del Paese comincia a intuire in tutta la sua gravità.

E’ con questo vuoto che il Paese deve fare i conti. Tutte le conquiste del passato, dalle posizioni sui mercati internazionali al peso politico all’interno dell’Unione Europea, ai diritti «acquisiti» di lavoratori e pensionati, tutto sembra essere risucchiato in un gorgo dal quale cominceremo a uscire soltanto con un cambiamento dell’esecutivo. L’errore più grave è, però, illudersi che basti questo cambiamento a risolvere miracolosamente tutto. Se tutto andrà bene, avremo davanti qualche lustro di cammino difficile e faticoso.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #127 inserito:: Novembre 17, 2011, 04:52:45 pm »

17/11/2011
 
Nessuno si salva da solo
 
MARIO DEAGLIO
 
Il governo Monti è ufficialmente entrato in carica ieri durante una giornata densa di tensioni sui mercati finanziari mondiali. Per quanto incentrate sull’Italia, anche per la fase di transizione tra governi, queste tensioni non si sono certo limitate al Bel Paese. Sembra ormai che, con le lenti della finanza internazionale, il mondo non risulti più composto di Paesi «virtuosi» come la Germania e Paesi «viziosi» come la Grecia ma che un po’ di «vizio» risulti presente dappertutto.

Nella virtuosissima Germania, infatti, ieri non si sono trovati compratori sufficienti a sottoscrivere per intero un’asta di sei miliardi di titoli di Stato tedeschi, diventati l’unità con cui si misura l’adeguatezza dei debiti sovrani del resto del mondo. Esiste allora un «pericolo tedesco»? Certamente no.

Non esiste un «pericolo tedesco» ma si comincia però a constatare che, nel lungo periodo, con gli attuali livelli e le attuali tendenze dei debiti pubblici alla crescita, tutti i Paesi ricchi, e non solo l’Italia, si troveranno ad affrontare scelte politiche scomode. E il rallentamento congiunturale in atto a livello mondiale sicuramente sta facendo aumentare in ogni Paese la scomodità di queste scelte.

Il quadro tempestoso si è precisato nella giornata di ieri quando, in buona parte dei Paesi della zona euro, le quotazioni dei titoli dei debiti pubblici si sono indebolite sensibilmente. Non è solo all’Italia che il mercato richiede un consistente «premio per il rischio» per sottoscrivere titoli di Stato; il temutissimo spread, buon indicatore di come i mercati percepiscono questo rischio, è aumentato contemporaneamente in Francia, Austria e Paesi Bassi ma ne hanno risentito anche i titoli pubblici della virtuosissima Finlandia, oltre naturalmente a quelli di Spagna e Grecia. Lo spread del Belgio, senza governo da ben 521 giorni, è salito al livello record di 296 punti base.

Anche se l’Italia rimane, per l’effetto congiunto delle dimensioni del suo debito e del suo rischio, l’ammalato in condizioni più critiche, la corsia europea del reparto patologie finanziarie si sta quindi riempiendo di malati illustri. Per la struttura delle sue finanze pubbliche e in particolare per la rapidità con cui è aumentato il suo deficit negli ultimi 3-4 anni, la Francia appare particolarmente vulnerabile e ha dovuto trangugiare, sia pure in dosi più blande, una medicina molto simile a quella recentemente assunta dall’Italia, che comprendeva l’aumento dell’Iva.

Tutto questo ha fatto dire al presidente della Commissione dell’Unione Europea, José Barroso, che la crisi è «sistemica» e che richiederà «nuove misure». In realtà non si può andare avanti soltanto con tagli che incidono per anni sul livello di vita per contrastare cadute di mercato che, una volta arginate, potrebbero tranquillamente ripetersi dopo poche settimane. Le «nuove misure», che l’Italia come un numero crescente di Paesi europei è chiamata a prendere in considerazione, dovrebbero quindi andare di pari passo con «nuove regole» per i mercati internazionali che chiariscano gli intricati percorsi del denaro attorno ai titoli sovrani. Purtroppo, finora c’è stata una forte richiesta delle prime e solo una debole pressione perché vengano stabilite le seconde, anche se non potrà continuare così; una sorta di scambio di nuove misure dei governi e contro regole dei mercati potrebbe servire a rendere più controllabile la situazione.

Alle inquietudini del presidente Barroso a Bruxelles hanno fatto riscontro, dall’altro capo del mondo, quelle del presidente americano Barack Obama in visita in Australia. Obama si è detto molto preoccupato per la situazione finanziaria europea ma forse in realtà è almeno altrettanto preoccupato per le finanze pubbliche degli Stati Uniti: per rispettare il «tetto» al debito pubblico, che in quel Paese è imposto per legge, entro il 23 novembre dovrà presentare un piano che riduca di 1200 miliardi di dollari in dieci anni la spesa pubblica. In caso contrario, scatteranno tagli automatici alle spese militari e al Welfare. Si scopre, insomma, che in trent’anni di benessere forse eccessivo, in un mondo o in un altro tutti i Paesi ricchi non solo hanno accumulato debiti crescenti ma hanno posto in essere dinamiche e meccanismi di spesa che fanno aumentare i debiti per forza propria.

Nessun Paese, neppure gli Stati Uniti, si salveranno da soli. Occorre uno sforzo concertato per mettere la museruola ai mercati quando non solo abbaiano ma morsicano senza motivo l’economia reale. E questo se si vuole salvare il sistema mondiale del mercato; in caso contrario, sarà travolto da una reazione profonda a tagli socialmente non sostenibili.

mario.deaglio@unio.it
 
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« Risposta #128 inserito:: Novembre 25, 2011, 10:48:22 pm »

25/11/2011

Il gigante dai piedi di argilla

MARIO DEAGLIO

Essendo figlia di un pastore luterano, e probabilmente buona conoscitrice della Bibbia, Angela Merkel farebbe bene a riflettere sul sogno raccontato dal re Nabucodonosor nel «libro di Daniele»: una grande e magnifica statua con la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre di bronzo e i piedi in parte d’argilla e in parte in ferro viene colpita proprio nei piedi da un masso che rotola giù dalla montagna. E la statua si sgretola subito in piccolissimi frammenti che vengono spazzati via dal vento.

Molti operatori economici stanno vivendo le lunghe e angosciose giornate finanziarie di questa settimana nella paura che l’Europa, e in particolare l’euro, che ne costituisce forse la migliore realizzazione, possa far la fine della statua di Nabucodonosor, ossia franare in poco tempo e quasi senza preavviso. Sempre più frequentemente li sfiora il sospetto che i piedi d’argilla non siano necessariamente rappresentati dalla Grecia e dagli altri inaffidabili Paesi «meridionali» ma si possano trovare invece nella stessa Germania e possano costituire la debolezza nascosta di quel gigante dalla testa d’oro che è l’Europa.

Si tratta di un gigante con poche forze, come si può constatare dagli sviluppi finanziari degli ultimi mesi.

Anche ieri, attorno al tavolo delle consultazioni di Strasburgo, si sono confrontate solo debolezze diverse. La debolezza francese derivante da una crescita, apparentemente inarrestabile, del debito pubblico che l’ha portato ad aumentare di circa un terzo (dal 60 all’80 per cento del prodotto interno) durante i quattro anni della crisi finanziaria; la debolezza di un’Italia soffocata da meccanismi inefficienti di decisione politica e di redistribuzione del reddito che, nell’ultimo decennio, hanno tarpato le ali a quasi tutte le iniziative di crescita; e infine la debolezza tedesca apparsa improvvisamente con aste finanziarie in cui non si riescono a collocare tutti i titoli pubblici.

Appena sei mesi fa, la Germania veniva gratificata del titolo di «locomotiva d’Europa» e sembrava aver trovato la ricetta per uscire dalla crisi. Ci si accorge ora che la locomotiva era in realtà un vagone, che era stata essa stessa trainata dalla ripresa mondiale. La Germania è infatti vissuta sulle esportazioni e non su un aumento ordinato e consistente dei consumi interni. E dopo avere all’incirca raggiunto il livello produttivo precedente la crisi, la locomotiva si è fermata con una frenata brusca e inattesa, con la disoccupazione che torna a crescere dopo due anni e gli ordini all’industria, specialmente dall’estero che tornano a diminuire.

Insieme con la disoccupazione, in Germania cresce da tempo l’inquietudine, come testimonia la lunga fila degli insuccessi nelle elezioni locali del partito del cancelliere o dei suoi alleati. E questo spiega il persistente rifiuto del cittadino medio - che ha ancora un ricordo lontano, ma vivido di un nonno o un prozio che è stato rovinato dall’inflazione degli Anni Trenta - di pensare in grande. Dopo aver sostenuto a lungo l’Unione Europea, con contributi finanziari superiori ai benefici immediati, assicurando così il proprio e l’altrui sviluppo, dopo avere incassato la riunificazione al prezzo di sostituire il marco con l’euro, la Germania ha smesso di avere progetti di respiro veramente ampio.

Si è ripiegata su se stessa, si sente probabilmente più tedesca e meno europea. Il tedesco è una delle poche lingue in cui la stessa parola («Schuld») significa indifferentemente «debito» e «colpa». Dietro al ricordo della grande inflazione affiora forse questa memoria ancora più profonda, per cui il debitore è un colpevole e un debitore a rischio di insolvenza è come un appestato. Forse così si contribuisce a spiegare l’atteggiamento non lineare della Germania nei confronti della Grecia, un Paese la cui insolvenza danneggerebbe fortemente le banche tedesche, e che pure la Germania esita a salvare, negando il suo assenso ad azioni incisive della Banca Centrale Europea.

Si potrà anche sostenere che Angela Merkel sia abile quanto il suo predecessore, Helmut Kohl, che riuscì a riunificare il paese. Non le mancano, infatti, decisione e capacità argomentativa ma non sembra esser dotata delle grandi visioni del futuro di Kohl e, prima di lui, di Adenauer, Ehrhard e altri cancellieri tedeschi. Preferisce rivedere, in maniera taccagna, i conti della spesa piuttosto che domandarsi perché si fa la spesa. Non le importa di pronunciare una raffica di «no», come ha fatto ieri sugli Eurobond, apparentemente senza una visione complessiva dei circuiti finanziari, senza rendersi conto che un leader europeo, come aspira a essere, deve tenere in serbo qualche sì. Deve indicare una strada percorribile e non predicare principi inflessibili.

C’è forse qualcosa di simbolico nel fatto che l’attuale presidente del Consiglio italiano sia arrivato ieri all’incontro di Strasburgo con cronometrica puntualità, mentre il suo predecessore aveva abituato i colleghi internazionali a mal sopportati ritardi. In ritardo, invece, è arrivato il cancelliere tedesco. Colpa, ahimè, di un guasto all’aereo: nemmeno l’efficientissima Germania è perfetta. Se Angela Merkel riuscirà a prendere coscienza delle imperfezioni tedesche, che i mercati in questi giorni le hanno pesantemente ricordato, forse c’è speranza per l’Europa.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #129 inserito:: Novembre 29, 2011, 04:06:30 pm »

29/11/2011

Il consenso per evitare il naufragio

MARIO DEAGLIO

Rapido deterioramento», «diffusione del contagio» e «ritardo della politica»: non ha usato mezzi termini Pier Carlo Padoan - vice-segretario dell’Ocse e terzo italiano, insieme con Mario Draghi e Mario Monti, in prima linea in questo periodo sulla scena dell’economia globale - nel presentare le previsioni semestrali sull’andamento dell’economia mondiale e, in particolare, di quella dei Paesi ricchi, nei prossimi due anni.

Fino all’estate si discuteva della velocità della ripresa, ora, avverte l’Ocse (forse il più credibile dei grandi enti previsivi internazionali) si discute dell’esistenza della ripresa. Non si è trattato di un semplice aggiustamento, di una lieve correzione ma quasi di un’inversione di rotta. Se fino a due-tre mesi fa si pensava che la navicella dell’economia mondiale stesse riprendendo il largo, ora si può dire che passerà molto rasente agli scogli e che, se non si fa molta attenzione, potrebbe anche finirci sopra. Nel peggiore dei tre casi illustrati da Padoan, non si tratterebbe di un rallentamento bensì di una caduta.

Una caduta destinata a prolungarsi per i prossimi due anni non soltanto in Italia (in ogni caso uno dei Paesi meno dinamici tra quelli avanzati) ma anche, sia pure in misura minore, nel resto della zona euro, negli Stati Uniti e in Giappone.

Le grandi economie emergenti, a cominciare dalla Cina, non sfuggirebbero a un forte rallentamento del loro tasso di crescita. L’espansione del commercio mondiale, simbolo dell’integrazione economica del pianeta, appare comunque destinata a ridursi a poca cosa. Nella migliore delle ipotesi, il mondo, secondo l’Ocse, se la caverà per il rotto della cuffia. A queste prospettive si aggiungono quelle - per la verità alquanto fantascientifiche, che possono determinare allarmismi ingiustificati ma delle quali sarebbe errato non tenere conto - avanzate da Moody’s, una delle maggiori agenzie di rating, circa la possibilità di insolvenze a catena di Paesi europei.

Perché questo pessimismo? Perché i guai della finanza si stanno abbattendo come un macigno sull’economia reale sia per il bavaglio imposto alle banche, soprattutto a quelle grandi, costrette a dotarsi di un capitale proprio forse eccessivo sia per il «tetto» al debito pubblico (e quindi alla spesa pubblica) imposto agli Stati Uniti da un partito repubblicano miope che, avendo il controllo di una delle Camere, blocca qualsiasi azione di effettivo stimolo all’economia.

A far sembrare molto distante ogni prospettiva di vera ripresa contribuisce il numero, oggi anormalmente elevato, dei disoccupati dei Paesi ricchi. Esso pare destinato a rimanere ancorato attorno ai 45 milioni e reca con sé pesanti incognite politiche, si può senz’altro aggiungere, che un simile accumulo di scontentezza può provocare.

C’è un marcato contrasto tra simili prospettive e l’andamento, apparentemente euforico, delle Borse mondiali che nel pomeriggio e nella serata di ieri hanno messo a segno miglioramenti del 3-4 per cento. In realtà le Borse mondiali hanno semplicemente cancellato qualche giorno di caduta in base alla notizia comparsa domenica su «La Stampa» - di un possibile, massiccio aiuto internazionale all’Italia, tale da coprire il fabbisogno finanziario del Paese per circa un anno in cambio dell’attuazione di un vasto programma di riforme. Al di là delle smentite ufficiali, si tratta di un progetto ragionevole, sia per l’Italia sia per la salute dei mercati mondiali, e non ci si può non augurare che abbia seguito, indipendentemente dalle modalità tecniche.

Perché si realizzi la prospettiva di un’economia mondiale che riesce a non naufragare contro scogli particolarmente aguzzi sono necessari di fatto tre requisiti: il consenso tedesco, il consenso americano e il consenso del Parlamento italiano. Il consenso tedesco è indispensabile perché il «fondo salvastati» faticosamente creato tra i Paesi europei venga subito indirizzato a un aiuto di liquidità all’Italia, mettendo l’Italia stessa e l’intera economia finanziaria internazionale al riparo dall’attuale, crescente instabilità. Il consenso americano è a sua volta indispensabile perché il Fondo Monetario Internazionale possa aggiungere la sua «potenza di fuoco», ossia le sue risorse finanziarie, all’operazione riguardante l’Italia ed eventualmente altri Paesi. Per questa decisione, occorre infatti il voto favorevole di Paesi che complessivamente detengano l’85 per cento delle quote del Fondo stesso e gli Stati Uniti possiedono il 17 per cento delle quote e quindi dispongono di un diritto di veto.

A queste due condizioni necessarie si aggiunge una condizione sufficiente, ossia che l’Italia si proponga, con la dovuta determinazione e la necessaria credibilità, di affrontare provvedimenti duri di politica economica che annullino già dal prossimo anno il deficit pubblico. In maniera molto tangibile, anche se indiretta, quindi, i problemi del mondo faranno tra breve il loro ingresso nelle aule di Palazzo Madama e di Montecitorio. In un modo che tutti avremmo preferito evitare, per un breve periodo Roma torna a essere il centro del mondo.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #130 inserito:: Dicembre 08, 2011, 12:45:43 am »

7/12/2011

Serve un freno al potere delle agenzie

MARIO DEAGLIO

Il «fronte italiano» di questa terribile crisi finanziaria mondiale si è, almeno temporaneamente, chiuso con la firma da parte del presidente Napolitano del «decreto salva Italia», in attesa di una chiusura definitiva con l’approvazione parlamentare. Prima ancora, però, che l’inchiostro presidenziale si fosse asciugato si è aperta un’altra, e ben più vasta, zona di incertezza.

Ad aprirla è stata Standard & Poor’s che è, assieme a Moody’s e a Fitch, una delle grandi agenzie di rating, ossia di valutazione tecnica di tutti i titoli quotati del mondo: azioni, obbligazioni, titoli del debito pubblico e quant’altro. Il problema è che dalla valutazione tecnica - in cui hanno collezionato risultati altalenanti, promuovendo spesso banche e imprese americane fallite o crollate in Borsa di lì a poco - questi tre arbitri della finanza mondiale sono passati rapidamente negli ultimi sei mesi a giudizi sempre più apertamente politici: un Paese come gli Stati Uniti è stato declassato perché gli «esperti», sovente senza volto, di Standard & Poor’s, hanno ritenuto troppo debole Obama.

E quindi di fatto non realizzabile la politica economica del Presidente americano. Sempre più spesso si avventurano in previsioni macroeconomiche, ben al di fuori delle loro competenze, con analisi che ieri il direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, ha giustamente definito «semplicistiche» e «superficiali».

Le agenzie di rating stanno dando l’impressione di «giocare» con i debiti pubblici dei maggiori Paesi del mondo, tirandoli su e giù come burattini appesi ai fili di un teatrino. Due giorni fa, Moody’s ha promosso la Nigeria per le sue grandi potenzialità, ieri Standard & Poor’s ha «messo sotto osservazione» la Germania e altri quattordici Paesi europei per potenziale rischio di insolvenza. Meno di un mese fa, tuttavia, nessuna delle agenzie di rating si era accorta che era vicina all’insolvenza una grande società americana di brokeraggio, MF Global, il cui presidente Jon Corzine un tempo era presidente di Goldman Sachs, un altro grande della finanza americana. Ciò che colpisce è la loro arroganza: «Mettono sotto osservazione» chi vogliono e quando vogliono, comunicano sovente i loro risultati a mercati aperti, incuranti - o forse compiaciuti - delle oscillazioni dei titoli che i loro comunicati provocano. E per colmo di ironia, realizzano utili cospicui facendosi pagare per la loro opera di valutazione dalle loro «vittime» ossia dalle imprese e dai governi messi sotto osservazione.

C’è un complotto dietro tutto questo? Probabilmente non lo sapremo mai anche se un filo conduttore volto a scardinare l’euro sarebbe del tutto plausibile, dal momento che la frenesia declassatoria ha colpito in questi giorni anche i fondi salva-Stati creati per difendere la moneta europea. Visto il seguito che hanno sui mercati, però, il risultato è lo stesso, con o senza complotto. Come osservava Keynes, quando si tratta di indovinare chi sarà la vincitrice di un concorso di bellezza, gli spettatori non indicheranno la ragazza che ritengono più bella ma quella che, secondo loro, sarà ritenuta più bella dalla maggior parte degli spettatori stessi. Allo stesso modo, molti vendono i titoli declassati da Moody’s e compagni non perché ritengono che i titoli meritino il declassamento ma perché pensano che tutti seguiranno le indicazioni di Moody’s e il valore dei titoli in ogni caso scenderà. Questo comportamento da gregge è una delle obiezioni più forti contro chi è in adorazione della razionalità dei mercati.

Complotto o non complotto, è giunto il momento di finirla. Se vogliono che l’Europa abbia un futuro, i leader di Francia e Germania che stanno preparando il vertice dell’8-9 dicembre, nel quale sarà progettato, forse con apposite nuove istituzioni, il continente di qui a dieci-vent’anni, non possono permettere che qualcuno li faccia danzare come burattini. Eppure, in questo momento, pressoché tutto il continente è costretto a fare manovre di bilancio sicuramente necessarie ma che avrebbero potuto essere più diluite nel tempo, evitando disagi e sofferenze, sostanzialmente perché lo impongono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.

Un’Europa essenzialmente fondata sulla moneta e sui mercati - visto che ha rinunciato a basarsi sui valori - non può nascere se non si sottopongono non solo la moneta ma anche i mercati, a cominciare da quelli finanziari, a regole severe. Le agenzie di rating dovrebbero essere costrette alla periodicità delle analisi e alla regolarità degli annunci e le loro valutazioni dovrebbero limitarsi a parametri finanziari; e qualora non rispettassero queste regole potrebbero essere multate e dovrebbe essere loro impedito di agire. La funzione di valutazione dei titoli potrebbe anche essere affidata a enti pubblici internazionali, come il Fondo Monetario, proprio perché si tratta soprattutto di una funzione pubblica.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #131 inserito:: Dicembre 10, 2011, 04:39:49 pm »

10/12/2011

La camicia di forza

MARIO DEAGLIO

Visto l’esito della caotica riunione di Bruxelles, non è proprio il caso che il normale cittadino stappi una bottiglia, anche se le Borse hanno brindato a quella che considerano, nel loro orizzonte di brevissimo termine, come la fine di un periodo di incertezza. Dopo una confusa nottata di contrasti e recriminazioni, l’Europa si ritrova pesantemente ridimensionata dal rifiuto inglese.

Un no a un accordo che avrebbe comportato la perdita di autonomia dalla politica economica, alla quale i governi di Londra hanno sempre tenuto moltissimo, in favore di rigide regole generali di stampo tedesco. La mancata stretta di mano tra il presidente Sarkozy e il primo ministro inglese Cameron è quasi il simbolo di questa nuova situazione. Non c’è da illudersi: il Canale della Manica è diventato più largo con un possibile grave svantaggio sia per gli inglesi sia per gli altri europei.
Per l’Europa, la perdita della Gran Bretagna - che a questo punto potrebbe anche uscire completamente dall’Unione Europea, limitandosi a mantenere un accordo doganale - non deriva tanto dalla cospicua sottrazione dal totale europeo del prodotto lordo inglese quanto dall’impoverimento qualitativo di un’Europa così divisa. La Gran Bretagna ha avuto, nell’ultimo secolo, il ruolo storico di controbilanciare, insieme alla Francia, il potere tedesco e di fornire un’alternativa, peraltro ridotta negli ultimi decenni, ai modelli culturali tedeschi. Questo ruolo pare ormai abbandonato mentre Londra si rifugia in un isolamento che non appare tanto splendido e ci si può attendere che rafforzi i suoi legami con gli Stati Uniti; Parigi, dal canto suo, con le elezioni ormai vicine, sembra aver perso l’iniziativa e aver consentito debolmente alle posizioni tedesche. Nel frattempo, le agenzie di rating hanno continuato a declassare allegramente le banche europee.

Tutti avevano sperato che la signora Merkel avrebbe alla fine abbandonato la sua posizione rigida e accettato di fornire qualche facilitazione ai Paesi «meridionali»; invece non è stato così. Grazie anche alle pesantissime pressioni americane, che hanno visto gli interventi coordinati del presidente Obama, del segretario di Stato Clinton e del segretario al Tesoro Geithner, è prevalsa una soluzione che si può definire di tipo «tedesco», che limita la possibilità futura di deficit pubblici nazionali. Le istanze di tipo «francese» e «italiano» per una maggiore flessibilità con l’emissione di titoli sovrani europei (eurobonds), per sviluppi istituzionali che conferiscano a Bruxelles un effettivo potere di governo europeo, con il trasferimento a livello europeo di alcune competenze e di una parte delle imposte nazionali. La Banca centrale potrebbe finanziare questo governo, ma l’intera questione è stata diplomaticamente rinviata a una futura riunione.

Per fortuna, le porte non sono definitivamente chiuse a questa visione europeista. Il «fondo salva Stati», però, continua ad apparire piuttosto esiguo, anche nella sua nuova versione, per far fronte a veri attacchi ai titoli pubblici di qualsiasi paese dell’Unione e il coinvolgimento del Fondo monetario risulta più limitato di quanto fosse inizialmente previsto. I Paesi europei hanno accettato una vera e propria camicia di forza per le loro finanze: il comunicato finale dice chiaramente che i bilanci degli stati membri dovranno essere in pareggio (con un deficit massimo dello 0,5 per cento del prodotto interno) e che questo principio dovrà essere inserito nelle costituzioni dei singoli Stati. Lodevole proposito in una situazione normale, ma nuova complicazione in una situazione di crisi. A un simile risultato si arriverà lentamente ma, se il deficit pubblico supererà il 3 per cento del prodotto interno, scatteranno sanzioni quasi automatiche contro il Paese che non si adegua. È questo il succo della cosiddetta «unione fiscale» che, se gestita in maniera maldestra, rischia di trasformarsi in un abbraccio soffocante.

Tutti i Paesi dell’area euro, Germania compresa, saranno infatti impegnati a seguire politiche pubbliche prevalentemente restrittive anziché politiche più accomodanti. Siccome la congiuntura ha già svoltato verso il basso in molti di questi, ogni vero discorso di ripresa europea appare rinviato; nella stessa, fortissima Germania, è comparso il segno meno nella produzione industriale mentre è vano attendersi forti stimoli extraeuropei, dal momento che la stessa Cina presenta vistosi sintomi di rallentamento. Il 2012 non si prefigura quindi per nessuno come un anno di vacche grasse. E un’Europa in recessione e percorsa da inquietudini sociali potrebbe facilmente trasformarsi nel ventre molle di un’economia globale che sta rapidamente perdendo il sorriso.

A questo punto, l’interrogativo diventa politico: è socialmente sostenibile una simile situazione, oppure i governi europei rischiano di essere travolti da una protesta sociale tanto più grave quanto più disordinata e priva di larghi orizzonti? Quanto dirompente potrebbe essere una simile protesta? Non sarebbe stato preferibile adottare un sentiero più flessibile, consentendo maggiore liquidità al sistema produttivo e bancario e impedendo che tutto sia condizionato da giudizi istantanei di Borse capricciose? Il tempo, senza dubbio, dirà se i leader europei hanno fatto complessivamente una scommessa giusta. I rischi, per l’Europa e l’economia mondiale, non sembrano, in ogni caso, essere stati sensibilmente ridotti ma soltanto trasferiti dall’economia e dalla finanza alla politica e alla società.

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« Risposta #132 inserito:: Dicembre 16, 2011, 06:49:01 pm »

16/12/2011

Una cura psicologica per la crisi

MARIO DEAGLIO

Per l’Europa il 2012 non sarà un anno gradevole». Questo a dir poco singolare, ma probabilmente veritiero, biglietto di auguri per il Vecchio Continente porta la firma di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ossia di quella grande istituzione i cui esperti verranno in visita (ispezione?) a Roma la settimana prossima.

Gli ha fatto eco, a poche ore di distanza, il primo ministro polacco, Donald Tusk. Tusk ha pronunciato un durissimo discorso di saluto al Parlamento europeo, al termine del semestre di presidenza del suo Paese, l’unico in Europa che possa vantare risultati economici veramente buoni negli ultimi 2-3 anni. L’Europa, ha detto Tusk, è sull’orlo del precipizio, non si comporta più come una comunità ma come una somma di egoismi nazionali al punto che la crisi ormai si trova nei nostri cuori e non solo nelle nostre banche. Passando dai principi alle cifre, ancora una volta a poche ore di distanza, la Banca Centrale Europea ha rivisto ieri sensibilmente al ribasso le proprie stime per i Paesi dell’euro: mentre a settembre si prevedeva una crescita complessiva compresa tra lo 0,4 e il 2,2 per cento, in dodici settimane le cifre sono diventate -0,4 e 1,2 per cento.

La caduta non risparmia la (apparentemente) virtuosa Germania, dove l’Ifo, il maggior istituto di previsioni economiche, nel giugno scorso si aspettava per il 2012 una crescita del 2,3 per cento e ora è sceso allo 0,4 per cento.

Le stime del Centro Studi della Confindustria, rese note ieri, riflettono questo improvviso cambiamento di prospettive: il prodotto lordo italiano dovrebbe ridursi dell’1,6 per cento e non si tratterà certo di una decrescita felice, essendo accompagnata da un aumento della disoccupazione, da una stasi delle esportazioni e da una caduta secca (-4,8 per cento) degli investimenti. Come ha dichiarato il ministro delle Attività produttive, Corrado Passera, la situazione è peggiore delle attese e l’Italia «è già in recessione». A conferma di una situazione non certo lusinghiera, dal mondo dell’economia si ha notizia di innumerevoli casi di clienti che non pagano, fornitori che non vengono pagati, consumatori che riducono gli acquisti, imprese che riducono i programmi produttivi.

A settembre ci si cullava nella prospettiva di una dolce ripresa che si lasciasse finalmente alle spalle questa crisi così diversa dalle altre; ora siamo alle prese con l’anno sgradevole promesso da Blanchard. Il lettore può ben domandarsi che cosa sia successo tra settembre e dicembre per provocare un simile, brusco ridimensionamento e troverà gli esperti molto cauti nel dare risposte. Come tutti i fenomeni complessi, anche questa brutta caduta ha cause complesse ma, in estrema sintesi, si può affermare che gli europei si stanno strozzando con le loro stesse mani: pongono vincoli sempre più severi sia alle finanze pubbliche sia all’operatività delle banche. Dicono all’atleta di correre e poi gli tolgono le scarpe adatte alla corsa.

I tagli, più o meno orizzontali, ai bilanci pubblici di pressoché ogni Paese (ormai anche la Germania è entrata in quest’ottica) si uniscono infatti alla crescente impossibilità delle banche di fare il loro mestiere per mancanza di materia prima: siamo in presenza di una vera e propria carestia di liquidità, determinata da norme che, nel tentativo di blindare le banche di fronte alla prospettiva di una crisi, finiscono per rendere più probabile questa crisi per le difficoltà sempre più acute dei debitori, non blindati, delle banche stesse.

Chi aveva scommesso sulla capacità del Cancelliere tedesco, Angela Merkel, di mediare all’ultimo minuto tra posizioni diverse non può non soffrire una cocente delusione: dicendo «no» agli eurobonds i tedeschi hanno reso più ripida la strada verso la stabilità di bilancio dei loro partner europei e si stanno assumendo una responsabilità storica di portare l’Europa in acque sempre più difficili e di allontanare in maniera inaccettabile le prospettive di ripresa. Contemporaneamente nulla è stato fatto né si prevede di fare in merito al funzionamento dei mercati finanziari che continuano a condurre la danza di ballerini sempre più stanchi quali sono gli Stati europei.

In una simile situazione i rimedi sono psicologici prima che tecnici: occorre cominciare a pensare non tanto a come si gestisce una crisi ma come si esce da una crisi. Non tanto a come si può arrivare nudi alla meta, senza deficit e senza crescita, ma a come si possono rendere sostenibili i debiti, a come si può fare del mercato finanziario il proprio strumento, non il proprio padrone. E' un discorso politico prima che tecnico che purtroppo lascia i politici europei spauriti e senza parole.

mario.deaglio@unito.it


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« Risposta #133 inserito:: Dicembre 30, 2011, 10:46:33 pm »

30/12/2011

I fuochi sul cammino del governo

MARIO DEAGLIO

Molti italiani saranno rimasti sbalorditi alla vista di un presidente del Consiglio che si esprime con grafici; altri avranno trovato, tutto sommato, grigia un’esposizione in cui volutamente non si sono toccate corde emotive ma si è enunciata una lunga serie di fatti e di intenzioni. I telespettatori non erano preparati a una lezione in diretta, a un tipo insolito di comunicazione politica e continuano a restare spaesati di fronte a una griglia di provvedimenti che incide su moltissimi aspetti della società italiana.

Per superare lo sbalordimento occorre probabilmente mettersi nei panni del Professor Monti, nella condizione, incredibile per l’italiano medio, di un presidente del Consiglio che dichiara di non avere alcuna particolare ambizione politica e di trovarsi in una posizione da superchirurgo incaricato di tagliare e ricucire là dove è risultato impossibile, a chi ne aveva il mandato politico, di fare altrettanto.

Agli occhi di un osservatore esterno, la manovra del presidente del Consiglio si svolge tra due fuochi. Il primo è rappresentato dalla crisi del debito pubblico italiano sui mercati finanziari internazionali. La sua gravità non viene normalmente colta dal normale cittadino ma è difficile esagerarla: senza alcuna particolare «colpa» dell’Italia, i mercati hanno bruscamente cambiato opinione, negli ultimi mesi, sulla gravità dei debiti sovrani. La condizione debitoria italiana (1,2 euro di debiti per ogni euro di produzione annuale) prima ampiamente tollerata per la dimostrata capacità italiana di mantenere sostanzialmente stabile il debito stesso, è diventata insostenibile nel giro di pochi mesi: nessuno vuol più acquistare, senza un consistente premio per il rischio, i titoli del debito pubblico italiani e molti scommettono sull’incapacità italiana di restituire il debito.

L’Italia si è trovata in condizioni di grande debolezza di fronte a imposizioni estremamente dure e qualcuno potrebbe osservare che le cifre complessive della manovra assomigliano alle imposizioni di un trattato di pace dopo una guerra persa; altri obietteranno che l’Italia sta pagando per tutti, in quanto la manovra italiana ha evitato che il ciclone monetario si scaricasse sui sistemi bancari di altri Paesi, meno solidi di quanto appaia. Il fatto è che l’affermazione del presidente del Consiglio circa l’impossibilità di pagare le tredicesime, se non si fosse accettata una rapidissima manovra, non è retorica. Senza il suo frettoloso viaggio a Bruxelles e la definizione di un programma radicale di rientro dal deficit, si sarebbe dovuto ricorrere ad altri tagli oppure ad altri inasprimenti fiscali almeno equivalenti a quelli messi in atto e per i quali la classe politica riteneva di non avere il mandato.

Oltre a questo fuoco internazionale, il Professor Monti se la deve vedere con un secondo fuoco che cova, in maniera preoccupante all’interno del Paese, dove si moltiplicano i segnali di crescenti diseguaglianze economiche e di disgregazione sociale. Ieri una raffica di comunicati dell’Istat ha segnalato che il livello di fiducia delle imprese si è fortemente abbassato: la scarsità di liquidità del sistema bancario corre il rischio di portare a estese rotture del normale tessuto economico-commerciale. Sempre secondo l'Istat, un quarto della popolazione - con punte molto maggiori nel Mezzogiorno - si trova in condizioni di povertà o di rischio di povertà, con difficoltà a pagare le bollette, l’affitto o il mutuo.

Poco importa che i totali degli indigenti mostrino variazioni minime negli ultimi due anni: con il persistere di una situazione così grave e così diffusa, che toglie dignità alle persone colpite, la trasformazione delle persone stesse da «indigenti» a «indignate» può essere un passo molto breve: sono ormai numerosi i casi, in Paesi ricchi e meno ricchi, di situazioni di rivolta, o, in ogni caso, di rifiuto dell’ordine esistente. All’altro estremo dello spettro sociale crescono invece incoscienti manifestazioni di arroganza, come quella del riccone che scende in elicottero sulla spiaggia per portare la mamma al ristorante. Per non parlare della Regione Sicilia che continua a garantire pingui indennità ai consiglieri regionali e ad assumere personale senza averne i mezzi.

La logica vorrebbe che si portasse via reddito ai ricconi arroganti e lo si ridistribuisse a chi è vicino alla povertà. Si tratta però di un’operazione molto difficile perché il reddito dei ricchi è spesso ben al riparo, in Italia e all’estero. Per quanto i meccanismi messi in atto per stanare gli evasori facciano registrare un discreto successo, il risultato è, come minimo, incerto e soprattutto richiede tempo.

Muoversi tra il fuoco dei mercati internazionali e quello dell’instabilità interna è, al tempo stesso, arduo e impopolare. Richiede, tra l’altro, che lo stupore di chi vede un presidente del Consiglio che illustra un grafico invece di fare della retorica si trasformi in un allargamento di vedute; che gli italiani si stacchino almeno un po’ da una visione egoistica che riferisce tutto a sé e alla propria famiglia nel massimo disinteresse per la dimensione pubblica; che escano da quello che Francesco Guicciardini, nella prima metà del Cinquecento, chiamava il loro «particulare». Allora miopia ed egoismo fecero scomparire molto rapidamente quasi tutti gli Stati italiani dalla mappa dei Paesi avanzati ed ebbe inizio una stagnazione dei redditi e un arretramento economico e civile durato tre secoli. C’è da augurarsi che questa volta vada meglio.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #134 inserito:: Gennaio 14, 2012, 03:16:50 pm »

14/1/2012

Penalizzati dai ritardi

MARIO DEAGLIO

È ben possibile che gli esperti di Standard&Poor’s siano arrivati ieri mattina all’aeroporto romano di Fiumicino e abbiano avuto molta difficoltà a trovare un taxi nel giorno della «rivolta» dei tassisti.

Il giudizio negativo di Standard&Poor’s appare pesantemente politico, nel senso che suona come una dichiarazione di aperta sfiducia non tanto nelle cifre inoppugnabili - della manovra, ma nella capacità del governo Monti di realizzare il suo programma.

Un giudizio ancor più grave perché pronunciato il giorno dopo l’aperto appoggio del cancelliere tedesco. Se però ce ne fosse stato bisogno, la «rivolta» dei tassisti di ieri ha rappresentato un chiaro esempio dei problemi strutturali del Paese e della difficoltà di risolverli.

Per rendersene conto, si può far riferimento a una coraggiosa intervista mandata in onda mercoledì sera dal telegiornale TV7 di Enrico Mentana: un tassista di Bologna - che ci ha pure «messo la faccia», evitando quei filtri che sfocano le immagini fino a renderle irriconoscibili ma anzi puntando molto chiaramente lo sguardo verso la telecamera - ha affermato di dichiarare al fisco il 40 per cento in meno delle proprie entrate effettive. E ha sostenuto che la grande maggioranza dei suoi colleghi deve fare altrettanto se vuole arrivare alla fine del mese con un reddito decente.

Il tassista in questione non è sicuramente ricco, fa turni di dodici ore per un incasso incerto che non dipende tanto dalla sua diligenza o abilità ma da fattori esterni come la congiuntura e magari la fortuna di incrociare i clienti giusti. Nella posizione del tassista probabilmente si trova gran parte dell’artigianato e del piccolo commercio, all’incirca 3-4 milioni di lavoratori: sui loro redditi effettivi, governi di ogni colore hanno, pressoché da sempre, chiuso bonariamente un occhio. In passato le cose possono essere state differenti ma oggi la loro è un’«evasione difensiva», ossia messa in atto per sostenere un tenore di vita e un piano di vita che sentono, talora drammaticamente, sfuggire tra le mani.

Il fatto è che l’Italia non può andare avanti così: siamo di fronte una questione di aritmetica assai prima che a una questione di etica. Il problema sorge perché la finanza internazionale che dà il voto - come ha fatto duramente ieri sera - all’«allievo Italia» e dalla quale l’Italia dipende per rifinanziare, settimana dopo settimana, il suo debito pubblico si è fatta molto più severa nell’ultimo anno: se non cambia meccanismi sociali, come quelli legati all’«evasione difensiva», l’Italia non troverà più chi le presti, a un tasso di interesse accettabile, le risorse finanziarie che le servono per far quadrare i conti.

Ecco allora da un lato i tagli ai servizi pubblici, a cominciare da quelli locali, inaugurati dal passato governo e dall’altro la nuova posizione in cui si trovano gli evasori: il tassista, il negoziante, l’artigiano sono costretti a cercare a pagamento nel settore privato quelle prestazioni che potrebbero ottenere gratuitamente dal settore pubblico se pagassero pienamente le tasse. E lo stesso devono fare, se lo possono, i cittadini che le tasse comunque le pagano. L’evasione si morde la coda e il Paese resta fermo, inefficiente e insoddisfatto.

Da questo brutto pasticcio non si esce certo in poche settimane e non bastano le tradizionali trattative tra il governo di turno e i rappresentanti delle categorie interessate. Ancor più delle privatizzazioni sono necessarie due azioni parallele di lungo periodo: la riduzione, a parità di qualità, del costo sostenuto dalle amministrazioni per fornire i servizi pubblici che non può non comportare il loro ridisegno - e il recupero non punitivo dell’evasione «difensiva». Servizi che costano meno e minore evasione potranno, a lungo andare portare a una tassazione più bassa.

Il recupero dell’evasione «difensiva» deve passare attraverso il riconoscimento che un’intera generazione di tassisti, edicolanti, negozianti ha acquistato, spesso parzialmente «in nero», la licenza che è alla base della loro attività. Si potrebbe riconoscere a questa licenza il carattere di bene produttivo, accettare la documentazione del prezzo complessivo pagato e concederne l’ammortamento anticipato, il che ridurrebbe per anni il carico fiscale nominale di questi lavoratori autonomi; in cambio, naturalmente, una revisione realistica delle loro dichiarazioni dei redditi e la riformulazione delle loro attività professionali. In un mondo che cambia molto rapidamente, mantenere per l’esercizio di attività di artigianato e piccolo commercio le regole di cinquanta, o anche solo vent’anni fa significherebbe condannare l’Italia a una sorta di Medioevo tecnologico e sociale.

Ben diverso dovrebbe essere l’atteggiamento nei confronti dell’evasione «offensiva» o «d’assalto», ossia dell’operato di chi evade non per conservare ciò che vede minacciato ma per aumentare reddito e ricchezza. Per questi evasori, le cui cifre sono nettamente superiori e i cui strumenti sono assai più sofisticati, non ci può che essere un’azione di contrasto totale; anche con i «blitz» dell’Agenzia delle Entrate.

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