LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 05:53:06 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 14
  Stampa  
Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 102211 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #90 inserito:: Ottobre 14, 2010, 11:55:21 am »

14/10/2010

La prossima marcia dei 40 mila

MARIO DEAGLIO

La marcia dei 40 mila fu la manifestazione che pose fine a tutte le manifestazioni; fu il corteo di quelli che non vanno mai in corteo. Chiuse la stagione iniziata nel Sessantotto, durante la quale, con molto entusiasmo, si pensava che bastassero manifestazioni e cortei per imprimere un nuovo corso alla storia, ridistribuire il reddito, riformare tutto, dalle università alle fabbriche. Fu un importante sintomo della difficoltà dell’Italia a cambiare, sembrò risolutiva di problemi che si presentarono poi in forma più acuta.

Iniziò un processo che mise fine al «disordine», al prezzo di metter fine anche ai sogni. La marcia dei 40 mila fu la marcia di chi aveva paura; pur con qualche elemento propositivo, fu una marcia «contro», non una marcia «per», una marcia con l’obiettivo di ristabilire, nelle fabbriche e nella società, un insieme di valori che, per vari motivi erano al tramonto e andavano reinterpretati. Contribuì pertanto a una progressiva «chiusura» dell’Italia: negli Anni Ottanta l’Italia fece l’ultimo sforzo - coronato dall’insuccesso - di giocare un ruolo veramente importante nell’economia europea e mondiale, negli Anni Novanta si cominciarono a vendere e a chiudere grandi complessi produttivi, negli ultimi dieci anni la velocità di crescita dell’economia italiana è risultata nettamente e pressoché costantemente inferiore a quella degli altri Paesi europei. Per non parlare di Stati Uniti, Cina e quant’altri.

Naturalmente la marcia dei 40 mila è soprattutto un simbolo e a questa chiusura contribuirono molti fattori. Si può dire che, dopo di allora, il sindacato cominciò a giocare in difesa, ad aprire fortemente ai pensionati che oggi ne condizionano le strategie, a disinteressarsi dei giovani che oggi largamente lo ignorano; le sue lotte sono state lunghe guerre di posizione, la gestione ordinata della ritirata industriale dell’Italia che portò alla fine di Olivetti e Montedison, all’uscita da gran parte della chimica e della farmaceutica. E così dai grandi poli industriali il Paese ripiegò sui piccoli distretti industriali.

Alla «prudenza» del sindacato fece da contrappunto la «prudenza» degli imprenditori. Anche gli imprenditori, infatti, cominciarono a giocare in difesa. Negli Anni Ottanta tentarono ancora l’avventura internazionale, basandosi però su forze esclusivamente finanziarie. E dopo di allora ci fu un lungo seguito di ristrutturazioni tra il privato e il pubblico privatizzato di fresco, che talora mise in luce molta inventiva tecnica ma scarsa capacità, per i gruppi di grandi dimensioni e con qualche eccezione, di assumersi davvero il rischio del nuovo. Forse solo negli ultimi due-tre anni, limitatamente ad alcuni settori, si osservano nuovi piani, nuove visioni, un nuovo gusto del fare.

Per effetto del clima sociale e politico successivo alla marcia, i «sessantottini» non arrivarono mai al potere, non diedero quella spinta di rinnovamento che, opportunamente temperata e sfrondata di numerosi eccessi, sarebbe stata essenziale per mantenere al paese un clima di dinamismo culturale. Questo forse spiega il crescente distacco da un’Europa dove, senza che i risultati siano stati sempre brillanti, i giovani non furono così duramente emarginati. Per conseguenza, la politica appassì e si dissolse e i leader politici italiani sono mediamente di 10-15 anni più vecchi di quelli del resto del continente.

È più che legittimo domandarsi se oggi ci potrebbe essere una nuova marcia dei quarantamila che metta in moto un mutamento radicale di carattere economico, politico e sociale come quello di trent’anni fa. E la risposta è che forse ce la possiamo attendere tra qualche anno, con caratteristiche in parte opposte alla marcia di allora. Se mai questo succederà, non sarà la marcia degli impiegati e dei capi officina che temono di perdere il posto di lavoro ma dei giovani che un posto di lavoro non ce l’hanno e si devono arrangiare con lavori precari in un insopportabile clima di provvisorietà. Non sarà la marcia di chi si sente vicino alla pensione ma di chi è ragionevolmente convinto che avrà, al massimo, una pensione magra.

La speranza è che non sarà una marcia contro, ma una marcia per un progetto, per un disegno del futuro, per un’assunzione di rischi e responsabilità che né la politica né la società sembrano oggi in grado di esprimere.

mario.deaglio@unito.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7953&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #91 inserito:: Ottobre 20, 2010, 04:53:49 pm »

20/10/2010

All'Europa mancano i governi

MARIO DEAGLIO

Un’Europa virtuosa, con i bilanci pubblici a posto e l’inflazione sotto controllo, un’Europa solida, dalle tecnologie avanzatissime e dalla moneta immacolata, ben presente negli scambi mondiali e bene ordinata al suo interno.

È questo il progetto sommariamente delineato, due giorni fa, a Strasburgo durante una riunione, tesa e lunghissima, dei ministri economici e finanziari.

Per la verità, tedeschi e «nordici», che sono i principali fautori di questo progetto, hanno fatto qualche concessione ai Paesi un po’ «vivaci» e un po’ caotici, come l’Italia, perennemente disordinati, con i conti pubblici non in ordine ma con famiglie che possono vantare un risparmio di entità superiore a quello delle famiglie tedesche. Purché anche questi italiani sbarazzini si adeguino al modello dominante.

Il giorno dopo quest’accordo, ossia ieri, si è svolto in Francia il sesto sciopero generale che può essere considerato - anche se non intenzionalmente - come il rigetto di questa visione dell’Europa. È infatti parte di un’imponente azione contro la riforma delle pensioni, premessa indispensabile perché i conti pubblici francesi possano avere qualche speranza di sostenibilità nel lungo periodo. Tre milioni e mezzo di persone secondo i sindacati, poco più di un milione secondo la polizia, hanno partecipato a cortei e manifestazioni con numerosi incidenti, mentre i Tir a passo di lumaca, gli scioperi delle raffinerie e la conseguente penuria di carburante non solo stanno mettendo a rischio la normale operatività del Paese ma stanno anche ponendo interrogativi importanti sul futuro, non certo solo francese, ma dell’intera Europa. Non a caso, l’euro, che avrebbe dovuto rafforzarsi alla notizia del nuovo patto - per nulla scontato alla vigilia - ha invece subito una netta battuta d’arresto per la paura di un nuovo «mal francese».

Di fronte all’accordo di Strasburgo non è quindi sufficiente che gli italiani si chiedano che cosa ci «guadagna» e che cosa ci «perde» l’Italia in termini di politica fiscale, ossia quanto spazio può restare per aumentare (o non ridurre) la spesa pubblica nei prossimi anni. E neppure porta molto lontano l’invito del governatore della Banca Centrale Europea - in un’intervista a La Stampa del 17 ottobre - alla sobrietà finanziaria e alla rapida riduzione del debito pubblico. Non si tratta di una partita tra l’Italia e il resto d’Europa, occorre inserire l’accordo finanziario in un più ampio quadro europeo.

Accanto alla sostenibilità finanziaria esiste, infatti, la sostenibilità sociale. Sulla sostenibilità finanziaria si sono fatti moltissimi studi; della sostenibilità sociale si conosce assai poco in un contesto in cui gli stili di vita, i rapporti e le aggregazioni delle persone sono profondamente cambiati. Gli eventi francesi di questi giorni mostrano che senza accettazione sociale, le misure necessarie alla sostenibilità finanziaria possono essere clamorosamente rigettate dalla «piazza» o forse pericolosamente annacquate. Occorre ricordare che proprio il popolo francese, con il suo «no» al referendum aveva, già nel 2005, affossato la nuova costituzione europea; e, tra i motivi di quel «no», indicati dai votanti in un sondaggio, al primo posto (46 per cento delle risposte) c’era la paura che, con la nuova legge fondamentale, la disoccupazione sarebbe peggiorata.

Va ugualmente ricordato che l’Italia ha accettato un elevato (e giustificato) prezzo per entrare nell’euro. Le regole finanziarie hanno radicalmente ridotto la crescita economica e reso problematica la nuova occupazione. Si sono così create tensioni che, in una società con una fortissima, forse eccessiva, capacità di adattamento, come quella italiana, non hanno provocato - almeno finora - esplosioni di malcontento dell’entità e della gravità di quelle francesi. Nel pasticciato stile italiano, in maniera complessivamente bipartisan e con un processo di quasi vent’anni gli italiani hanno «digerito» quelle riforme indispensabili che i francesi si apprestano a varare con moltissima difficoltà.

In definitiva, non basta certo la «purezza finanziaria» dei tedeschi di oggi - che pure nasconde alcuni punti di debolezza - così come non è certo demoniaco il rifiuto di moltissimi francesi a una radicale riforma pensionistica. Entrambi, portati all’estremo, hanno il potere di indebolire un’Europa che ha finora compiuto abbastanza bene la traversata della grande crisi della globalizzazione. L’Europa, e ciascuno dei Paesi che la compongono, ha bisogno di nuove politiche e di nuovi uomini politici che sappiamo spiegare le esigenze dei bilanci pubblici alla gente e le esigenze della gente al mondo della finanza. Purtroppo, in un continente di governi con maggioranze risicate o sfilacciate, di queste politiche e di questi politici per il momento non si vede neppure l’ombra.

mario.deaglio@unito.it
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7976&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #92 inserito:: Ottobre 26, 2010, 06:51:28 pm »

26/10/2010

Fiat, l'Italia si autoassolve e non discute
   
MARIO DEAGLIO

Negli ultimi due giorni gli italiani - e in particolare la classe politica italiana - sono stati sottoposti a quello che si può definire uno choc da globalizzazione; e complessivamente non hanno gradito. La globalizzazione, però, pur con alti e bassi, resta e l’Italia - che agli italiani piaccia o no - è costretta a viverci dentro, nel senso che il Paese, come parte dell’Europa, deve guadagnarsi il pane in un mondo globalizzato vendendo i suoi prodotti in competizione con altri Paesi per acquistare nel resto del mondo ciò di cui ha bisogno.

E’ questo il senso del «ciclone Marchionne», ossia della risposta alle dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat (e dell’americana Chrysler) nel corso di un programma televisivo domenicale e delle amplissime ripercussioni che hanno riempito la giornata politica di ieri.

Marchionne non è certo un diplomatico e ha detto, con la chiarezza un po’ rude che caratterizza i nove decimi dell’umanità, cose assolutamente vere e sgradevoli che gli italiani in cuor loro già sanno ma spesso preferirebbero non sentire: che l’Italia è diventata un Paese inefficiente e non competitivo, che l’organizzazione del lavoro permette in certi casi l’assenteismo di massa, che le fabbriche italiane della Fiat non contribuiscono neppure per un euro all’utile del gruppo.

Con un raro miracolo Marchionne è così riuscito a mettere quasi tutto il mondo politico d’accordo in un rigetto viscerale. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha dichiarato che si vede che Marchionne è più canadese che italiano; Pierluigi Bersani, segretario del Pd, ha detto che non possiamo diventare cinesi; il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha affermato che l’Italia sta già facendo quello che deve fare; il leader di Italia dei Valori Antonio Di Pietro ha definito «offensive» e «indegne» le parole di Marchionne; Nichi Vendola, portavoce nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà, l’ha invitato a fare autocritica e ha accusato la Fiat di non aver prodotto niente di innovativo.

In vario modo e con varie sfumature, buona parte dell’Italia ufficiale si autoassolve, non argomenta, al massimo ricorda pesantemente gli aiuti dello Stato alla Fiat, che peraltro sono stati un fattore comune della politica industriale dei Paesi ricchi durante la crisi degli ultimi due anni, in Italia sono stati inferiori alla media europea e comunque hanno riguardato tutte le auto vendute in Italia e non solo quelle qui fabbricate. Ci si è rifugiati in un’italianità di maniera, come i bambini convinti che il mondo esterno smetta di esistere se loro chiudono gli occhi.

Da quasi tutte le parti si è preferita l’invettiva, più o meno aperta, alla discussione. E’ mancato, insomma, un confronto critico. In particolare, in un caso purtroppo non infrequente di «cecità mediatica» che distrugge le sfumature delle notizie, si sono del tutto trascurate le parti «positive» dell’intervento del leader della Fiat che, tutto sommato, dovrebbero sembrare interessanti come la promessa (l’impegno?) di investimenti cospicui, di salari a livello europeo, di un rilancio a livello mondiale.

Marchionne può aver esagerato puntando i suoi riflettori soltanto sulle fabbriche italiane, trascurando il «cervello» della Fiat che continua a essere italiano in misura molto larga: centri di ricerca, progettazione, uffici che si occupano di strategia, amministrazione, programmazione e quant’altro certamente contribuiscono - e molto - agli utili aziendali. Ha però messo il dito sulla piaga quando ha segnalato il divario di produttività con gli altri Paesi; la causa da lui indicata - essenzialmente il sistema di relazioni industriali che non permette di trarre dalle fabbriche tutte le loro potenzialità - può non essere l’unica ma dovrebbe costituire l’oggetto di una discussione pacata e attenta. Altri possibili motivi di ritardo, legati al territorio, all’apparato legislativo, alla tassazione non andrebbero trascurati. Lo stesso ruolo dell’azienda può essere serenamente oggetto di discussione; ma proprio la serenità è la parola chiave, ed è proprio la serenità che pare mancare oggi. Per cui il tono delle discussioni si alza e la loro qualità si abbassa.

E intanto, per parafrasare Einaudi, gli imprenditori votano con i piedi. La Stampa ha documentato recentemente la migrazione di centinaia di «aziendine» non già verso Paesi dalla manodopera mal pagata ma verso nazioni vicine all’Italia, come la Svizzera. Molte imprese medie e medio-grandi, pur mantenendo in Italia il loro centro sviluppano all’estero le iniziative nuove. E questo non per «fuggire» ma perché, in caso contrario, andrebbero rapidamente fuori mercato. Di tutto ciò occorre che il Paese prenda atto e discuta con sobrietà.

mario.deaglio@unito.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8002&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #93 inserito:: Novembre 13, 2010, 08:53:07 am »

13/11/2010

L'Italia nel mezzo di due crisi
   
MARIO DEAGLIO

Una crisi di governo al buio nel bel mezzo di una crisi economica mondiale al buio: è questo il rischio che correrà l’Italia se la classe politica continuerà ad occuparsi soprattutto delle proprie questioni interne. L’Italia si trova infatti - e continuerà a trovarsi nelle prossime settimane - a un poco invidiabile crocevia tra la grande tempesta economico-finanziaria mondiale e le bufere politiche interne. Per quanto riguarda il quadro internazionale, la riunione del G20 chiusasi ieri a Seul pone la parola fine alle speranze di un’uscita «facile» dalla crisi.

Quelle speranze che erano state accese dalla riunione del G20 di Londra della primavera 2009. Allora tutti sembravano andare d’accordo su una ricetta di marca anglo-americana che comportava il sostegno alle grandi banche in difficoltà, una considerevole iniezione di liquidità nell’economia degli Stati Uniti e in quelle di buona parte d’Europa, nella diffusa convinzione che in questo modo l’economia sarebbe ripartita e tutto sarebbe tornato come prima.

Come ben sappiamo, le cose non sono andate così: la realtà ha tradito le speranze, la ripresa è risultata asfittica, sta rallentando invece di accelerare, come mostrano anche i dati sul prodotto lordo italiano resi noti ieri. Nei Paesi ricchi ha lasciato sul terreno alcune decine di milioni di posti di lavoro, con poche prospettive concrete di poter riassorbire questa nuova disoccupazione, e con un peggioramento delle condizioni di molte categorie di lavoratori e delle prospettive dei giovani. Un vasto e disordinato dissenso comincia a emergere, con gli scioperi francesi di ottobre, le elezioni americane di Midterm e fenomeni come la devastazione, alcuni giorni fa, della sede centrale del partito conservatore inglese.

Di fronte a queste difficoltà, gli Stati Uniti hanno reagito come in altre crisi, ossia ponendo il resto del mondo di fronte a un fatto compiuto. Senza consultare nessuno hanno infatti deciso di mettere in circolazione - mediante la sottoscrizione di titoli governativi da parte della banca centrale - un’enorme quantità di dollari. Questa grande iniezione di liquidità potrebbe rilanciare l’economia americana ma anche far cadere il cambio del dollaro, penalizzando i Paesi come la Cina che ne posseggono enormi quantità. Gli Stati Uniti mostrano così un’incapacità culturale, prima ancora che economica, a comprendere che il mondo è cambiato e che gli altri Paesi non accettano più senza reagire quanto viene stabilito a Washington.

E infatti, dietro ai sorrisi e alle buone parole dei comunicati di Seul, gli Stati Uniti hanno dovuto incassare il «no» della Cina a una drastica rivalutazione della propria moneta. La stessa Cina, insieme a Taiwan, adotterà misure restrittive per evitare l’afflusso di capitali americani, cosa che il Brasile, dal canto suo, ha già fatto, mentre anche la fedelissima Corea del Sud ha respinto un accordo commerciale con gli Stati Uniti e l’Europa ha preso garbatamente ma decisamente le distanze. Prevale, quindi, un clima non solo di confusione ma anche di divisioni, di contrasti. Il che lascia purtroppo prevedere, per l’insieme dei Paesi ricchi, un altro periodo di crescita stentata, in un clima di incertezza e senza alcun riassorbimento dell’occupazione.

Questo quadro fosco chiama in causa soprattutto i Paesi europei gravati da posizioni debitorie difficilmente sostenibili, come la Grecia e l’Irlanda che - quali che siano le colpe passate delle loro politiche economiche - si trovano impegnati in sforzi sovrumani per rimettere a posto i loro conti pubblici. E qui dal ciclone dell’economia mondiale si arriva alle tempeste, più moderate ma molto serie, di un’Italia, affetta da una cronica e grave ampiezza del debito pubblico che, come è stato annunciato ieri, ha toccato un nuovo massimo anche a seguito dello scarso gettito, conseguenza della debolezza della ripresa. Non si può trascurare che ieri il «rischio Italia» ha fatto momentaneamente capolino nelle quotazioni del debito pubblico italiano quando il differenziale di rendimento tra i titoli pubblici italiani e tedeschi ha toccato un massimo storico, per poi fortunatamente ripiegare. E che i movimenti delle quotazioni possono dipendere non solo dalla situazione economico-finanziaria ma anche dalla situazione politica.

È un campanello d’allarme: non solo è necessario approvare la legge finanziaria, come ha ricordato il presidente Napolitano, ma è indispensabile che, quale che sia la configurazione politica che emergerà dall’attuale tormentato periodo, il rispetto degli accordi europei sul rientro dagli attuali livelli di deficit e di debito deve essere assicurato. Questo significa che, nella nuova situazione, la Finanziaria non potrà essere riscritta e che qualsiasi allentamento su un capitolo di spesa dovrà essere controbilanciato da un inasprimento su un altro capitolo. Al voto di fiducia parlamentare, il futuro governo dovrà aggiungere un voto di fiducia della finanza internazionale; dovrà quindi apparire credibile e sostenibile non solo alle Camere ma anche alle Borse, chiamate a rifinanziare, per centinaia di miliardi di euro, i titoli pubblici italiani in scadenza.

mario.deaglio@unito.it
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8078&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #94 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:16:13 pm »

1/12/2010

Il nodo diventa sempre più stretto


MARIO DEAGLIO

E’ ormai diffusa la sensazione che, dalla finanza mondiale alle politiche nazionali, molti nodi stiano venendo al pettine; quando il nodo è troppo complesso, il pettine non lo scioglie ma strappa i capelli. In maniera analoga, i molti e intricati problemi di oggi potrebbero risolversi con «strappi», o discontinuità, alle regole, alle procedure, alle convenzioni, agli equilibri di potere economico e politico.

Tutto ciò vale, prima di tutto, per la finanza internazionale, squassata da crescenti manifestazioni di debolezza e singolarmente incapace di trovare una via d’uscita per conto proprio.

E’ possibile leggere queste manifestazioni di debolezza, e, in particolare, quella dell’euro, come il risultato di due evoluzioni parallele. La prima è di tipo finanziario e ha alla base l’incredibile incapacità dei grandi istituti bancari internazionali di comprendere la natura e le dimensioni della natura della crisi in atto. Dopo essere stati salvati dal collasso - soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna - grazie all’intervento dei governi, con risorse finanziarie che dovranno essere restituite da generazioni future di contribuenti, hanno ripreso a fare le stesse operazioni di prima, come prima, in assenza di controlli adeguati. Si è creata così un’insanabile contraddizione tra gli esami severissimi cui sono sottoposti i conti pubblici di paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia e i controlli leggeri e molto tolleranti sulle grandi banche internazionali i cui conti hanno spesso dimensioni superiori a quella dei bilanci pubblici dei paesi predetti; tra banche alle quali le autorità pubbliche hanno generosamente prestato, senza precisi limiti di tempo, e paesi dai quali si pretendono misure socialmente durissime in cambio di prestiti spesso esosi e relativamente scarsi.

In questa situazione generale si colloca la particolare evoluzione negativa dell’Europa che ha inizio tra il maggio e il giugno 2005, quando gli elettori francesi e olandesi bocciarono nettamente, in due referendum, il progetto di costituzione europea. Come costituzione forse non era un granché, ma in questo modo la creazione di uno «Stato» europeo è stata congelata e l’Europa si è trovata all’appuntamento della crisi come un pachiderma impotente e cieco. Impotente perché privo degli strumenti necessari per governare un grande sistema economico-finanziario, com’è quello dell’euro; cieco perché all’Europa mancano non solo gli strumenti per reagire ma anche quelli per conoscere la vera consistenza dei prodotti finanziari che contengono titoli «infetti», ossia provenienti dai Paesi dell’area euro in particolare difficoltà. Tutto ciò costringe a laboriose e incerte riunioni a Bruxelles con troppi partecipanti e troppi rinvii su argomenti che richiederebbero decisioni rapide e sicure.

A una simile situazione di debolezza si aggiunge la crescente abitudine dei vertici europei di diffondere messaggi di pericolo incombente sull’euro, incuranti del fatto che i mezzi d’informazione inevitabilmente amplificano - e talora distorcono - questi messaggi, accentuando le paure degli operatori e accrescendo i pericoli per il sistema. Di conseguenza aumenta la preoccupazione per il cambio in discesa dell’euro, anche se i livelli ai quali è ora quotato erano ritenuti soddisfacenti qualche mese fa e, per rifinanziare i titoli pubblici in scadenza, i paesi in difficoltà devono pagare un «premio per il rischio» ormai a livelli record, sottraendo così risorse alla spesa pubblica.

La debolezza dell’euro è almeno in parte frutto di questa situazione mentre sussistono interrogativi più sostanziali sulla tollerabilità sociale delle manovre finanziarie imposte a Grecia e Irlanda, e forse in un prossimo futuro anche a Portogallo e Spagna; a questi Paesi viene prescritto di rientrare dal proprio eccesso di debito in 3-4 anni, con inevitabile disoccupazione e una generale, grave sofferenza sociale. Se si diffondesse la convinzione - giusta o sbagliata - che tutto ciò avviene in primo luogo per rafforzare i bilanci delle grandi banche, potremmo trovarci di fronte a un rigetto politico di manovre di risanamento troppo dure.

In un simile, burrascoso contesto l’Italia si trova - non si sa per quanto tempo ancora - in una zona di relativa calma. E questo sia perché il debito pubblico italiano, per quanto elevato, è molto stabile sia perché le banche italiane non sono entrate, o sono entrate in maniera del tutto marginale, nel girone caldo della finanza internazionale e per conseguenza l’esposizione italiana al rischio dei quattro Paesi sopra indicati è minima. Dopo il recente, lusinghiero risultato di un’asta importante di titoli del debito pubblico italiano i mercati finanziari hanno però manifestato dubbi e preoccupazioni, forse collegabili all’incertezza - che ha del grottesco - della situazione politica del Paese. E qui il cerchio si chiude: per motivi di finanza internazionale, la crisi politica di fatto in cui si trova l’Italia non può essere aperta al buio né esser gestita come se il debito pubblico italiano non esistesse e non fosse, per circa metà, in mani estere. E’ difficile sciogliere questi nodi sempre più aggrovigliati ma qualche tentativo deve essere fatto. Prima che questi vengano sciolti strappando i capelli e procurando un male non necessario.

mario.deaglio@unito.it

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8154&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #95 inserito:: Dicembre 13, 2010, 04:07:59 pm »

13/12/2010

Ma l'euro da solo non basta

MARIO DEAGLIO

Quella che oggi si apre dovrebbe essere la settimana cruciale della politica, ma potrebbe anche risultare la settimana cruciale dell’euro. In Italia si valuterà la capacità di tenuta del presidente del Consiglio, ma sui mercati finanziari si valuterà la tenuta della moneta europea, prima scesa, poi rimbalzata, poi nuovamente debole dopo la faticosa messa a punto di una politica in favore dei Paesi maggiormente a rischio della zona euro.

Ebbene, diciamolo francamente: alla maggioranza degli italiani, e forse degli europei, l’euro non è simpatico e se ne parla male qualunque cosa succeda. Se il cambio si rafforza, ecco le critiche perché i prodotti esportati fuori della zona diventano automaticamente più cari, le vendite diminuiscono e la crescita rallenta; se il cambio si indebolisce, e quindi si pagano più cari gli acquisti extraeuropei, sono immediati i timori che il rialzo dei prezzi dei beni importati inneschi l’inflazione. E chi fa sommessamente presente che l’euro ci ha dato dieci anni senza inflazione si sente rispondere che gli indici dei prezzi sono sbagliati e che gli aumenti «veri» sono molto superiori. Se mai l’euro dovesse scomparire - un’ipotesi del tutto irrealistica - ci sarebbero moltissime preoccupazioni ma poche lacrime.

E questo perché, essendo frutto di un compromesso, nessuno Paese percepisce veramente l’euro come la propria moneta. I tedeschi rimpiangono il loro amatissimo marco, alla cui ombra potente pagavano volentieri più della loro quota del costo complessivo dell’Unione Europea; gli altri europei, e i francesi in particolare, borbottano sottovoce che l’abbandono del marco ha rappresentato la contropartita del «sì» europeo all’unificazione tedesca e che era inteso che i tedeschi avrebbero continuato a finanziare l’Europa senza proteste; agli italiani, poi, in fondo non dispiaceva la sagra degli zeri, preferivano sentirsi milionari nelle vecchie lire che vivere con mille euro al mese anche se con minore inflazione. Per tutti l’euro evoca più doveri che piaceri, un mondo grigio e ordinato in cui i conti devono tornare.

Il nocciolo duro della questione è tutto qui. In questi giorni è stato autorevolmente detto da più parti, con allarmismo ingiustificato, che, se l’euro dovesse finir male, l’Europa smetterebbe di esistere. E’ necessario ribaltare la questione: perché l’euro vada davvero bene, bisogna dare un senso all’Europa. L’euro ha rappresentato un’operazione inedita nella storia, e precisamente il tentativo di avviare un’identità comune non già attraverso l’eredità culturale del passato, la religione, la lingua ma, appunto, attraverso la moneta. Va detto che l’euro ha fatto bene la sua parte e dal punto di vista tecnico non lascia certo a desiderare. Ora però la sua spinta iniziale si è esaurita e non può trainare indefinitamente un continente svogliato: una moneta europea richiede una gestione europea, e non più nazionale, dell’economia. Questo implica sia l’esistenza di un ministro europeo dell’Economia, non previsto né dal fallito progetto di costituzione né dal trattato di Lisbona, sia almeno un embrione di tassazione europea. Nessun governo li accetta volentieri perché perderebbe la parte di sovranità che maggiormente sta a cuore ai politici: la facoltà di decidere come tassare e come spendere, a chi far pagare e chi beneficare.

Questo vuoto non può durare a lungo, siamo su un piano inclinato e se non andiamo avanti scivoleremo all’indietro. Andare avanti significa appunto trasferire una parte, inizialmente piccola, delle entrate fiscali a un governo centrale europeo che sia qualcosa di più dell’attuale Commissione. Con queste entrate il governo centrale europeo dovrà provvedere a spese a carattere generale, sottraendole ai governi nazionali. La scelta è ampia: dal controllo dell’immigrazione alla ricerca scientifica, dalla protezione civile alla sanità di base, ad alcuni segmenti della difesa. L'importante è che si cominci; invece tutti sono distratti da questioni nazionali e gli italiani avranno questa settimana la mega-distrazione del voto di fiducia mentre i problemi si accumulano per chi si troverà al timone dopo il voto di fiducia.

Solo in quest’ottica generale ha un vero significato, al di là dell’utilità come espediente congiunturale, la proposta Juncker-Tremonti sull’emissione degli E-bonds, ossia di titoli sovrani di debito non solo da parte di singoli Stati ma anche da parte dell’Unione Europea. I nuovi titoli non dovrebbero servire soltanto a scopi di stabilizzazione finanziaria ma anche al finanziamento di progetti europei, a cominciare dal campo delle infrastrutture. Si dovrebbe procedere, così come è successo nella storia degli Stati Uniti, alla determinazione di diversi livelli di finanza pubblica, uno europeo, uno nazionale e forse anche uno regionale. Il federalismo miope in cui ciascun Paese fa da sé, come se l’Europa e il mondo non esistessero è comunque destinato al fallimento. Quale che sia l’esito del voto di fiducia.

mario.deaglio@unito.it
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8194&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #96 inserito:: Dicembre 17, 2010, 09:05:25 pm »

17/12/2010

Le mezze misure non bastano

MARIO DEAGLIO

L’economia italiana delude, dice la Confindustria. Purtroppo però non sorprende, è necessario aggiungere. Quella pur bassa crescita che è tornata a farsi vedere in Europa ci sfugge tra le mani come sabbia e deposita solo minuscoli granelli in un Paese in cui la classe politica si occupa prima di tutto di se stessa, con un presidente del Consiglio impegnato, fino a poco tempo fa, a negare la gravità e persino l’esistenza stessa della crisi.

L’Italia detiene poco invidiabili primati come quello della disoccupazione giovanile più alta di tutti i Paesi ricchi, è stata, in questo primo, tormentato decennio del XXI secolo, il fanalino di coda dell’Europa e tornerà solo nel 2015 - come dice il Centro studi della stessa Confindustria - ai livelli economici precedenti la crisi.

L’economia italiana delude chi aveva pensato che, per sostenere il futuro produttivo del Paese, bastassero le aziendine del made in Italy e che il patrimonio tecnologico delle grandi imprese potesse esser tranquillamente lasciato deperire oppure altrettanto tranquillamente venduto all’estero, come è accaduto per elettronica, chimica, farmaceutica e tanti altri settori. Che le ricerche di mercato potessero sostituire la ricerca scientifica. Che un elevato livello di buon gusto potesse prevalere su un mediocre livello tecnologico. Che il Paese potesse avere un futuro trasformandosi in una gigantesca boutique.

L’economia italiana delude chi aveva pensato che tutto potesse aggiustarsi da sé, che la presenza di migliaia di imprese in buona salute, nonostante tutto, fosse una garanzia sufficiente della buona salute dell’intero Paese. Non è così, purtroppo: le imprese in buona salute operano generalmente in settori a bassa produttività e costituiscono una parte complessivamente piccola del totale, mentre i settori a elevata produttività sono assai poco presenti nella Penisola. Per questo, quando si tirano le somme, l’Italia tende ormai a essere superata da quasi tutti i Paesi dell’Ocse.

In quest’Italia che delude tutti sono responsabili di una fetta, grande o piccola, della delusione collettiva. Se la maggiore responsabilità tocca alla classe politica nel suo complesso - opposizioni comprese, quindi - per il suo colpevole estraniarsi dalle vicende di tutti i giorni del Paese, non possono chiamarsi fuori le forze sindacali, gli stessi imprenditori, e più in generale un mondo culturale che si guarda troppo poco attorno. Se ciascuno facesse l’esame di coscienza si accorgerebbe di aver agito con orizzonti miopi, di aver trascurato le esigenze dei giovani, di aver sopportato troppo a lungo ritardi e inefficienze - a cominciare dalle proprie -, di non aver premuto abbastanza fortemente il pulsante dell’allarme.

Purtroppo l’Italia rischia di deludere ancora di più guardando al futuro. L’analisi del Centro studi Confindustria non fa sconti e dice chiaramente che l’attività produttiva rimarrà debole a lungo e che l’orizzonte dell’occupazione è privo di facili speranze di un riassetto rapido. Queste debolezze dovrebbero essere poste sul tavolo del governo: il recupero di tassi accettabili di crescita e il ritorno a tassi accettabili di disoccupazione dovrebbero diventare il requisito essenziale di qualsiasi discorso politico, L’accordo su queste priorità economiche e sui cambiamenti necessari per metterle in pratica dovrebbero costituire una premessa alle intese su maggioranze di governo soltanto aritmetiche, l’inizio e non la fine, spesso distratta e svogliata, dei discorsi programmatici.

Le cose da fare sono molte e tutte piuttosto scomode. Hanno in comune la necessità di mettere sul piatto la rinuncia a posizioni consolidate, alla pretesa di nuove spese pubbliche. Agricoltori e liberi professionisti dovrebbero essere consci di godere di normative fiscali generose (i primi) e di limitazioni alla competitività a proprio vantaggio (i secondi) che si traducono in oneri maggiori per il Paese; il mondo del lavoro dovrebbe percorrere con più coraggio il cammino verso una maggiore flessibilità in cambio di maggiori investimenti; quello delle imprese dovrebbe mostrare maggiore lungimiranza e rischiare di più con capitali propri. Occorre inoltre esigere dal mondo della politica una riduzione consistenti dei suoi costi di funzionamento.

È necessaria una generale «conversione» del Paese, tanto più urgente in quanto le tempeste finanziarie mondiali continuano: per ora ci troviamo in un’area di relativa calma ma potremmo essere chiamati a contribuire finanziariamente alla salvezza del sistema, in maniera proporzionale alle nostre considerevoli dimensioni economiche, a cominciare dall’aumento di capitale della Banca Centrale Europea, reso noto ieri. La solidità di fondo del Paese, dovuta alla presenza di forti risparmi familiari, che compensano un debito pubblico consolidato assai grande ma in crescita lenta, potrebbe non essere sufficiente.

Su queste linee, dal voto di sfiducia mancato di tre giorni fa occorrerebbe passare a un voto di fiducia su un programma che contrasti alla radice i mali strutturali dell’economia italiana. Il problema della maggioranza di governo potrebbe risultare secondario. L’importante è rendersi conto che i piccoli aggiustamenti e le mezze misure non bastano più.

mario.deaglio@unito.it

Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #97 inserito:: Gennaio 04, 2011, 04:14:08 pm »

4/1/2011

Il mercato al posto della politica

MARIO DEAGLIO

Ci possono essere molte buone ragioni per essere d’accordo e forse altrettante per essere in completo disaccordo con le strategie dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Su un punto, però, sostenitori e avversari debbono convenire: queste strategie rappresentano il principale elemento di discontinuità sulla scena politico-economica italiana degli ultimi decenni.

Il passaggio dalla cosiddetta «prima» alla cosiddetta «seconda» Repubblica non ha infatti portato ad alcuna vera discontinuità: ha determinato un certo ricambio, forse peggiorativo, della cosiddetta classe politica lasciando sostanzialmente intatti i meccanismi di fondo dell’economia e della società. Non ha di fatto modificato né la concertazione sui problemi del lavoro, ossia la soluzione delle controversie mediante un dialogo teso a raggiungere un equilibrio tra le parti, sovente con la mediazione del governo; né le procedure atte a realizzare mutamenti nel potere economico attraverso aggregazioni e aggiustamenti più o meno grandi, largamente concordati nei cosiddetti «salotti buoni».

Con il loro misto di concretezza e di durezza, i casi industriali di Pomigliano e di Mirafiori stanno invece proponendo un’alternativa radicale ai meccanismi della concertazione. La quotazione in Borsa, iniziata ieri, di una galassia di titoli con il marchio Fiat e la parallela suddivisione del gruppo stesso in due grandi aree - che potrebbero avere destini economici e industriali differenti - propone un’alternativa quasi altrettanto radicale ai meccanismi interni del capitalismo italiano.

Pomigliano e Mirafiori hanno posto l’esigenza di un forte cambiamento nelle relazioni industriali in Italia e quindi anche nel ruolo non solo del sindacato ma anche della Confindustria che pure in passato è ripetutamente riuscita a reinventarsi mediante riforme interne.

Parallelamente, i nuovi titoli Fiat potrebbero di fatto indurre un mutamento di funzioni della Borsa Italiana, altro ente che ha cercato di reinventarsi: da quello prevalente di luogo in cui vengono ratificati, con nuove configurazioni azionarie, cambiamenti decisi altrove a quello di vero «campo di battaglia», di vero terreno di scontro tra vari progetti finanziari e industriali. Anche in questo caso, come per la concertazione, si avrebbe una sostanziale riduzione dello spazio riservato ai pubblici poteri e quindi una profonda modificazione nei rapporti tra economia e politica.

Negli incontri Fiat-sindacati, così come nell’incontro di ieri tra Marchionne e i media, sono state di fatto delineate non solo due proposte specifiche di investimento industriale, ma un nuovo modello di relazioni industriali e un nuovo modello di funzionamento della Borsa italiana. Il tutto è privo di un’incastellatura teorica e di una particolare armatura giuridica, ambedue tipiche del cambiamento graduale all’italiana. Ha il merito di squarciare il velo dell’ipocrisia sul grave indebolimento produttivo italiano che politici e parti sociali hanno a lungo cercato di non vedere.

I rapporti tra economia e politica ne dovrebbero risultare profondamente modificati, alla politica non viene richiesta alcuna particolare benedizione né alcun particolare aiuto. La politica stessa viene di fatto sostituita dal mercato e dal profitto, ma sarebbe un errore immaginare che il riferimento al mercato e al profitto sia necessariamente tipico di una politica miope, della ricerca di un «mordi e fuggi» a favore degli azionisti: il ciclo di investimenti proposto si articola infatti su uno o più decenni e non certo su pochi trimestri e l’impegno finanziario è di tutto rispetto. Al posto della vecchia Fiat, con la sua componente «istituzionale» nel quadro dell’economia italiana, che, proprio per questo, racchiudeva al suo interno settori produttivi molto diversi tra loro, con un complicato sistema di rapporti con il settore pubblico, si propongono almeno due grandi imprese, una nel settore dell’auto e un’altra in vari settori legati alla motorizzazione, con logiche di alleanze, crescita ed espansione molto diverse tra loro. In grado, secondo questo progetto, di competere sul mercato globale senza particolari «garanzie» e di essere separatamente molto più efficienti di quanto non fossero rimanendo unite.

Le discontinuità sono sempre scomode, il loro esito contiene una componente di incertezza e occorre capire se l’Italia di fatto accetterà la particolare discontinuità che le viene proposta. Dovrebbe però essere chiaro che nell’attuale contesto mondiale è difficile pensare a vie alternative per una nuova crescita, il rilancio dell’occupazione, l’interazione tra produzione e ricerca scientifica. E’ difficile vedere qualcosa di diverso di un’Italia che vivacchia e che si allontana sempre più rapidamente dal gruppo dei Paesi di testa, nei quali si sviluppano e si applicano le tecnologie da cui dipende il nostro futuro; di un’Italia eccessivamente attenta agli scontri tra i politici e clamorosamente lontana dai grandi movimenti di idee, di invenzione, di produzione, che stanno dando al pianeta una nuova dimensione.

mario.deaglio@unito.it
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8255&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #98 inserito:: Gennaio 24, 2011, 11:11:21 am »

24/1/2011

I problemi che l'Italia ha scordato

MARIO DEAGLIO

Per una decina di giorni gli italiani hanno vissuto una sorta di «vita parallela» in cui le vicende di Ruby e Berlusconi hanno spiazzato i normali parametri della realtà. E’ ormai tempo di scuoterci di dosso il senso di disgusto per il modo in cui una parte della classe politica trascorre le proprie serate di rilassamento e di tornare a occuparci di cose sicuramente più banali e, altrettanto sicuramente, meno disonorevoli. Scopriremo allora che molto è cambiato, in questi dieci giorni, in Italia e nel mondo. E non precisamente sotto il segno della tranquillità.

In Italia la bocciatura unanime da parte dell’Anci - l’associazione dei Comuni italiani - del progetto federalista del governo, per la parte che riguarda il fisco dei Comuni, conferisce una nuova dimensione al quadro politico italiano: alle molteplici, e in qualche modo normali, spaccature «verticali» (tra maggioranza e opposizione, e tra i raggruppamenti all’interno di entrambe) si viene a sommare una vistosa spaccatura «orizzontale» fra centro e periferia sull’attuazione del federalismo fiscale che forse non sarà facilmente sanata dagli incontri che il governo avrà con la stessa Anci questa settimana.

Il fatto è che il federalismo è sicuramente accattivante a parole ma molto difficile da realizzare in concreto. Invece di rappresentare una soluzione, il semplice passaggio dal centro alla periferia del controllo di alcune attività amministrative crea esso stesso dei problemi. In un Paese stremato dal debito e dal deficit pubblico, esso è economicamente accettabile solo se porta a una riduzione della spesa complessiva a parità di pressione fiscale, liberando risorse per altre iniziative. Si sta invece scoprendo che esso rischia di portare, a regime e nel migliore dei casi, a un aumento della pressione fiscale a parità di servizi pubblici erogati. Il che è assai poco accettabile prima di tutto per gli italiani e in secondo luogo per il mondo della finanza internazionale al quale l’Italia dovrà, per anni, continuare a chiedere di rifinanziare il proprio debito pubblico.

Se il federalismo non deve ridursi a una vuota etichetta, non ci può essere devoluzione di potere dal centro alla periferia senza una contestuale riorganizzazione dei servizi. Il mero trasferimento di competenze da un ministero romano a un assessorato comunale o regionale non risponde a quest’esigenza. E’ inoltre illusorio pensare che questo trasferimento possa avvenire contemporaneamente in tutte le parti d’Italia: alcune Regioni e alcune città sono probabilmente in grado di assumere già oggi il controllo di determinate funzioni pubbliche in maniera efficiente, magari anche elevando la qualità dei servizi. Altre decisamente no. Eppure un’introduzione graduale del federalismo, collegata a una sorta di «patente di efficienza» che le autorità locali debbono conseguire per poter diventare parte attiva del nuovo sistema, non è mai stata seriamente presa in considerazione.

Per quanto riguarda il panorama internazionale, nei dieci giorni in cui una diciottenne si è impadronita delle prime pagine dei mezzi d’informazione italiani né l’Europa né l’Italia hanno fatto segnare molti punti a loro favore. Al vertice sino-americano di Washington mancava una sedia, quella del rappresentante dell’Unione Europea. Invece di un G2 Washington-Pechino si sarebbe dovuto realizzare un G3 Washington-Pechino-Bruxelles. I problemi dell’ordine monetario internazionale, delle possibilità di un effettivo rilancio delle economie avanzate che ponga davvero fine alla crisi sono stati affrontati (e forse sono stati oggetto di intese) senza che l’Unione Europea - che è (ancora) la seconda potenza economica mondiale, di dimensioni di gran lunga superiori a quelle della Cina nonché, ovviamente, parte in causa - fosse presente o anche solo consultata. E questo perché, pur essendo un gigante economico, l’Unione Europea è un nano politico, dopo che i referendum del 2005 in Francia e in Olanda hanno affossato una costituzione faticosamente elaborata. Accanto a una Germania indecisa e a una Francia ridimensionata, l’Italia ha la sua parte di responsabilità per la «distrazione» europea.

Questa «distrazione» pesa in maniera particolare per l’Italia perché in questi giorni si è avuta la conferma della rapida evoluzione degli assetti politici del Mediterraneo, forse troppo a lungo ingessati. Tale evoluzione ha trovato l’Italia impreparata quando, dopo l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia - tutti Paesi in cui gli interessi italiani sono fortissimi - anche in Albania la situazione è sfuggita di mano alle autorità. Dopo gli avvenimenti di Tunisi, a meno di duecento chilometri dalle coste siciliane, manifestanti uccisi, auto bruciate, caos politico si ripropongono a Tirana, a meno di duecento chilometri dalle coste pugliesi. Ci vorrebbe quanto meno una riflessione sulla possibilità che il malessere della Riva Sud del Mediterraneo superi il mare e coinvolga la Riva Nord, per non parlare di progetti per lo sviluppo armonico delle due rive, molto presenti nella retorica politica ma assai carenti di contenuto. La classe politica italiana appare però troppo occupata ad analizzare i propri comportamenti con le diciottenni per aver tempo per queste banalità.

mario.deaglio@unito.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8329&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #99 inserito:: Febbraio 01, 2011, 04:47:49 pm »

1/2/2011

La frustata che serve alla ripresa

MARIO DEAGLIO

Dopo una lunga concentrazione sulle sue questioni personali, il presidente del Consiglio cerca ora di riprendere l’iniziativa ritornando sul terreno della politica economica. E lo fa con una mossa largamente imprevista, non foss’altro che per la sua rapidità (i progetti da lui annunciati dovrebbero essere approvati dal Consiglio dei ministri già venerdì) che si articola lungo tre direttici.

Dopo aver a lungo negato o minimizzato la portata della crisi, il presidente del Consiglio propone ora, con la sua prima direttrice, un’uscita «di forza» dalla crisi stessa.

Un’uscita che arriva mediante lo scatenamento, con l’abolizione di quelli che una volta si chiamavano «lacci e lacciuoli», di energie nascoste dell’imprenditoria italiana. Liberando le imprese dai lacci e lacciuoli si vorrebbe dare una «frustata al cavallo dell’economia», la più grande che la storia italiana ricordi. E l’economia riprenderebbe a correre: con la sua corsa il cavallo pagherebbe maggiori imposte risolvendo verosimilmente sia i problemi del bilancio pubblico sia quelli dell’occupazione.

Non ci sarebbe quindi bisogno di nuove imposte e, meno che mai - secondo caposaldo della costruzione del presidente del Consiglio - dell'imposta patrimoniale richiesta da sinistra, anzi, come per Reagan negli Stati Uniti degli Anni Ottanta, bisognerebbe procedere a una riduzione delle imposte, meglio se concentrata nella parte meridionale del Paese. La corsa del cavallo sarebbe quindi ulteriormente stimolata da un «piano di immediata defiscalizzazione per la rinascita del Sud», ed è questa la terza direttrice dell’iniziativa berlusconiana.

Nel respingere l’ipotesi di una patrimoniale, il presidente del Consiglio usa questa parola di cinque sillabe come il vero sostituto di una politica economica e industriale verso la quale non ha mai dimostrato una particolare simpatia. Riesce - con una considerevole abilità tattica - a identificare tutta l’opposizione con questa ipotetica nuova imposta a proposito della quale ci sono invece, come su quasi tutto, divisioni molto profonde nell’opposizione. Ributta così la palla in campo avverso dove sicuramente non ci sono idee molto chiare né molto articolate né molto facilmente «vendibili» agli elettori di un’eventuale campagna elettorale in tempi ravvicinati.

Chiarezza andrebbe comunque fatta. Occorre innanzitutto riconoscere che l’affidarsi alla crescita spontanea, agli «spiriti vitali» del capitalismo, miracolosamente risvegliati da mutamenti nelle regole, sa molto di propaganda. Se anche questa strategia avesse successo, i tempi sarebbero sicuramente di almeno due o tre anni, troppo lunghi per un Paese che sente sul collo il fiato dei creditori, chiamati mese dopo mese a rifinanziare il suo debito.

Occorre ugualmente ammettere che l’economia italiana è prigioniera di un circolo vizioso: solo la crescita può riportare a dimensioni ragionevoli l’enorme debito pubblico che soffoca l’economia, ma proprio il soffocamento dell’economia da parte del debito pubblico impedisce la crescita, se non a velocità così irrisoria che per far risalire la produzione italiana ai livelli pre-crisi con la bassissima crescita precedente si arriverebbe al 2015 (per l’occupazione ci vorrebbero alcuni anni in più).

Come se ne esce? Occorrerebbe uno scatto, una mossa, così come sia i proponenti la patrimoniale sia il presidente del Consiglio con la sua fierissima opposizione alla patrimoniale hanno bene inteso. Chi non ama la patrimoniale dovrebbe dire chiaramente che cosa ci mette al posto, e non fare semplicemente balenare l’immagine di un cavallo frustato che si mette ad andare al galoppo. Chi ama la patrimoniale dovrebbe sapere che si tratta probabilmente di una perfetta ricetta per perdere le elezioni. In questo modo, proprio perché la nostra malattia finanziaria è molto seria ma non acuta, rischiamo di non muoverci mai. Grecia, Irlanda e Spagna si sono date una mossa, la nostra considerevole capacità di assorbire gli choc rischia di farci perennemente assopire in uno stato di non-crescita.

Una soluzione potrebbe essere ricercata sulla falsariga dei dati del rapporto annuale della Guardia di Finanza, resi noti ieri, nel quale viene documentata un’attività di recupero dell’evasione a livelli che rappresentano un massimo storico. Mentre con la patrimoniale pagherebbero sempre i soliti noti, un recupero ancora più sostanzioso dell’evasione - da effettuare senza inutili moralismi e senza colpevolizzazioni eccessive ma concedendo più risorse all’apparato di controllo - farebbe emergere un gran numero di evasori totali e parziali. La lotta all’evasione può essere la vera «frustata» al cavallo anche perché il livello attualmente stimato dell’economia sommersa è pari circa al doppio di quello degli altri Paesi europei, ossia un quarto del prodotto lordo. Riportare l’economia sommersa a un livello europeo è un obiettivo al tempo stesso decoroso ed efficiente sul quale sarebbe possibile raccogliere un largo consenso. Il percorso di uscita dalla crisi sarà comunque complesso. Non ci sono «uomini del destino» in grado di riparare con un tratto di penna, foss’anche una modifica costituzionale, a un guasto che si è accumulato in vent’anni.

mario.deaglio@unito.it

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8358&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #100 inserito:: Febbraio 07, 2011, 12:02:33 pm »

7/2/2011

Alle imprese il disinteresse nazionale


MARIO DEAGLIO

Dove avrà il suo quartier generale l’eventuale futura Fiat-Chrysler? Nel dibattito, innescato dalle dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ciò che colpisce non sono tanto le dichiarazioni stesse, con il loro larvato accenno a una possibile multipolarità della nuova impresa, e alla conseguente possibilità che la direzione del gruppo non sia concentrata su Torino o su Detroit ma variamente ripartita sul pianeta. Ci si deve piuttosto meravigliare per le reazioni a questo vago programma che denotano una cultura molto lontana dalla realtà dell’economia globale.

Marchionne ha espresso propositi tipici dei manager delle grandi multinazionali, ossia linee guida flessibili in un mondo flessibile, dominato dall’incertezza, in cui le imprese sono sempre meno legate agli interessi di singole nazioni o regioni. Un mondo in cui la multinazionale elettronica cinese Lenovo ha acquistato la divisione personal computer dell’Ibm e ne ha lasciato la sede in America, mentre molte multinazionali europee e americane aprono centri di ricerca o direzioni di area in Cina o in India e ripensano i loro prodotti per adattarsi a nuovi mercati di miliardi di persone.

Si tratta di criteri discutibili, e forse questa «priorità delle imprese» nelle decisioni strategiche tramonterà presto. Occorre però constatare che il concetto tradizionale di localizzazione, con tanto di uffici modello paraministeriale, con burocrazie interne complesse si sta lentamente sciogliendo; eppure continua a dominare il modo in cui governi e opinione pubblica, soprattutto in Italia, concepiscono i rapporti con le grandi imprese. Con gli attuali modi di produzione, la vera dirigenza delle imprese tende a spostarsi in un «non luogo» come Internet, dove i manager si scambiano documenti, progetti e idee incontrandosi solo raramente ma rimanendo in contatto continuo.

Governi e opinioni pubbliche danno per scontato che debba esistere una sorta di scambio fuori mercato per cui le imprese nate in un Paese hanno obblighi particolari verso quel Paese che spesso si intrecciano con la politica. Erano frequenti in passato i casi in cui alle grandi imprese si richiedevano, per risultare «gradite», localizzazioni decise dal potere politico. Ora sembra prevalere la tendenza contraria: sono i Paesi e territori a competere tra loro per offrire alle multinazionali condizioni appetibili, spesso non di carattere monetario, come buone linee di comunicazione e bassi livelli di tassazione. In Italia si sente invece parlare assai più di ciò che le imprese devono «dare» rispetto a ciò che il Paese «offre» alle imprese.

L’Italia ha uno dei regimi fiscali meno favorevoli alle imprese, una struttura di trasporti relativamente cara, un costo dell’energia più elevato degli altri grandi Paesi europei, una lentezza amministrativa quasi senza pari; dall’altro lato della bilancia può far valere di essere (ancora) un grande mercato. Politici e normali cittadini non sembrano rendersi conto di trovarsi in un mondo nuovo e più impervio in cui questo carattere positivo sta impallidendo rapidamente di fronte all’emergere di altri grandi mercati come in Asia e in America Latina, o alle aperture alle multinazionali da parte di altri Paesi dell’Unione Europea, e infatti l’Italia attira pochissimi investimenti dall’estero. Per Fiat-Chrysler, l’Italia, pur rimanendo il primo mercato europeo del gruppo, sarebbe probabilmente solo il quarto mercato, dopo Stati Uniti, Brasile e Messico.

Questo giornale ha documentato, qualche mese fa, la «fuga» di centinaia di piccole e medie imprese dall’Italia settentrionale alla Svizzera. È invece di una decina di giorni addietro la notizia che Prada, nome simbolo del made in Italy, ha deciso di quotarsi in Borsa… a Hong Kong. La Borsa Italiana, divenuta una consociata relativamente piccola della Borsa di Londra, non sembra più una sede conveniente alla quotazione di imprese con un respiro globale. È un altro sintomo, non frequentemente portato all’attenzione del pubblico, del lento spegnersi della vitalità economica del Paese, dopo la riduzione dell’ambito operativo di Alitalia, divenuta di fatto una consociata di Air France-Klm e dopo che la Banca Nazionale del Lavoro è «entrata a far parte», come si scrive gentilmente per non menzionare che è stata acquistata, del gruppo francese Bnp Paribas.

In un mondo che sta cambiando radicalmente, l’economia di questo Paese sta perdendo un pezzo dopo l’altro ed è molto dubbio che la «sferzata» preannunciata dall’attuale governo possa essere lo strumento adatto per cambiare le cose. Nessuno però sembra preoccuparsene e lo stesso governo tranquillamente proclama festa nazionale - e quindi retribuita - il 17 marzo, 150˚ anniversario della proclamazione del Regno d’Italia; non tiene conto dei costi che una simile proclamazione avrà su imprese che possono contare su 200-250 giorni di produzione all’anno e quindi perderanno lo 0,4-0,5 per cento della produzione annua, da retribuire comunque. E ancor più sulle decisioni di una miriade di imprese che sempre più angosciosamente si interrogano sulla possibilità di continuare a investire in Italia.

mario.deaglio@unito.it

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #101 inserito:: Marzo 02, 2011, 06:43:28 pm »

2/3/2011

I sintomi di un male peggiore


MARIO DEAGLIO

Sembra un brutto sogno, o magari uno di quei brutti romanzi di fantaeconomia, ed invece è proprio la realtà. E’ come se fossimo finiti in un mondo diverso. I mostri, ricordati ieri su queste colonne da Franco Bruni, sono usciti dal vaso di Pandora nel quale speravamo di averli chiusi per sempre e assediano le nostre piccole speranze di un ritorno a una, sia pur risicata e raffazzonata, normalità.

Ne possiamo individuare tre. Il primo è politico e si chiama Destabilizzazione. In una mano tiene, ben visibile, il colonnello Gheddafi, mentre l’altra è nascosta e non sappiamo bene che cosa ci riservi: l’Egitto non è certo assestato, il Bahrein e l’Oman ribollono, in Algeria c’è un susseguirsi di scioperi, in Tunisia se ne è andato il primo ministro. E ci stiamo dimenticando la Costa d’Avorio sull’orlo della guerra civile, le elezioni contestate in Gabon e Uganda, il profumo di «rivoluzione al gelsomino» come è stato chiamato lo scontento sotterraneo cinese che allarma il governo di Pechino. Se poi passiamo a Paesi più vicini a noi, i risultati delle elezioni irlandesi, la sconfitta che ha quasi annullato il partito di governo non promette nulla di buono: un rifiuto dei nuovi governanti di adeguarsi al piano di austerità imposto da Bruxelles porrebbe a rischio i bilanci di molte banche, specie tedesche e inglesi, che hanno investito pesantemente in titoli legati al debito irlandese.

Il secondo mostro si chiama Agflazione, un misto di agricoltura e inflazione con cui viene designata la pressione inflazionistica che può derivare dall’aumento di prezzo dei prodotti agricoli, dovuta soprattutto a cause climatiche sulle quali si è innestata una robusta speculazione. Così il prezzo del grano è a livelli record mentre le scorte segnano un record negativo. E’ inevitabile che questi aumenti si proiettino in avanti sui prezzi del pane e, tramite i mangimi per i bovini, su gran parte della spesa alimentare, dai formaggi alla carne in ogni parte del mondo. Insieme, e più del grano, sono saliti il cotone, il cacao e lo zucchero. E la lista potrebbe continuare: mediamente, secondo l’indice compilato da The Economist, in un anno il prezzo delle materie prime alimentari è cresciuto di circa il 40 per cento.

Il lettore perdoni se il menu è lungo oltre che difficile da digerire, ma è bene descrivere la situazione chiaramente: abbiamo ancora il terzo mostro, si chiama naturalmente Petrolio e Gas Naturale. Questo ci è famigliare perché ce lo ritroviamo davanti tutte le volte che facciamo il pieno con l’auto. E’ bastata l’interruzione delle forniture libiche, pari al 2 per cento della produzione mondiale, perché il prezzo del greggio salisse di oltre 10 dollari al barile. E si stima che un aumento di 10 dollari al barile porti con sé una riduzione dello 0,2 per cento nella nostra preziosa e stentata ripresa.

La combinazione dei tre mostri può portare alla Stagflazione, forse la più brutta malattia che l’economia ci riserva, un misto temibile di stagnazione che debilita e di inflazione che impoverisce. L’ultima volta che l’Occidente se la prese, quasi quattro decenni fa, ci mise diversi anni a uscirne fuori. Non è detto che ce la prendiamo anche questa volta, ma l’uomo prudente dovrebbe prepararsi, anche se non esistono medicine sicure. Fa invece impressione la massima calma che sembra regnare a Bruxelles, mentre la Francia ha i suoi problemi con la sostituzione dei ministro degli Esteri, la Germania con le dimissioni del ministro della Difesa, gli inglesi sono tutti presi dall’entusiasmo per il premio Oscar ottenuto da un loro bel film. E l’Italia? Sugli interessi non vitali che tengono l’attenzione dei politici italiani c’è solo l’imbarazzo della scelta. Nella giornata di ieri, a livello mondiale il solo discorso preoccupato di un responsabile economico è stato quello di Ben Bernanke, il governatore della Banca centrale americana, che ha usato termini allarmati. Ma anche in America né la politica né le Borse sembrano prenderlo troppo sul serio.

mario.deaglio@unito.it

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #102 inserito:: Marzo 19, 2011, 10:31:51 am »

19/3/2011

Giappone, una tragedia che cambierà la nostra vita

MARIO DEAGLIO

Alle catastrofi naturali siamo, purtroppo, abituati da tempo. Agli incidenti gravi delle centrali nucleari sicuramente no. Per questo, il cordoglio e lo sgomento per gli avvenimenti giapponesi vanno molto al di là di quelli, in qualche misura stereotipata, che hanno fatto seguito ai gravi e frequenti terremoti recenti, da Haiti alla Nuova Zelanda. A differenza di quelle catastrofi, la fuga di radioattività dalla centrale di Fukushima non rimane un fatto esterno da affrontare con un’appropriata dose di «buonismo» ma chiama in causa la stabilità del sistema economico mondiale, il nostro consumo di energia, e quindi il nostro modo di vivere, penetra nella nostra vita quotidiana, semina dubbi e inquietudini, condiziona le nostre scelte di politica industriale.

Anche se, come tutti ardentemente ci auguriamo, gli incendi ai reattori di Fukushima non avranno ulteriori conseguenze, è chiaro che l’energia nucleare ha fatto un grosso passo indietro dal quale riemergerà, se e quando riemergerà, con maggiori costi economici - per la sicurezza addizionale che si renderà necessaria per l’eventuale costruzione di nuovi impianti - e con maggiori costi politici, per la facilmente prevedibile avversione di tutte le popolazioni del mondo a vedere costruire una centrale nucleare a poca distanza dalle proprie case.

Il che rende necessario per l’intero pianeta, ma in particolare per l’Europa e per l’Italia, affrontare un problema scomodo, sempre rinviato nella sostanza: l’era dell’energia a buon mercato è finita. Di petrolio «facile», ossia di quello che si tira fuori bucando il suolo fino a poche centinaia di metri a un costo di 20-30 dollari al barile, non ce n’è più, con la possibile eccezione dell’Iraq, dove le guerre hanno ritardato l’estrazione; il petrolio «difficile» occorre estrarlo da migliaia di metri di profondità, sotto la terra e sotto i mari, a costi molto superiori; il gas naturale potrà supplire temporaneamente e parzialmente a questa carenza ma le riserve energetiche hanno sostanzialmente smesso di aumentare mentre la domanda dei Paesi emergenti diventa sempre più vivace. Oggi ci lamentiamo per qualche centesimo di aumento nel prezzo della benzina ma la prospettiva più credibile di lungo periodo è quella di sensibili rincari per benzina, gasolio, ed elettricità da cui possono derivare spinte inflazionistiche generalizzate.

Un problema di questo genere dovrebbe essere affrontato, oltre che a livello mondiale, anche a livello europeo. E invece è impressionante constatare che Germania, Francia, Italia e tutti gli altri continuino nei fatti a seguire politiche nazionali delle quali sono particolarmente gelosi; uno degli indici con i quali si misurerà il successo (o forse la possibilità di sopravvivenza) dell’Unione Europea sarà la capacità di coordinare, superando egoismi e miopie, una serie di politiche oggi prerogativa dei governi nazionali, dalla previdenza sociale all’energia, appunto.

E’ bene dire subito che, anche prima di Fukushima, l’energia nucleare non sarebbe bastata a risolvere i problemi ma avrebbe portato soltanto a una loro attenuazione come parte di un mix comprendente energia solare ed energia eolica. E che queste due forme di energia, che richiedono investimenti non certo indifferenti, non soddisfano ugualmente bene a ogni tipo di bisogni. Sono assai più efficienti per illuminare e scaldare le case che per muovere treni e far funzionare altiforni. E se non provocano emissioni inquinanti, possono avere altre importanti controindicazioni come la distruzione del paesaggio.

La lezione di Fukushima sembra allora chiara: quella centrale esplosa quasi in diretta sui nostri schermi televisivi segnala la fine di un modo di produzione legato all'energia facile, flessibile e abbondante e di uno stile di vita in cui si esce da una stanza senza preoccuparsi di spegnere la luce. Ci aspetta un mondo in cui guarderemo nervosamente, oltre che agli indicatori dell'inquinamento globale, alla bolletta dei consumi elettrici. L'accesso facile e l'abbondanza energetica non saranno più garantite e potrebbero rappresentare una nuova discriminante tra ceti sociali ricchi e ceti sociali poveri, oltre che tra Paesi ricchi e Paesi poveri.

A meno di trovare nuove fonti energetiche a buon mercato, una ricerca sul cui successo è difficile esprimere valutazioni, la risposta migliore per l'Italia e per l'Europa sta nel miglioramento dell'efficienza energetica delle fonti attuali. Basti pensare che, nelle automobili dei tempi del primo shock petrolifero, il consumo di benzina per chilometro era superiore del cinquanta, talora perfino del cento per cento a quello delle automobili attuali, che i nuovi elettrodomestici consumano considerevolmente meno di quelli della passata generazione e che la coibentazione delle case consente risparmi straordinari.

Raddoppiare l’efficienza energetica equivarrebbe di fatto a raddoppiare le riserve energetiche e consentirebbe di guadagnare almeno un paio di decenni in attesa di soluzioni «definitive» ancora remote. Un simile raddoppio dovrebbe essere non soltanto un auspicio bensì anche obiettivo specifico di politica industriale, da incoraggiare e sostenere adeguatamente con strumenti fiscali e con azioni mirate nel campo della ricerca, per l'industria italiana ed europea, troppo spesso aggrappate per necessità a prospettive di breve periodo e ad obiettivi di mera sopravvivenza.

mario.deaglio@unito.it
da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #103 inserito:: Marzo 23, 2011, 11:25:11 am »

23/3/2011

Rischio retrocessione per l'Italia


MARIO DEAGLIO

Ieri Bulgari, oggi Parmalat? Le acquisizioni straniere di imprese italiane non comprendono solo marchi notissimi della moda come Valentino, Gucci e Ferré. L’elenco si allunga sensibilmente se, oltre al «Made in Italy», si considerano banche e società finanziarie.

A queste si aggiungono le piccole e medie imprese industriali operanti soprattutto in «nicchie» molto specializzate sulle quali dovrebbe basarsi il futuro produttivo del Paese. Non bastano a fare da contraltare le pur numerose acquisizioni italiane di imprese straniere: se si eccettua il caso Fiat-Chrysler, decisamente atipico, in questi ultimi anni gli acquisti all’estero sono stati prevalentemente effettuati da imprese medie e medio-piccole impegnate in una difficile crescita internazionale mentre l’estero mira tranquillamente ai bersagli grossi.

Perché imprese che sono diventate sinonimo di eccellenza, simboli mondiali della capacità italiana di produrre bene non attirano a sufficienza l’interesse (e i capitali) degli investitori italiani? Perché Prada, altro grosso nome della moda ha scelto addirittura Hong Kong e non Milano per quotarsi in Borsa? Perché, come documentato alcuni mesi fa da questo giornale, oltre un centinaio di piccole imprese hanno lasciato la Lombardia per trasferirsi in Svizzera?

Non ci sono risposte facili ma è possibile individuare un fattore importante, di tipo culturale prima che finanziario, che riguarda il modo di agire degli imprenditori italiani: pieni di inventiva e di coraggio quando si tratta di realizzare nuovi prodotti, non lo sono altrettanto quando si tratta di impegnare fino in fondo nelle aziende i propri capitali. Spesso geniali, tra un colpo di genio e l’altro, non amano le strategie «lunghe» e noiose, assomigliano più a Garibaldi che a Napoleone.

Per non fare il passo più lungo della gamba, hanno tradizionalmente ricercato la «sponda» delle banche o del settore pubblico per finanziamenti, garanzie e occasioni di crescita mentre i loro colleghi stranieri ricercano prima di tutto il consenso, e quindi i finanziamenti, del mercato. Dalle banche e dal settore pubblico non possono più ricevere, a differenza del passato e a causa della crisi finanziaria, garanzie sufficienti a costituire un piedistallo sul quale poggiare l’espansione della loro azienda o finanziamenti sufficienti per sostenere lunghe strategie espansive. E la Borsa, dalla quale in teoria potrebbero provenire nuovi capitali e nuove idee, sembra aver perso slancio dopo l’unione con Londra: i progetti migliori e gli affari più importanti passano sempre più frequentemente per la capitale britannica, o per il lontano Oriente, mentre le famiglie sono tradizionalmente molto caute e timorose nell’impiegare i loro risparmi in titoli azionari.

Soli e stanchi, gli imprenditori cercano un’altra «sponda». La trovano sovente all’interno di grandi gruppi stranieri che da un lato impongono loro una disciplina finanziaria che raramente saprebbero darsi da soli, dall’altro forniscono garanzie sugli sbocchi produttivi che altrimenti non potrebbero più trovare. La loro stanchezza fa da contrappunto alla visibile stanchezza del sistema politico nazionale, incapace di formulare, o anche solo di indicare, linee guida per la crescita. E non è possibile dimenticare le notissime complessità amministrative, la pesantezza fiscale, la penalizzazione di fatto delle iniziative nuove, che fanno scappare in Svizzera le impresine lombarde, né la mancanza di garanzia sulla sicurezza personale in alcune aree del Paese.

In questo modo il sistema produttivo tende lentamente ad assottigliarsi, a perdere energie e punti di orientamento così come una perdita di energia e di orientamento è chiaramente visibile dalla mancanza di obiettivi generali di lungo periodo. Il confronto con la Francia è particolarmente bruciante se si considera che la Danone (che può essere considerata la «Parmalat francese») è stata, nel corso degli anni, incoraggiata a crescere mediante fusioni e acquisizioni all’interno della Francia, con l’obiettivo specifico, condiviso da governi di vario orientamento, di farne un leader del settore alimentare europeo e mondiale.

In Italia, l’interesse sul caso Parmalat si è incanalato pressoché unicamente sulle questioni giudiziarie, sul passato - naturalmente degno della massima attenzione e rispetto - dei risparmiatori da risarcire e non sul futuro, ossia sulle strategie, di una Parmalat rimessa a nuovo con alle spalle un’importante e preziosa esperienza multinazionale. Proprio per questa mancanza di sensibilità alle strategie future gli italiani sono stati completamente spiazzati dall’azione finanziaria francese, condotta con rapidità ed efficienza.

In Francia, nel 2005 un tentativo di scalata alla Danone da parte dell’americana Pepsi fu respinto con decisione dal governo. Successivamente la Danone fu inserita in un ristretto gruppo di imprese dichiarate irrinunciabilmente francesi, una protezione molto discutibile ma applicata, in una forma o nell’altra, nei principali Paesi «di mercato», Stati Uniti compresi, per quanto riguarda le industrie ritenute essenziali. In Italia, la Parmalat è alla mercé di qualsiasi azione acquisitiva di chi si dimostri sufficientemente intraprendente, svelto e amante del rischio per comprarsi, nello spazio di qualche settimana, una bella azienda con oltre 4 miliardi di fatturato. E proprio per non essere amante del rischio, l’Italia rischia grosso: di non ritrovarsi più prima fila nell’economia globale.

mario.deaglio@unito.it

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #104 inserito:: Aprile 10, 2011, 04:51:58 pm »

10/4/2011

Le due Italie del lavoro che non si parlano

MARIO DEAGLIO

Una manifestazione nazionale dei lavoratori precari, come quella di ieri, articolata in varie fasi e in varie città, sarebbe stata impensabile anche solo un anno fa e rappresenta un importante sviluppo economico-sociale.

I precari, infatti, tradizionalmente sono cani sciolti, con diversissime storie personali, ai quali la continua mobilità rende comunque difficile, in via normale, un’azione comune. Assunti a termine, pagati, di solito non molto, e poi arrivederci e grazie.
Una simile situazione può anche essere accettabile se esiste una sorta di patto implicito in base al quale questi spezzoni di lavoro, a termine o a tempo parziale, si possono trasformare in un lavoro vero entro un ragionevole intervallo di tempo. In questo caso l’attività precaria può costituire una sorta di apprendistato, anomalo ma in grado di insegnare una professione; non è invece possibile restare apprendisti - o precari - per tutta la vita.

Con la crisi economica la durata del precariato si è allungata, la sua natura è cambiata. I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori-cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi, implicitamente, forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello dell’Alitalia quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, e quindi privilegiata, cassa integrazione, mentre i precari rimasero sostanzialmente a bocca asciutta. Per questo il rapporto con il sindacato è molto difficile anche se la Cgil, che ha appoggiato le manifestazioni di ieri, fa di tutto per ricucire uno strappo generazionale.
Non basta però, rendere più difficile il licenziamento, come appunto la Cgil propone, occorre rendere più facili le assunzioni a tempo indeterminato. E questo si può fare soltanto cercando di imboccare a tutti i costi un sentiero di crescita, un argomento di cui il Paese, apparentemente troppo occupato con il teatrino della politica, con gli insulti tra parlamentari e le barzellette sconce del presidente del Consiglio, si dimentica allegramente.

Che i precari sopportino direttamente gran parte del peso della crisi è confermato dall’analisi della Confartigianato, resa nota ieri, in base alla quale quasi un milione di lavoratori sotto i trentacinque anni (una fascia di età in cui i precari sono molto fortemente rappresentati) ha perso il lavoro nel 2009-10, mentre è aumentato il numero degli occupati più anziani. La condizione di disagio derivante dall’incertezza del precariato si è allargata a categorie che una volta ne erano immuni: giovani medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, insegnanti vedono le loro prospettive di vita messe in forse dai tagli alla spesa pubblica e non ricevono alcuna solidarietà dal resto del Paese.

E’ chiaro che la riduzione di un terzo della capacità di risparmio delle famiglie italiane nel periodo 2002-2010, che risulta dai dati diffusi dall’Istat qualche giorno fa, deve essere avvenuta tra queste fasce dai redditi più deboli. Sempre qui, e non certo tra i lavoratori a tempo indeterminato del pubblico impiego, si deve collocare gran parte della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane, risultato, nell’ultimo trimestre del 2010, inferiore del 5,5 per cento al livello pre-crisi. La risalita del potere d’acquisto rispetto ai minimi toccati un anno fa (-6,4 per cento) è lentissima: di questo passo ci vorranno 4-5 anni, sempre che tutto vada bene, perché il potere ritorni, in termini reali, alla situazione precedente la crisi. Il vero interrogativo è se l’Italia possa permettersi altri quattro-cinque anni di stagnazione dei consumi e dei risparmi familiari, altri quattro-cinque anni con i giovani con la cinghia tirata che lavorano con il contagocce senza alcuna vera possibilità di metter su famiglia o di impostare un qualsiasi piano di vita.

Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese «normale», composto prevalentemente di persone sopra i quarant’anni, e un Paese «precario», composto prevalentemente di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi; tra chi sta a casa quando ha il raffreddore perché il posto è comunque garantito e chi va a lavorare con la febbre perché altrimenti il posto è perso. La comunicabilità tra i due Paesi è scarsa, le due parti non si conoscono.

Si tratta di una frattura molto pericolosa che presenta una somiglianza di fondo - pur in contesti ovviamente molto diversi - con la frattura sociale alla base delle «rivoluzioni» in atto sulla Riva Sud del Mediterraneo, dove fasce sociali di basso reddito, prive di veri meccanismi di rappresentanza, sono state spinte, da un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari, alla rivolta contro élites molto anziane, da lungo tempo prive di ricambio politico. Siamo proprio sicuri di essere immuni da questo contagio? Quanti rappresentanti hanno in Parlamento i lavoratori precari? E quanti appartenenti alla classe politica, ossia parlamentari nazionali e regionali, nonché consiglieri provinciali, comunali o di quartiere hanno meno di quarant’anni? Quanti sono i quarantenni in posizioni di primo piano nelle strutture delle imprese?

In Italia, nessuna banca offrirebbe a un giovane di talento facilitazioni creditizie del tipo di quelle di cui negli Stati Uniti hanno potuto godere Bill Gates e Steve Jobs, che sono così riusciti a creare imprese di successo e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Politici come Obama (50 anni), Sarkozy (56 anni), Merkel (57 anni), Cameron (55 anni), Zapatero (51 anni) in Italia non avrebbero spazio. L’Italia non ha favorito il ricambio generale e ha, per così dire, saltato una generazione, spingendo i giovani a un precariato perenne.

Ma un Paese che non sa risolvere i problemi dei suoi precari diventa esso stesso precario, cresce stentatamente e viene marginalizzato a livello internazionale. Come dimostrano gli avvenimenti recenti.

mario.deaglio@unito.it
da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Pagine: 1 ... 5 6 [7] 8 9 ... 14
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!