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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 101696 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Dicembre 17, 2009, 09:31:40 am »

17/12/2009

Aria calda e aria fritta
   
MARIO DEAGLIO


Può darsi - anche se appare assai difficile - che, dopo le inaspettate dimissioni della presidente della Conferenza sul clima, i leader dei principali Paesi del mondo riescano ancora a stringersi la mano davanti alle telecamere di Copenhagen e a mettere la loro firma su un accordo di compromesso. Anche in questo caso ci troveremo di fronte a un risultato deludente: dopo i netti contrasti di questi giorni, un’eventuale intesa di facciata dell’ultima ora sarà poco più che «aria fritta», per usare una classica espressione italiana, o «aria calda», per usare l’analoga espressione inglese, del tutto appropriata a una conferenza sul clima.

Il messaggio che uscirà da Copenhagen pochi giorni prima del Natale sarà la fine, almeno temporanea, del «buonismo», o, se si preferisce, del buon senso, in materia climatica. E’ tramontata la speranza che l’evidenza dei dati scientifici e dei mutamenti facilmente verificabili si sarebbe imposta sugli egoismi e sulle miopie dei principali Paesi del pianeta; che i capi di questi Paesi, impauriti dall’arretramento dei ghiacci e dall’avanzamento dei deserti, si sarebbero solennemente impegnati a ridurre entrambi con l’adozione di misure adeguate. Al contrario, gli egoismi nazionali sono addirittura esplosi, e si è passati rapidamente dai discorsi sui principi e sul lungo periodo al litigio sui soldi (molto pochi in questo momento di crisi) disponibili nel breve periodo per arrestare questa minaccia planetaria.

Il clima sembra così essersi trasformato in un gioco a somma negativa in cui tutti escono con la faccia rossa. Primo fra tutti il governo danese, al quale la conferenza è scappata di mano, alimentando le accuse dei Paesi poveri di volerne «pilotare» le conclusioni in favore dei Paesi ricchi. I secondi a soffrirne sono indubbiamente i climatologi: grazie a uno sfortunato «incidente» sono state messe in rete le comunicazioni di posta elettronica di diversi scienziati, dai quali appare possibile che certi risultati siano stati «addomesticati» per dare maggior evidenza al fenomeno del riscaldamento globale, anche se questo non significa necessariamente che il riscaldamento stesso non esista. I non addetti ai lavori hanno così appreso che i dati «esatti» sulle temperature medie sono frutto di una «lavorazione statistica» e che i dati sulle temperature non sono, in definitiva, molto più precisi di quelli sui prezzi o sulla produzione. Se è vero che la crisi finanziaria dovrebbe insegnare un po’ di umiltà agli economisti, la crisi climatica che stiamo vivendo dovrebbe indurre gli addetti ai lavori a minori certezze e a una minore supponenza.

I peccati che si possono imputare ai meteorologi sono però, tutto sommato, ben più leggeri delle accuse che sono piovute sul capo dei politici dei Paesi ricchi. I Paesi emergenti li accusano di aver drammatizzato i dati sul clima per introdurre una sorta di «colonialismo climatico»: dopo avere allegramente inquinato il mondo per duecento anni, le grandi potenze dell’Occidente agiterebbero ora lo spettro del riscaldamento globale per frenare la gigantesca espansione produttiva della Cina, del Brasile e dell’India e bloccare così l’erosione del loro potere economico.

I Paesi ricchi avrebbero favorito il trasferimento nei Paesi poveri delle lavorazioni industriali più inquinanti e cercherebbero oggi di aiutare ancora una volta le proprie multinazionali, che hanno sviluppato le tecnologie del disinquinamento ambientale, a espandere la loro attività in tutto il mondo. Gli africani, poi, si sono espressi con particolare durezza denunciando di essere vittime di un nuovo tipo di sfruttamento in quanto i loro territori sono trattati troppo spesso prima come fonti di materiali da sfruttare senza alcun riguardo all’inquinamento e poi come pattumiere ecologiche in cui depositare i rifiuti di queste stesse materie prime lavorate altrove. Si tratta di accuse non infondate ma rivolte più al passato che al futuro. I Paesi emergenti dovrebbero rendersi conto che, indipendentemente dagli inquinamenti passati, il mondo non può permettersi di aumentare la quantità di materiali inquinanti immessi nell’ambiente. Agli africani occorrerebbe poi chiedere sommessamente perché, essendo indipendenti ormai da mezzo secolo, non usano meglio la loro indipendenza e continuano a peggiorare la situazione con guerre feroci tra di loro invece di svolgere azioni più coerenti per la difesa dei propri interessi comuni.

Mentre l’attenzione mediatica era concentrata su quanto stava accadendo nelle strade di Copenhagen, dove polizia e manifestanti si sono scontrati con particolare durezza, gli scontri più gravi avvenivano quindi nel chiuso delle stanze in cui si svolge la Conferenza. Quello che doveva essere un momento di unione e di solidarietà rischia di trasformarsi in momento di confusione, di polemiche, di ripicche. Da queste divisioni interne potrebbe derivare un altro ostacolo alla continuazione dell’attuale esperimento di globalizzazione: gli imprenditori europei, costretti a imponenti investimenti per rispettare i rigidi vincoli climatici decisi a Bruxelles hanno buon gioco a chiedere un «dazio ecologico» sulle importazioni provenienti da Paesi che non impongono simili vincoli e le relative spese. Per evitare di cadere in un baratro ad un tempo economico ed ecologico, tutti dovrebbero fare un passo indietro: si tratta di una splendida occasione per il presidente Obama, fresco di un (discusso) premio Nobel per la pace di dimostrare di avere veramente la statura di un leader mondiale.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #61 inserito:: Dicembre 29, 2009, 11:05:06 am »

29/12/2009
 
Il futuro frugale che ci aspetta
 
MARIO DEAGLIO
 
I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire.

Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c'è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare.

I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all'insù come un elastico, secondo l'immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse.

Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri - spesso di dubbia validità - né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia.

Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta.

Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza.

Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #62 inserito:: Gennaio 05, 2010, 08:14:25 am »

5/1/2010

L'insana giungla dei saldi
   
MARIO DEAGLIO


Code per entrare nei negozi; code alle casse per pagare; code sulle autostrade che portano agli outlet, i nuovi centri commerciali. Telegiornali zeppi di immagini di consumatori affannati ma contenti che dichiarano di aver fatto un «buon affare» aspettando, per acquisti importanti, che passasse il Natale e pagando così borse, scarpe e vestiti a prezzo di saldo, ossia sensibilmente di meno di una settimana fa; e di negozianti che non nascondono la soddisfazione per aver allontanato la temibile prospettiva di un magazzino rigonfio di oggetti non venduti.

Di fronte a un simile spettacolo ci sono due motivi di perplessità. Il primo, di carattere generale deriva dalla constatazione che le code sono quasi sempre indizio di disfunzioni del mercato e che quelle dei saldi segnalano distorsioni nel meccanismo delle vendite e non sono certo il sintomo di un consumo equilibrato.

Il secondo motivo di perplessità assume la forma di una domanda ingenua: invece dei saldi sempre più frequenti, che oggi si svolgono in svariati periodi dell’anno, non si potrebbe procedere a un permanente, sia pur più moderato, abbassamento dei prezzi di vendita? Ci sono naturalmente motivazioni tecniche per le vendite a saldo, occasioni fisiologiche, soprattutto per il settore dell’abbigliamento, per smaltire modelli, colori e forme meno desiderati.

L’estendersi del fenomeno sembra però giustificare la conclusione di una riduzione nella capacità del sistema distributivo di capire ciò che il pubblico veramente vuole e quale prezzo è veramente disposto a pagare. Quando vanno al di là della loro dimensione normale, infatti, i saldi sono la misura della mancanza di conoscenza che il sistema distributivo ha dei gusti e della capacità di spesa del proprio pubblico: l’aumentare delle code è un segno della crescente distanza tra compratori e venditori, oltre che di una certa «disintegrazione» del mercato in tanti mercati paralleli che talora presentano un'ampia gamma di prezzi per lo stesso prodotto.

I milioni di italiani che stanno andando a completare in questi giorni gli acquisti del periodo natalizio naturalmente non pensano che i prezzi scenderanno; in questo caso avrebbero aspettato ancora. E’ più probabile che temano di non trovare più in futuro prezzi così bassi come gli attuali. A una simile conclusione induce un’analisi, per quanto sommaria, del comunicato dell'Istat, reso noto ieri, che contiene le prime stime degli indici dei prezzi al consumo di dicembre. Se guardiamo al passato, troviamo che la nostra inflazione è ai minimi da cinquant'anni; se però guardiamo al futuro, scopriamo che, a partire dall'estate, i prezzi hanno - per quanto poco - ripreso a muoversi.

Proiettando in avanti il dato mensile di dicembre (+0,2 per cento) si otterrebbe un'inflazione annuale per il 2010 compresa tra il 2 e il 3 per cento; non si tratta ancora di un livello allarmante, ma di un livello di attenzione sicuramente sì. Anche perché nei prossimi mesi dovremo fare i conti con alcuni non trascurabili aumenti tariffari e con la recentissima risalita del prezzo del petrolio, oltre che di altre materie prime, e questo può dare motivi di preoccupazione. In altre parole, dietro la maggiore difficoltà ad incontrarsi di venditori e compratori, dietro all’apparente euforia dei saldi, spuntano possibili anomalie che vanno seguite con attenzione.

E’ degna di nota, inoltre, l'estrema variabilità dei prezzi esaminati per comparti: nell’arco di un anno, a fronte della stabilità degli alimentari c'è l'aumento piuttosto forte (+4,4 per cento) delle bevande alcoliche e dei tabacchi, la salita del costo dei trasporti compensata dalla riduzione del comparto elettricità, gas acqua. Non ci troviamo di fronte a variazioni uniformi ma anzi a un’estrema differenziazione che si estende fino ai singoli prodotti.

Il sacco di Babbo Natale che diventa più leggero e la calza della Befana che si gonfia di saldi indicano scompensi profondi non solo nell’incerta congiuntura, ancora dominata dalla crisi, ma anche, in un quadro a più lungo termine nel modo di essere di questo paese. Sono passati i tempi in cui il consumatore medio era un entusiasta, dal portafoglio relativamente gonfio grazie alla tredicesima, che decideva la sua spesa d'impulso ed era fortemente influenzato da una pubblicità superficiale; il consumatore medio di oggi non ha molto entusiasmo e neppure molti soldi - la tredicesima serve a turare i buchi lasciati dalle buste paga mensili - ma sa di avere bisogni essenziali che deve soddisfare, come un nuovo cappotto o un nuovo paio di scarpe. Si aggira tra gli scaffali dei supermercati come un cacciatore armato di una pistola con poche cartucce e sa di non doverle sciupare, di dover mirare giusto per portare a casa il bene desiderato.

Tra lui e il sistema distributivo si svolge una specie di duello: il consumatore aspetta la sua preda ai saldi, la distribuzione cerca di fare acquistare al consumatore tutto prima dei saldi. E sullo sfondo troviamo nuove forme di distribuzione, da Internet ai gruppi d'acquisto, il cui impatto è difficile da valutare. Una maggiore trasparenza su questo intrico può essere la premessa per resistere meglio a spinte anomale in futuro.

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« Risposta #63 inserito:: Gennaio 15, 2010, 04:03:02 pm »

15/1/2010

Pressione fiscale miracoli vietati in Italia e in Europa
   
MARIO DEAGLIO


Non è stato soltanto il presidente del Consiglio italiano a fare una clamorosa marcia indietro nel giro di pochi giorni dopo la promessa di ridurre a due sole le aliquote Irpef, il che avrebbe fatto volare i redditi netti di molte categorie di italiani. Nella coalizione di governo tedesca è sorto un vivace contrasto tra i liberali che premono per il sostanzioso taglio fiscale promesso agli elettori e la cancelliera Merkel che frena, rinviando di un anno (almeno) il sospirato taglio. In molti Paesi d'Europa, dalla Grecia alla Gran Bretagna le imposte vengono aumentate, non diminuite. Il presidente della Banca Centrale Europea chiarendo (e forse correggendo) quanto ha detto pochi giorni fa, dichiara che l'attuale ripresa produttiva non è consolidata e che pertanto le imposte non possono essere tagliate.

Il taglio delle imposte non è quindi così facile come si potrebbe pensare, non si tratta certo della bacchetta magica in grado di suscitare immediatamente la crescita. Ma non si era detto che il miglior rimedio alla crisi consisteva proprio nel mettere del nuovo denaro nelle tasche degli europei, in modo tale che la loro domanda aggiuntiva riavviasse l'economia? E perché, quando si viene al dunque, è sempre difficile, in tutta l'Europa e non soltanto in Italia, ridurre le imposte? Le risposte sono sostanzialmente tre.

La prima risposta è che, invece di ridurre le imposte, la maggior parte dei paesi - non l'Italia - ha già aumentato sostanzialmente le uscite pubbliche per interventi di salvataggio delle proprie banche o altre istituzioni finanziarie in difficoltà; ad aumentare le uscite pubbliche hanno inoltre variamente contribuito - questa volta anche in Italia - le spese per sostenere la cassa integrazione o istituzioni simili che hanno mitigato l'asprezza della crisi sulle famiglie ma non sono certo bastate a rimettere nessun paese su un adeguato binario di crescita. E nel frattempo la crisi ha fatto diminuire sensibilmente le entrate fiscali.

Per conseguenza il panorama dei deficit europei, oltre che degli Stati Uniti e del Giappone, è diventato orribile. Irlanda e Germania avevano entrambe un bilancio pubblico in sostanziale pareggio nel 2007, per il 2010 la Commissione europea prevede un deficit rispettivamente del 15 e del 5 per cento del prodotto interno lordo; l'Italia in questo senso si è comportata abbastanza bene passando da circa il 2 ad «appena» il 5,5 per cento previsto nel 2010 e scendendo così sotto la media della zona euro. Si tratta, però, di una magra soddisfazione perché nel 2011 il debito pubblico accumulato dall’Italia sarà, secondo le previsioni dell’Ue, pari a circa il 118 per cento del prodotto lordo; nel suo complesso l'intera area euro si sta avvicinando ai livelli italiani ma dovrebbe arrivare nel 2011 solo all'88 per cento, sempre secondo le previsioni della Commissione europea.

A questo punto - ed ecco la seconda ragione della difficoltà a ridurre le imposte - una sensibile riduzione della pressione fiscale da parte dei grandi Paesi europei farebbe aumentare fortemente sia il deficit sia il debito e comporterebbe il rischio di una perdita di credibilità del debito pubblico dei Paesi emittenti con conseguenze disastrose per l'intero sistema finanziario mondiale oltre che per il singolo Paese che si dimostrasse così temerario. Per questo il governatore Trichet non vuole che le imposte diminuiscano. Se proprio si pensa di usare ancora l'arma del deficit, appare preferibile un aumento di spesa pubblica legato a grandi lavori piuttosto che un aumento dei consumi privati che consisterebbero, in parte non piccola, di beni di consumo prodotti al di fuori dell'Unione Europea.

Vi è però una terza e più profonda ragione: una riduzione duratura delle imposte si potrebbe realizzare soltanto riducendo sensibilmente la spesa pubblica. Il che significa privatizzare una serie importante di servizi pubblici, oppure riorganizzarli in maniera più efficiente oppure ancora peggiorarne la qualità, in entrambi i casi riducendo sensibilmente il personale che li produce; potrebbe altresì significare la riduzione delle pensioni e di altri trasferimenti sociali. Nessuna di queste opzioni incontra il favore dell’opinione pubblica europea: gli entusiasmi per i benefici delle privatizzazioni sono ormai tramontati. Ogni giorno si registrano lamentele sul funzionamento dei servizi pubblici ma ben pochi sembrano volere davvero la privatizzazione della nettezza urbana, dell'acqua potabile, dei servizi anagrafici o delle carceri.

In altre parole, una struttura pubblica solida, magari un po' grigia e vecchiotta, e un ombrello assistenziale rassicurante costituiscono una parte profonda della cultura europea. La signora Thatcher ha modificato rapidamente e radicalmente questo stato di cose in Gran Bretagna al prezzo di profonde lacerazioni nella società britannica e di una sua generale perdita di solidità. L'Europa naturalmente non dice di no all'efficienza, ma sembra preferire che l'evoluzione in quella direzione sia lenta e che i privati siano chiamati a collaborare con il settore pubblico e non a fare i «padroni».

Se le cose stanno così, gli europei, e gli italiani in particolare, devono essere preparati soltanto a piccole discese della pressione fiscale che rimarrà strutturalmente più elevata di quella di Paesi maggiormente fondati sui valori individuali, a cominciare dagli Stati Uniti. L'obiettivo, in Italia e in Europa, non può essere quello di riduzioni «miracolose» del carico fiscale; è meglio pensare a un graduale e duraturo aumento dell’efficienza della spesa pubblica.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #64 inserito:: Gennaio 23, 2010, 06:07:11 pm »

23/1/2010

Manovratori di opinioni
   
MARIO DEAGLIO

A prima vista non si direbbe che il governo della Repubblica Popolare Cinese e la Corte Suprema degli Stati Uniti abbiano molto in comune. Eppure nelle ultime quarantott’ore hanno adottato decisioni o preso posizioni sostanzialmente simili che potrebbero incidere molto fortemente sulla vita dei normali cittadini. Al di là delle apparenze, in entrambi i casi rischia di essere limitato il diritto di esprimere, diffondere o ricevere opinioni su Internet.

Il governo cinese sostiene che Internet è libera se rispetta la legge e che le società che operano nello spazio cibernetico diffondendo informazioni devono cooperare con le autorità per stabilire un «clima di armonia e stabilità sociale» e per «orientare correttamente l'opinione pubblica». La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso qualcosa di solo apparentemente opposto: non sarà applicabile la legge che limita le risorse finanziarie che le imprese e i sindacati possono dedicare a campagne d'opinione tese, in periodo elettorale, a influire sulle decisioni degli elettori.

A New York e Los Angeles non ci sarà più alcun freno alle somme per acquistare spazi televisivi, radiofonici e telematici, nonché sulla carta stampata, per far eleggere i politici vicini ai propri interessi in quanto si potrà spendere quanto si vuole e il controllo sui mezzi di informazione potrà così aumentare fortemente. Le imprese che maggiormente inquinano potranno finanziare martellanti campagne fiancheggiatrici dei candidati contrari alle norme antinquinamento; le imprese bancarie e finanziarie potranno spendere miliardi (magari a suo tempo sborsati dallo Stato per evitarne il fallimento) per sostenere i parlamentari contrari alla proposta del presidente Obama di introdurre un'imposta speciale sulle banche; le case farmaceutiche e le compagnie di assicurazione potranno raddoppiare i loro sforzi a favore di politiche che vogliono convincere gli americani che la riforma sanitaria proposta dal Presidente è un disastro. Questi comportamenti si estenderanno anche a livello locale e la democrazia di base degli Stati Uniti, dove anche il capo dei pompieri o il procuratore distrettuale vengono scelti con un'elezione popolare, potrebbe uscirne fortemente distorta. «Con un tratto di penna», ha commentato il presidente di un'associazione statunitense per le libertà politiche, «cinque giudici (sui nove che compongono la Corte) hanno cancellato un secolo di norme per limitare l'influenza delle imprese sulla politica».

New York e Los Angeles rischiano così di avvicinarsi alla realtà di Pechino e Shanghai in cui gli spazi dell'informazione e, più in generale, quelli telematici sono da sempre accuratamente controllati. In Cina - Paese che negli ultimi tempi ha mostrato qualche grado di flessibilità - il controllo è effettuato dal governo e dal partito comunista cinese, negli Stati Uniti potrà toccare di fatto alle lobbies, ossia alle unioni di imprese che perseguono gli interessi comuni dei loro associati, finora sottoposte oltre che alla trasparenza anche a limiti di spesa piuttosto severi. Non a caso, Google - la società di servizi informatici che più viene associata alla libertà di informazione per il suo eccellente motore di ricerca che consente di consultare infinite fonti in un batter d'occhio - è sotto attacco sia a Pechino, perché non vuole più rispettare la censura, sia in vari paesi occidentali, dove si vuol limitare la sua capacità di mettere gratuitamente importanti fonti informative a disposizione del pubblico di Internet.

La «chiusura» di Internet come strumento di informazione e di espressione di opinioni potrebbe così procedere in maniera rapidissima, tanto da mettere in dubbio la sua possibilità di continuare a essere, come negli ultimi dieci anni, una colonna della libertà. Anche il funzionamento efficiente delle Borse potrebbe essere compromesso se, tanto per fare un esempio, un'impresa in difficoltà potesse svolgere sulla rete, senza limiti di costo, una campagna aggressiva in proprio favore che raggiunge gratuitamente il risparmiatore mentre il risparmiatore stesso potrebbe essere costretto a pagare per conoscere le opinioni contrarie. Nel momento in cui stanno sorgendo nuove, grandi concentrazioni mondiali di imprese, spesso grazie alla «campagna acquisti» condotta in tutto il mondo dalle società semi-pubbliche cinesi, potrebbe venire a mancare la loro controparte dialettica. I più ricchi acquisterebbero così nuova forza, e i governi sarebbero ancora più fortemente condizionati di oggi dai loro «grandi elettori».

Tutto ciò induce a considerare il caso italiano, in cui l'influenza dei vertici politici sulle reti televisive può diventare soverchiante, come l'anticipazione di un problema mondiale: fino a che punto e con quali mezzi deve essere lecito «orientare» l’opinione pubblica, come dicono i cinesi e come faranno sempre di più i grandi interessi economici americani? Quanto spazio resterà per chi vorrà essere diversamente orientato o diversamente orientare i suoi concittadini? In un mondo in cui la non trasparenza delle operazioni finanziarie ha indubbiamente favorito la crisi economica, quali garanzie potranno davvero restare al cittadino e al cittadino-risparmiatore?

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #65 inserito:: Febbraio 07, 2010, 06:36:05 pm »

6/2/2010

Adesso serve una Ue a due velocità
   
MARIO DEAGLIO

Basta con l’Europa delle quote latte, dei cavilli, delle burocrazie, che va avanti con una costituzione che non c’è e con un governo che non c’è; che ha saputo fare una moneta ma non sa fare una politica economica; che pone ai propri vertici burocrati anziché politici di primo piano.

Un’Europa che sembra spesso mettere ipocritamente alla pari colossi come Francia e Germania con Paesi come l’Estonia, i cui abitanti starebbero tutti in un quartiere di Parigi. Se lo scossone assestato dalle difficoltà greche, spagnole e portoghesi alle Borse europee determinerà una svolta che ci allontana dalla falsa normalità di questi anni sarà almeno servito a qualcosa.

Ben pochi avrebbero pensato, anche solo un mese fa, che il Vecchio Continente si sarebbe gradatamente spostato verso l’occhio del ciclone economico-finanziario che ci assilla da quasi tre anni e che l’euro si sarebbe rivelato debole e il dollaro incredibilmente forte. Gli europei, che sono certamente vecchi e che troppo spesso per questo si ritengono saggi, guardavano alla crisi americana dall’alto in basso; oggi si trovano platealmente snobbati dal giovane presidente degli Stati Uniti che, sull’onda del rialzo del dollaro, annulla il normale vertice con l’Unione Europea perché con l’Europa non c’è proprio nulla da discutere, perché l’Europa è un interlocutore fantasma. Ci si aspettava che dovesse arrivare l’«ora della verità» per il dollaro e per gli Stati Uniti, e invece è arrivata l’ora della verità per la giovane moneta europea, fino a pochissimi giorni fa sicura della sua forza e ora minata dalla crepa spagnola e dalla crepa irlandese.

La crisi delle finanze pubbliche spagnole ha infatti posto in luce una serie di gravi debolezze strutturali della costruzione economica europea. Non esiste alcuna previsione per la possibile uscita - o espulsione - di un Paese dall’area dell’euro; parallelamente non è ben chiaro se, e a quale titolo, altri Paesi o la stessa Banca Centrale possano dare un aiuto finanziario sostanzioso a un Paese in difficoltà. L’Eurostat, cui compete il controllo e l’armonizzazione delle statistiche e dei conti pubblici europei, aveva già denunciato i trucchi contabili di Atene nel 2004, ma non se ne fece nulla. Molte azioni comuni europee aggiungono complicazioni burocratiche, più che portare a vantaggi per produttori e consumatori. Per queste debolezze strutturali, prima ancora che per la forza della speculazione, l’euro si è indebolito in maniera consistente nelle ultime settimane, dando maggior forza alle paure di nuove correnti inflazionistiche che, potrebbero derivare dall’aumento dei prezzi delle materie prime, espressi in dollari oggi più cari.

In queste condizioni, qualche forma di «Europa a due velocità» sembra inevitabile. Il vertice franco-tedesco svoltosi due giorni fa a Parigi, che sembrava un incontro quasi di routine, potrebbe essere l’inizio di una rifondazione europea secondo questa linea: non soltanto i due Paesi rappresentano assieme un po’ meno di un terzo della popolazione dell’Unione e un po’ più di un terzo della sua produzione, ma l’Europa, nata dalla paura di una ripresa del loro conflitto storico, potrà essere rilanciata soltanto da una ripresa della loro stretta collaborazione, che data da oltre mezzo secolo e attorno alla quale l’Unione Europea è stata costruita pezzo dopo pezzo.

E’ necessario che qualcuno mostri la strada di una vera armonizzazione delle politiche economiche, di un coordinamento delle politiche industriali, anche se non tutti gli altri Paesi potranno o vorranno seguire subito. Un’«Europa a due velocità» potrebbe diventare inevitabile almeno in economia, ed è sembrato di cogliere qualche segnale in tal senso dal vertice parigino. E il «commissariamento» della Grecia deciso a Bruxelles potrebbe essere il primo passo di una nuova politica economica più costrittiva nei confronti dei governi nazionali che non seguano le regole concordate.

E l’Italia? Se si sommano popolazione e prodotto lordo italiano a quelli franco-tedeschi si ottiene all’incirca la metà del totale europeo. In questo senso l’Italia potrebbe dare un appoggio importante, limitato però dal peso gravoso del suo debito, a una rifondazione della politica economica europea. Va dato atto ai ministri dell’economia che si sono succeduti nell’ultimo decennio di aver complessivamente gestito in maniera soddisfacente un debito che poteva destabilizzare l’economia e di aver resistito a forti pressioni bipartisan per ogni genere di aumenti di spesa che l’Italia non si poteva permettere.

Un’Italia che ha tratto grande beneficio in questi anni tempestosi dall’«ombrello» dell’euro non può che collaborare a turare i buchi che si sono improvvisamente aperti in quest’ombrello, anche perché deve essere conscia della possibilità di divenire essa stessa bersaglio di attacchi speculativi. Se la prima, traballante linea greco-spagnola dovesse scricchiolare ancora, occorrerebbe vigilare strettamente perché il debito pubblico italiano mantenga la sua attuale reputazione; e senza una buona reputazione, il rifinanziamento del debito in scadenza diventerebbe molto più costoso. Per questo, i dati sorprendentemente buoni dei conti pubblici di gennaio sono una manna piovuta dal cielo. Né gli europei né gli italiani possono però vivere di sola manna: invece di schiacciarci sul giorno per giorno, dobbiamo ricominciare con ragionamenti e politiche di lungo periodo. Le sole che possano permetterci di cercare di progettare il nostro futuro anziché subirlo.

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« Risposta #66 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:22:12 am »

4/3/2010

E l'Europa fa finta di niente
   
MARIO DEAGLIO


Dalle liste ai listini: assorbiti dai problemi delle liste elettorali, noi italiani stiamo dimenticando quelli dei listini finanziari.

Eppure sia le liste sia i listini contengono indizi di un malessere profondo che riguarda nel primo caso la società italiana e nel secondo la presenza dell’Italia e dell’Europa nell’economia mondiale; guardare solo ai problemi della prossima consultazione elettorale e trascurare orizzonti più vasti costituisce un pericolo grave.

Il primo listino al quale prestare attenzione è quello dei cambi. Ai primi di dicembre ci volevano 150 centesimi di dollaro per comprare un euro, ora ne bastano 135, con una flessione del 10 per cento in tre mesi del valore della nostra moneta rispetto a quella americana. Questo di per sé non sarebbe un male perché dà fiato alle esportazioni ma è preoccupante il motivo alla base della caduta: il vuoto di politica economica dell’Unione Europea, la sua incapacità di reagire rapidamente a una crisi piccola come quella greca che incredibilmente rischia di travolgere la seconda valuta del mondo.

L’Unione Europea semplicemente non ha alcuno strumento per affrontare la crisi finanziaria di un Paese membro. Ed è rimasta immobile per due settimane, bloccata dal «moralismo» della Germania - alla quale si aggiungono i membri nordici della zona euro - che mostra un’avversione viscerale al salvataggio finanziario dei greci, spendaccioni «cattivi». Salvo poi scoprire che i «vizi» greci sono stati potentemente finanziati, tra gli altri, anche da banche tedesche e nord-europee che registreranno sensibili perdite se la Grecia non verrà sostenuta. Nel frattempo, dal neo-presidente del Consiglio Europeo, Herman van Rompuy e dalla neo-rappresentante per gli Affari Esteri, Margaret Ashton - i due politici che avrebbero dovuto rivitalizzare l’Unione uscita dal Trattato di Lisbona, povero surrogato di una Costituzione condivisa - si registra solo un imbarazzante silenzio. Certo, la crisi greca non rientra nelle loro competenze specifiche; il guaio è che non rientra nelle competenze specifiche di nessuno. Se però la Grecia - alla quale vanno richiesti doverosi sacrifici per le leggerezze e gli errori del passato - non fosse aiutata dall’Europa (e magari venisse aiutata dal Fondo Monetario o dalla Cina) ci si potrebbe domandare a che cosa serve veramente l’Unione Europea e se l’euro ha ancora un significato.

Il secondo listino che ignoriamo a nostro rischio e pericolo è quello azionario, da considerare in questo momento di difficoltà non soltanto come un termometro finanziario ma come un importante indicatore politico-sociale. Come tutti i listini europei, anche quello italiano è lontanissimo dai massimi; una breve tendenza al rialzo iniziata a dicembre si è esaurita a gennaio e da allora prevale un ritmo stanco, da persona anziana che ben si addice a un Paese in cui gli anziani si avviano a diventare maggioranza. Più in generale, i capitali finanziari risentono della fragilità di un’Europa priva di un qualsiasi indirizzo di politica economica e della particolare debolezza di Spagna e Gran Bretagna. Guardano con maggiore interesse all’America, dove i segnali di ripresa sono più robusti, per quanto ancora largamente insufficienti, e soprattutto ai Paesi emergenti, che la crisi se la sono già lasciata alle spalle.

Il terzo listino che dovremmo tenere presente è molto lungo. Consiste, infatti, di 9255 nomi: tante sono, secondo i dati della Cerved, le imprese fallite in Italia nel corso del 2009, millesettecento in più di quelle fallite nel 2008, quasi il doppio dei fallimenti che si registrano in un anno «normale». E’ molto probabile che questo numero sia destinato a crescere nel 2010 così come si prevede tranquillamente una crescita della disoccupazione; il panorama del resto dell’Europa non è molto diverso. Non si prevede alcuna risposta coordinata alla crisi, alcuna vera politica che possa indirizzare e magari galvanizzare gli europei, quando è ormai chiaro che da questa crisi l’Europa uscirà veramente con una nuova struttura istituzionale che ne accentui il carattere federale, magari con competenze pubbliche europee finanziate da un’imposta europea.

Di tutto ciò, però, non parla nessuno. I francesi, anch’essi alla vigilia di elezioni locali importanti, si lamentano perché i servizi pubblici non sono più quelli di una volta, i tedeschi sono ancora sotto choc per l’entità dell’evasione fiscale dei loro alti dirigenti con conti esteri irregolari, gli inglesi scoprono che il loro primo ministro ha un pessimo carattere. E gli italiani? Si occupano delle modalità di presentazione delle liste alle elezioni regionali; un problema sicuramente importante, che distrae però l’attenzione da un’economia largamente lasciata a se stessa che, come le sue consorelle europee, continua a nuotare tranquillamente nelle acque mortifere della recessione.

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« Risposta #67 inserito:: Marzo 12, 2010, 08:13:36 am »

12/3/2010

Alla fine il conto arriverà
   
MARIO DEAGLIO

Quando si fa politica e si è nel mezzo di una campagna elettorale densa, come l’attuale, di incidenti di percorso, è purtroppo facile lasciarsi prendere dalla retorica e far passare in secondo piano, o addirittura maltrattare, le cifre della situazione economica. Proprio per questo si fa un giusto servizio ai lettori mettendo sobriamente a fuoco la situazione, anche se così si richiede loro di confrontarsi con le cifre, peraltro solo apparentemente aride, che pongono in luce le difficoltà oggettive di oggi.

Fatto pari a 100 il valore del 2005, la produzione industriale italiana raggiunse il suo massimo pre-crisi nell’aprile 2008 con il valore di 108,9. La crisi la fece letteralmente precipitare, tanto che nel marzo 2009 si toccò il valore straordinariamente basso di 81,1 con una contrazione del 26 per cento. La risalita successiva appare troppo lenta: ha portato l’indice di gennaio al valore di 87,9, (-19 per cento rispetto ai livelli pre-crisi) e se continueremo a questa velocità ritorneremo ai livelli di anni che oggi ci sembrano dorati non prima della fine del 2013.

E quando ci saremo arrivati, tenuto conto dei normali aumenti della produttività, indispensabili per restare sui mercati internazionali, l’industria - che ha già subito una perdita di oltre 300 mila posti di lavoro - darà lavoro a un numero di persone sensibilmente inferiore a quello di allora.

Se dalla produzione industriale si passa al prodotto lordo (il «mitico» Pil) il discorso di base non cambia anche se le dimensioni della caduta sono fortunatamente minori: dai massimi del primo trimestre 2008 l’Italia ha fatto registrare, insieme a Germania e Regno Unito, una caduta di oltre il 6 per cento. Il successivo rimbalzo è stato così debole e incerto che non possiamo ancora affermare di essere veramente in risalita, anche se numerosi segnali in vari settori produttivi puntano in quella direzione. Proprio per l’incertezza e la debolezza della ripresa, anche in questo caso ci vorranno diversi anni, assai più di quelli necessari agli altri Paesi avanzati, per tornare ai livelli di prima.

La situazione italiana è quindi molto difficile, ma non per questo deve essere drammatizzata; non appare però appropriato che il presidente del Consiglio la minimizzi, affermando sbrigativamente che «è iniziata la risalita». Come fa chi porta i bambini in gita e, a ogni svolta di strada, dice loro che la meta è dietro l’angolo perché non sentano la stanchezza. Gli italiani, come cittadini e come elettori, non meritano di essere trattati da bambini, devono essere posti davanti alla gravità della situazione e alla responsabilità che essa comporta.

Il presidente del Consiglio non è il solo capo di governo che cerca di indorare la pillola; e proprio per questo giunge appropriata la «lavata di capo» che la Banca Centrale Europea (Bce) ha rivolto ieri a tutti i governi della zona euro. La Bce ha il compito di salvaguardare la stabilità monetaria, afferma sostanzialmente che i conti vanno pagati, che, essendo terminata la fase dell’emergenza, non continuerà a immettere liquidità nel sistema economico europeo in grandi quantità come ha fatto finora. La ricreazione è finita, in altre parole, e tutti i Paesi devono rimettersi in regola con i famosi parametri di Maastricht.

A questo punto non basta affidarsi all’ottimismo, sostenere che la crisi è psicologica, o che addirittura non esiste; anche perché la caduta produttiva europea ha le sue origini nel forte calo delle esportazioni più che dei consumi interni e contro di esso non bastano consumatori più allegri. Il presidente del Consiglio - e con lui gli altri capi di governo europei - dica chiaramente se ritiene di seguire la strada indicata dalla Banca Centrale oppure preferisce non accettare questa guida molto ortodossa e molto «noiosa» che obbligherebbe a «fare le riforme». «Fare le riforme» è nulla più di un eufemismo per dire che, non solo in Italia ma in tutti i Paesi europei, occorre ridurre sensibilmente, a parità di servizi erogati, il numero dei pubblici dipendenti, aumentare la concorrenza nelle professioni cosiddette «libere», far calare le aspettative pensionistiche e forse anche una parte delle pensioni attuali. Si tratta insomma, sia pure in dosi più limitate, della «ricetta greca» che viene visceralmente rifiutata nelle strade di Atene e Salonicco.

Se non si vuole seguire quella strada, un’alternativa c’è, pericolosa e alquanto eretica ma forse politicamente più accettabile. L’ha delineata Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, e comporta la cosciente accettazione di un tasso di inflazione sensibilmente più alto dell’attuale (il 4 per cento); quest’inflazione dovrebbe essere controllata, agirebbe da anestetico e consentirebbe di lenire la durezza delle riforme, «spalmandola» su un numero maggiore di anni. Si tratta naturalmente di una strada pericolosa perché, una volta lasciata fuori dalla sua gabbia, non è sicuro che l’inflazione sia controllabile.

In definitiva, in questa situazione i politici sono chiamati a fare i politici: a prendere delle decisioni e assumersene le responsabilità. Non a risolvere tutto con qualche battuta, sperando che questa metta il buon umore a cittadini giustamente preoccupati.

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« Risposta #68 inserito:: Marzo 23, 2010, 08:57:39 am »

23/3/2010

L'Europa sul piano inclinato

MARIO DEAGLIO

L’uscita dalla crisi finanziaria mondiale assomiglia sempre di più a certe ascensioni dal percorso molto esposto nelle quali a ogni passo si rischia di cadere e si è in preda alle vertigini. Il senso di vertigine è chiaramente visibile se si guarda all’euro che sta mostrando vistosi segnali di indebolimento per l’incapacità dell’Europa non solo di risolvere ma addirittura di affrontare il problema del debito pubblico greco.

Sono ormai 15 giorni che il neo primo ministro di Atene, Giorgio Papandreou, viene lasciato a bagnomaria tra esitazioni e silenzi, o meglio sottoposto a una serie di docce fredde sulla possibilità di ottenere un finanziamento dai partner europei. Per conseguenza di queste docce fredde è però l’euro che si sta prendendo la polmonite: se gli europei non sapessero risolvere i problemi monetari di un piccolo paese della loro area, vedremmo accrescersi la sua vulnerabilità e ridursi fortemente la sua credibilità come grande valuta mondiale.

Alla base dell’indecisione europea ci sono le incertezze tedesche. Berlino sembra incapace di un dialogo costruttivo e indulge in un eccesso di moralismo che si può sintetizzare in tre punti. Il primo è che i greci sono «cattivi» perché il rapporto deficit/Pil è all’astronomico livello del 12,9 che fa sembrare gli italiani, con un valore del 5 per cento, dei maestri di virtù. Il secondo è che sono anche degli imbroglioni perché, pur di entrare nell’euro, nel 2004 truccarono le cifre della loro situazione finanziaria pubblica. Per conseguenza - ed ecco il terzo punto - è bene che paghino duramente e non presentino il conto al contribuente tedesco. Per usare l’espressione di un precedente cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, rivolta contro l’Italia nel 1974, durante una grave crisi della lira, la Germania non presterà «nemmeno uno stanco marco» (keine muede Mark) a gente fatta così.

Andrebbe osservato che il deficit greco è stato a lungo tollerato dall’Europa forse anche perché il collocamento del debito greco ha procurato profitti non trascurabili alle banche tedesche; che nel 2004 si chiusero gli occhi sui «trucchi» greci anche perché nessun paese era del tutto alieno da qualche abbellimento contabile: e che nel 1974 la Germania fu alla fine costretta a concedere un grosso prestito alla sciagurata Italia, per evitare il collasso della nascente Unione Europea, pure costringendola all’umiliante pignoramento di una parte ingente delle sue riserve auree. Il prestito però venne puntualmente restituito e l’economia italiana riprese la sua corsa per altri quindici anni.

Oggi al posto del marco c’è l’euro e il «potere di indirizzo» dei tedeschi sulla moneta comune è sicuramente minore. Rifiutare il prestito ai greci, o concederlo a condizioni che li condanni a dieci anni di stagnazione (è questo più o meno il costo del rientro dal debito) significa imporre loro qualcosa di simile a onerose riparazioni di guerra. I tedeschi dovrebbero ricordare che proprio le riparazioni di guerra imposte alla Germania segnarono la fine della democrazia nel loro paese e contribuirono potentemente a creare le premesse della seconda guerra mondiale; al contrario, la rinuncia alle riparazioni di guerra nel 1945 da parte degli alleati occidentali pose le basi per il miracolo tedesco, mentre i russi spogliarono la Germania Orientale della sua attrezzatura industriale determinandone una pesante inferiorità tecnologica ed economica nei confronti delle zone occidentali.

Purtroppo l’esitazione sul debito greco avviene in un momento in cui il governo francese è indebolito da una pesante sconfitta elettorale, la Gran Bretagna ha seri problemi economici e un cambio politico in vista, la Spagna e l’Italia non sono certo brillanti, sia pure per ragioni diverse. Il vuoto delle strategie tedesche si colloca così in un vuoto politico-economico europeo mentre si teme un aumento del costo del denaro dopo la stretta monetaria cinese, la ripresa economica americana stenta ad andare a regime e c’è una forte tensione sino-americana sul cambio della moneta di Pechino. Quasi duemilacinquecento anni fa, trecento guerrieri greci fermarono, almeno temporaneamente, l’avanzata dell’imponente esercito persiano alle Termopili; oggi il debito greco, di assai modesta entità nel contesto mondiale, potrebbe rappresentare un cuneo non trascurabile nelle prospettive di una stabile ripresa.

La Grecia va quindi aiutata. Ma come? Non certo pagando a pie’ di lista, in questo almeno i tedeschi hanno ragione. Occorre quel «passo in avanti» di fronte al quale i governi nazionali dell’Unione europea sono così esitanti: non si esce in maniera soddisfacente dalla crisi greca senza un più stretto coordinamento delle politiche economiche dei paesi aderenti all’Unione. Obiettivi e strumenti devono essere maggiormente decisi a Bruxelles e meno a Parigi, Madrid, Roma e naturalmente Berlino: alcune riforme - a cominciare da quelle pensionistiche - sono più importanti dei prestiti e inevitabili per la Grecia e per tutti gli altri. Dietro l’esitazione sul prestito ad Atene si indovina la riluttanza dei maggiori paesi europei a spogliarsi di molte prerogative della politica economica nazionale. Al contrario, l’«armonizzazione» europea non deve restare una parola vuota e passa attraverso una vasta gamma di politiche che vanno dall’immigrazione alle pensioni, dall’energia al sistema fiscale. Solo se si incamminerà sulla strada del coordinamento l’Europa potrà proseguire verso l’unità economica e politica; e purtroppo quella strada è un piano inclinato, se non si avanza, inevitabilmente si scivola verso il basso.

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« Risposta #69 inserito:: Aprile 09, 2010, 11:28:16 am »

9/4/2010

Inflazione un'arma anti-crisi

MARIO DEAGLIO

In tutti i Paesi i politici sono dei giocolieri della parola, bravissimi a dire e non dire, a sfumare i significati, ad attenuare le alternative, a evitare di esprimersi seccamente con dei «sì» e dei «no». Eppure in questo tormentato inizio di primavera l’Oscar dell’oscurità non spetta a un politico ma uno stimato e serio banchiere centrale e precisamente al presidente della Banca Centrale Europea (Bce), Jean-Claude Trichet. Il 25 di marzo, in un discorso al Parlamento Europeo riunito in seduta plenaria, Trichet ha solennemente affermato che «è in atto una ripresa economica, ma questo non vuol dire che la crisi sia finita».

Tradotto nell’italiano di tutti i giorni, questo suona come un non senso e fa sorgere il sospetto che alla Banca Centrale di Francoforte, come anche a Bruxelles e nei ministeri dell’economia dei principali Paesi avanzati - dove si parla di ripresa «fragile», «discontinua», «incerta» - nessuno sappia bene a che punto siamo davvero.

E in quale direzione stiamo andando e che cosa occorra fare per uscire dagli attuali pasticci. Tutti tremano all’idea che le agenzie internazionali di valutazione finanziaria (rating) possano «degradare» altri Paesi oltre la Grecia, costringerli a pagare interessi elevatissimi per ogni euro preso in prestito facendo precipitare i loro bilanci pubblici nel caos. Eppure il caso della Grecia che, data la modestia delle cifre, potrebbe essere risolto senza troppa difficoltà con qualche intervento governativo, continua a ricevere nulla più che poche, ipocrite buone parole.

In questa generale confusione, si inquadra l’«opportunità» per i governi europei di «ritoccare» progetti di bilancio in cui si prevedevano entrate che, a causa di una crescita probabilmente più bassa di quanto inizialmente previsto, potrebbero dar luogo a minori entrate e al relativo «buco». Il governo italiano ha smentito con decisione l’ipotesi, circolata ieri di una manovra estiva per la non piccolissima cifra di 4-5 miliardi euro, ossia circa 70-80 euro per ogni italiano. In ogni caso occorre serenamente mettere in conto la possibilità che il «buco» nel bilancio pubblico italiano diventi realtà. E non sarà una cosa che l’Italia può risolvere da sola, date le dimensioni del mercato del debito pubblico italiano.

Forse, senza troppi timori di eresia, bisognerebbe accettare chiaramente un tasso di inflazione un po’ più alto di quello, oggi obiettivo della Bce, del 2 per cento che soffocherà qualsiasi ripresa. Il capo economista del Fondo Monetario, il francese Olivier Blanchard, ha suggerito un livello del 4 per cento, suscitando scandalo. Se però fossimo sicuri di controllare l’inflazione a quel livello e di non lasciarcela scappare tra le mani, il progetto Blanchard sarebbe da accogliere con entusiasmo.

In ogni caso, se Tremonti ha coraggio e possibilità di guardare lontano, dovrebbe difendere una visione moderatamente espansionista alla prossima riunione dell’Ecofin, il consiglio dei titolari dei dicasteri economici: oggi obbedire ai dettami della finanza mondiale sarebbe un po’ come somministrare un farmaco che abbassa la pressione quando il paziente ha bisogno di alzarla per evitare il collasso. E’ una ricetta per finire al Pronto Soccorso.

Come ha informato l’Istat nella giornata di ieri, le famiglie italiane sono quasi alla soglia del Pronto Soccorso. Negli ultimi tre mesi del 2009 hanno consumato e risparmiato sensibilmente di meno di un anno fa. Questa tendenza negativa si sta attenuando ed è in corso di riassorbimento ma non si può semplicemente sperare che si tratti dell’ultima onda della tempesta. Basti pensare che, rispetto ai livelli pre-crisi, ossia dai massimi dell’aprile 2008 la produzione industriale italiana è ancora sotto di circa il 18 per cento; le imprese hanno finora retto con molta buona volontà e l’immissione di qualche capitale ma non si può veleggiare troppo a lungo su livelli così bassi senza un forte balzo all’insù della disoccupazione.

I governi europei e la Banca Centrale Europea non possono continuare così, a «giocare» con la congiuntura e a incrociare le dita, a parlare di nuove regole per la finanza, a guardare dall’altra parte quando dalle regole si passa alla necessità di affrontare i debiti pubblici, a cominciare da quello greco. Vi è naturalmente il rischio di un’esplosione, non facilmente controllabile, di malcontento popolare, di cui gli scioperi francesi (e anche inglesi e tedeschi) nei settori dei trasporti potrebbero essere un primo segnale. E in Italia occorre guardare con estrema attenzione alle proteste dei sindaci, ormai divenute collettive e organizzate, nonché a quelle delle unioni dei consumatori, assai più agguerrite di un passato anche recente. Di fronte a queste difficoltà, vorremmo vedere qualche abbozzo di strategia che ci porti, tutti insieme, ben al di là della crescita di circa l’1 per cento (se tutto andrà bene). Ma per il momento tutti sembrano propensi a non far nulla di risolutivo e ad accettare senza scomporsi le sibilline parole del Governatore Trichet.

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« Risposta #70 inserito:: Aprile 23, 2010, 09:16:01 am »

22/4/2010

Scommessa su un'Italia nuova

MARIO DEAGLIO

Attorno all'auto si intrecciano e si aggrovigliano oggi tre discorsi diversi. Il primo è quello globale, che vede il mercato dell'auto ansimare dei paesi avanzati e crescere vorticosamente nei paesi emergenti, con auto più piccole e molto meno costose. Per soddisfarli entrambi, e quindi per tener conto congiuntamente delle esigenze della sicurezza, dell'ambiente e di bassi prezzi di vendita, è necessario investire molto e produrre in grandi quantità veicoli con le medesime caratteristiche di base (le cosiddette "piattaforme").

Per il futuro ci si deve quindi attendere un grande mercato globale con pochissimi produttori per i quali la soglia di sopravvivenza è stimata in 6-7 milioni di veicoli l'anno. Di qui ha origine la corsa delle società produttrici a fusioni e accordi. La Fiat - recentemente alla ribalta per l'acquisizione di una quota dell'americana Chrysler - non è certo la sola a cercare di crearsi una base globale: per limitarsi a notizie recenti, occorre citare l'intesa di Renault-Nissan con la tedesca Daimler per un'accresciuta cooperazione tecnica. E General Motors vende ormai più auto in Cina che negli Stati Uniti, mentre il dinamismo delle vendite della Fiat in Brasile fa fortunatamente da contrappunto alla debolezza della domanda automobilistica europea.

Il secondo discorso sull'auto, va decisamente a scontrarsi con questa visione globale e guarda invece ai luoghi di produzione in lista di possibile chiusura, ai posti di lavoro inaspettatamente diventati a rischio non solo nelle fabbriche ma anche negli uffici e tra i fornitori. Tutti gli accordi che le imprese considerano positivi sulla via della sopravvivenza nel mercato globale, ai cancelli degli stabilimenti sono guardati con intensa preoccupazione come possibili minacce di imminente cessazione dell'attività.

Ogni grande impresa automobilistica ha i suoi Termini Imerese; che possono chiamarsi Flins e Melun rispettivamente per Renault e Peugeot, oppure Anversa per la General Motors e l'elenco potrebbe continuare. Da un punto di vista tecnico-economico, queste chiusure, già effettuate o possibili, sono la contropartita dei progetti mondiali: è difficile realizzare i secondi senza procedere alle prime. Le imprese dell'auto sono quindi tirate da due parti: per finanziarle il mercato richiede piani credibili di sopravvivenza ed espansione (due obiettivi che, in tempi lunghi, si fondono perché chi non si espande non sopravviverà) mentre il territorio, sul quale, di regola, le imprese dell'auto sono fortemente radicate, richiede assicurazioni per il mantenimento dell'attuale livello di attività.

Le cifre del piano Fiat possono essere intese come un tentativo di soluzione che cerca di tener conto contemporaneamente delle compatibilità del mercato e delle esigenze del territorio. Al di là di quanto possibile a livello aziendale, è necessario l'intervento pubblico ed è questo il terzo discorso sull'auto: tale intervento è necessario nella forma di programmi assai più che di finanziamenti che devono riguardare separatamente il futuro dei lavoratori in eccesso e il futuro delle imprese impegnate in questa trasformazione. L'istanza di mantenere i posti di lavoro attuali come sono e dove sono appare in ogni caso destinata al breve periodo.

Si tratta di problemi scomodi che nessun governo è entusiasta di affrontare. Anche in Italia è sicuramente mancata a livello politico una discussione sull'industria dell'auto (e sull'industria in generale) che andasse al di là dei discorsi di piccolo cabotaggio dei bonus e del "salvataggio" immediato dei posti di lavoro e si estendesse alle nuove tecnologie del settore e alle loro ricadute occupazionali (naturalmente se l'auto continuerà a essere una struttura portante del sistema industriale italiano). Al contrario, almeno in Francia e negli Stati Uniti, questi discorsi sono stati concretamente impostati e in entrambi i paesi è stato di fatto varato una sorta di piano nazionale dell'auto.

Mentre le regole chiamano in causa i governi, le risorse per l'auto globale, a lungo andare, devono venire in prevalenza dal mercato finanziario globale. E il discorso del mercato globale - che la Fiat ha affrontato ieri con la presentazione dei suoi programmi fino al 2014 - implica quasi sempre la divaricazione delle strade dei vari rami di attività che oggi convivono all'interno dei grandi gruppi automobilistici ove questi non siano strettamente integrati da un punto di vista tecnologico. La separazione di Fiat Industrial dalle attività automobilistiche non significa inizialmente una variazione nella proprietà ma appare sicuramente come il riconoscimento di esigenze finanziarie diverse e di futuri tecnologicamente separati.

Il piano Fiat pone il paese di fronte a un'ipotesi di realtà futura. Per questo motivo potrebbe risultare il primo contributo alla messa a punto della nuova Italia economica che emergerà dalla crisi attuale, un problema per il quale sulla scena politica ben pochi sembrano avere tempo ed energie da spendere. C'è da augurarsi che si tratti di un primo passo, nell'ambito di una dialettica costruttiva, per la presa di coscienza dal parte del Paese della realtà sgradita ma inevitabile di un'economia mondiale nella quale, volenti o nolenti, dobbiamo nuotare per restare a galla.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #71 inserito:: Aprile 27, 2010, 12:06:04 pm »

27/4/2010

Nobili ideali e interessi di bottega

   
MARIO DEAGLIO

La Grecia deve fare i compiti a casa prima di dar l’esame e ricevere gli aiuti». Così, in tono ironico e sprezzante, si è espresso ieri il leader liberale e ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle a proposito del nuovo veto che ha ancora una volta bloccato la concessione di un prestito europeo al governo di Atene. Come talvolta succede, la realtà è quasi l’esatto contrario: è il ministro Westerwelle a dover fare dei difficili compiti a casa. Il 9 maggio, infatti, nelle elezioni regionali del Land del Nord Reno - Westfalia i liberali di Westerwelle potrebbero non superare la barriera del 5 per cento. Gli equilibri politici nazionali e non solo quelli locali ne potrebbero uscire alterati.

Il governo tedesco, quindi, parla di principi ma guarda alle urne, si appella agli ideali della corretta amministrazione ma punta prima di tutto a far bella figura con i 15 milioni di elettori di una delle regioni più importanti della Germania. Non è la prima volta che nobili ideali coprono più prosaici interessi di bottega e non saranno certo gli italiani a scandalizzarsi troppo.

Superata, o comunque archiviata, la prova elettorale, la Germania dovrà aiutare la Grecia; anche perché se non aiuta la Grecia potrebbe procurare danni gravissimi alla Hre, un’istituzione finanziaria tedesca recentemente nazionalizzata per sottrarla al fallimento, che ha partecipato alle rischiose operazioni della finanza internazionale sul debito greco e potrebbe essere detentrice di un congruo pacchetto di tale debito. Per non dare qualche soldo alla Grecia si rischia quindi un possibile effetto devastante su tutto il mondo finanziario tedesco.

Nel frattempo, si lascia via libera alla caccia grossa della finanza internazionale che ha nel mirino il Portogallo, altro Paese debole. Le sue condizioni sono sensibilmente meno gravi di quelle della Grecia ma il suo «rischio Paese» è stato, per analogia, pesantemente rivisto all’insù dai mercati. E intanto, sempre per analogia, qualcosa si muove al rialzo anche sul rischio spagnolo. Portogallo, Grecia, Spagna: dei quattro paesi a rischio che compongono l’acronimo Pigs (maiali) inelegantemente coniato nei circoli finanziari, ne rimane uno solo che comincia per I. No, non si tratta, per ora, dell’Italia - che ha un rapporto deficit/pil del 5,3 per cento, nettamente inferiore alla media dei Paesi dell’euro - ma della disgraziata Irlanda che ha un terribile 14,3 per cento. C’è però poco da stare allegri: anche l’Italia comincia per I e il 9 maggio è ancora molto lontano.

Se tutto ciò venisse scritto in un romanzo di fantaeconomia sembrerebbe incredibile oltre che grottesco. Eppure è quanto si sta verificando in un’Europa senza istituzioni sicure, dove la Banca Centrale Europea sta chiusa in un elegante grattacielo, come isolata dal mondo, senza un ministero europeo dell’economia con cui dialogare mentre i singoli paesi vanno ciascuno per conto suo e il Belgio, che dovrebbe essere il più «europeo» di tutti, non foss’altro che per essere sede delle maggiori istituzioni dell’Unione, è entrato in una crisi politica al buio dopo un paio d’anni di effettivo non governo. Non si esce da questa situazione semplicemente mettendo una pezza sul debito greco. Per non affondare, per non andare indietro, l’Europa sarà costretta a fare un deciso passo avanti sulla via dell’integrazione. Tale passo in avanti non può che implicare un’ulteriore perdita di sovranità economica dei singoli stati dell’Unione a cominciare da quelli più deboli che dovranno accettare una supervisione a livello europeo. Alcune competenze economiche degli stati nazionali (per esempio relative alle grandi infrastrutture europee) dovrebbero poi passare a un governo centrale ed essere finanziate mediante un’imposizione fiscale europea, determinata e controllata dal Parlamento europeo. L’autonomia economica di paesi come Francia, Germania e Italia dovrebbe lentamente ridursi fino ad assomigliare a quella (peraltro non trascurabile) di California, Massachusetts o Nebraska all’interno degli Stati Uniti.

Per l’Italia, la situazione presenta un risvolto del tutto particolare. L’Italia ha pagato con 10-15 anni di non crescita, o di crescita insufficiente, l’adesione, peraltro indispensabile, ai parametri di Maastricht: pur non essendo riuscita a ridurre grandemente il rapporto debito/prodotto, ha mantenuto fede agli impegni concordati e i suoi conti pubblici sono abbastanza in ordine. Si tratta naturalmente di una situazione precaria che potrebbe volgere decisamente al peggio in caso di cambiamento improvviso del quadro politico. Uno scioglimento anticipato delle Camere potrebbe indurre le agenzie internazionali di rating, come Moody’s e S&P, delle quali ormai la politica di ogni Paese è succube, ad abbassare improvvisamente la valutazione del debito pubblico italiano. Gli uomini politici italiani, notoriamente loquaci, dovrebbero poi ricordare che, quando fanno dichiarazioni, Moody’s e S&P ascoltano e annotano. Se non dai richiami del Presidente della Repubblica, almeno dalla finanza internazionale dovrebbe venire al mondo politico il richiamo a una maggiore cautela.

mario.deaglio@unito.it
da lastampa.it
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« Risposta #72 inserito:: Maggio 08, 2010, 03:07:04 pm »

8/5/2010

I cerotti non curano la malattia
   
MARIO DEAGLIO

Non è sufficiente mettere un «cerotto» sulle ferite aperte dell’economia greca, come si apprestano a fare i leader europei nei prossimi giorni, concedendo ad Atene un prestito troppo a lungo rinviato. Non bastano parole e documenti solenni a dare ai guai di Atene la «risposta forte» auspicata dal presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama. I responsabili delle maggiori economie del pianeta sono troppo spesso vittime della propria retorica, troppe volte hanno parlato in maniera non sufficientemente meditata di crisi superata; troppe volte hanno apposto firme solo apparentemente rassicuranti.

In realtà appare più appropriato supporre che il virus all’origine di questa crisi abbia subito una nuova mutazione: sorto nel 2007 in un segmento secondario della finanza americana, quello dei mutui subprime, è mutato la prima volta nell’autunno del 2008 provocando una sensibile caduta di produzione e occupazione in tutti i Paesi ricchi dopo aver devastato la finanza internazionale e distrutto una parte non piccola del capitale finanziario mondiale. Ora sembra mutare nuovamente forma e percorso e ritornare, in maniera più aggressiva, a colpire quella che è forse la componente più sensibile della finanza mondiale, ritenuta fino a poco tempo fa intoccabile e invulnerabile: il «debito sovrano», ossia i titoli emessi in prima persona dai principali Paesi del mondo. La Grecia è un caso limite di debolezza in quanto Atene ha seguito politiche irresponsabili e platealmente truccato i dati per poter essere ammessa nella zona euro.

Un prestito europeo alla Grecia può forse servire a guadagnare tempo, anche se, come ha sottolineato Franco Bruni su queste colonne alcuni giorni fa, quella che ora viene proposta pare una soluzione malaccorta e troppo «violenta» in quanto è irrealistico chiedere a qualsiasi Paese un «rientro» da una situazione debitoria così pesante in soli tre anni. Servono altre cure, di natura strutturale, che riguardano il mercato finanziario internazionale e i Paesi che su questo mercato contraggono (e normalmente ripagano) debiti. Tali cure devono rivolgersi in primo luogo al funzionamento dei mercati. La Grecia sarà pure una grande peccatrice finanziaria, ma non è giusto che chi l’ha aiutata a peccare e ha tratto vasti guadagni dal suo peccato possa godersi tranquillamente tali guadagni. Il pensiero va naturalmente ad alcune grandi organizzazioni finanziarie, soprattutto americane che sembrano aver cancellato ogni senso di lealtà verso il cliente: hanno aiutato la Grecia a raccogliere prestiti emettendo titoli di debito, e subito dopo hanno scommesso sulla loro perdita di valore.

Senza neppure scomodare l’etica, sui mercati è essenziale una maggiore coerenza e continuità di comportamenti. È inoltre opportuno che le agenzie di rating, che svolgono un indispensabile compito di valutazione indipendente, seguano rigide procedure di comunicazione: in questi giorni i mercati sono stati sconvolti da annunci, che risultano francamente irresponsabili da parte di tali agenzie sul probabile declassamento dei debiti di alcuni Paesi. Una regolazione quasi immediata del loro comportamento sembra inevitabile per attenuare le convulsioni dei mercati. In questi mercati, un ruolo fondamentale spetta al debito pubblico. Si deve constatare, come risulta da un recentissimo studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, che il livello di tale debito è destinato a salire nei prossimi anni e decenni in tutti i Paesi ricchi anche per effetto dell’invecchiamento della popolazione che porta a un aumento della spesa pensionistica e della spesa sanitaria. Occorrono forse misure drastiche di contenimento della spesa (come indicato dagli autori dello studio, Cecchetti, Mohanty e Zampolli) o forse l’accettazione di un tasso leggermente più elevato di inflazione, sempre che la si riesca a controllare; in Europa, in ogni caso, è indispensabile riscrivere con clausole più larghe il patto di stabilità che oggi appare perfino ridicolo.

In un più generale ambito mondiale, il livello strutturale di rischio di tutti i debiti pubblici, e più in generale di tutti gli impieghi finanziari, appare cresciuto dopo l’episodio greco. Queste variazioni strutturali delle finanze pubbliche si accompagnano a un crescente malessere politico: pressoché tutti i governi dei Paesi ricchi sono di fronte a situazioni difficili che riescono a controllare con sempre maggior fatica, a un malcontento di fondo che si esprime con la frammentazione del quadro politico tradizionale (come in Gran Bretagna, dove la formula del bipolarismo è saltata con le elezioni dell’altroieri, o in Belgio dove il parlamento si è sciolto in un clima di confusione) e con una generale fatica dei governi a mettere in pratica qualsiasi tipo di riforma (come in Italia). Instabilità politica e malessere economico sembrano così andare di pari passo e minacciano di soffocare il nostro futuro. Speriamo che abbia ragione il presidente Napolitano e che le vicende greche e il profondo tonfo delle Borse mondiali degli ultimi due giorni siano soltanto il «colpo di coda» della crisi mondiale. L’errore maggiore che possiamo fare è quello di cercare di affrontare questo «colpo di coda» soltanto con misure tecniche immediate anziché curarne le cause di fondo di tipo economico, sociale e politico.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #73 inserito:: Maggio 22, 2010, 05:47:07 pm »

20/5/2010

La prova di forza di Berlino
   
MARIO DEAGLIO

Tutti si aspettavano che sulle vicende dell’euro l'Europa, prima o poi, avrebbe battuto un colpo. Il colpo invece l'ha battuto la Germania da sola, dopo mesi di indecisione, evitando così di rinchiudersi in se stessa e rivendicando chiaramente la leadership in campo monetario e finanziario.

Il colpo battuto dai tedeschi ha assunto la forma di un secco divieto alla vendita allo scoperto, «nuda», di titoli di Stato della zona euro, ossia la forma più aggressiva di speculazione che ha perseguitato e sta ancora perseguitando i Paesi europei e soprattutto i loro debiti pubblici; lo stesso divieto si applica alle azioni di alcune tra le principali banche e istituzioni finanziarie tedesche. Al di là della sostanza, sulla cui efficacia di lungo termine qualche dubbio è lecito, impressiona la forma: la Germania ha agito da sola, seguendo una falsariga approssimativamente concordata nei giorni scorsi con gli altri Paesi della zona euro, ma senza informarli preventivamente e si prepara ad accompagnare questa misura concreta con la proposta di altri otto «punti» che venerdì il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble sottoporrà al Consiglio dei ministri economici e finanziari.

Si tratta di una serie di misure punitive per gli Stati con i deficit o i debiti troppo elevati, analoghe a quelle che si applicano alle imprese in stato fallimentare, che comprendono la sospensione del diritto di voto in vari organi dell'Unione Europea.

Per conseguenza il quadro istituzionale dell'Unione Europea potrebbe rapidamente cambiare e soprattutto l'intesa di fondo tra Germania e Francia, finora asse portante della costruzione economica e politica europea, potrebbe subire importanti modificazioni. I francesi, in particolare il ministro delle Finanze Christine Lagarde, non hanno nascosto la loro irritazione per non essere stati consultati; né i mercati la loro costernazione per essere stati «bacchettati». Le Borse europee sono scese di 2-3 punti percentuali e quelle americane hanno mostrato ribassi di dimensioni più ridotte ma il cambio dell'euro si è stabilizzato recuperando in maniera abbastanza sensibile. Può darsi che i tedeschi abbiano agito «per disperazione», come ha scritto qualche commentatore, ma l'importante è che la gravità della situazione abbia indotto qualcuno ad agire (e non poteva che essere la Germania, date le sue dimensioni economico-finanziarie) e che sia stata interrotta la serie degli inconcludenti balletti di Bruxelles e dei comunicati fatti di buone parole senza vera sostanza. L'allegro mondo della speculazione senza rete ha trovato un limite istituzionale che potrebbe essere il primo di una serie di «paletti» destinati a trasformare radicalmente i giochi mondiali della finanza e a reintrodurre, o comunque rafforzare, il controllo pubblico.

Le misure di contenimento dei deficit pubblici, che pressoché tutti i governi stanno mettendo a punto in gran fretta per fronteggiare la situazione, assumono così una diversa prospettiva: non si tratta più di fatti nazionali ma di un insieme di misure di emergenza che lentamente si compongono in un disegno europeo, il che dovrebbe renderle più accettabili a un'opinione pubblica che sicuramente non li ama, come dimostrano le resistenze politico-sociali manifestatesi in questi giorni nei Paesi per i quali la cura è particolarmente drastica, come la Grecia e la Spagna. Non si tratta tanto di difendere un determinato cambio dell'euro (l'attuale diminuzione fa balenare un pericolo inflazionistico non trascurabile ma introduce anche uno stimolo produttivo in quanto rende le merci europee più competitive nei confronti di quelle asiatiche o americane) ma piuttosto di evitarne la volatilità e di impedire che diventi una sorta di giocattolo in mani altrui.

In questo quadro, la «cura italiana» delineata dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, non appare particolarmente drastica (del resto la situazione debitoria italiana, pur grave, non è allarmante) ed appare rivolta alle aree grigie, o addirittura nere, dell'economia e della società. Tremonti intende incidere su forme di evasione legate a consumi vistosi, e su sprechi pubblici che suonano insultanti per il normale cittadino, dal costo della politica ai falsi invalidi. Appare ingeneroso uno scetticismo preconcetto anche perché nella lotta all'evasione in questi due anni il ministro dell'Economia qualche risultato significativo l'ha portato a casa. Certo incontrerà difficoltà parlamentari, in quanto gli interessi delle aree grigie e nere sono trasversali e non sono estranei ad alcun partito, compreso il suo. E il presidente del Consiglio, che fino a non molto tempo fa negava l'esistenza della crisi o ne minimizzava la portata, si trova in condizioni sensibilmente migliori dei suoi colleghi greco e spagnolo: pur non potendo ridurre le imposte, come gli sarebbe piaciuto, non è costretto ad alzarle. Ma di certo appare del tutto tramontata, dall'Europa oltre che dall'Italia, quell'atmosfera di consumismo ottimista e sorridente che è stato a lungo il sottofondo di gran parte dell'azione di governo e uno degli aspetti più evidenti del berlusconismo.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #74 inserito:: Maggio 25, 2010, 09:44:48 am »

La mafia, i telefoni e il bavaglio

Ecco perché Obama vuol sapere

di Enrico Deaglio

Diciotto anni fa, quando venne ammazzato Giovanni Falcone, i telefoni cellulari erano degli aggeggi grossi, rudimentali, dal funzionamento poco conosciuto e ancora poco diffusi. Il commando di Cosa Nostra che aspettò dal casotto dell’Enel di Capaci il corteo di macchine del giudice e della moglie telefonò parecchio, aspettando di azionare l’esplosivo. Furono individuati soprattutto per quel motivo: con un’iniziativa che poteva sembrare impossibile, ma che funzionò, tutto il traffico telefonico di quelle ore da e per Palermo fu schedato e analizzato, con risultati memorabili che portarono nel giro di un anno agli arresti del commando. Tutto sembrava risolto, o meglio quasi tutto: restavano alcune telefonate in Italia e in America ad utenti impossibili da rintracciare. Poi ci fu la bomba di via D’Amelio contro Paolo Borsellino e di nuovo i telefoni fecero la loro parte: «inquietanti» tabulati legavano uomini della mafia a utenze dei servizi segreti. Erano gli ultimi mesi della Prima Repubblica, quella strana cosa che un quarto della popolazione italiana non ricorda perché non aveva ancora l’età della ragione e di cui ora sente parlare come di fatti strani, muggiti e sospiri, che sembrano provenire da un mondo preistorico: carabinieri che trattarono con Cosa Nostra, nuovi patti politici da assicurare, Falcone e Borsellino uccisi perché troppo vicini alla verità e al potere. Un tipico modo italiano di passare il tempo.

Ma non credo fosse mai successo che membri del governo di Washington si esprimessero così francamente nei confronti del governo italiano deciso ad intervenire sui metodi di indagine antimafia attuato con i telefoni. Hanno detto, in pratica: se voi attuate queste vostre intenzioni, danneggiate anche noi e la nostra azione contro il crimine organizzato. Argomenti del genere sono stati usati nel recente passato contro i governi del Messico, del Venezuela, della Colombia, ma mai nei confronti di un paese europeo. Perché lo hanno fatto? Sicuramente perché all’Fbi si ricordano ancora di Giovanni Falcone che li aiutò non poco a stroncare l’importazione di eroina dalla Sicilia negli Stati Uniti; sicuramente si ricordano di quel Tommaso Buscetta che nel 1984 (otto anni prima delle rivelazioni italiane) raccontò all’Fbi che Giulio Andreotti era il referente politico di Cosa Nostra; e forse anche perché vedono - con sorpresa - un governo europeo adottare leggi che vanno solo ad oggettivo vantaggio delle mafie. E per quanto riguarda l’Italia non capiscono perché il nostro governo passi il suo tempo ad insultare il presidente Barack Obama, un oscuro dirigente di nome Bertolaso si diverta ad insultare l’ex presidente Clinton e il presidente del Consiglio abbia legami così stretti con Putin. Dal loro punto di vista, tutto ciò è molto strano, ma si sa che loro non conoscono le nostre finezze e il nostro modo di giocare al gioco del potere. Nella storia della mafia siciliana in America - una storia potente, che è arrivata anche a bussare alle porte del potere politico - alcune cose giocavano a suo favore, nel grande mercato: la famiglia, la violenza, la determinazione ad emergere, la capacità di destinare una bella fetta degli alti profitti del crimine per corrompere poliziotti, politici e giudici.

Ma c’erano anche due cose che non funzionavano nel modello: il tradimento possibile di un membro della famiglia stessa e l’uso incauto del telefono. Gli infami si cercava di ucciderli prima che testimoniassero, ma il telefono (ovvero la parola che ti può fare impiccare) era una croce quotidiana, a partire da quelli a gettone all’angolo della strada. Un tallone d’Achille, che la polizia peraltro poteva utilizzare a costi veramente bassi: una chiavetta e degli impiegati che ascoltano, esperti di dialetto. Poi vennero le microspie e con loro le bonifiche elettroniche, l’infiltrato con il microfono incerottato sulla pelle, le cimici sempre più piccole, le microcamere grandi come un bottoncino, le Sim che conservano ogni bava di memoria e i siciliani in America vennero ridotti all’angolo persino nello smaltimento di rifiuti nel New Jersey, che era il loro feudo.

A diciotto anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, senza neanche troppi eufemismi, i magistrati ci dicono che le cose non andarono come noi pensavamo. In pratica, ci spiegano che gli uccisori furono solo la manovalanza che agì per conto di altri. Ed è una storia fatta di pentiti e di intercettazioni e - specificità italiana - di ricatti, di mezze parole, di carte che ricompaiono dopo vent’anni, di trattative che chissà se sono andate a buon fine o se fallirono fin dall’inizio.

Viviamo non tanto senza sapere dove andremo, ma piuttosto da dove veniamo. Il governo fa quello che fanno i gendarmi di fronte alla folla di curiosi che si presenta sulla scena di un delitto: "Via, via, circolare, non c’è niente da vedere", poi mettono le transenne e chiamano rinforzi. Il presidente del Consiglio non va alle commemorazioni di Falcone, se ne guarda bene: il tema, d’altra parte, non gli è mai interessato. Altri membri del governo lodano l’integrità del magistrato ucciso. Lui si che era bravo e rispettoso. Ah già, è morto.

Tra pochi giorni in parlamento metteranno in votazione il bavaglio. Non si ascolta la gente per bene per telefono, non si deve violare la privacy, anche se si tratta di un mafioso; che poi non si sa se è un mafioso o non per caso un’ottima persona (anzi, può darsi che sia le due cose insieme). Non si deve scrivere niente di processi in corso, se no galera e multe da portare al fallimento i giornali. Non si possono intercettare i politici. Si possono intercettare i preti solo col premesso scritto del vescovo. Se si sente qualcosa di sconveniente, bisogna distruggere subito tutto. La televisione non deve parlare di mafia, perché facciamo brutta figura all’estero. Gli scrittori sono invitati a occuparsi d’altro. Dice Berlusconi: per me Vittorio Mangano è un eroe, perché non ha parlato e i magistrati lo torturavano perché parlasse e mi mettesse nei guai. E va bene, sia lode all’eroe. Ma, sorge un dubbio: che cosa avrebbe dovuto dire, sotto tortura, il vecchio stalliere?

Un caso è molto citato dai sostenitori del bavaglio e della privacy: quello del finanziere Stefano Ricucci che al telefono diceva "ma che me frega, io stasera mi faccio Anna Falchi" e la cui esternazione telefonica venne pubblicata dai giornali. Terribile. Chissà che trauma. Ma non era scritto su tutti i rotocalchi che stavano insieme?

24 maggio 2010
http://www.unita.it/news/italia/99086/la_mafia_i_telefoni_e_il_bavaglio_ecco_perch_obama_vuol_sapere
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