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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 100481 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Maggio 26, 2010, 03:34:18 pm »

26/5/2010

La strada obbligata del rigore
   
MARIO DEAGLIO

Non ha molto senso misurare la manovra appena varata con la bilancia di precisione: è una forma di miopia tutta italiana concentrarsi fino allo spasimo sui dettagli, discutendo furiosamente su quanto pagherà questo o quello e perdere di vista il quadro generale, ossia una crisi strutturale del capitalismo con pochi o forse nessun precedente. Ignorare, più o meno volutamente, che una ventina di Paesi, in grande maggioranza ricchi, stanno facendo, contemporaneamente all’Italia, manovre di contenimento della spesa pubblica almeno pari a quella italiana e spesso ben più severe.

Per venire a capo di questa miopia occorre partire precisamente dalla crisi generale che stiamo vivendo e che non è certo limitata alla finanza ma presenta contemporaneamente aspetti politico-strategici, economici e sociali. Non possiamo ignorare che le grandi turbolenze dei mercati stanno avvenendo in un momento in cui la capacità degli Stati Uniti di presentarsi come potenza in grado di controllare i grandi equilibri e i grandi sviluppi mondiali mostra segni di rapidissimo degrado, dalle elezioni ucraine agli accordi atomici fra Turchia e Iran negoziati dal Brasile, quasi all’insaputa degli Stati Uniti. I Paesi della Nato appaiono incapaci di ottenere una vittoria militare in Afghanistan e la marina americana non sembra più in grado di controllare l’Oceano Pacifico con l’efficienza di una volta, al punto da consentire a un piccolo «Stato canaglia» come la Corea del Nord di affondare una nave militare della Corea del Sud, strettissimo alleato di Washington.

In questo quadro di cambiamento rapido, talvolta drammatico, si colloca l’incapacità dei governi dei Paesi ricchi di rimettere rapidamente le loro economie sulla strada dello sviluppo e i propri bilanci pubblici sulla strada della sostenibilità. Il deficit federale degli Stati Uniti si avvia a battere ogni record e, come ha detto il premio Nobel Edmund Phelps in una recente intervista, «l’America percorre la stessa strada di Atene». La stessa strada la stanno percorrendo anche la Gran Bretagna, la Spagna e la Francia, tanto per citare alcuni dei Paesi più importanti, mentre l’autogoverno del sistema finanziario mondiale si dimostra clamorosamente inefficace a controllare un mercato ubriaco.

In questa situazione, mettere in sicurezza - per quanto possibile - i propri bilanci pubblici appare un imperativo comune, una misura necessaria anche se non sufficiente, che tutti debbono adottare non foss’altro perché tutti gli altri la stanno adottando, pena l’immediata perdita di valore dei titoli del debito pubblico del Paese che cercasse di starne fuori e l’impossibilità di rifinanziarsi a tassi sostenibili quando questi titoli vengono in scadenza.

Le operazioni di questo genere devono inoltre fare i conti con i problemi sociali che costituiscono la terza dimensione di questo pasticcio mondiale. Il malessere che si esprime attraverso gli estesi disordini di Atene trova un’eco nello scontento sempre più diffuso in Gran Bretagna, nella tensione crescente nelle banlieues delle città francesi, nei risultati elettorali che danno ampio spazio alle formazioni estreme in buona parte dell’Europa. Non è detto che i cittadini-elettori-consumatori accettino di buon grado un taglio consistente non tanto ai loro redditi attuali quanto alle prospettive di vita loro e dei loro figli.

In questo quadro, l’operazione italiana appare relativamente piccola: 12-13 miliardi l’anno, per un biennio, rappresentano all’incirca lo 0,8 per cento del prodotto annuo lordo italiano che è di oltre 1500 miliardi, una quota assai minore non solo di quelle di Grecia, Spagna e Portogallo ma anche di quanto stanno preparando Gran Bretagna e Francia. Quest’esiguità si spiega con l’eccellente capacità dell’Italia durante un quindicennio e sotto governi di diversa bandiera di amministrare il proprio debito, al punto di sacrificare la crescita al suo contenimento.

E non si può negare una certa cura del ministro dell’Economia di cercare di usare metodi diversi dalle «normali stangate» per cui, in prima approssimazione, per la stragrande maggioranza degli italiani gli effetti sui bilanci famigliari saranno molto contenuti. Certo ci possono essere effetti indiretti negativi difficili da prevedere, ma purtroppo in questa situazione non abbiamo scelta: se è vero, come recita il proverbio inglese, che non si può fare una frittata senza rompere le uova, è ben difficile fare una manovra economico-finanziaria senza cavar soldi da qualcuno. Ed è comunque apprezzabile che ci sia una continuazione della lotta all’evasione e che per la prima volta ci sia almeno qualche puntura di spillo al carrozzone della politica, il cui livello di spesa, in confronto ad altri Paesi avanzati, comincia ad apparire grottesco.

L’essenziale è che non ci si fermi qui: che dopo aver messo un qualche ordine nei loro conti i principali Paesi del mondo - o quanto meno i Paesi europei - rivolgano subito la loro attenzione al funzionamento dei mercati, riportandoli a regole essenziali di trasparenza e credibilità. Senza un’azione di questo genere, i sacrifici grandi e piccoli saranno resi vani e un sistema di mercato con poche e insufficienti regole non sarà in grado di far ripartire l’economia mondiale.

mario.deaglio@unito.it
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7403&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #76 inserito:: Giugno 10, 2010, 12:30:51 am »

9/6/2010

La crisi continua e cambierà tutto

MARIO DEAGLIO

Non abbiamo scelta, il nostro stile di vita dovrà cambiare - dice il nuovo primo ministro inglese -, le conseguenze delle decisioni che prenderemo toccheranno tutti e si faranno sentire per anni, forse per decenni».

Le parole di David Cameron sono durissime, quasi apocalittiche e segnalano un brusco e imprevisto cambiamento di fondo nella crisi che stiamo attraversando e nel modo di valutarla.
Gli fa eco, in maniera apparentemente più moderata ma forse ancora più allarmante nella sostanza, il governatore della banca centrale degli Stati Uniti, Ben Bernanke, il quale annuncia che la ripresa, sulla cui rapidità gli americani hanno pesantemente scommesso, non sta andando troppo bene e che la disoccupazione rimarrà a livelli elevati «per un po’ di tempo».

Pur nella diversità dei toni, le parole di Cameron e Bernanke conducono a un’unica conclusione: l’ottimismo ufficiale sulla crisi, di moda fino a non molte settimane fa, risulta sconfitto dai fatti. Il che significa che i responsabili mondiali della politica economica hanno sbagliato diagnosi, sottovalutato la gravità della situazione e adottato terapie senza effetto. Le stesse persone che avevano annunciato con fiducia l’uscita dalla crisi ora parlano di «seconda caduta» (double-dip). Tutti si muovono al buio e non sanno bene che pesci pigliare e sottolineano che la crisi non passerà tanto presto mentre prima, con uguale disinvoltura, sostenevano che era già passata, o addirittura - è il caso dell’Italia - che non c’era mai stata. Purtroppo, però, nessuno sembra avere alternative valide alle loro politiche, sin qui chiaramente ben poco efficaci.

I motivi di questo brusco aggravamento si possono illustrare abbastanza bene con una metafora medica: nonostante il drenaggio di titoli infetti, effettuato dalle banche centrali negli ultimi diciotto mesi, in quell’enorme organismo che è la finanza mondiale era rimasta in circolo una grande quantità di veleni. Anche per il comportamento scarsamente responsabile di alcune grandi banche e altre organizzazioni finanziarie che operano a livello mondiale - e per la mancanza di controlli severi sulle loro attività - questi veleni hanno intossicato la parte più sensibile del sistema e cioè il comparto del debito pubblico: l’infezione ha cominciato a colpire Paesi piccoli e in pessime condizioni come la Grecia ma sta risalendo in maniera rapidissima fino ai Paesi più grandi e considerati più soli, non esclusi gli stessi Stati Uniti. Deficit pubblici, come quello inglese, quello francese e, forse, quello americano che venivano considerati tollerabili ancora qualche settimana fa ora non lo sono più.

Nei prossimi decenni la finanza pubblica è destinata a peggiorare in tutti i Paesi ricchi. Un maggior controllo dei mercati avrebbe consentito di affrontare queste difficoltà in maniera graduale; sono invece emerse tutte assieme provocando le attuali convulsioni delle Borse. Per conseguenza tutti invocano l’arma dei tagli, condizione forse necessaria al punto in cui siamo arrivati ma certamente non sufficiente, al rilancio della crescita e dello sviluppo, anzi controproducente nel breve periodo. Con i tagli i governi potranno (forse) rimettere in sesto i bilanci pubblici per qualche tempo ma al prezzo di un rinvio indeterminato della data della ripresa.

In altre parole, è difficile, probabilmente impossibile, risanare e rilanciare l’economia senza modifiche importanti del sistema economico-finanziario e queste modifiche al sistema dovranno coinvolgere la Cina. Appena scalfita dalla grande tempesta mondiale, dotata di enormi riserve valutarie, la Cina potrebbe venire in soccorso garantendo il debito pubblico dei Paesi suoi creditori e rivalutando la propria moneta in modo da dare un po’ di fiato alle industrie di mezzo mondo alle corde per la concorrenza cinese. Il Partito Comunista Cinese, però, non salverà gratuitamente il capitalismo di mercato e già si parla, tra le possibili contropartite, di un cinese alla guida del Fondo Monetario Internazionale. In ogni caso, Pechino è il convitato di pietra al tavolo affannato dei Paesi ricchi e tiene in mano una possibile chiave di questa intricata e pericolosa vicenda.

L’altra chiave l’hanno in mano i cittadini-elettori dei Paesi ricchi che, nella grande maggioranza dei casi, mostrano una forte opposizione ai tagli e richiedono protezione per risparmi e posti di lavoro. Questa protezione si può forse accordare - magari mandando a casa chi è al governo come è avvenuto in Gran Bretagna e potrebbe avvenire in questi giorni in Olanda - ma solo al prezzo di chiudere, in maniera più o meno parziale, le frontiere economiche e finanziarie. Il che porterebbe con sé un abbassamento permanente della crescita economica che in alcuni Paesi potrebbe tradursi in stagnazione.

In questa gran tempesta l’Italia si trova in una nicchia relativamente riparata, forse perché è abituata a gestire con un certo successo un debito pubblico enorme (il terzo del mondo per dimensioni) e perché, al fine di far quadrare i conti senza fare alcuna riforma, ha di fatto rinunciato alla crescita economica negli ultimi dieci anni. In Italia c’è relativamente poca occupazione ma relativamente molto risparmio famigliare, in buona parte investito nei titoli del debito pubblico italiano il che conferisce una certa stabilità a questo barcone con popolazione vecchia, destinata a invecchiare ancora. Il vecchio barcone, in altre parole, può riuscire a galleggiare; ma solo al prezzo di diventare sempre più vecchio e sempre più pesante.

mario.deaglio@unito.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7455&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #77 inserito:: Giugno 14, 2010, 10:00:28 am »

14/6/2010

La spallata del cipputi cinese
   
MARIO DEAGLIO

Come si dice Cipputi in cinese? L'operaio metalmeccanico, reso celebre dalle vignette di Francesco Tullio Altan, è in agitazione: non più nelle fabbriche dell'Italia Settentrionale, ma a Shanghai, Canton, Guangzhou e in decine di altri centri nevralgici che fanno della Cina la più dinamica economia del mondo.

A differenza del Cipputi italiano che ormai ha superato la mezza età e guarda alla pensione, il Cipputi cinese è giovane, relativamente istruito, con molte ambizioni e una vita di lavoro davanti a sé. Il Cipputi italiano ha probabilmente una piccola auto, un po’ vecchiotta, che gli serve spesso per andare a lavorare e qualche volta per andare al mare, il Cipputi cinese ha un telefonino - ce ne sono in Cina circa 700 milioni - che gli serve, tra l'altro, per organizzare scioperi e manifestazioni.

Le sue vertenze non riguardano, come a Pomigliano, la conservazione di stabilimenti e posti di lavoro ma la più classica delle rivendicazioni sindacali: più soldi, molti soldi in più nella busta paga rispetto agli attuali 120-140 euro al mese e meno ore, molte ore di lavoro in meno, rispetto alle dodici al giorno, comuni in Cina anche nelle fabbriche tecnologicamente avanzate, come quelle che producono componenti essenziali dell'iPhone e dell'iPad, le nuove meraviglie tecnologiche attorno alle quali si cerca di far rinascere l’appetito per i consumi. E queste rivendicazioni, rivolte prevalentemente - almeno per ora - ad aziende straniere insediate in Cina possono far traballare ancora di più la già poco solida economia globale.

L'insoddisfazione dei circa 200 milioni di Cipputi cinesi trova sfogo in agitazioni sindacali e aumenti salariali che complicano, aumentandone l'instabilità, una situazione economica mondiale già complessivamente traballante. Le complicazioni derivano dal fatto che, contrariamente a quanto spesso si crede, ormai la Cina non esporta principalmente magliette, scarpe e giocattoli a buon mercato e spesso di mediocre fattura: le sue vendite all'estero di materiale elettronico sono circa il doppio di quelle degli Stati Uniti, la sua industria meccanica acquista un peso sempre maggiore a livello mondiale, la componentistica cinese ha contribuito a tener bassi i costi di un grandissimo numero di prodotti industriali dei Paesi ricchi. Con il trasferimento all'estero di intere fasi di lavorazione da parte delle grandi società multinazionali americane, giapponesi ed europee, spesso non c'è alternativa all'uso di componenti elettronici e meccanici di fabbricazione cinese indispensabili per fabbricare gran parte dei nostri beni di consumo durevoli.

Sarebbe quindi impossibile trovare fornitori alternativi, almeno in tempi brevi. Per conseguenza, un aumento generalizzato dei salari industriali cinesi si rifletterebbe in una spinta generalizzata e sensibile ai costi di produzione americani ed europei e quindi in una pressione inflazionistica di entità incerta e non trascurabile. Non è facile opporsi a una simile evoluzione: l'esperienza italiana degli Anni Sessanta indica chiaramente che gli aumenti salariali legati all'arrivo di nuove generazioni sono molto difficili da affrontare. Il giovane Cipputi italiano di quegli anni voleva fortemente la televisione, l'utilitaria e i fine settimana liberi per andare al mare. Il giovane Cipputi cinese di oggi vuole fortemente entrare nell'era digitale e livelli di consumi e di tempo libero da moltissimo tempo considerati normali nei nostri Paesi.

Se la Cina dovesse rivalutare la sua moneta, come forse si appresta a fare, anche per le pressioni dei Paesi ricchi, l'aumento dei prezzi dovuto al cambio più elevato si sommerebbe all'aumento dei prezzi generato dalle rivendicazioni del Cipputi cinese: la spinta inflazionistica sui Paesi avanzati sarebbe certa e generalizzata, mentre ci sarebbe una certa compensazione per i nostri settori industriali (soprattutto quelli italiani) in diretta e difficile concorrenza con gli analoghi settori cinesi.

Uno dei pochi elementi rassicuranti della situazione economica mondiale, ossia l'attuale relativa irrilevanza delle spinte inflazionistiche, verrebbe così meno. Del resto, perché mai centinaia di milioni di lavoratori del mondo non ricco dovrebbero accettare indefinitamente di lavorare per circa un decimo di quando percepiscono i loro colleghi occidentali che fanno lo stesso lavoro con un divario di produttività che si sta rapidamente riducendo?

Tutto ciò porta a concludere che dalla crisi non si esce con semplici marchingegni monetari o fiscali, sui quali si colloca tutta l'attenzione dei cittadini e dei mezzi di informazione in queste settimane, o con la ricetta «magica» di qualche economista o qualche ministro dell'economia: per ottenere una crescita stabile e sostenibile occorre disegnare una struttura di redditi che lasci spazio alla crescita dei più poveri e che per i Paesi avanzati implicherà una riduzione dei divari a loro favore.

mario.deaglio@unito.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7472&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #78 inserito:: Giugno 23, 2010, 05:55:43 pm »

23/6/2010

Londra condannata ai sacrifici

MARIO DEAGLIO


Paragonata al pesante schiaffone che il nuovo governo inglese ha somministrato al proprio paese per cercare di raddrizzare il deficit di bilancio, la «manovra» italiana sembra lieve come una carezza. A confronto del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne, Giulio Tremonti fa la figura dell’agnellino; e Berlusconi potrebbe perfino sembrare il protettore dei contribuenti se confrontato con il suo collega inglese David Cameron.

Nel somministrare lo schiaffone, però, il governo inglese ha avuto il coraggio di guardare dritto negli occhi l’elettore che l’ha votato poche settimane fa e di non fare sconti nella sua visione grigio-scura del futuro. Nella manovra presentata al Parlamento di Westminster (che, secondo le normali procedure britanniche, non dovrebbe essere soggetta ad alcun emendamento) c’è quasi tutto il campionario degli strumenti di tortura fiscale: aumenti dell’Iva di 2,5 punti percentuali, blocco per due anni dei salari pubblici, di molti assegni della sicurezza sociale e persino dell’appannaggio della Regina, pesante imposta sulle banche. Il governo italiano punta invece soprattutto sui tagli agli enti locali e cerca di scaricare il peso politico dell’impopolarità su governatori regionali, presidenti provinciali e sindaci; il governo inglese la sua dose di impopolarità se la prende tutta.

Ma perché gli inglesi sono così duramente colpiti, perché è necessario affondare il bisturi fiscale più profondamente a Londra che a Roma? Sostanzialmente per due motivi: il primo è che in Gran Bretagna all’indebitamento pubblico si somma un fortissimo indebitamento privato mentre in Italia esiste un cospicuo risparmio privato e le famiglie sono, nel complesso, poco indebitate per mutui, carte di credito e simili. Incoraggiati da una pubblicità sorridente, gli inglesi sono stati, in questi anni, secondi solo agli americani nello spendere con poco ritegno e si trovano di colpo a contemplare un deficit pubblico che sta crescendo al di là di ogni controllo. A questa situazione gli inglesi sono arrivati - ed è questo il secondo motivo - soprattutto perché hanno puntato tutto sulla finanza che, tra un segmento e l’altro, occupa in Gran Bretagna poco meno di due milioni di persone e ridotto fortemente la loro industria. All’insegna della finanziarizzazione hanno venduto a compratori esteri ogni tipo di gioielli di famiglia, dagli aeroporti alle società dell’acqua potabile e persino alle squadre di calcio.

Per un breve periodo Londra è diventata il vero centro finanziario della globalizzazione, con capitali di ogni tipo e di ogni provenienza che volentieri si affidavano alla maestria dei maghi della City. La crisi finanziaria ha quindi colpito con particolare durezza questo sistema economico-sociale così indebolito e, pur essendo il debito pubblico ancora molto inferiore a quello italiano, la sua velocità di crescita pone oggi la Gran Bretagna forse ancora di più nel mirino di quanto non succeda all’Italia.

Si può ammirare la decisione britannica di tagliare con l’accetta anziché con le forbici ma al tempo stesso è impossibile non restare interdetti. Perché mai la Gran Bretagna deve affrontare una durissima quanto sicura disoccupazione per rimettere a posto le sue finanze in cinque anni? Perché non in sette o in dieci? Perché alla Grecia sono stati concessi soltanto tre anni? La risposta non è affatto chiara, o forse si può ipotizzare che «il mercato» lo esige, che lo esige la salvaguardia del valore dei debiti pubblici.

Per salvaguardare questi debiti (e quindi per mettere al primo posto la lotta all’inflazione e la riduzione della spesa) in ogni parte del mondo ricco si stanno varando misure che soffocano le già stentate prospettive di crescita e sacrificano un numero molto grande di posti di lavoro (le prime stime per la Gran Bretagna parlano di un milione a seguito di questa manovra). Con il pericolo di un contraccolpo politico-sociale tale da creare un’instabilità difficile da controllare. Alla vigilia di una riunione del G-20 che si preannuncia nervosa e difficile, il dilemma tra l’accettazione di un aumento dell’inflazione pur di salvare posti di lavoro e l’accettazione di un aumento della disoccupazione pur di salvare il valore dei titoli di stato si fa più duro. E senza facili soluzioni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7510&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #79 inserito:: Luglio 05, 2010, 05:31:10 pm »

5/7/2010

Il pessimismo delle borse

MARIO DEAGLIO

Agli inizi di maggio l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano era prossimo a quota 23 mila, ora è di poco al di sopra di quota 19 mila.

Peggio di Milano in Europa hanno fatto solo Madrid e Atene, ma in nessuna Borsa al mondo oggi prevale il sorriso. Da due settimane gli indici di Wall Street cadono quasi senza interruzione, una sequenza osservata solo nei periodi più acuti di questa crisi; negli ultimi cinque giorni di contrattazione il valore delle azioni quotate a New York si è ridotto del quattro e mezzo per cento, il che si potrebbe anche definire un crollo. I vertici dei G8 e G20, tenutisi lo scorso fine settimana a Montréal, con il loro ottimismo artificiale e con il lago artificiale - allestito dai canadesi per allietare gli ospiti al modico prezzo di un miliardo di dollari - non solo non hanno iniettato fiducia ma hanno contribuito al generale pessimismo perché si è vista chiaramente la spaccatura tra americani ed europei sotto lo sguardo impassibile dei cinesi.

Perché il cattivo umore, la greve atmosfera di scontentezza che traspare dai dati e dai commenti di operatori e analisti finanziari? Non è forse vero che la ripresa è cominciata, che le cose stanno andando meglio, come ripetono un po’ tutti da più di un anno? Per comprendere le ragioni di un simile brusco cambiamento, si può far riferimento, in questo periodo di campionati mondiali, a una metafora calcistica: si prenda il caso di un grandissimo campione, un asso del pallone che ha fatto guadagnare punti, coppe e scudetti alla sua squadra e che, un brutto giorno, si fa seriamente male. La società per la quale gioca consulta i migliori specialisti, lo sottopone a operazioni complicate e a cure molto costose senza badare a spese e anzi indebitandosi seriamente purché il suo beniamino torni in campo e si rimetta a segnare.

Usciti dalla sala operatoria, medici e dirigenti di questa società calcistica fanno dichiarazioni ottimistiche. Tutti dicono che il campione si riprenderà presto, anzi che si sta già riprendendo, tra poco tornerà in campo e i tifosi si apprestano a festeggiare il ritorno del loro beniamino. Ed ecco che il campione esce dall’ospedale. Saluta e sorride, ma poco alla volta la triste verità trapela: invece di correre, il campione riesce a stento a stare in piedi e a correre senza ossigeno proprio non ce la fa. La strada del recupero improvvisamente si prospetta più lunga, più dura, più incerta. E davanti alla società per quale gioca si delinea la prospettiva di un campionato meno brillante e di un bilancio meno solido. I tifosi sono costernati e gli azionisti pensano che si potrebbe anche cambiare, o mettere in minoranza, il presidente.

In luogo di campione sportivo si legga economia americana, al posto di società sportiva si legga Stati Uniti, invece di un campionato di calcio si immagini il «campionato mondiale» della crescita, alle medicine e all’ossigeno si sostituiscano gli incentivi. «Tifosi» sono tutti coloro che investono nelle Borse e «azionisti» sono i vari Paesi del mondo che accettano la supremazia economica e finanziaria degli Stati Uniti e tengono in dollari gran parte delle loro riserve. Una serie di dati recentissimi sulla congiuntura americana, e in particolare sull’occupazione, mostra che la non eccezionale crescita di quel Paese è strettamente legata agli incentivi che il governo americano distribuisce generosamente indebitandosi e che ha utilizzato prima di tutto per salvare le grandi banche (sarebbe stato difficile fare diversamente).

Senza incentivi l’economia perderebbe colpi e ogni speranza di recuperare almeno una parte degli otto milioni di disoccupati creati dalla crisi prima delle elezioni parziali americane del prossimo ottobre, nelle quali la delusione degli elettori potrebbe togliere al partito del presidente Obama il controllo di una o di entrambe le Camere.

In realtà, il campione non sembra aver più le gambe per correre come una volta, il che significa, fuor di metafora, che nell’economia americana la domanda globale è priva della grande spinta del recente passato: il consumo delle famiglie, sostenuto per vent’anni da un indebitamento crescente, è fermo sotto il peso dei debiti da ripagare e risulta inoltre frenato dalla disoccupazione che toglie potere d’acquisto a milioni di famiglie.

Un circolo vizioso di difficoltà oggettive e di pessimismo serpeggiante rende difficile all’America continuare a spendere e a indebitarsi. Gli europei, dal canto loro, hanno di fatto rinunciato a far crescere la loro economia con il debito e appaiono rassegnati alla non crescita oppure a una crescita molto bassa: le manovre dei Paesi dell’euro, concordate sotto la dura pressione dei tedeschi, rallentano ancora lo scarsissimo slancio dell’economia anche se i governi spesso si illudono di riuscire a tagliare la spesa pubblica senza rallentare la domanda privata.

Il resto del mondo, cinesi in testa, comincia a interrogarsi sull’opportunità di continuare a utilizzare il dollaro come principale moneta di riserva. I recenti, giganteschi accordi commerciali conclusi da Pechino con alcuni Paesi sudamericani prevedono scambi non più regolati in dollari mentre l’uso internazionale dello yuan comincia a diffondersi tra i Paesi asiatici fornitori della Cina. Anche per questo sta diventando sempre più difficile salvare i bilanci pubblici e contemporaneamente rilanciare, o anche solo conservare, l’occupazione; l’ora di una difficile scelta sulla priorità tra occupazione e risparmio sembra avvicinarsi rapidamente.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #80 inserito:: Luglio 15, 2010, 10:46:15 pm »

15/7/2010

I dubbi su un esame superato
   
MARIO DEAGLIO

L’Italia ha fatto il compito. Le proteste di chi deve subire i maggiori tagli, la valanga di emendamenti, la presentazione di un maxiemendamento governativo sul quale si pone la fiducia sono tutti momenti di un copione ormai collaudato; con il prossimo voto delle Camere, lo studente-Italia si avvia a rivedere per l’ultima volta il suo elaborato.

Un elaborato molto sofferto, quasi certamente senza fare correzioni, e quindi a consegnarlo al Professor Europa.

Saremo promossi? L’Italia assomiglia a quegli studenti apparentemente svogliati che poi si rivelano capaci di recuperi eccezionali - è il caso della grande manovra del 1993, che aprì la strada all’adesione all’euro, e di molte manovre successive - studiando moltissimo nei giorni prima dell’esame e strappando la sufficienza. E potrebbe essere così anche questa volta. L’abbozzo generale originario non è stato stravolto, l’entità delle cifre concordate in sede europea non è stata ritoccata all’ingiù anche grazie a ripetute minacce di dimissioni del ministro dell’Economia.

Ad aiutare l’Italia svogliata in questa sua «rimonta» c’è la presenza di un settore sommerso dell’economia che è pari, secondo le recentissime stime dell’Istat, a circa un sesto del prodotto interno ufficialmente rilevato; e siccome le dimensioni relative del settore sommerso italiano sono superiori alla media europea, recuperiamo qualcosa nei confronti internazionali: la pressione fiscale effettiva e il deficit pubblico effettivo sono sensibilmente più bassi di quelli ufficiali.

Rimangono però tre dubbi di fondo. Il primo dubbio è che il compito che ci è stato assegnato dall’Unione europea si sarebbe potuto svolgere anche in qualche altro modo. Forse sarebbe stato ragionevole lasciare un po’ più di respiro (non molto) agli enti locali e far pagare qualcosa di più ai contribuenti, ossia mettere la mano direttamente nelle tasche degli italiani, applicando qualche (molto modesto) ritocco di aliquote e non torturare così duramente i bilanci di Comuni, Province e Regioni.

Una simile alternativa era però bloccata da una pregiudiziale politica: l’attuale governo aveva fatto la promessa elettorale di non richiedere ai cittadini-elettori sacrifici che toccassero direttamente le loro tasche e di tale promessa non rimane che prendere atto. Si è quindi scelto di dare uno spazio molto grande ai tagli alle spese degli enti locali e di escludere qualsiasi aumento delle imposte. Potrebbe darsi, ed è questo il secondo dubbio, che simili tagli si rivelino assai più dolorosi, o comunque assai più percepibili dalla collettività di un aumento dell’imposizione fiscale anche per l’impossibilità delle amministrazioni di riorganizzare in fretta la loro attività. Se veramente i tagli previsti dalla manovra si dovessero tradurre, come è stato autorevolmente prospettato dal presidente della Regione Lombardia, in una riduzione di servizi essenziali, a esempio del numero dei treni per i pendolari, l’impopolarità potrebbe rivelarsi assai elevata e il desiderio di ingraziarsi i cittadini salvandoli ad ogni aumento fiscale potrebbe trasformarsi in un boomerang elettorale.

Il terzo dubbio, però, sovrasta largamente gli altri due: questo compito, imposto alla grande maggioranza dei Paesi della zona euro, era proprio necessario? Non c’è uno zelo tedesco tutto particolare nel cercare di avere i conti in ordine perfetto, con il rapporto deficit/Pil che deve incondizionatamente tendere al «mistico» valore del tre per cento? Perché gli Stati Uniti non hanno grande fretta di ridurre un deficit a due cifre mentre gli europei sono in affanno con un deficit che è la metà di quello americano? La risposta va cercata al di fuori del campo economico ed è molto semplice: gli Stati Uniti hanno un governo mentre l'Unione Europea ha soltanto una Commissione di natura prevalentemente burocratica, gli Stati Uniti hanno un sistema fiscale centrale che copre tutto il Paese e si integra con i sistemi fiscali locali mentre nell’Unione europea i singoli Paesi sono ancora tutti fiscalmente sovrani.

La manovra complessiva dei Paesi della zona euro rappresenta così il prezzo per la mancanza di volontà dell’Europa nel procedere più speditamente nella costruzione di un’Europa politica, il che significa aver preferito rinviare, anno dopo anno, la messa a punto di un meccanismo che portasse via sovranità e potere ai singoli governi nazionali per conferirli a un governo centrale. Un’Europa con una rappresentatività politica adeguata disporrebbe anche di una moneta maggiormente accettata nel mondo. E i conti pubblici della Grecia o del Portogallo non farebbero una paura maggiore per la salute dell’euro di quanto gli ugualmente disastrosi conti pubblici dell’Illinois e della California incidano sulla salute del dollaro.

La rinuncia dell’Europa a perseguire un ruolo politico si trasforma in un costo ben superiore ai 400-500 euro in due anni, mediamente richiesti dai governi dei Paesi della zona euro ai loro cittadini, un sacrificio doppio perché comunque rappresenta un freno apprezzabile alla lentissima risalita della produzione. Anche se il compito è finito e saremo promossi, non c’è da stare allegri: senza un’Europa più integrata, di compiti simili se ne dovranno fare molti altri ancora, senza certezza di promozione.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7596&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #81 inserito:: Luglio 21, 2010, 10:14:50 am »

21/7/2010

Attenti ai numeri che ingannano
   
MARIO DEAGLIO

È a Kabul: “Dal 2014 tutti a casa” un facile e pericoloso gioco estivo quello di chiudere gli occhi sulle ali di una buona notizia, e immaginare che la crisi se ne sia andata via, che i tre anni che ormai ci separano dall’estate 2007 - quando iniziarono le cadute delle Borse mondiali - siano stati un brutto sogno. Non è forse vero che il fatturato dell’industria è in straordinaria ripresa? Che gli ordini totali dell’industria in maggio hanno superato del 26,6 per cento quelli del maggio 2009 e che, all’interno di questi ordini, la componente estera è salita di quasi il 50 per cento? E che, se invece di prendere il solo maggio, si estende l’analisi ai primi cinque mesi del 2010 si trovano gratificanti aumenti a due cifre per il totale degli ordini?

La realtà è più complessa e per rendersene conto basta andare oltre il solito intervallo di dodici mesi e considerare fatturato e ordini sull’arco di due anni. Nel maggio 2008, ossia poco prima che il virus della crisi, dopo aver devastato l’economia finanziaria, si abbattesse sull’economia reale, entrambi gli indici avevano superato quota 120. Ora sono risaliti rispettivamente a 101 (fatturato) e a 104 (ordinativi). Entrambi hanno toccato il loro minimo attorno a quota 85-90 nella primavera- estate 2009. Il che significa che l’attuale risalita sembra vertiginosa proprio perché l’industria italiana (come quella di quasi tutti i Paesi ricchi) era caduta incredibilmente in basso.

L’ industria italiana ha risalito il canalone ma la cima è ancora molto lontana. Continuando a crescere con questo ritmo, che può sembrare da campioni, l’industria italiana impiegherà all’incircaaltri dueanni per tornare ai livelli di fatturato e ordinativi precedenti la crisi: nel 2012, quindi,l’ammontare quantitativo della produzione industriale sarà paragonabile a quello del 2008, ma, ammettendo un normale aumento annuo della produttività del lavoro dell’1,5-2 per cento, per una produzione efficiente l’industria avrà bisogno del 6-8 per cento di lavoratori inmeno. Si tratta di una cifra del tutto compatibile con le recenti stime dei posti a rischio. Alternativamente, a parità di altre condizioni, se l’industria italiana vorrà restare competitiva a livello internazionale senza riduzione nel numero dei dipendenti,è molto probabile che i suoi lavoratori dovranno sopportare una perdita di potere d’acquisto dei salari pari all’incirca al 6-8 per cento. In altre parole, far ritornare l’economia italiana dov’era e com’era in un mondo che cambia vorticosamente non è una soluzione. Si esce dalla crisi creando un’economia nuova, non rappezzando alla bell’e meglio le gravissime crepe di un’economia vecchia; e al di là della situazione di emergenza che oggi si esprime con la manovra in approvazione in Parlamento,occorre pensare a quest’economia nuova che invece non sembra affatto in cima ai pensieri di maggioranza e opposizione.

Proprio perché di fatto lasciata sola dalla politica, l’economia sta cercando di adattarsi da sola alla nuova situazione e la sua struttura sta cambiando rapidamente.

I dati Istat diffusi ieri mostrano che il rimbalzo è molto diverso da un settore all’altro e che la componente estera della domanda prevale nettamente sulla componente interna; indubbiamente l’indebolimento dell’euro ha dato ossigeno a molti produttori e forse un ruolo lo gioca anche la nota capacità delle imprese italiane di adattarsi a condizioni mondiali difficili cercando mercati nuovi. I dati del commercio estero sembrano inoltre indicare che gli esportatori giocano ormai soprattutto la carta della qualità e non quella del basso prezzo dove l’Italia incontra ormai troppi temibili concorrenti.

Tutto ciò dovrebbe essere sottoposto a un ampio dibattito su ciò che questo Paese vorrà essere di qui a dieci o vent’anni;ma sembrano assai pochi coloro che sono disposti a impegnarsi in questo esercizio. Questo tentativo dell’industria italiana di rimettersi in piedi mostra però anche un’altra, meno gradevole, dimensione: il rapporto del Cnel sul mercato del lavoro, reso anch’esso noto ieri, mostra un’Italia economica chiaramente spaccata.

La disoccupazione cresce più al Sud che al Centro-Nord, la produzione più al Centro-Nord che al Sud; il divario economico tra le due parti dell’Italia, già a livelli altissimi prima della crisi, rischia di aumentare ancora in questa faticosa risalita industriale. Al punto che è ormai del tutto lecito domandarsi non tanto se si possa ancora parlare di un unico Paese - la risposta è certamente sì - quanto se si possa ancora parlare di un unico sistema economico. Di certo, il meccanismo di pesi e contrappesi che ha consentito per oltre un secolo la convivenza con mutuo vantaggio di strutture produttive e strutture sociali profondamente diverse si presenta consunto e sfilacciato e dovrebbe essere profondamente rivisto. Sono finiti i tempi in cui - tanto per fare un esempio- l’evasione fiscale del Sud si traduceva in acquisti di beni prodotti dalle industrie del Nord; oggi tali acquisti riguardano in largami surabeni prodotti in Asia. Non sono interrogativi da pausa estiva. I leader politici che decidono che non andranno in ferie e che dedicheranno questo tempo a riorganizzare i loro partiti dovrebbero riflettere sul fatto che tale riorganizzazione servirà a poco se l’Italia, andando a passi più lenti degli altri, perderà ancora di importanza nell’economia mondiale. L’economia mondiale non va in ferie e neppure i problemi strutturali dell’Italia e degli altri Paesi ricchi.

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« Risposta #82 inserito:: Luglio 22, 2010, 05:12:25 pm »

22/7/2010
La rinuncia al carbone un bivio per l'Europa
   
MARIO DEAGLIO

Dopo tante prove di inconsistenza, in due giorni dall’Unione Europea sono arrivati altrettanti segnali di vitalità. Il primo è rappresentato dalla controversa e sicuramente sofferta decisione di martedì su Sky Italia, che potrà partecipare, a determinate condizioni, alla gara autunnale per le nuove frequenze della tv digitale terrestre. Ieri è venuto il secondo segnale, che risulterà forse ancora più controverso, che riguarda le miniere di carbone, uno dei settori più antichi dell’economia industriale, quasi un’icona della prima industrializzazione.

Il carbone è, per così dire, la «madre» dell’Europa moderna e questo non solo perché la prima guerra mondiale si combatté attorno alle miniere di carbone e di ferro dell’Alsazia e della Lorena ma anche perché, proprio per superare lo storico contrasto che opponeva duramente Francia e Germania, venne costituita nel 1951 la Ceca (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), primo mattone di quella costruzione economico-politica che oggi si chiama Unione Europea. E i primi treni a traversare le frontiere comunitarie senza pagare dazi furono i lunghi, grigi convogli che spostavano carbone e ferro tra i sei Paesi dell’originaria intesa europea.

La Commissione europea - per bocca di Joaquín Almúnia, commissario alla concorrenza, uno dei più esperti membri del «governo» europeo - propone quindi una sorta di matricidio. Almúnia vuole eliminare i sussidi alle miniere entro quattro anni e in questo periodo ritiene che vadano erogati solo alle miniere che hanno già deciso di chiudere, «accompagnandole» così al momento terminale della loro attività. Questo significa dire di fatto addio all’estrazione del carbone, storica pietra angolare dell’intesa originaria franco-tedesca perché quasi tutte le miniere europee stanno in piedi con soldi pubblici. Certo, l’Europa non farà automaticamente a meno del carbone per i suoi fabbisogni energetici ma riceverà un forte segnale politico per l’impostazione di una nuova politica energetica. Il carbone che si continuerà a importare costerà comunque meno di quello che non si produrrà più e si deve sperare che le risorse così risparmiate siano destinate al risparmio energetico e alla ricollocazione dei minatori.

Se la proposta avrà davvero un seguito, alle prossime conferenze mondiali per la riduzione dell’inquinamento l’Europa si troverà posizione decisamente più forte che in passato. Per anni, con grande ipocrisia, l’Unione Europea con una mano ha cercato di costruire, con l’altra ha disfatto: ha preteso che le imprese riducessero l’inquinamento (con l’introduzione, tra l’altro della carbon tax) e con l’altra ha finanziato, mediante i sussidi, le peggiori sorgenti di inquinamento energetico, ossia proprio le miniere di carbone. In questo, l’Europa non è stata certo sola: forme varie di protezione sono presenti in quasi tutti i Paesi ricchi e il «basta!» di Almúnia permetterebbe all’Europa di puntare il dito sull’ipocrisia degli altri.

Sempre che la misura venga effettivamente varata. La fine dei sussidi colpirebbe infatti duramente le economie di Polonia e Romania per le quali le esportazioni di carbone e acciaio hanno rappresentato una sorta di «polmone» con cui finanziare la propria trasformazione industriale. Le prime reazioni negative sono però venute da due Paesi in cui il carbone pesa molto meno ma le organizzazioni sindacali dei minatori molto di più, ossia Spagna e Germania. La Germania, in particolare, vedrà messo alla prova il suo «perbenismo di mercato» per cui guarda plaude alla libera concorrenza e guarda con orrore ai sussidi degli altri. Ora che i suoi interessi sono direttamente toccati, si vedrà che cosa saprà veramente fare il governo di Berlino sulla via «virtuosa» della concorrenza.

Nata con il libero commercio del carbone, l’Unione Europea darà un forte segnale di vitalità se saprà abbandonare gradualmente il carbone. Nella generale corsa degli europei a rifugiarsi nel localismo, una delle poche eccezioni è rappresentata dall’interesse unificante per la difesa dell’ambiente. Al «partito del carbone» che nei prossimi mesi cercherà di bloccare la mossa della Commissione si oppone il «partito dell’ambiente»: l’esito di questo scontro sarà assai rilevante per il nostro futuro.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #83 inserito:: Luglio 26, 2010, 10:23:10 am »

26/7/2010

Purchè non sia un tavolino

MARIO DEAGLIO

I cosiddetti «tavoli» ai quali i sindacati, gli imprenditori e i rappresentanti del governo si incontrano e si confrontano sono una buona cosa in quanto l’alternativa è spesso uno sciopero «al buio», ossia senza che una parte abbia una chiara percezione delle posizioni e dei problemi delle altre. Il «tavolo» che si terrà mercoledì a Torino sul futuro degli stabilimenti italiani della Fiat rischia però di trasformarsi in un «tavolino», ossia di dare ai problemi sul tappeto un’interpretazione riduttiva e specifica, tesa soltanto a stabilire minuziosamente impegni reciproci sulla produzione di singoli impianti e singoli modelli in un arco di tempo necessariamente breve e in condizioni molto incerte, data la congiuntura europea e mondiale. Se così fosse, l’accordo raggiunto terrebbe fino alla prossima situazione di difficoltà, dopo di che si ricomincerebbe da capo con un altro «tavolino». Tra un «tavolino» e l’altro, la posizione competitiva dell’Italia continuerebbe a peggiorare.

E’ stato così nel corso degli ultimi vent’anni. Il «tavolo» di mercoledì sarà un successo se, pur non rinunciando ad affrontare i problemi contingenti, porrà le basi per trattare, nell’ottica dell’economia globale, il problema della sostenibilità del modello sociale europeo - e specificamente della sua variante italiana - caratterizzato da forti componenti non monetarie della retribuzione. Fino a non molti anni fa si pensava che questo modello si sarebbe imposto al mondo: le norme sul lavoro minorile, sulla sicurezza sul lavoro e del posto di lavoro, il graduale e continuo aumento di salari e del tempo libero in cui spendere quei salari avrebbero dimostrato la superiorità di una civiltà europea attenta all’individuo e ai suoi legami con la società.

Come ben sappiamo, le cose non sono andate così. I Paesi emergenti stanno muovendosi verso salari più elevati e forme rudimentali di sicurezza sociale non copiate dall’Europa, ma la produttività del lavoro vi cresce a velocità ben superiore e pertanto le loro esportazioni conquistano sempre nuovi mercati. I lavoratori sono sicuramente sottopagati ma i loro redditi sono fortemente aumentati e possono ragionevolmente sperare che i figli continuino nel miglioramento. I nostri obiettivi sono invece troppo spesso quelli di un decoroso accompagnamento alla pensione di lavoratori anziani senza dare spazio ai giovani mentre con redditi stagnanti il tempo libero rischia di trasformarsi in tempo vuoto. L’Europa, e l’Italia in particolare, più esposta di altri Paesi alla concorrenza diretta degli emergenti, si vede proporre (e forse domani imporre) un sistema in cui si deve lavorare di più e con mansioni più flessibili per retribuzioni pari a quelle di prima.

Le vie percorribili sono sostanzialmente due. La prima via è quella di una sostanziale riscrittura del modello economico-sociale europeo con l’attenuazione della difesa del «posto» di lavoro, non più garantibile nell’attuale contesto mondiale, e l’aumento della difesa del «lavoro», ossia di un’attività mutevole e flessibile: si deve andare verso una garanzia della continuità delle occasioni di lavoro, magari con un salario di cittadinanza, nell’ottica di ottenere e mantenere la produttività necessaria per stare sul mercato globale.

Modelli di questo tipo hanno consentito a diverse economie dell’Europa settentrionale di reggere assai bene all’urto dei Paesi emergenti e di riconvertirsi molto velocemente e con successo. Nessuna di queste esperienze è perfetta e tutte richiedono un supporto notevole di spesa pubblica; pertanto il meccanismo dovrebbe essere introdotto gradualmente e in via sperimentale, a cominciare dai giovani delle aree minacciate dalla crisi industriale. Torino, dove il numero di coloro che compiono diciotto anni è sensibilmente inferiore a coloro che ne compiono sessanta, sarebbe un luogo ideale per cercare di trasformare in «lavoro» - e quindi in prospettive di vita - mediante la garanzia di una continuità di fondo la miriade di «lavoretti» con cui i giovani sopravvivono.

La seconda via è quella del protezionismo moderno, fondato su barriere non tariffarie in grado di impedire l’ingresso delle merci che competono con quelle nazionali. Il protezionismo salva i posti di lavoro minacciati ma il suo costo è molto elevato in quanto riduce o toglie dai mercati numerosi beni stranieri a basso prezzo. Le varie «clausole di salvaguardia» degli accordi commerciali internazionali consentono forme di protezione per un periodo limitato. Sono utili se, nel frattempo, il Paese o il gruppo di Paesi che cerca di proteggersi modifica qualcosa nel suo modello produttivo. Nel caso dell’Italia, a esempio, occorrerebbe semplificare davvero la politica, la burocrazia, la tassazione riducendone il costo - che è spesso un reddito per categorie professionali privilegiate assai più numerose che in altri Paesi - senza far ricadere il peso della ristrutturazione soltanto sui normali lavoratori dipendenti.

Perché il «tavolo» di Torino sia un successo, argomenti di questi tipo dovranno essere affrontati - accanto a quelli più specifici dell’occupazione dei singoli stabilimenti e dei modelli che saranno prodotti, situazione economica permettendo - per essere sviluppati in seguito. La speranza è che ci sia almeno un pizzico di novità, non il solito stanco rituale che ha scandito il nostro declino.

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« Risposta #84 inserito:: Agosto 04, 2010, 07:38:52 pm »

4/8/2010

I cinesi hanno aperto una nuova Via della seta
   
MARIO DEAGLIO

Taranto trasformata in base commerciale cinese? Questa possibilità, riportata su La Stampa di ieri, non è il frutto di un miraggio estivo ma piuttosto di una strategia detta «del filo di perle» che i cinesi perseguono con decisione ormai da diversi anni. Consiste nel disseminare nel mondo basi logistiche per il commercio estero cinese (le «perle» legate tra loro dal «filo» dei traffici) in una concezione in cui l'economia sfuma nella politica e la politica sfuma nell’economia.

Negli ultimi 3-4 anni Pechino ha effettuato una spettacolare offensiva economico-commerciale verso l'Africa superando nettamente in molti Paesi la tradizionale presenza europea. Ora rivolge l'attenzione al Mediterraneo che correttamente considera zona di elevato sviluppo demografico - sulla riva Sud - e di grande potenzialità economica. Il prossimo passo potrebbe essere un forte e diretto coinvolgimento con il mercato europeo, anche a seguito della costruzione di una nuova ferrovia che collegherà Cina ed Europa passando dalla Russia.

Il vero elemento di novità si trova invece in quanto La Stampa scrive oggi: mentre gli italiani sono occupatissimi a discutere sul futuro del governo e su altre questioni che la storia quasi certamente considererà molto secondarie, la Cina sta effettuando le mosse iniziali di un ingresso economico in grande stile in Italia con l'installazione in Italia di banche e catene di distribuzione. Così si venderà una gamma sempre più vasta di prodotti fabbricati in Cina e si potranno anche convogliare prodotti italiani sul mercato cinese. Tale strategia implica anche investimenti cinesi in imprese italiane specialmente in settori manifatturieri in cui l'industria italiana vanta una forte presenza nel mondo.

Questa nuova spinta economica cinese è dovuta a un mutamento che sta portando a un rapidissimo aumento del peso economico dell'Asia Orientale e Meridionale: la Cina di oggi non è soltanto un grande fornitore di giocattoli, magliette di peluche e cianfrusaglie varie a bassissimo costo. Anche a seguito di una gigantesca politica dell'istruzione - che la porta ogni anno a sfornare circa il doppio dei tecnici e degli ingegneri dell'Europa - oggi la Cina sa fare quasi tutto, con una qualità molto spesso quasi pari a quella europea e italiana e a un prezzo che, al cambio attuale, è semplicemente imbattibile dalle imprese europee e italiane. I prezzi delle esportazioni cinesi, in ogni caso, rimarranno robustamente competitivi anche dopo la sperabile rivalutazione della moneta cinese, lo yuan, che è stata molto lentamente avviata.

Dal punto di vista cinese questa strategia appare del tutto ragionevole: si impiega nell'acquisto di imprese straniere e in investimenti esteri una parte delle riserve finanziarie accumulate nel corso degli anni come alternativa al prestito delle stesse riserve agli americani. Tale prestito lascia a Washington ogni decisione sulla dinamica del suo enorme e crescente deficit, comprese quelle su politiche estere molto costose, come quelle condotte in Afghanistan e in Iraq sulle quali Pechino vorrebbe maggiore concertazione.

Infine, in questa gigantesca partita economico-finanziaria, i cinesi possono mettere sul tavolo una qualche forma di impegno a finanziare i debiti pubblici - strutturalmente crescenti - dei Paesi europei. Già oggi possiedono una quota molto rilevante del debito pubblico italiano e l'Italia deve fare affidamento sul loro buon volere per il rifinanziamento che questo debito richiede. Insomma, mentre l'interesse generale italiano ruota attorno al fattore B (Berlusconi) sarebbe importante riservare un po' dell'attenzione collettiva al fattore C (Cina). E provare a pensare a quale via le imprese italiane potrebbero ragionevolmente percorrere in questa nuova situazione.

Difficilmente praticabile appare la chiusura dello spazio economico europeo all'attività economica cinese, con iniziative più o meno dichiaratamente protezionistiche, perché l'Europa ha bisogno della collaborazione finanziaria da parte di Pechino; oltre che un temibile concorrente la Cina e l'Asia continuano poi a rappresentare per l'Europa un'enorme opportunità economica come dimostra la crescita delle esportazioni italiane verso quell'area, uno dei pochi punti veramente positivi nell'attuale situazione di crisi.

Una maggiore collaborazione appare inevitabile e questa deve implicare la messa a punto di progetti comuni a tutti i livelli: da quello delle imprese che concludono accordi di collaborazione di lungo periodo a quello delle infrastrutture necessarie per favorire questi progetti. L'industria europea e l'industria italiana in particolare dovranno effettuare un esame spassionato della loro posizione nel mondo e troveranno che la «via della seta», come un tempo si chiamava l'asse commerciale tra Europa e Estremo Oriente, può servire a bilanciare le rotte atlantiche verso l'America Settentrionale, le quali da tempo stanno perdendo vigore.

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« Risposta #85 inserito:: Agosto 13, 2010, 03:55:43 pm »

13/8/2010

Orizzonte grigio scuro
   
MARIO DEAGLIO

I banchieri centrali sono indubbiamente molto bravi nel loro difficile mestiere di governo di un’economia globale inquieta e turbolenta; sono però forse ancora più bravi nell’usare espressioni arzigogolate per sdrammatizzare o rendere meno spigolose le loro analisi. Così, quando, lo scorso 21 luglio, il capo della banca centrale americana, Ben Bernanke, dichiarò che l’andamento dell’economia era «insolitamente incerto» voleva dire che le cose non andavano affatto bene e gli addetti ai lavori non capivano perché. Il Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea (Bce), pubblicato ieri, sostiene che il ritmo dell’espansione sarà «moderato» il che significa che si collocherà intorno all’uno per cento, una cifra economicamente insoddisfacente e socialmente poco sostenibile per le pressioni negative che esercita sull’occupazione. L’espansione, secondo la Bce, sarà anche «discontinua», un modo molto diplomatico per dire che in alcuni trimestri ci potrebbe essere una riduzione della produzione.

In marcato contrasto con qualche mese fa, quando le previsioni ufficiali inclinavano al rosa pallido, ora l’indicazione generale è al grigio scuro. E tutto questo perché si è constatato che, come dicevano gli economisti di una volta, «il cavallo non beve» ossia i consumatori comprano poco e le imprese investono ancora meno. I governi hanno cercato di mettere dello zucchero nell’acqua, hanno cioè introdotto incentivi fiscali e il cavallo è sembrato apprezzare; ma appena gli incentivi sono finiti, la voglia di bere del cavallo è svanita. Siamo tornati al punto di prima, in molti Paesi con un aumento del buco nei conti pubblici per i minori incassi derivanti dagli incentivi.

Ecco allora il pericolo di una crescita «discontinua» indicato dalla Bce e l’aumento imprevisto nel numero degli americani che chiedono il sussidio di disoccupazione, reso noto ieri. L’aumento, relativamente elevato, dei prezzi registrato a luglio in Italia e altrove dipende dall’impennata del prezzo del greggio sui mercati internazionali; non è certo un bel segnale anche se non ne va esagerato il carattere negativo. Le pressioni inflazionistiche dovrebbero però essere prese in seria considerazione nei prossimi mesi solo se i danni degli incendi russi al raccolto dei cereali provocassero un aumento sostenuto e duraturo nei prezzi del grano che influenzerebbe rapidamente molti settori dell’alimentazione.

A rendere ancora meno attraente il quadro, il rallentamento dell’espansione cinese riduce le speranze che l’aumento delle importazioni del gigante asiatico possa da solo rivitalizzare l’economia mondiale, anche perché il potenziale produttivo dell’economia cinese è ormai tale da poter rifornire senza problemi il mercato interno di una massa di prodotti che fino a qualche anno fa venivano dall’estero e particolarmente dall’Europa.

Qualcuno penserà che non si tratta di una bella prospettiva, certo poco adatta a un periodo di vacanze, alla quiete sotto l’ombrellone. Ma abbiamo già perso troppo tempo con false speranze, illusioni e autoillusioni, o messaggi criptici di chi governa l’economia che erano nei fatti confessioni di insuccessi, il che ha fatto sì che sotto gli ombrelloni dell’estate ci sia molta meno gente di uno-due anni fa. La strada della ripresa deve cominciare dalla chiarezza; e dalla consapevolezza che occorre qualcosa di nuovo, magari senza aspettare la fine delle vacanze, per evitare quell’avvitamento autunnale che la Bce chiama diplomaticamente «discontinuità».

Per questo è probabilmente necessario dotare le autorità centrali di maggiori poteri di intervento nell’economia, invertendo la tendenza al disinteresse per il controllo dei mercati che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni. Occorre anche agire sulla distribuzione dei redditi, in primo luogo recuperando l’evasione fiscale, particolarmente rilevante in Italia ma di certo non assente negli altri Paesi. In secondo luogo, ove necessario, bisognerà prendere in considerazione il ridisegno del carico fiscale con lo spostamento di potere d’acquisto verso le fasce di popolazione dai redditi più bassi, il che porterà all’aumento dell’imposizione fiscale sugli altri contribuenti.

L’Italia non si trova particolarmente svantaggiata nel clima generale di difficoltà che stiamo vivendo. I suoi prodotti di alta qualità trovano mercato anche in questo periodo di crisi e le imprese hanno una lunga tradizione di adattamento al nuovo in periodi difficili che fa sì che le esportazioni siano complessivamente abbastanza vivaci. Le debolezze italiane derivano, come sempre, dalle carenze di infrastrutture e dalle complicazioni normative; e più ancora dalla lontananza di una classe politica molto attenta alle «rese dei conti» al proprio interno e apparentemente incapace di comprendere le difficoltà dei bilanci famigliari e dei bilanci aziendali.

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« Risposta #86 inserito:: Agosto 17, 2010, 08:19:41 am »

17/8/2010

La politica dimentica l'economia

MARIO DEAGLIO

Quest’anno la pausa di Ferragosto non è stata caratterizzata, come tradizione, dal silenzio della politica. Rivelazioni e smentite, accuse e controaccuse, zuffe verbali dal linguaggio sempre più truculento hanno turbato il tradizionale riposo estivo degli italiani, molti dei quali hanno ridotto le vacanze, quando non vi hanno rinunciato del tutto, grazie alla crisi. Ed è proprio la crisi, con timori che genera per redditi e livelli di vita di milioni di persone, la grande assente in un dibattito - se così si vuol chiamare un’accozzaglia di dichiarazioni e battute in cui tutti gli intervenuti sembrano ascoltare soltanto se stessi - che ha la caratteristica di rimanere totalmente interno alla classe politica.

Chi si sobbarca la fatica di seguirlo ne ricava l’impressione che l’Italia si trovi in una sorta di vuoto pneumatico invece che immersa in un contesto mondiale in ebollizione in cui fa un po’ di fatica a rimanere a galla; e che la classe politica italiana, in quello che sembra un misto di arroganza e di ignoranza, pensi che il fare e disfare governi e legislature non abbia conseguenze sulla posizione economica internazionale del Paese.

Così come il baloccarsi disinvolto con la prospettiva di nuove elezioni.

Le cose invece non stanno così. L’economia globale è in rapidissimo cambiamento, come dimostra il «sorpasso» del Giappone da parte della Cina, annunciato ieri. Uno sguardo a questi mutamenti vorticosi è sufficiente a mostrare la pericolosità economica di un’eventuale fine anticipata della legislatura nel corso dell’autunno, con elezioni collocate in una data insolita, o anche solo la mancanza di un governo stabile e credibile sul piano della finanza internazionale.

L’instabilità o il vuoto politico potrebbero infatti avere rilevanti ripercussioni negative sulla gestione del debito pubblico italiano. Va ricordato che l’Italia è stata per decenni uno dei maggiori «produttori» di debito pubblico, ossia di titoli sovrani acquistabili sui mercati finanziari ma che, con il generale peggioramento dei bilanci pubblici delle economie avanzate, su questo mercato mondiale del debito l’Italia deve competere molto più duramente di prima con molti Paesi, quali Germania, Francia e Gran Bretagna che devono «piazzare» i propri titoli per avere le risorse necessarie a quadrare i propri bilanci.

Il debito pubblico italiano è complessivamente gestito bene, senza addensamenti eccessivi di scadenze, il che limita la possibilità di grandi ondate speculative, del tipo di quelle che hanno colpito la Grecia e, in misura minore, il Portogallo. E finora l’Italia ha rigorosamente rispettato gli obblighi di disciplina di bilancio - tra i quali il varo della recente manovra - che si era assunta in sede europea. Alcune aste importanti negli ultimi mesi, specialmente quelle di giugno, sono state superate in maniera molto soddisfacente; tra la fine delle ferie e la fine dell’anno, però, vengono a scadere circa 100-120 miliardi di debito, concentrati soprattutto a settembre e a novembre e dovranno essere rifinanziati, ossia sostituiti con titoli nuovi.

Chi li acquisterà? Una parte rilevante - si può stimare un po’ più della metà - sarà sottoscritta da risparmiatori italiani, tradizionalmente attratti da questo prodotto «di casa» (l’impiego di risparmio in debito pubblico è uno dei più importanti comportamenti unificanti dell’Italia di oggi). Il resto dovrà trovare compratori all’estero nelle condizioni concorrenziali e difficili di cui si diceva sopra. Quando devono decidere se - e a che prezzo - acquistare titoli di uno Stato sovrano, i grandi operatori finanziari, tra i quali figurano molte banche centrali, come quella cinese, esaminano a tutto campo la situazione del Paese debitore e in questo esame la stabilità politica e la volontà di rispettare i propri debiti hanno uno spazio molto importante.

Quale sarà la reazione del banchiere cinese, del finanziere americano, dell’analista finanziario che lavora per qualche grande banca internazionale di fronte alle «sparate» dei politici di questi giorni? Gli esperti internazionali che si occupano dell’Italia sono in gran parte abituati alle iperboli, al sarcasmo, alle pesanti ironie, alle punte di volgarità del dibattito politico italiano. La possibilità che tutto questo si possa riflettere sul piano istituzionale senza alcun riguardo per la posizione finanziaria del Paese non potrà però non preoccuparli. E potrebbe indurli a chiedere un «premio», ossia un tasso di interesse sensibilmente maggiore di quello applicato ad altri Paesi che si tradurrebbe, come minimo, in qualche migliaio di miliardi in più di spesa per lo Stato italiano, da recuperare poi con nuova austerità e, nella peggiore delle ipotesi, in una più generale «bocciatura finanziaria» dell’Italia.

Ai politici che in questi giorni così abbondantemente si esprimono deve quindi essere consentito di rivolgere una sommessa preghiera: tengano presente che quando parlano non hanno di fronte solo il pubblico, spesso non troppo numeroso, dei loro sostenitori politici, o i giornalisti desiderosi di riempire spazi che le festività rendono vuoti. Ad ascoltarli, a pesare le loro parole più di quanto essi stessi si rendano conto, c’è tutta la finanza mondiale. Che deciderà se sottoscrivere i nostri titoli di debito anche sulla base delle loro parole e dei loro programmi.

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« Risposta #87 inserito:: Settembre 01, 2010, 09:05:03 am »

1/9/2010

Ma sul futuro il Colonnello ha ragione

MARIO DEAGLIO

La visita del colonnello Gheddafi, con le sue modalità a dir poco insolite, ha presentato elementi di forte sgradevolezza e ha impressionato l’opinione pubblica per quello che è stato percepito come un forte accento antieuropeo e anticristiano. Occorre però distinguere gli elementi soggettivi di questa sgradevolezza, legati alla fondamentale incompatibilità del personaggio con l’opinione pubblica italiana ed europea, dagli elementi oggettivi. E qui, purtroppo, occorre prendere atto di un’amara verità: quando parla del futuro dell’Europa e
dell’Africa, il colonnello ha sostanzialmente ragione.

Dietro al suo discorso ci sono cifre non confutabili. Nelle più recenti statistiche demografiche delle Nazioni Unite, la popolazione dell’Europa nel suo complesso è valutata a circa 730 milioni, Russia compresa (circa 450 se si considera soltanto l’Europa Occidentale); gli abitanti dell’Africa «nera», ossia dell’Africa sub sahariana sono circa 860 milioni. C’è quindi poco più di un africano «nero» per ogni europeo, mentre sessant’anni fa c’erano quasi tre europei per ogni africano. Intorno al 2030, secondo proiezioni statistiche attendibili, gli africani «neri» per ogni europeo saranno quasi due.

La popolazione africana «nera» cresce infatti di oltre 20 milioni l’anno e per conseguenza raggiungerà il miliardo nel 2017, nel 2020 sarà attorno a un miliardo e 80 milioni, nel 2030, in un’ipotesi media di crescita, circa 1300 milioni. La popolazione europea rimarrà stazionaria fino al 2020 e comincerà a perdere oltre un milione di persone l’anno dopo quella data. Queste cifre già lasciano supporre che la popolazione dell’Africa sub-sahariana sia, dal nostro punto di vista, incredibilmente giovane, e le cose stanno effettivamente così: circa il 60 per cento degli africani «neri» ha meno di 25 anni mentre appena l’8 per cento ne ha più di 65; in Europa i dati corrispondenti sono pari a circa la metà per i giovani - che sono quindi il 30 per cento del totale - e circa il doppio per gli anziani, pari al 16 per cento del totale. Questo divario è destinato a peggiorare in maniera abbastanza sensibile nei prossimi due o tre quinquenni.

Questi sono i dati difficili da digerire - specie se vengono raccontati con semplici allusioni da parte di qualcuno che usa un tono che comunque a noi sembra stravagante o addirittura sprezzante, se l’oratore è offensivo con le donne e arrogante con la nostra religione - ma vanno digeriti. In confronto a noi gli africani «neri» sono mediamente poverissimi, vivono in una realtà in cui spesso è presente la guerra, sono assillati dall’Aids, in buona parte soffrono la fame, hanno un reddito per abitante (per quello che può valere questa misura) stimato attorno agli 800 - 1500 dollari contro i 30-40 mila dollari degli europei. Il lettore si ponga nei panni di un capofamiglia africano che ha a cura l’avvenire dei suoi figli: prende i suoi risparmi e a quello che ritiene più in gamba procura un posto su un autobus incredibilmente stipato sul quale le valigie di cartone sono un lusso.

L’autobus si incammina per le piste della savana che, per i capricci della geografia, in due casi su tre finiscono in Libia evitando sia le catene montuose sia i deserti più duri. E qui entra in scena il colonnello Gheddafi del quale si può correttamente dire che, dal punto di vista degli africani, detiene le chiavi del Paradiso europeo; e molto sgarbatamente e molto duramente chiede agli europei di pagarlo per tenere chiusa la porta. Gheddafi ha fatto un riferimento alle «invasioni barbariche» che non è troppo scorretto: i barbari che si presentavano alle porte dell’Impero Romano circa 1700 anni fa solo raramente avevano propositi bellicosi, assai più spesso erano affamati. E per tenerli lontani i Romani quanto potevano facevano affidamento su popolazioni-cuscinetto; Gheddafi propone la Libia per questo ruolo.

Per dire «no» a Gheddafi non bastano le parole, è necessaria una proposta alternativa. Questo governo non sembra certo averla, come non sembra averla l’intera classe politica europea; e bisogna ricordare che qualsiasi proposta alternativa ha un prezzo. Tale prezzo potrebbe essere inizialmente molto elevato, specie se si prevedono iniziative che comportino forti investimenti in Africa, magari con prospettive di mutuo vantaggio economico futuro dell’Africa e dell’Europa.

L’opinione pubblica europea dovrebbe convincersi che, in qualche modo, il prezzo va pagato e che le condizioni di calma alle frontiere meridionali non dureranno in eterno. E potrebbe anche concludere che, tutto sommato, i cinque miliardi chiesti dal colonnello sono ragionevoli: dopotutto si prende lui l’incarico di respingere i possibili migranti mentre noi siamo liberi di guardare dall’altra parte, seguire con grande attenzione le vicende del calcio, uno sport in cui i neri sono guardati con sospetto anche quando hanno un passaporto italiano, e continuare a parlare dei princìpi che hanno fatto grande l’Europa, in nome dei quali il resto del mondo dovrebbe continuare a trattarci con rispetto.


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« Risposta #88 inserito:: Settembre 27, 2010, 09:35:40 am »

27/9/2010

La ricreazione è finita

MARIO DEAGLIO

In decenni ormai lontani, settembre era il mese degli esami di riparazione e al primo di ottobre le scuole riaprivano per promossi e ripetenti. Pur se di dubbia validità per gli studenti di ieri, questo calendario andrebbe benissimo per i politici di oggi: quale che sia il giudizio sulla classe politica, non vi è dubbio che negli occhi della gente essa esca largamente bocciata dalla pausa estiva. Ai parlamentari e agli uomini di governo che rientrano nelle aule (di Palazzo Madama e di Montecitorio) si conceda magari ancora la prossima settimana per assestarsi e poi, da bravi ripetenti, ricomincino a studiare e a fare i compiti e cerchino di ottenere dei buoni voti. Altrimenti le loro famiglie - cioè gli italiani - faranno loro abbandonare gli studi. Per chi vive in un mondo di appartamenti a Montecarlo, di società offshore, di feste di partito, di simboli artificiali, come quello del sole padano, è probabilmente difficile immedesimarsi nei problemi di chi ha un solo appartamento con mutuo da pagare e la cui festa principale consiste nel vedersi riconfermato un lavoro precario. Eppure questa è la situazione di milioni di italiani; e il loro numero, purtroppo, sta crescendo abbastanza rapidamente.

Quando rientreranno davvero nei loro luoghi di lavoro, i parlamentari e gli uomini di governo dovranno prima di tutto rendersi conto di aver sbagliato i conti nei lunghi mesi della loro ricreazione estiva. Con la dura frenata degli Stati Uniti, l'economia mondiale sta andando assai meno bene di quanto molti pensavano all'inizio dell'estate: nessun Paese ha ancora raggiunto i livelli di produzione precedenti la crisi, ossia quelli del primo-secondo trimestre 2008 ma l'Italia è tra i più lontani, tanto che, al ritmo attuale, potrebbe metterci alcuni anni. Assai più degli altri grandi Paesi europei che raggiungeranno probabilmente quel livello entro il 2011. Quando raggiungerà quel traguardo, per l'aumento generale della produttività del lavoro, al quale dovrà adeguarsi, l'Italia potrebbe avere oltre un milione - un milione e mezzo di occupati in meno.

Questi problemi sono stati minimizzati o accantonati per mesi, o forse per anni; la mancanza, da parte del mondo politico in generale, di grandi progetti e di programmi concreti per una ripresa della crescita, in grado di assicurare lavoro in un contesto economico sostenibile appare pressoché totale. Il suo segno più visibile è l'incapacità del governo e delle forze che lo sostengono di trovare un titolare per il ministero delle Attività Produttive, al quale competerebbe un ruolo chiave in un programma del genere. Non c'è il programma, non c'è il ministro ma fioccano le assicurazioni che tutto va bene, che l'Italia è un Paese simpatico nel quale si vive egregiamente, che non ci dobbiamo preoccupare; e se un giovane su quattro non trova lavoro, può forse trovare un pasto gratis a qualche festa di partito, e i ricercatori universitari, dei quali di fatto si rischia di annullare un progetto di vita, possono sempre cercar fortuna all'estero.

Ai parlamentari che torneranno nelle loro aule deve essere detto fermamente, rubando l'espressione al generale De Gaulle e ponendola fuori contesto, che «la ricreazione è finita». E certo gli italiani non si sono divertiti. Durante la ricreazione l'Italia ha ancora perso terreno, si è accentuata la distanza che la separa dalla maggior parte dei Paesi ricchi; il Paese si rifugia sempre di più in un localismo eccessivo, in una parodia di federalismo che porta al rifiuto di vedere al di là del proprio campanile. Nella principale città del Nord poche ore di pioggia provocano danni e allagamenti, mentre la principale città del Sud non riesce neppure a raccogliere i propri rifiuti. Bisogna uscire da tutto questo, bisogna dimenticare le storie spensierate dell'estate con le società offshore e le feste di partito. Il Paese sa già che l'autunno sarà duro. Speriamo che se ne accorga anche la classe politica.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 05, 2010, 12:37:49 pm »

5/10/2010

Se ci fosse un progetto per il futuro

MARIO DEAGLIO

E’ stata finalmente la volta buona: dal cappello del presidente del Consiglio è uscito il nome del nuovo ministro dello Sviluppo economico. Essendosi Scajola, suo ultimo titolare, dimesso il 4 maggio, sono passati cinque mesi esatti in cui la poltrona del ministro è rimasta vuota e il ministero è stato gestito ad interim dal presidente del Consiglio, il quale ha ripetutamente promesso di indicare il successore e fino a ieri ripetutamente rinviato questa indicazione.

Questi cinque mesi hanno coinciso con l’assenza quasi totale di crescita economica e con l’aggravarsi dei problemi di alcune industrie e di alcune aree. La presenza di un ministro non sarebbe bastata a far tornare il sereno, così come non basterà la nomina a far ripartire l’economia, ma rappresenta un’occasione per dare senso a qualcosa che rischiava ormai di apparire priva di senso: l’essere rimasti così a lungo privi di un ministro chiave è un segno della difficoltà - prima ancora culturale che economica - degli italiani a uscire dall’attuale, terribile immobilismo della produzione che è anche un immobilismo delle iniziative e delle idee.

In tutti i Paesi europei il ministro dello Sviluppo economico, o il suo equivalente, rappresenta una cerniera strategica dei rapporti tra potere centrale ed economia: dai brevetti alla politica commerciale internazionale, dalle politiche comunitarie a quelle energetiche, dalla supervisione delle Camere di commercio a quella degli operatori di telecomunicazioni, per i suoi uffici passa gran parte della vita produttiva del Paese, anche dopo che, con la gestione ad interim, numerose competenze sono state affidate ad altri ministeri.

Che per cinque mesi si sia potuto gestire tranquillamente tutto questo in maniera amministrativa, senza un responsabile che se ne occupasse a tempo pieno, soltanto con un presidente del Consiglio che apponeva firme, inevitabilmente frettolose, là dove era strettamente necessario, è purtroppo coerente con un Paese in cui l’economia sembra largamente andare avanti per inerzia. L’immagine che una parte importante del Paese ha dell’imprenditore, del capo-azienda è quella dell’uomo energico e decisionista, «ispirato», ottimista ritagliata sul presidente del Consiglio quando ancora faceva quel mestiere. Questo può essere vero in alcuni casi e in alcuni settori, ma la gran massa dell’attività economica si scontra con vincoli purtroppo molto concreti, banali e micidiali, in cui l’«ispirazione» e l’ottimismo servono poco: con i crediti che le imprese non riescono a incassare dagli enti pubblici, con le autorizzazioni che non arrivano e bloccano gli investimenti, con le eventuali multe che arrivano invece in tempi rapidissimi, con i dieci anni mediamente necessari per portare a termine un processo civile.

Tutto questo è avvenuto nella sostanziale indifferenza del Paese, e soprattutto della politica, che troppo spesso sembra adorare il «piccolo è bello» e considerare tutto il resto un fastidio. Il ministro dello Sviluppo economico dovrà riuscire a ribaltare questa scala di valori che sta rapidamente affondando l’Italia e anche a individuare linee di lungo periodo per la crescita del Paese. Pur dovendo dedicarsi a numerosi affari giornalieri, dovrà avere quella che un tempo si chiamava «vision», ossia un’indicazione sufficientemente chiara di ciò che l’Italia potrà essere di qui a cinque-dieci anni e agire perché quest’indicazione diventi realtà. In questo senso il neo-ministro Paolo Romani ha un compito molto difficile e centrale nella politica e nell’economia italiana dei prossimi mesi: la vera capacità di durare dell’esecutivo non si può infatti misurare soltanto contando con il bilancino i voti ottenuti in Parlamento, ma valutando la sua capacità di formulare un coerente progetto di futuro, e di mettere in moto meccanismi perché questo traguardo venga davvero raggiunto.

Certo, in un regime di mercato l’economia va dove vuole e non dove dice il governo; va comunque ricordato che persino il più liberista dei recenti governi europei, quello «mitico» della Signora Thatcher, aveva molto chiare le priorità del Paese e - a torto o a ragione - concentrò gli sforzi pubblici in direzioni molto precise quali la finanza, le applicazioni della biomedicina, la creazione di eccellenze nel capitale umano e così di seguito, con il disegno strategico di fare della Gran Bretagna uno dei centri nevralgici dell’economia globale. E se oggi i governi tendono a occuparsi poco di «settori» - pur con notevoli eccezioni come quella francese e, in maniera meno apparente ma ugualmente efficace, quello tedesco - si occupano moltissimo di «fattori produttivi».

Qual è oggi il «disegno strategico» del governo per quanto riguarda lo sviluppo economico? Che cosa intende fare per rispondere alle crisi di settore e per impostare una politica dei fattori produttivi? Si può sperare di apprenderlo dal neo-ministro Paolo Romani. Al di là delle convinzioni politiche, merita un triplice augurio: quello di muoversi, e di muoversi con efficacia e di muoversi nella direzione giusta. Il rischio - per il neo-ministro e per gli italiani in genere - è che né da lui, né dal governo né dall’intera classe politica pervengano indicazioni chiare.

mario.deaglio@unito.it
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