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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 102164 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Luglio 24, 2009, 08:00:49 pm »

24/7/2009
 
Per uscire indenni
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Mentre si apprestano a partire per ferie un po’ più brevi e un po’ più ansiose di quelle del passato, molti italiani si stanno indubbiamente chiedendo a che punto siamo con la crisi.

Sta davvero passando, come si sente dire con fiducia da più parti, oppure il peggio deve ancora venire come continua ostinatamente a ripetere qualche pessimista? La risposta onesta è che non lo sappiamo. I tempi e l’intensità delle reazioni degli attuali sistemi economici - nei quali dall’industria deriva solo un quinto del prodotto totale, mentre quasi tutto il resto è «produzione invisibile», sempre più effettuata e fruita istantaneamente con supporti elettronici - sono molto diversi da quelli del passato e gli economisti sono come dei medici che stanno visitando un paziente nuovo o, quanto meno, un paziente che è molto cresciuto dall’ultima visita. Per conseguenza, nessuno aveva previsto una caduta così forte della produzione dei paesi ricchi tra l’ottobre 2008 e il marzo 2009, nessuno dispone di sufficienti argomenti per poter affermare con certezza come e quando verrà innescato il meccanismo della ripresa e bisognerebbe essere molto più cauti circa la sospirata data di una ripresa troppe volte rinviata.

A livello mondiale le uniche cose certe sono che la Cina, l’India e il Brasile sono colpiti dalla crisi in maniera leggera; che gli interventi di salvataggio delle grandi banche e società finanziarie americane (e di non poche europee) si sono rivelati efficaci nell’immediato ma hanno trasferito il rischio sulle banche centrali, specie sulla Fed americana, che ora devono impegnarsi per mantenere la propria credibilità; che, anche in conseguenza di ciò, il dollaro è strutturalmente debole e, soprattutto in Asia, comincia a essere sostituito da altre monete in alcune transazioni commerciali. I tentativi di rilancio implicano un consistente indebitamento aggiuntivo da parte dei governi dei principali Paesi con rischi di una risalita dei tassi di interesse (che «ammazzerebbe» la ripresa) o di pressioni inflazionistiche (che «ammazzerebbero» il debito pubblico mondiale, ossia ne ridurrebbero il valore). Tra questi due opposti pericoli, governi e banche centrali devono navigare senza bussola e inviano all’opinione pubblica una serie di messaggi, dal tono tra il preoccupato e il rassicurante, che assomiglia a una doccia scozzese.

Sappiamo ancora che la scintilla della ripresa globale ben difficilmente deriverà da un’improvvisa risalita dei consumi americani, che hanno trainato per decenni l’espansione mondiale, in quanto le famiglie americane sono fortemente indebitate e un loro significativo ulteriore indebitamento appare estremamente difficile; non verrà, se non in piccola parte, dalla domanda cinese, pure in crescita, a soddisfare la quale contribuiranno soprattutto le imprese cinesi o di altri paesi asiatici. L’altro pilastro su cui provare a costruire un’espansione produttiva è rappresentato dai grandiosi piani di investimento dell’amministrazione Obama ma, come sempre succede per la spesa pubblica, questi piani richiedono molto tempo per partire.

In questa situazione difficile ci saranno naturalmente miglioramenti nei conti di buona parte delle istituzioni finanziarie americane, alleggerite dai titoli tossici grazie agli aiuti pubblici ma è difficile che questo miglioramento, oltre a provocare l’attuale modesta euforia delle Borse, si estenda all’economia nel suo complesso. Ci potranno essere segni di alleggerimento delle cadute produttive dei trimestri passati ma chi immagina che tutto sia tornato come prima solo perché la produzione di qualche settore cade di meno o accenna a un piccolo rimbalzo fa lo stesso errore di chi ritiene il paziente guarito solo perché ha la febbre a trentanove anziché a quaranta.

In questo contesto, l’Italia presenta un’anomalia positiva, derivante dalla situazione finanziaria delle famiglie, dotate di patrimoni mediamente molto superiori a quelli delle famiglie di altri paesi tali da controbilanciare il pesantissimo debito pubblico italiano. Certo, aumentando le loro spese, le famiglie sarebbero in grado di contrastare gli elementi negativi della congiuntura ma sull’economia italiana pesa come un macigno la contrazione della domanda estera, stimata attorno al venti per cento. Se si pensa che le esportazioni rappresentano all’incirca il venti per cento della produzione italiana, si deve concludere che dall’estero deriverà una spinta alla contrazione del prodotto pari a circa il quattro per cento. A contrastare una simile spinta non basta l’(eventuale) buonumore dei consumatori.

Invece che da misure generali, un contrasto di qualche efficacia alla crisi potrà derivare da misure specifiche che pongano un rimedio, almeno temporaneo, ad alcune debolezze strutturali italiane. Il tessuto dell’economia avrà giovamento dall’accelerazione dei pagamenti relativi agli acquisti pubblici, da sempre in grave ritardo, sempre che si riesca tecnicamente a realizzarla; e il credito bancario a quell’ampio settore di piccole e medie imprese la cui situazione di rischio si è deteriorata potrà essere mantenuto se si troverà il modo di fornire alle banche qualche forma di garanzia da parte del settore pubblico, a esempio mediante la Cassa Depositi e Prestiti. I pochi soldi che l’Italia, con il suo fortissimo debito pubblico, potrà mettere in campo dovrebbero andare in queste direzioni.

In definitiva, non dobbiamo illuderci di poter uscire indenni da una crisi mondiale di questa portata che non è ancora stata veramente avviata a soluzione ma qualche carta da giocare l’abbiamo. E soprattutto, invece di cercare di esorcizzare la crisi, di chiudere gli occhi sperando che vada via, dovremo attrezzarci per gestirla al meglio, come occasione per correggere le storture di una lunga stagione di non crescita.

mario.deaglio@unito.it

 
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« Risposta #46 inserito:: Agosto 06, 2009, 03:41:44 pm »

6/8/2009
 
Chiudere gli occhi non basta più
 
MARIO DEAGLIO
 
Alle nazioni come agli individui succede spesso di chiudere gli occhi di fronte a un problema nella speranza che il problema scompaia, e di riaprirli per trovarlo irrisolto e ingigantito. Così ha fatto l’Italia con la questione meridionale: per quindici anni il Paese l’ha sostanzialmente rimossa, nella speranza che, grazie al mercato e alla globalizzazione, il problema dell’arretratezza del Mezzogiorno si risolvesse da solo.

Ora che la crisi finanziaria ha dimostrato che mercato e globalizzazione non fanno miracoli, l’Italia scopre che la questione meridionale non è scomparsa ma si è, anzi, aggravata; che il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno nei redditi per abitante (e in quasi tutti gli altri aspetti della qualità della vita) è ai livelli massimi da almeno trent’anni, con la tendenza a crescere ancora; che, per quanto riguarda una vasta gamma di indicatori economici e sociali, il Mezzogiorno è stato superato o sta per esserlo da quasi tutti i Paesi dell’Europa mediterranea.

Ma anche da un buon numero di Paesi dell’Europa centro-orientale diventando l’«ultimo della classe» nell’Unione Europea. Di fronte alla nuova virulenza di questo male grave e antico dell’Italia, la classe politica italiana sembra capace di proporre soltanto rimedi già sperimentati e di provata inefficacia. Si punta infatti su infrastrutture, intese più come stimolo produttivo nel momento della costruzione che come strumento di crescita nel lungo periodo; sulla spesa pubblica più per assorbire disoccupati che per rimuovere arretratezze strutturali; su una Banca del Sud, idea senz’altro lodevole, che rischia però di diventare una seconda Cassa del Mezzogiorno, ossia un veicolo di nuovi finanziamenti a pioggia con scarsa attenzione alla redditività.

E intanto il Mezzogiorno rimane pieno di strade non completate che non portano da nessuna parte - triste metafora della sua condizione generale -, di dighe prive dei necessari allacciamenti idrici, di ospedali costruiti con sabbia al posto del cemento, come nel caso di Agrigento che movimenta le cronache di questi giorni; l’immondizia delle sue città viene accantonata da qualche parte per il ritardo nelle tecnologie di smaltimento, con la minaccia latente, come nel caso di Palermo, che venga lasciata marcire nelle strade; i suoi boschi vengono dati alle fiamme da «piromani» che distruggono un patrimonio secolare spesso con la speranza di essere pagati cifre modeste per spegnere i roghi da loro stessi appiccati. In questi aspetti patologici, Campania, Calabria e Sicilia si distinguono per la gravità della loro situazione. Non fa meraviglia la riluttanza crescente del Nord nel convogliare nuove risorse (e quindi nel pagare imposte sensibilmente più alte di quelle del resto d’Europa) per un progetto non chiaro di crescita che non offre alcuna speranza di un rapido decollo.

Per uscire da questa situazione, che rende sempre più difficile parlare di un «sistema economico italiano», non bastano le ricette degli studiosi o i programmi, largamente carenti, dei politici. Il vero ingrediente mancante è il coinvolgimento dei meridionali e non servono partiti nuovi, espressione di una classe politica vecchia che ha difficoltà a gestire le risorse in funzione della crescita. Cari meridionali, potrebbero legittimamente dire gli altri italiani, non limitatevi a constatare che nel Mezzogiorno c’è molta povertà e molta disoccupazione e a chiedere che «lo Stato provveda»; individuate le carenze non dell’intervento pubblico ma di un sistema politico-sociale che ha finora reso vano, in termini di sviluppo e crescita economica relativa, qualsiasi intervento pubblico.

Sta prima di tutto agli abitanti del Mezzogiorno delineare come dovrebbe essere il Mezzogiorno nei prossimi vent’anni. La prospettiva di una crescita trainata dall’industria tradizionale dovrebbe essere ormai tramontata, visto che l’industria tradizionale conta sempre meno nella produzione di ricchezza delle economie avanzate, eppure gran parte delle richieste riguarda precisamente l’apertura - o la non chiusura - di «fabbriche». La prospettiva turistica può rappresentare almeno una parte della risposta al problema, e lo stesso si può dire per certe produzioni agricole e per certe «nicchie» artigianali da reinterpretare in senso moderno, ma i progetti, talora coraggiosi e promettenti, naufragano regolarmente nelle pastoie di una burocrazia insensata. La strada dell’alta tecnologia pare la più allettante ma richiede forti investimenti in capitale umano, in marcato contrasto con la perdurante debolezza delle università meridionali, alimentate da un sistema scolastico con altissimi tassi di abbandono, i cui diplomati mostrano un livello di preparazione sempre più lontano non solo dai livelli europei ma anche da quelli raggiunti da numerosi Paesi emergenti.

E’ tempo, quindi, di un vero dibattito sul Mezzogiorno, incentrato sulle compatibilità economiche in tempi lunghi e tale da coinvolgere non solo la classe politica ma la società civile meridionale. In assenza di tale dibattito si continua a privilegiare «il mattone», ossia la costruzione di infrastrutture, e a vagheggiare di «una banca». Da almeno un secolo il binomio mattone-banca si è rivelato inadatto al decollo del Mezzogiorno ed è difficile che rappresenti la soluzione ideale nel mondo tecnologico di oggi; così come il decollo è difficile quando l’ufficio stampa di una Regione meridionale occupa più persone di un centro di ricerca e quando un usciere della stessa Regione è pagato di più di un ricercatore universitario. I contributi esterni non possono essere risolutivi se il Mezzogiorno non prende in mano il proprio destino; se non lo fa, nonostante nuovi partiti e (forse) nuovi fondi, il suo allontanamento dal resto d’Italia è destinato ad aggravarsi.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #47 inserito:: Agosto 22, 2009, 11:24:53 am »

22/8/2009
 
Il pericolo delle illusioni
 
 
MARIO DEAGLIO
 
La Borsa sale del 2-3 per cento? Evviva, la crisi è finita! La Borsa scende del 2-3 per cento? Orrore, la crisi continua! Le (abbastanza normali) convulsioni agostane dei mercati finanziari sono state semplicisticamente adottate da numerosi analisti e mezzi di informazione di molti Paesi avanzati quale unico, o largamente prevalente, indicatore di un fenomeno molto complesso, con risvolti che vanno al di là dell’economia, com’è, appunto, la crisi che stiamo vivendo.

All’ansia di trovare nell’andamento di Borsa un unico, facile «termometro», si accompagna la tendenza a leggerlo in maniera semplicistica e distorta pur di ottenere il sospirato responso di esserci liberati della crisi. In realtà, i «termometri» dovrebbero essere molti e se si guarda all’economia reale si trovano, per ora, segnali piuttosto contrastanti rispetto agli incrementi dei listini degli ultimi giorni.

Nell’esame delle Borse si rischia poi di cadere in quella che potrebbe essere definita l’«illusione aritmetica»: immaginiamo che, prima della crisi, un indice di Borsa valga 100 e poi perda il cinquanta per cento del suo valore, precipitando a quota 50. Immaginiamo poi che, a questo punto, risalga del 50 per cento raggiungendo quota 75. Il tripudio sarà generale ma solo parzialmente giustificato perché il nostro indice è ancora inferiore del 25 per cento al valore precedente la crisi. La stessa «illusione aritmetica» traspare da numerosi commenti su produzione industriale, prodotto lordo e moltissimi altri indicatori economici. Essa rischia di portarci a stappare la bottiglia molto prima del tempo. In realtà potremo farlo solo quando non solo ci saranno stabili aumenti sui periodi immediatamente precedenti (variazioni congiunturali positive) ma anche aumenti rispetto ai livello pre-crisi (variazioni tendenziali positive).

Se ci liberiamo dall’«illusione aritmetica» dobbiamo constatare che, almeno per quanto riguarda l’economia reale, non solo non siamo ancora usciti dalla crisi ma che non abbiamo ancora neppure cominciato a uscirne. E solo quando disporremo dei dati di settembre-ottobre potremo capire se questo processo di uscita è stato davvero avviato. Per ora i dati americani sono incerti, con qualche accenno positivo e uno sforzo di vedere una luce in fondo al tunnel, manifestata nel discorso di ieri del governatore Bernanke, che deve ancora essere pienamente confermata dai fatti; quelli francesi e tedeschi (molto) debolmente positivi; quelli giapponesi assai dubbi (il Paese ha avuto sei o sette «false partenze» negli ultimi quindici anni); quelli cinesi enigmatici anche per le notizie di un crescente disagio sociale.

E l’Italia? Occorre dire tranquillamente una verità scomoda: non è vero che, dal punto di vista esclusivamente produttivo, il Bel Paese stia sopportando meglio degli altri i colpi della crisi. Le cadute degli indici italiani di produzione sono tra le più marcate di tutti i paesi avanzati e l’Italia si salva grazie alla sua flessibilità sociale, alle varie reti di solidarietà, a cominciare da quella famigliare, e probabilmente anche perché una parte della produzione ufficialmente perduta viene in realtà «sommersa»: quando gli affari non vanno bene, un gran numero di piccole e piccolissime imprese sono tentate di farsi pagare parzialmente in nero e di pagare parzialmente in nero i propri dipendenti. La perdita ufficiale di produzione è così superiore alla realtà, ma non c’è da rallegrarsene: queste distorsioni salvano l’Italia dalle sofferenze più evidenti ma ne impediscono o rallentano la crescita. Lo dimostra il fatto che sono circa quindici anni che l’Italia si limita a galleggiare e viene lasciata indietro dagli altri paesi avanzati.

Le conclusioni che se ne possono trarre sono che non si esce da questa crisi con poche giornate di (dubbio) sole in Borsa e che tali giornate devono essere confermate da qualche mese di sereno nei tradizionali comparti produttivi; che le analisi devono essere meno immediate e più complete; e che in ogni caso il raggiungimento dei livelli pre-crisi non sarà rapido. Se, come appare da numerose analisi di settore, in molti Paesi, tra cui l’Italia, la risalita dei consumi comincerà solo nel 2010, tale raggiungimento non può essere previsto nello stesso 2010 ma deve essere spostato al 2011 o forse a un anno successivo. In queste condizioni diventa ogni giorno più illusorio pensare che tutto possa tornare «come prima». Necessariamente cambieranno sia le strutture produttive sia la distribuzione dei redditi e dovranno essere rivisti meccanismi fiscali e ombrelli sociali: che lo vogliamo o no, la crisi è un importante laboratorio economico-sociale, forse anche politico. Alla vigilia di un rientro dalle ferie che - come ha ricordato recentemente, tra gli altri, la presidente di Confindustria - si preannuncia difficile e problematico, occorre trovare l’energia di progettare il dopo-crisi invece di limitarsi a subirlo.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #48 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:32:44 am »

9/9/2009

Le banche non devono essere buone
   
MARIO DEAGLIO


A sentire le loro dichiarazioni sulle responsabilità delle banche nella crisi, si potrebbe pensare che Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi non appartengano allo stesso governo. Domenica a Cernobbio Tremonti - che ha anche puntato il dito contro i banchieri a livello mondiale, addossando loro la responsabilità principale della crisi - ha accusato, con notevole pesantezza, i banchieri nazionali di non fare gli interessi del Paese, tra l’altro per la loro riluttanza a sottoscrivere i cosiddetti «Tremonti bonds». Una forma di finanziamento pensata per i salvataggi delle imprese che, nelle mutate condizioni di oggi, può risultare relativamente cara e poco maneggevole. Ieri a Milano, Berlusconi ha invece preso una posizione diametralmente opposta, asserendo che non si può dare la croce addosso ai banchieri, che «solo una percentuale minima di imprese non ha ricevuto risposte dal nostro sistema bancario» e che, poiché si utilizzano i soldi dei risparmiatori, non bisogna fare del «cattivo credito». Più che una vera e propria spaccatura, contrasti d’opinione così plateali segnalano sicuramente una certa confusione di idee e l’assenza di riferimenti intellettuali forti sui quali impostare la strategia economica. Non si tratta di un problema soltanto italiano: in maniera più discreta, differenze non dissimili stanno venendo a galla, tra i governi e dentro i governi dei Paesi del G20, a due settimane dalla riunione di Pittsburgh. Questa riunione non dovrebbe limitarsi a raggiungere un faticoso accordo su qualche tecnicismo ma dovrebbe definire una linea comune nei rapporti tra mondo politico e finanza, essenziale per evitare il ripetersi di crisi distruttive. Non sembra che nessuno, compresi naturalmente Berlusconi e Tremonti, abbia idee precise su come ciò andrebbe fatto mentre tutti guardano con preoccupazione a un possibile ulteriore indebolimento dei consumi, soprattutto negli Stati Uniti, sotto il peso dell’aumento del numero dei senza lavoro.

Il divario di opinioni tra Tremonti e Berlusconi va quindi interpretato, prima di tutto, come la variante italiana della confusione e della carenza mondiale delle idee su questo punto fondamentale. Vi sono però particolarità italiane che richiederebbero maggiore coordinamento a livello di governo e anche un maggiore apporto dell’opposizione. Mentre infatti negli altri Paesi ricchi, con pochissime eccezioni, gli Stati hanno relativamente poco debito mentre le famiglie sono relativamente molto indebitate, in Italia succede il contrario: lo Stato italiano è tra i più indebitati (in rapporto al prodotto interno lordo), mentre le famiglie italiane hanno pochi debiti e consistenti saldi attivi e le imprese (le cui finanze spesso non sono ben separate da quelle delle famiglie dei piccoli imprenditori) sono relativamente poco capitalizzate.

Il mondo bancario italiano, che sarebbe arduo accusare di un forte profilo politico, almeno in anni recenti, si trova quindi sottoposto al tiro incrociato di tre diversi soggetti. In primo luogo un pubblico di risparmiatori, tradizionalmente abituati a un interesse reale relativamente elevato, derivante da impieghi considerati piuttosto sicuri: in secondo luogo le imprese con la loro richiesta che le banche siano «buone» nei loro riguardi per compensare un mondo che è diventato «cattivo»; e infine il governo che vorrebbe che le banche diventassero prima di tutto lo strumento di una politica economica di stabilizzazione che evitasse il collasso temuto di centinaia di migliaia di piccole imprese.

Per conseguenza, oggi è facile additare alla pubblica esecrazione i banchieri dal cuore di pietra, che negano o riducono il fido alle imprese in difficoltà ma domani si tratterebbero in maniera molto più dura gli stessi banchieri se, essendo diventati troppo teneri, avessero perduto i soldi loro affidati dalla gente. In una situazione di rischio in aumento, trasferire - per di più a parità di costo - una parte di questo rischio dalle imprese alle banche con finanziamenti «di buon cuore» può compromettere una struttura bancaria complessivamente molto sana che rappresenta uno dei principali punti di forza del Paese per sostenere imprese sovente piuttosto malate. Se infatti si eccettuano alcuni casi singoli e importanti, sui quali dovrebbe essere fatta maggior luce, il sistema bancario italiano è soprattutto una (complessivamente buona) cinghia di trasmissione del risparmio delle famiglie, che viene indirizzato verso le imprese, lo Stato e i governi locali. Una cinghia di trasmissione non può generare impulsi duraturi di ripresa, il suo compito è quello di trasmetterli in modo rapido ed efficace. La sua efficienza può naturalmente migliorare ma gli impulsi devono nascere altrove.

Un’azione determinata del governo per mettere a posto la propria tesoreria e pagare con maggiore celerità i propri fornitori avrebbe probabilmente effetti più incisivi di un credito che, magari con un’interpretazione «buonista» dei «Tremonti bonds», venisse distribuito a pioggia; e gli imprenditori italiani, dal canto loro, dovrebbero tener presente che la creatività, l’energia e la freschezza innovativa che li caratterizza a livello mondiale devono accompagnarsi a un altro tratto tipico delle imprese in ogni parte del mondo, ossia l’accettazione di una buona dose di rischio finanziario, senza la quale è difficile, al giorno d'oggi, fare molta strada.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #49 inserito:: Settembre 23, 2009, 06:00:44 pm »

23/9/2009

Il timoniere ha le mani legate
   
MARIO DEAGLIO


In tempi non certo lontani, l’approvazione della manovra finanziaria era il momento culminante dell'attività ordinaria del nostro Parlamento.

Lo occupava, letteralmente giorno e notte, con sedute interminabili, un susseguirsi di ostruzionismi, colpi di scena, «imboscate», dalla fine di settembre alla pausa natalizia; nobili programmi economici e meno nobili interessi di bottega si confrontavano e si scontravano in una vera e propria guerra a colpi di emendamenti fino alla vigilia di Natale quando i parlamentari esausti approvavano un documento quasi sempre molto diverso rispetto a quello originario e talora snaturato.

Quella che viene presentata quest’anno è una Finanziaria più che dimezzata, il cui testo consiste di appena tre cartelle e il cui ammontare (3-4 miliardi di euro) è circa un quinto delle manovre tipiche di questi anni, una lieve correzione rispetto alla strategia approvata a luglio nel documento triennale che diventa il punto di riferimento della politica governativa. Il che è un bene perché indica una manovra più coerente, meno influenzata da interessi immediati delle categorie e dei poteri locali, di singoli parlamentari. Dietro a questo risultato positivo emerge però una situazione di relativa impotenza del governo.

Il ministro dell’Economia è infatti come un timoniere con le mani legate: non può modificare la rotta - alla quale non mancano elementi di ragionevolezza - se non in qualche dettaglio. In primo luogo, non può proporre un aumento delle imposte ordinarie, se non in qualche nicchia, dal momento che tale aumento andrebbe contro non solo alla filosofia politica di questo governo ma anche, in un momento di crisi, alla logica economica. In secondo luogo, non può ricorrere ampiamente a nuovi debiti: è pressoché impossibile per l’Italia eccedere i livelli concordati in sede europea non tanto per un veto di Bruxelles, quanto perché sarebbe difficile raccogliere risorse finanziarie in grandi quantità sui mercati: l’Italia, che prima era uno dei principali emittenti di debito pubblico del mondo, è ora affiancata da Francia, Germania e Gran Bretagna, oltre che dagli Stati Uniti. Il mercato preferisce i titoli dei governi di questi Paesi, il cui debito attuale è molto più basso.

Infine, se è difficile aumentare il debito pubblico è ancora più difficile tagliare la spesa pubblica. I governi del nuovo secolo hanno cominciato scaricando brutalmente il peso dei tagli sugli enti locali, lesinando loro le risorse; questo governo ha affrontato il problema dei costi dell’amministrazione statale ma forse comincia a rendersi conto che, anche se gli obiettivi di maggiore efficienza e minor costo non sono affatto irragionevoli - pur se presentati spesso in maniera inutilmente provocatoria dal ministro per la Pubblica Amministrazione - non possono certo essere realizzati con la velocità del fulmine. La macchina burocratica ha i suoi tempi fisiologici, anche quello per la riduzione dei costi, che si valutano in anni, non in mesi o trimestri. Il nostro timoniere non può quindi muovere il timone se non in maniera minima. E ricorre allora, non irragionevolmente, a manovre non convenzionali; agisce con imposte «una tantum» quali sono quella dello «scudo fiscale» e quella della regolarizzazione delle colf o ad azioni indirette che facilitano in vario modo la spesa delle famiglie, le quali, in un confronto internazionale, sono relativamente ricche e poco indebitate mentre lo Stato è relativamente povero e pieno di debiti. Ecco allora i bonus per l’acquisto di determinati beni di consumo e la detassazione permanente delle ristrutturazioni edilizie che avranno un’indubbia azione di stimolo sulla domanda interna.

Sono tutte cose sensate. Nulla potranno, però, sulla domanda estera, con le esportazioni scese del 20 per cento, il che da solo implica una riduzione della produzione italiana di quattro punti percentuali. Il governo potrà forse sostenere i consumi interni e rilanciare qualche investimento; non sarà in grado di intervenire sulle cause esterne, predominanti, della caduta produttiva.

Il governo potrà altresì tentare azioni indirette di rilancio «spendendo» la garanzia dello Stato nella speranza di non dover mai sopportare alcun esborso. Così di fronte a una crisi di nervi dell’opinione pubblica di fronte alla solidità delle banche, poco meno di un anno fa, l’estensione della garanzia pubblica sui depositi fu sufficiente a calmare gli animi.

Qualcosa di analogo potrebbe essere realizzato con l’emissione di fideiussioni, o altre analoghe forme di sostegno, per imprese che hanno difficoltà ad accedere al credito bancario: in Francia, la Caisse des dépôts, sulla quale si è modellata la nostra Cassa Depositi e Prestiti, svolge una simile funzione. Si tratta, in ogni caso di azioni minori. Diciamolo francamente: di fronte ai quasi 400 mila posti di lavoro perduti nel secondo trimestre di quest’anno, il governo non ha cure efficaci, come del resto non ne ha alcuna forza politica, tanto che si prevede che l’emorragia di posti di lavoro continui.

Il timoniere deve quindi rimanere fermo e aspettare che la tempesta passi, o meglio che i governi di altri Paesi riescano a farla passare. Lo stato di passività in cui si trova la politica economica italiana, con la sua incapacità a reagire agli stimoli negativi come fanno altri Paesi è il risultato di un lungo degrado dell’economia italiana, iniziato all'incirca quindici anni fa. La navicella Italia è lenta, segue la corrente e purtroppo è principalmente costretta a sperare nello «stellone» che ha spesso aiutato le vicende di questo Paese.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 02, 2009, 04:06:55 pm »

2/10/2009

Più realismo per uscire dalla crisi
   
MARIO DEAGLIO


La recessione globale sta finendo» è il prudente titolo d’apertura del recentissimo Rapporto del Fondo Monetario sull’economia mondiale. Nella conferenza stampa di presentazione di Olivier Blanchard, capo economista dello stesso Fondo Monetario, il messaggio diventa un po’ meno prudente: «La ripresa è già cominciata». Esperti, governi e organizzazioni internazionali sembrano impegnati in una snervante «danza della pioggia», amplificata dai media, e invocano una ripresa che è sempre dietro l’angolo.

La pioggia, però, tarda ad arrivare e dalle tabelle del Rapporto appare chiara la poco rosea realtà che non viene ben trasmessa dai comunicati e dalle conferenze stampa.

La ripresa produttiva mondiale promessa per il 2010 è un fatto quasi soltanto aritmetico, derivante dalla continuazione e anzi dall’accelerazione della favolosa crescita delle economie dinamiche di quello che una volta chiamavamo Terzo Mondo e da una «stabilizzazione» su livelli bassi e inaccettabili (ancora nettamente inferiori a quelli del 2008) delle economie avanzate. Va detto che una vera e propria crisi le economie emergenti non l’hanno mai avuta, essendo state toccate solo brevemente e di striscio dalla caduta produttiva (quest’anno la crescita cinese viene stimata all’8,5 per cento e quella indiana al 5,4 per cento). Un boom asiatico e una «stabilizzazione» di Europa, Stati Uniti e Giappone non fanno ancora una ripresa mondiale; segnalano semmai il pericolo di una frammentazione del tessuto economico unitario che per circa un quarto di secolo ha coinvolto tutte le principale aree del pianeta.

Certo, qualche goccia della sospirata pioggia comincia a cadere ma finora non ce n’è abbastanza, come dice un vecchio proverbio agricolo, per bagnare la polvere, ossia per far ripartire davvero le nostre economie; ai timidissimi segni positivi di varie economie occidentali si contrappongono i segni negativi provenienti ieri dagli Stati Uniti. Parlano di ripresa industriale inferiore al previsto, di spesa dei consumatori che aumenta solo grazie al programma pubblico di rottamazione delle auto, di un altro mezzo milione di nuovi disoccupati. Forse sarebbe meglio smettere le danze propiziatorie, guardare all’economia senza deformanti occhiali rosa, prendere misure più realistiche dell’uscita dalla crisi.

A un simile sguardo spassionato, anche ammettendo che tra poco ricominci a piovere, ossia che l’economia riprenda a crescere, la crisi risulta più lunga e più complicata: ormai ci si rende conto che, almeno in termini di occupazione, il peggio non è certo passato, come hanno detto francamente, tra gli altri, esponenti del governo americano. In tutti i Paesi avanzati si annunciano alcuni trimestri con le Borse (forse) in crescita e l’occupazione (quasi certamente) in diminuzione, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di divari sociali interni. Alla gestione economico-finanziaria si deve affiancare una gestione sociale della crisi che potrebbe rivelarsi più difficile per tutti e richiede parametri di riferimento che spesso non paiono molto chiari a nessun governo.

L’Italia risulta particolarmente toccata da questo quadro di difficoltà economiche. Sempre secondo il Rapporto del Fondo Monetario, il 2009 vedrà una contrazione della produzione di oltre il 5 per cento, una delle peggiori tra i grandi Paesi avanzati, il che fa sembrare nettamente fuori luogo le affermazioni circa una «buona tenuta» dell’Italia in questa crisi. Per il 2010 è previsto solo un modestissimo recupero (0,2 per cento, inferiore alla media europea). Se, dopo il 2010, l’economia tornerà a crescere alla velocità «normale» degli ultimi anni, che ha fatto dell’Italia la tartaruga del mondo avanzato, potrebbero essere necessari ben 6-7 anni per risalire ai livelli precedenti la crisi, ossia a quelli della metà del 2008.

Per gli altri Paesi europei e per gli Stati Uniti, la cui velocità «normale» di crescita è più elevata, il tempo necessario è all’incirca pari alla metà di quello italiano. L’Italia rischia quindi di essere più penalizzata degli altri Paesi nel recupero, ammesso che questo cominci veramente nei prossimi mesi. E alla fine di questo periodo, per un naturale aumento della produttività si tornerà a produrre la stessa quantità del 2008 con un numero nettamente minore di lavoratori.

Come si fa a uscire da questa trappola? Mentre è ragionevole adottare misure per la gestione delle emergenze dovute alla crisi in questi mesi, da maggioranza e opposizione c’è un assordante silenzio su quello che bisogna davvero fare nell’arco di qualche anno. È come se il Paese si fosse addormentato nella contemplazione del «made in Italy» come principale o unica strada per il futuro, senza vere analisi sulla sostenibilità di questa prospettiva. Il che contrasta con progetti di politica industriale messi a punto e in pratica in Paesi come la Francia e la Germania e che anche gli Stati Uniti di Obama sembrano voler realizzare. Senza una presa di coscienza delle evoluzioni di lungo termine, dietro alla crisi si potrebbe realizzare un cedimento strutturale ben più grave, in grado di portare all’irrilevanza internazionale un Paese che ne è stato, e ne è ancora, un attore non trascurabile.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 06, 2009, 05:05:36 pm »

Enrico Deaglio: storia di un eroe scomodo


Venerdì 27 novembre 1998, a Milano, nella sede della Fondazione Feltrinelli si presentava un libro: Il guardiano.
Marek Edelman racconta, di Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn, edito da Sellerio. Era presente il protagonista. Nella sala saremo stati più o meno in ottanta: pochi. Nessun esponente della città a salutarlo. E dire che, se noi non siamo stati sommersi - ognuno di noi che oggi vive, e vive bene - è perché poggiamo i piedi sulle spalle di Marek Edelman. Così si è raccontato nel libro di Assuntino e Goldkorn: «Sono nato nel 1921 a Homel, oggi Bielorussia. I dodici fratelli di mia madre erano socialisti rivoluzionari, per i bolscevichi, nemici mortali. Un giorno i comunisti, credo che fosse l’anno della mia nascita, li hanno fucilati tutti e dodici. Si salvò solo mia madre, che andò a stare a Varsavia. Mia madre era un’attivista del Bund, di professione infermiera. È morta che ero ragazzo, nel 1934». Nessuno (o solo pochi studiosi) sa che cosa fu il Bund, per una ragione tanto semplice quanto tragica: i suoi membri sono stati tutti uccisi, quel popolo non esiste più. Il Bund era il partito socialista dei sei milioni di ebrei della Russia, della Polonia e della Lituania, dello «yiddish dal Don alla Vistola».

Era un partito forte: organizzava colonie e sanatori per i tubercolotici, scuole, sindacati tra i facchini e gli ambulanti, squadre di autodifesa dai pogrom. Il Bund avversava il sionismo e voleva la propria autonomia culturale in Polonia. Autonomia che voleva dire, per esempio, permettere in tribunale a un imputato ebreo di esprimersi in yiddish: negli anni Trenta, a Varsavia, città di unmilione di abitanti, trecentomila ebrei parlavano yiddish. Il Bund, il primo maggio sfilava a Varsavia insieme al partito socialista polacco e cantava il suo inno: «Il nostro oceano salato di lacrime umane, questo oceano noi lo svuoteremo». I ragazzi del Bund apprezzavano il socialista francese Leon Blum, sapevano che il socialista italiano Giacomo Matteotti era stato ucciso dal fascista Mussolini. Il Bund non andava per niente d’accordo con i bolscevichi e i suoi due più importanti dirigenti, Alter e Erlich, rifugiati aMoscanel 1941, Stalin li fece ammazzare. Poco dopo l’invasione della Polonia nel 1939, i nazisti crearono a Varsavia il ghetto: nel 1942 vi viveva mezzo milione di persone e cinquemila morivano di tifo ogni mese. Giorno dopo giorno, seimila persone vennero radunate sul piazzale di trasferimento - l’Umshlagplatz - e caricate sui treni, destinazione i campi di sterminio di Treblinka, con tre filoni di pane eunvasetto di marmellata. La voce del ghetto diceva: «Non è vero che ci mandano a morire, altrimenti non ci darebbero da mangiare».Marek Edelmanaveva allora ventun anni e lavorava come portantino di ospedale. Militante clandestino del Bund era uno dei pochi ebrei ad avere il permesso di recarsi nella parte ariana di Varsavia. Sapeva quel ragazzo che cosa stava succedendo? Sì. Il Bund lo scriveva a ciclostile nel ghetto. «Trasferimento uguale morte, ribelliamoci». Sapeva il mondo quello che sta succedendo nel ghetto di Varsavia? Sì. Londra ne era stata informata, nei dettagli, fin dalla fine del 1941. L’ospedale in cui lavorava il giovane Edelman era vicino al piazzale dell’Umschlagplatz. Lì medici eroici distribuirono anche zollette di cianuro a malati e bambini e qualche volta, dalle finestre dell’ospedale, si riuscì a far volare a terra un grembiule bianco e chi – nella fila – riuscì prenderlo e a metterselo, scampò al rastrellamento.Edelman ricorda il colossale, quotidiano, silenzio («al massimo si sentiva il pianto di qualche bambino, ma mai ho sentito un’invocazione di pietà») con il quale gli ebrei andavano a morire. Vecchi, adulti e giovani, poderosi facchini del Bund resi fragili dalla fame, madri con i loro figli.

All’età di 22 anni, Marek Edelman, quando ormai nel ghetto vivevano solo sessantamila persone, è stato il vicecomandante della Zob, Organizzazione Ebraica di Combattimento. Capo era «Marian » Anielevski, 24 anni. La Zob era composta di 220 ragazzi e ragazze che, con alcune migliaia di dollari paracadutati a Varsavia dal Joint Distribution Committee, erano riusciti a raccattare dai contrabbandieri un pugno di pistole, due mine, cinque granate, dieci fucili. Cominciarono a combattere nella primavera del 1943 e tennero testa alla Wehrmacht e alle SS, il più potente esercito del mondo, per cinque settimane. Operarono dai tetti e con le molotov, impedirono ulteriori razzie, uccisero decine di soldati tedeschi. Una militante della Zob si suicidò, ma ci mise sei colpi di pistola per centrarsi la tempia: Edelman ha ricordato che piansero la compagna, ma anche i i cinque proiettili sprecati. Furono il primo esempio – appena dei ragazzi, e per di più reduci da tre anni di sfinimento – di resistenza armata all’esercito nazista in Europa. In un pomeriggio di battaglia un drappello di SS addirittura si presentò a trattare con una bandiera bianca. Non venendo a capo della resistenza, decisero la distruzione totale del ghetto. In dieci giorni dell’inizio del maggio 1943 con bombe, lanciafiamme, bombardamenti aerei, tank, granate e gas, le SS al comando del generale Juergen Stroop rasero al suolo il ghetto di Varsavia.

Dei combattenti della Zob, molti si suicidarono, alcuni si salvarono passando per le fogne e sbucando – neri e orribili – nella parte ariana. Marek Edelmanè l’unico sopravvissuto tra di loro. Nonesistono fotografie di Edelman da giovane, ma lui un giorno si è ricordarto che nelle settimane dell’insurrezione indossava un bel maglione rosso, d’angora, che aveva rubato nella casa di un ricco ebreo. Portava le bretelle incrociate sul petto e, nei pantaloni, due revolver. Ora è tempo di guardare la sua faccia: Marek Edelman, settantasettenne cardiologo ancora in servizio all’ospedale municipale di Lodz, è un uomo di media statura, di corporatura spessa, che ha mantenuto tutti i suoi capelli. La sua faccia è, allo stesso tempo, soffusa e intrisa di rughe: è stata la sua vita, certo, a costruirla, ma a quest’opera hanno contribuito anche le Gauloise, la vodka e il whisky. Tra l’indice e il medio dellamanodestra, il vecchio dottore ha il giallo della nicotina. Il suo vestito è polacco: inutile quindi descriverlo; la sua camicia bianca è di terital. La sua bocca, che è piccola, si piega il più delle volte verso il basso. Anche le mani sono piccole, e – ahimè – non sono secche. Ma gli occhi sono ancora grandi. Se un tempo furono innamorati, imperiosi, rapidi, oggi quegli occhi ancora neri appaiono, in qualche maniera, buddisti: ne hanno la lunghezza, il languore e la serietà.

Tutta la geografia e la memoria dei sentimenti, il volto diEdelman l’ha trasferita sotto gli occhi, depositandola indue grandi borse che lo segnano: zac e zac, due colpi alla Ricasso. Marek Edelman, una volta uscito dalle fogne, ha combattuto nell’insurrezione di Varsavia del 1944, si è laureato in medicina ed è diventato cardiologo all’ospedale di Lodz. Nel 1968, quando Gomulka lanciò una campagna antisemita, gli tolsero il posto in ospedale, ma il personale costrinse le autorità a reintegrarlo. Negli anni Settanta e Ottanta difese il Kor, il gruppo di dissidenti comunisti di autodifesa degli operai, poi partecipò a Solidarnosc. Trattò con il potere, venne arrestato da Jaruzelski, messo in cella, liberato per le pressioni internazionali. Gli chiesero di trasferirsi in America o in Israele e non l’ha fatto. Portò la sua solidarietà a Sarajevo assediata. Rivide il generale Stroop nel 1946, al processo che poi avrebbe deciso la sua impiccagione. Quando Edelman entrò a testimoniare, Stroop si alzò, sbattè i tacchi e disse – e non si capì se eraunadichiarazione o un’implorazione – «Keine Rache», nessuna vendetta. «Avrà avuto una cinquantina d’anni, i capelli grigi e corti. Più che un militare Stroop era un politico, un burocrate. Rispondeva ai suoi superiori su quanti ebrei riusciva ad ammazzare. Bruciò il ghetto per la sua carriera, non per altro... Ma queste sono storie vecchie. Voi italiani chiedete sempre dei sentimenti! Cosa provo quando passeggio per Varsavia? Niente, la mia gente non c’è più... Il Bund neanche c’è più, tutti lo vogliono dimenticare. Tutto l’archivio dove avevamo scritto tutto, le relazioni giorno per giorno, i rapporti da tutti i paesi della Polonia, è andato perduto. Lo conservavamo nel ghetto, in un palazzo che venne sbriciolato dalle bombe. Poi lì, dopo la guerra, costruirono. Oggi è la sede dell’ambasciata cinese a Varsavia. Bisognerebbe scavare lì sotto, ma non lo faranno ».

06 ottobre 2009
da unita.it
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« Risposta #52 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:30:14 am »

14/10/2009

La verità che nessuno vuole sentire
   
MARIO DEAGLIO


L’attenzione del mondo politico e dell’opinione pubblica risulta così terribilmente schiacciata sul presente, così interessata alle minuzie della polemica spicciola da respingere o mal tollerare prospettive più ampie. E così un’osservazione pressoché ovvia dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso della sua lezione tenuta ieri al Cerp-Collegio Carlo Alberto ha scatenato un putiferio.

Parlando sui «motivi dell’assicurazione sociale», il Governatore ha osservato che, con l’aumento della durata della vita, le pensioni erogate dal sistema pubblico - ossia principalmente dall’Inps e dall’Inpdap - saranno più basse rispetto ai salari, di quelle erogate finora.

Come previsto dalla riforma, si tratta di pensioni eque da un punto di vista attuariale, ossia corrispondenti all’ammontare complessivo dei contributi versato da ciascun lavoratore commisurate alla durata attesa della vita al momento del pensionamento. La loro diminuita consistenza in rapporto al salario dovrebbe essere evidente perché, se si vive più a lungo, i versamenti effettuati durante tutto l’arco di una vita di lavoro di durata invariata devono essere spalmati su un numero maggiore di anni di pensionamento; come dovrebbe essere evidente, anche se è scomodo ricordarlo, che le categorie anziane, in pensione con l’attuale sistema di transizione, ricevono una parte di pensione in più di quella a cui avrebbero «diritto» sulla base dei versamenti effettuati e della loro probabilità di sopravvivenza.

Draghi ha poi tratto la naturale conclusione di questa premessa che gli italiani preferirebbero non sentire mai e che per i politici è come un brutto sogno che preferiscono rimuovere subito: «Per assicurare prestazioni di importo adeguato a un numero crescente di pensionati è quindi indispensabile un aumento significativo dell’età media effettiva di pensionamento». Il ragionamento non fa una grinza e con la matematica è bene non scherzare. Del resto, l’allungamento della vita lavorativa è una tendenza non solo italiana ma comune a tutti i Paesi avanzati le cui popolazioni sono in fase di invecchiamento; la Gran Bretagna porterà l’età di pensionamento a 66 anni entro il 2020 e addirittura a 69 anni entro i tre decenni successivi; la Germania ha già deciso il pensionamento a 66 anni; la Francia si sta muovendo nella stessa direzione.

L’allungamento della vita lavorativa, del resto, corrisponde a un certo concetto di equità: in media, chi va in pensione adesso vive qualche anno in più (e con un livello di salute migliore) di quanto era previsto quando ha cominciato a lavorare. Perché tutto questo bonus di vita deve andare al pensionamento, ossia a una fase inattiva della vita a carico della collettività, e perché invece una parte non dovrebbe essere dedicata al proseguimento della vita lavorativa per ripagare il costo della pensione che gli anni bonus comportano?

Eppure l’idea di toccare un caposaldo della società italiana ha unito per miracolo destra e sinistra nella difesa dell’esistente. Da parte governativa, il ministro del Lavoro, cui si è associato il presidente dell’Inps, assicurano che «il sistema tiene». Certo, il sistema tiene, ma precisamente con pensioni che saranno, rispetto ai salari, sensibilmente più basse delle attuali, a regime del 15-20 per cento, una scomoda verità che non viene quasi mai esplicitamente spiegata a chi ha meno di quarant’anni. Al momento in cui si ritireranno dal lavoro, questi lavoratori - a meno di una pensione aggiuntiva, pagata con minori consumi di oggi - vedranno i propri redditi ridursi in misura molto maggiore dei lavoratori di oggi. Da parte sindacale si invoca un «tavolo per risolvere tutti i problemi», indubbiamente un tavolo che dovrebbe avere proprietà taumaturgiche se riuscirà a non toccare l’età pensionabile e che potrebbe servire più facilmente a rinviare tutto.

Sarebbe bene che questo Paese ponesse più attenzione alle proprie prospettive. Nel 2030, una scadenza poi non tanto lontana, un italiano su quattro avrà più di 65 anni e di questi la metà sarà ancora in vita vent’anni più tardi se uomini, ventiquattro anni se donne. E circa cinque milioni di italiani (su una popolazione di poco più di sessanta) saranno ultraottantenni, il doppio dei valori attuali mentre i giovani sotto i 14 anni saranno appena 7-8 milioni. E tutto questo nell’ipotesi di un’immigrazione netta di circa 200 mila persone l’anno che attenuerà un poco l’effetto dell’invecchiamento.

Nessuna politica di crescita di lungo termine è realmente tenibile in una situazione del genere se non si prevede la disponibilità di nuove forze di lavoro, il che in Italia significa maggiore occupazione femminile e più elevata età di pensionamento. Può sembrare paradossale in un momento di crisi come questo, in cui i posti di lavoro si stanno purtroppo rapidamente riducendo; ma i governi e le forze politiche dovrebbero avere la capacità di guardare oltre le crisi. E mentre per altri Paesi l’orizzonte del dopo-crisi, quando finalmente verrà, è quello di una ripresa abbastanza sicura della crescita, per l’Italia la situazione è molto più problematica. Stiamo tutti aggrappati al nostro attuale piatto di lenticchie, attentissimi a non farcene portar via neppure una e rischiamo così una rinuncia inconsapevole, ma non per questo meno grave, ad avere un futuro.

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« Risposta #53 inserito:: Ottobre 30, 2009, 10:32:02 am »

30/10/2009

Niente sarà più come prima
   
MARIO DEAGLIO

Il prodotto interno lordo italiano è caduto al livello di dieci anni fa, la produzione industriale italiana, con il suo balzo all’indietro del venticinque per cento rispetto al marzo 2008, è precipitata al livello addirittura di vent’anni fa. Lo ha osservato ieri il governatore della Banca d’Italia nel suo intervento in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio.

Proiettate su questo sfondo sgradevole ma ineludibile, le polemiche relative al taglio dell’Irap appaiono piuttosto meschine, prive del grande respiro necessario per uscire bene dalla crisi.

Occorre infatti osservare che mentre la caduta produttiva è stata all’incirca uguale per tutti i Paesi avanzati - si colloca attorno al 5 - 6 per cento del prodotto lordo rispetto agli ultimi valori pre-crisi - per economie come quelle tedesca, francese e americana che normalmente crescono dell’1,5 - 2,5 per cento l’anno, ci vorranno 2-4 anni per tornare ai livelli produttivi precedenti, sempre che la fragilissima tendenza positiva degli ultimi 2-3 mesi si consolidi davvero. L’Italia, al contrario, se dovesse tornare alla crescita a passo di lumaca alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni, ci metterebbe cinque, forse sette anni per recuperare il livello di prodotto per abitante del 2007-08: sette anni di vacche magre che seguirebbero a sette anni di vacche solo apparentemente grasse durante le quali non abbiamo messo quasi nulla nei granai.

Ci ritroviamo, infatti, non solo con una popolazione invecchiata ma anche con meccanismi economici e fiscali arrugginiti e con settori in cui punte di straordinaria eccellenza convivono con ampie zone di quasi altrettanto straordinaria mediocrità, con imprese che fanno fatica a muoversi in un panorama mondiale divenuto sempre più competitivo senza avere alle spalle il tipo di supporto sul quale possono contare le loro concorrenti di altri paesi.

Eppure riusciamo solo a pensare - e per di più disordinatamente - al futuro immediato. A trattare l’Irap soltanto come possibile oggetto di «sforbiciate» che tocchino, senza distinzione tra «buoni» e «cattivi», tutte le piccole o medie imprese non porterebbe ad alcun vero vantaggio. Tali «sforbiciate» non migliorerebbero, infatti, la situazione italiana di fronte a concorrenti che, grazie a bilanci pubblici decisamente più solidi e a visioni strategiche più chiare, hanno già messo in atto efficaci politiche di riqualificazione industriale.

E’ deleterio che ci si limiti a parlare dell’Irap in termini di riduzione di quantità e non invece di aumento di «qualità», di modificazione profonda. Occorrerebbe partire dalla constatazione che, quale che sia il giudizio storico che se ne vuol dare, l’Irap è oggi un’imposta inadatta alle condizioni congiunturali e strutturali in cui si trova l’economia italiana, con forti effetti collaterali negativi sulle imprese. A parità di gettito, è sicuramente possibile immaginarne una maggiormente capace di stimolare investimenti e crescita e, in definitiva, di favorire l’occupazione. Basterebbe, all’occorrenza «copiare» a piene mani i meccanismi fiscali tedesco e francese di tassazione delle imprese.

Più ancora del boccon di pane eventualmente dato a imprese affamate con una «sforbiciata» che costerebbe comunque diversi miliardi di euro, è importante uno strumento che permetta alle imprese buone di crescere e a quelle meno buone di essere assorbite o ristrutturate. E occorrerebbero punti di riferimento, l’individuazione di settori nei quali si vorrebbe crescere, di strade da percorrere e obiettivi da raggiungere. Su tutto questo, né dalla maggioranza né dall’opposizione pare esser stata avviata alcuna riflessione veramente importante. L’accenno fatto dal ministro dell’Economia durante la stessa Giornata Mondiale del Risparmio per «uno o più fondi di assistenza all’impresa per il rapporto tra debito e patrimonio» potrebbe contenere qualche novità interessante ma è un fiorellino solitario e striminzito in una landa deserta. Ed appare particolarmente infelice il termine «assistenza»: non abbiamo bisogno di un’economia assistita ma di fornire un sostegno che compensi le maggiori difficoltà strutturali delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri Paesi.

Il Paese appare quindi impreparato ad affrontare i propri problemi del lungo periodo. Purtroppo lo stesso si può dire anche per il breve periodo, dove la minaccia reale, enunciata chiaramente dalla presidente di Confindustria, è quella del collasso, entro brevissimo termine, di una parte consistente del tessuto delle imprese piccole e medie non tanto o non solo per incapacità propria quanto per motivi di liquidità legati a fattori esterni: rimborsi fiscali in irrimediabile ritardo fanno il paio con forniture non pagate, magari dalle stesse amministrazioni pubbliche che dovrebbero occuparsi della buona salute delle imprese. Se il governo vuole davvero far qualcosa, in primo luogo paghi i debiti commerciali; e riformi una legge ormai infelice. Con la consapevolezza che la partita sarà in ogni caso molto difficile. Come ha detto il governatore della Banca d’Italia parlando della situazione mondiale, «le cose non torneranno come prima».

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« Risposta #54 inserito:: Novembre 07, 2009, 10:12:52 am »

7/11/2009

Un augurio più che una certezza
   
MARIO DEAGLIO


E’ più che comprensibile che il governo dia ampio risalto alla favorevole valutazione che risulta dal «superindice» dell’Ocse, dal momento che si tratta indubbiamente di un dato gradito proveniente da un ente di alta reputazione, in passato non certo tenero nei suoi giudizi sull’economia italiana. Se però si va a guardare con attenzione dentro questi dati, ci si accorge che il giudizio dell’Ocse è un augurio per il futuro, non la certificazione di qualcosa di già accaduto o in corso. La banalizzazione della notizia rischia di presentare all’opinione pubblica un’Italia in piena ripresa, addirittura alla guida della crescita mondiale. La realtà è molto diversa: non abbiamo vinto la coppa, siamo (forse) ancora ammessi a partecipare al campionato.

Per valutare bene questa situazione bisogna prima di tutto ricordare che, come ammoniscono i suoi stessi autori, il «superindice» ha un valore qualitativo e non quantitativo. Il suo scopo è quello di segnalare in anticipo i punti di svolta, del ciclo economico, non quello di misurare l’intensità dell’espansione o della recessione.

Funziona, in altri termini, come una sorta di campanello; la sua qualità è discreta o buona sul totale dell’area Ocse e per l’Unione Europea nel suo complesso, ma diventa piuttosto instabile per i singoli Paesi.

Nel segnalare l’inizio della crisi attuale, il campanello ha suonato tempestivamente per gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito e la stessa Italia; ha suonato invece quasi contemporaneamente alla crisi per il Brasile e la Russia; ha inviato segnali troppo ritardati per il Canada, l’India e il Giappone.

Purtroppo, il fatto di avere «azzeccato» un punto di svolta di un ciclo non garantisce che sarà azzeccato quello successivo: per l’Italia il «superindice» ha fornito piccoli ma erronei segnali di espansione nel 2001 e nel 2003, per l’area Ocse nel suo complesso segnalò nel 2003 una recessione che poi non si verificò. Si tratta quindi di un complemento prezioso per una diagnosi complessa, non di un termometro miracoloso che «consacra» la ripresa o la recessione di un sistema economico; in una lunga nota di «istruzioni per l’uso» la stessa Ocse mette in evidenza il suo carattere ausiliare nell’analisi congiunturale e la possibilità di suoi andamenti irregolari.

Il «superindice», in ogni caso, appare in forte salita: oltre che per l’Italia, anche per Francia, Regno Unito e Cina viene diagnosticata non già una semplice «ripresa» ma addirittura una condizione di «espansione». Gli stessi estensori si devono essere resi conto del carattere dubbio di quest’analisi dal momento che invitano a una speciale cautela. Ciò che questo numero misura, infatti, non è la semplice espansione di un’economia, ma il rapporto tra l’espansione e il suo potenziale di crescita. Una riduzione di questo potenziale, a seguito della crisi che stiamo attraversando, fa salire il rapporto, a parità di altre condizioni, fornendo una falsa indicazione positiva. In altre parole, se la cilindrata del «motore Italia» si è ridotta in questi anni - come molti episodi sembrano indicare - andando alla stessa velocità, il motore si viene a trovare più vicino ai suoi limiti. Per usare una metafora calcistica, l’Italia potrebbe trovarsi nelle prime posizioni della «serie B» dell’economia mondiale, mentre quando la crisi è cominciata si trovava all’ultimo posto della «serie A».

Quest’analisi è doverosa non già per «gufare», ossia per «giocare contro» la ripresa del Paese, ma anzi per consentire una realistica valutazione delle possibilità ed evitare delusioni successive. Una simile valutazione realistica porta a sottolineare alcune potenzialità del Paese e in particolare la presenza, grazie al risparmio delle famiglie, di forti e diffuse risorse finanziarie che controbilanciano il pur gigantesco debito pubblico; in altri Paesi, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, la prolungata assenza di risparmio famigliare costituisce un grave handicap per la ripresa. Qualcosa su cui costruire c’è; non si costruirà, però, senza modificare fortemente sulla struttura produttiva e sulla distribuzione dei redditi con procedimenti che saranno indubbiamente sgradevoli per alcune fasce sociali, detentrici di privilegi, spesso piccoli ma molto diffusi, e quindi pesanti per le finanze pubbliche. Purtroppo né la maggioranza né l’opposizione sembrano impegnate a disegnare un futuro a dieci-vent’anni, spesso l’orizzonte del dibattito politico non arriva a dieci-venti mesi. Si pensa erroneamente di essere all’avanguardia nella crescita e si tagliano gli investimenti nella «banda larga», ossia in uno dei comparti più tecnologici della produzione; ci si impegna solennemente a sostenere la ricerca e si tagliano le risorse per i ricercatori.

Per questo si rischia di sottolineare oltre il suo reale significato un segnale congiunturale positivo, com’è quello dell’Ocse, e non vedere il deterioramento della struttura; è più facile ricordare che quella italiana è - ancora - la sesta economia del mondo, come ha fatto il presidente del Consiglio (in realtà gli ultimi dati della Banca Mondiale ci collocano comunque al settimo posto nel 2008, che diventa il decimo se si tiene conto dell’effettivo potere d’acquisto dei redditi degli italiani) e dimenticare che nella classifica dei redditi per abitante siamo ormai al 39° posto, sensibilmente al di sotto dei grandi Paesi dell’Europa occidentale, sopravanzati dalla Spagna.

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« Risposta #55 inserito:: Novembre 12, 2009, 10:07:08 am »

12/11/2009

Crisi e vaccini la babele crea sfiducia
   
MARIO DEAGLIO


Nonostante l’incalzare delle notizie sui decessi causati dall’«influenza suina», fornite con grande enfasi dai mezzi di informazione, apprendiamo da La Stampa di ieri che gli italiani rifiutano la vaccinazione, tanto che addirittura il 97 per cento delle dosi rimane, per il momento, inutilizzato. E’ in atto un compattissimo, imprevisto «sciopero del vaccino»: l’opinione pubblica sembra divisa tra la paura della malattia e la paura del vaccino. E la seconda, contro ogni previsione, prevale largamente sulla prima.

Perché questo risultato sconcertante? Perché la mancanza generalizzata di conoscenze medico-sanitarie di base si unisce alla mancanza generalizzata di informazioni chiare e credibili: una vera e propria «miscela esplosiva» che determina un’estesa diffidenza e ostilità nei confronti del vaccino, un senso di confusione generale e che sfocia in comportamenti collettivi incerti e contraddittori, in ogni caso diversi, o addirittura opposti, a quelli previsti.

Si tratta di una «miscela esplosiva» analoga a quella che ha consentito alla crisi finanziaria di sfuggire al controllo di governi e banche centrali. Come nella sanità, anche nelle finanze famigliari, le conoscenze non si apprendono più dai genitori ma si imparano (assai male, nella maggior parte dei casi) nelle scuole: le mamme trasmettono sempre meno ai figli regole igieniche fondamentali come il lavarsi le mani o il non prendere freddo, i giovani non vogliono sentir parlare dagli anziani di necessità di risparmiare o di cautela nell’indebitarsi.

Specie tra questi ultimi, sono in troppi a ignorare la differenza tra l’azione di un antibiotico e quella di un antidolorifico e forse si tratta delle stesse persone che non conoscono la differenza tra interesse semplice e interesse composto o non sanno come funziona il loro conto corrente.

Con queste fragili premesse, troppe volte nelle società ricche si trasmettono precocemente informazioni specialistiche senza le basi fondamentali che consentono di assimilarle. Si determina così una crescente difficoltà a decidere razionalmente, spesso associata all’impossibilità di farlo per la scarsa trasparenza delle informazioni. Per quanto riguarda l’influenza suina, non sono stati forniti elementi assolutamente certi per rispondere a chi ritiene che quella del vaccino sia una «bufala» o una macchinazione delle case farmaceutiche. Per conseguenza, come dimostra il sondaggio pubblicato su La Stampa di ieri, gli italiani appaiono spaccati quasi a metà tra i favorevoli e i non favorevoli al vaccino ma la cosa apparentemente incredibile è che neanche i favorevoli si fanno vaccinare.

Parallelamente non sono stati resi pubblici elementi che consentano di affermare con certezza che le misure contro la crisi economica, adottate negli ultimi 12-18 mesi - per le quali il recente G20, tenutosi in Scozia, si è autocompiaciuto - stiano davvero risollevando l’economia e non semplicemente stabilizzando, non si sa quanto a lungo, i bilanci delle banche e di altre istituzioni finanziarie.

In queste condizioni, i vaccini restano nei frigoriferi il che causerà seri problemi se l’epidemia è davvero molto pericolosa; i risparmi dei cittadini restano sui conti bancari o impiegati, a tassi irrisori, in titoli pubblici a brevissimo termine. Viene così frenata la normale spesa per consumi che attenuerebbe di molto gli effetti della crisi economica. Banche e case farmaceutiche incassano una fortissima ostilità da parte dell’opinione pubblica, un po’ come gli untori al tempo della peste.

Crisi sanitaria e crisi finanziaria appaiono così come due facce - forse non le uniche - di una più generale Crisi con la C maiuscola. Che bisognerà una buona volta affrontare invece di minimizzare.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #56 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:16:24 am »

18/11/2009
 
Un futuro senza Europa
 

MARIO DEAGLIO
 
Il viaggio in Asia di Barack Obama apre una fase totalmente nuova per l’economia e la politica mondiale.

Per rendersene conto può essere utile aprire una carta geografica del mondo e cercarvi le Hawaii, dove il presidente Obama è nato 48 anni fa. Piantate in mezzo al Pacifico, queste isole distano circa 8000 chilometri da Washington e 8500 da Pechino.

Mentre l’Europa si trova a circa 12 mila chilometri. L’Europa è uno dei luoghi geograficamente più lontani dalle Hawaii; basti pensare che per andare a Mosca da Honolulu la rotta più breve passa da Tokyo e non da Londra o Parigi. Il Presidente Obama ha inoltre frequentato le scuole elementari a Giacarta, in Indonesia.

Prima ancora di qualsiasi ragionamento economico o politico ci sono qui premesse molto solide per spiegare l’importanza che egli attribuisce all’area del Pacifico. Obama è un autentico «uomo del Pacifico», mentre quasi tutti i presidenti recenti provenivano prevalentemente dalla costa atlantica e dall’emigrazione europea e spesso avevano ricevuto parte della loro educazione superiore in Europa.

Alla propensione culturale si aggiunge, in maniera prepotente, la realtà dell’economia: dai Paesi asiatici bagnati dal Pacifico (Cina, India, Giappone e «tigri asiatiche») dal 2001 a oggi è derivato circa il 55 per cento della nuova produzione mondiale ossia del «di più» che si è prodotto rispetto al Duemila. Se a quest’Asia dinamica aggiungiamo l’America del Nord arriviamo al 70 per cento della nuova produzione mondiale mentre da un’Europa Occidentale assai poco dinamica - che pure è complessivamente, la seconda area economica del pianeta - è derivato appena l’11-12 per cento. Grazie alla crisi attuale, secondo le più recenti proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, nel 2009 la produzione mondiale scenderà dell’1,1 per cento per il pesante arretramento dell’area dell'euro e, in misura minore, degli Stati Uniti; i Paesi dinamici dell’Asia cresceranno del 6,2 per cento.

Siamo in presenza di un’inversione dei «poli economici» del mondo: dopo circa duecento anni in cui gli incrementi produttivi e le realizzazioni tecnologiche sono avvenute in grandissima prevalenza nei Paesi prossimi all’Atlantico Settentrionale, ora non solo il centro dell’attività produttiva, ma anche quello delle tecnologie e della ricerca scientifica si sta spostando verso i Paesi che si affacciano sul Pacifico (e, in parte, sull’Oceano Indiano). La nuova Asia che Obama ha davanti non è quella che produce magliette a prezzi stracciati, ma quella le cui esportazioni elettroniche sono più del doppio di quelle americane, che sa costruire treni ad alta velocità e mandare astronauti nello spazio e che crea più di metà del software del mondo. In un recente libretto, un noto intellettuale francese, Alain Minc, ha avanzato l’ipotesi che entro breve tempo tutti i premi Nobel possano essere conferiti ad asiatici.

La nuova politica americana parte dalla presa d’atto di questa situazione e dalla volontà degli Stati Uniti di partecipare - senza far giocare più di tanto le superiori dimensioni dell’economia americana quasi certamente destinata a essere tra breve raggiunta dalla Cina - a questo nuovo orizzonte e alle prospettive che così si aprono alla stessa America e al mondo. Lo strumento più probabile di collaborazione sarà un settore industriale che ancora non esiste, quello energetico-ambientale, nel quale confluiranno tecnologie diverse e che farà diminuire fortemente l’importanza economico-politica del settore petrolifero. Per il forte carattere innovativo di questa possibile e difficile politica industriale a livello mondiale, America e Asia hanno platealmente rifiutato di essere vincolate a priori dalla conferenza di Copenhagen, fortemente voluta soprattutto dagli europei.

L’Europa, per la prima volta da tempi immemorabili, non viene neppure formalmente invitata al tavolo dei grandi. Di fronte a un simile dinamismo e a quest’ampiezza di visioni si scopre vecchia, stanca e divisa. E’ bastata l’opposizione testarda di un pugno di elettori irlandesi e del presidente della Repubblica Ceca a bloccare a lungo un progetto di costituzione, che non è certo il più elevato esempio di quella democrazia che gli europei spesso considerano il miglior prodotto della loro civiltà. All’interno dei singoli Paesi, una selva di interessi - sicuramente legittimi ma minoritari - blocca trasformazioni che possano davvero garantire lavoro per i giovani e pensioni per gli anziani: gli oppositori dell’alta velocità, gli agricoltori per le vie di Bruxelles, gli scaricatori dei porti, i membri di ordini professionali che non gradiscono concorrenza hanno finora fatto prevalere le visioni «corte» rispetto alle visioni «lunghe» che vanno di moda nel Pacifico.

Discuteranno del futuro di tutti, compreso il nostro, senza di noi. Il prossimo «governo» europeo (ancora sfornito di veri poteri) ha un compito molto difficile e, al suo interno, particolarmente gravoso e cruciale sarà il mandato del ministro degli Esteri, che potrebbe essere un italiano. In ogni caso, da qualunque Paese provenga, non possiamo che augurarci che sia all’altezza dei tempi nuovi.

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« Risposta #57 inserito:: Novembre 20, 2009, 03:18:52 pm »

Marrazzo, quattro passi da solo verso il patibolo

di Enrico Deaglio



Nella tarda mattinata di venerdì tre luglio del 2009, il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, viaggia con l’autista della Regione sulla via Cassia. I quotidiani sono pieni di notizie sugli scandali sessuali del presidente Silvio Berlusconi; addirittura il presidente della Repubblica è intervenuto per imporre alla stampa una moratoria in occasione del G8 che sta per aprirsi nell’Aquila terremotata: Berlusconi rischia infatti di presentare al mondo un’Italia grottesca, ricattata e corrotta.

Marrazzo fa cenno all’autista. «Fermati qua. Faccio due passi a piedi».

È un gesto di gentilezza. Come dire, “ti tengo fuori da questa storia”.
Il Governatore, senza occhiali scuri, senza cappelluccio, uno dei volti più riconoscibili della città per il suo passato televisivo e il suo presente politico, scende dall’automobile e si avvia verso uno degli indirizzi più malfamati e loschi di Roma: il numero civico 96 di via Gradoli.

Non si sa con quale passo il Governatore compia la sua ultima passeggiata. Se di piede lento o veloce, se assorto o teso, furtivo o trasognato. Ma è possibile che sia semplicemente portato dagli eventi, attratto da una calamita. Non è una sfida, è piuttosto una marcia quietamente disperata verso un confuso patibolo. Al contrario di un “tirem innanz”, è un “andiamo fino in fondo, vediamo com’è”.

Il patibolo era stato effettivamente apparecchiato e quando Marrazzo vi sale trova non solo chi pensava lo stesse attendendo - l’amante brasiliana Natalì -, ma il campionario dell’Italia di oggi: il pusher che spaccia la cocaina in franchising per conto dei Casalesi; i carabinieri che da tempo lavorano con il pusher e con Natalì (le “mele marce”), il telefonino che gira il video, l’omertà dei coinquilini che non vedono e non sentono niente.

Lo minacciano, lo umiliano, gli mettono le mani addosso, lo denudano, lo filmano, lo derubano e lo ricattano. Il fatto che sia il presidente della Regione non conta nulla, anzi. La secolare sudditanza dei malfattori e dei carabinieri nei confronti del Potente svanisce.

Il fatto che la sudditanza sia svanita proprio al numero civico 96 di via Gradoli non può essere senza significato. E Piero Marrazzo, giornalista di inchieste, figlio di un famoso giornalista che si è occupato di potere, mafie e camorre, lo conosce benissimo.
Quella palazzina, trentuno anni fa, fu il centro operativo delle Brigate Rosse durante il primo mese del rapimento di Aldo Moro. Un appartamento era stato affittato da Mario Moretti, il capo delle Br, ed era servito, prima dell’azione, come deposito di armi, rifugio di latitanti e addirittura foresteria per militanti della lotta armata in cerca di relax. Talmente noto era il “covo”, che nei primissimi giorni del sequestro l’indirizzo prese a circolare. Il professor Romano Prodi, nel nobile intento di aiutare le indagini e salvare la vita di Moro, dichiarò che il nome di Gradoli era stato fatto nel corso di una seduta spiritica, ma il ministro degli Interni Francesco Cossiga mandò le truppe in una Gradoli in provincia di Viterbo, a vuoto.

Così Mario Moretti, insieme a Barbara Balzarani, continuò ad abitare in via Gradoli, senza preoccuparsi troppo di poter essere scoperto, fino a quando, il 18 aprile 1978, al 32esimo giorno del sequestro, uscì di casa e poco dopo l’acqua cominciò a gocciolare verso il piano di sotto. Infiltrazione, inquilino arrabbiatissimo, porta sfondata dai vigili del fuoco: et voilà, ecco a voi l’archivio delle Brigate Rosse, reso accessibile dal telefono di una doccia e da un rubinetto lasciato aperto.

Poi, molti anni dopo, si scoprì che nella palazzina molti appartamenti erano di proprietà di una società immobiliare che agiva per conto dei servizi segreti e ancora parecchi anni dopo la palazzina si adattò alla nuova economia residenziale, affittando appartamenti ai transessuali latinoamericani, che guadagnano bene, pagano bene e forniscono moltissime informazioni ai carabinieri sui Vip che le vengono a trovare.

Le case hanno spesso una loro storia, sono segnate e spesso anche popolate da fantasmi.

Nessuno sa con quale faccia, quel 3 luglio, Marrazzo abbia fatto il viaggio di ritorno verso la macchina di servizio, ma certo aveva negli occhi le prove generali della sua esecuzione, che infatti avverrà tre mesi dopo.

In quei tre mesi il Governatore non ha usato, né abusato del suo potere. Ha solo disperatamente aspettato che si attuassero le procedure. La sua storia era cominciata cinque anni prima: candidato alle elezioni perché era stato un popolare conduttore Tv “dalla parte dei cittadini”, era già stato sotto ricatto dei suoi avversari politici che avevano pensato di assoldare un viado contro di lui. La sua vita personale era a conoscenza di taxisti (i veri untori della morale pubblica romana), il suo partito non lo teneva in grande considerazione, una sua ricandidatura era dubbia, la sua immagine non appariva più quella del vincente difensore del popolo, e, sul piano della voracità economica, scontrarsi contro le cliniche private gli aveva fatto toccare con mano quanto feroce potesse essere la loro risposta.

E così il Governatore ha seguito, immobile, i movimenti del ricatto per tre mesi. Gli spostamenti e le duplicazioni del video, il destino dei suoi assegni, la morte del pusher, i piccoli tormenti di Natalì, il cd nella disponibilità dei padroni delle cliniche private, la melliflua telefonata di Berlusconi (“voglio darle una mano”, come nelle più ciniche battute dei film di gangster di James Cagney), il perfetto timing dei Ros contro le “mele marce” della compagnia Trionfale, una normale audizione in Procura come “persona informata dei fatti”, e poi - oh, finalmente, non ne potevo più - la mia testa che rotola.

Il nostro presidente del Consiglio, a differenza di Marrazzo, è invece ancora in sella. Gli angiporti di Casoria, la cocaina del pappone di Bari, le ragazzine che lo dileggiano, il mondo che lo dileggia, la dolente prostituta pugliese che lo registra e ne canta la mattina dopo le erezioni, la manifattura di farfalline, le guardie del corpo attonite, ma fedeli (queste non sono “mele marce”), la famigliarità con l’industria del ricatto, si sono dimostrate tutte armi inutili di fronte alla sua prorompente voglia di vita. I suoi sostenitori sostengono la sua primordiale verità: la femmina da possedere, da stuprare, da pagare. I suoi sostenitori ridono del debole Marrazzo, delle sue inquietudini e soprattutto della sua inettitudine. La questione del governo, alla fine, è tutta qua.

Dicono che gli italiani si riconoscano in Berlusconi e nel suo sogno realizzato: diventare molto ricchi, diventare molto potenti per potere finalmente permettersi una notte di docce fredde (sempre la doccia, a palazzo Grazioli come in via Gradoli) e di sesso con una petulante Patrizia D’Addario che gli chiede di risolvere il suo irrisolvibile problema di abuso edilizio. Dicono che Berlusconi sia talmente magico da convincere gli italiani che questa, solo questa, è la vita che vale la pena essere vissuta; il discorso amoroso e il condono edilizio.

Fece capire lui stesso, peraltro, di essere in grado di dare la vita, un figlio, a una donna in coma da diciassette anni. Nessuno si alzò per prenderlo a schiaffi, ma molti sicuramente videro quanta voglia di morte ci fosse in quelle sue tristissime parole.
Nell’augurio e nella speranza che l’immaginario del successo e del potere da trasmettere, possa essere meno tragico, mi resta la curiosità di che cosa succederà, non tanto di villa Certosa e di palazzo Grazioli, quanto della palazzina di via Gradoli 96. Chissà: forse l’appartamento di Mario Moretti è stato affittato a un trans, o è la base di un pusher.

Chissà, forse tra dieci anni, quando ci saranno nuovi inquilini, nei lavori di ristrutturazione edilizia, dietro la solita intercapedine, verrà ritrovato un pacchetto che nessuno aveva notato.

L’originale del video che ricattava Piero Marrazzo? Il filmato girato da Mario Moretti ad Aldo Moro nella prigione del popolo?

08 novembre 2009
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« Risposta #58 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:18:17 am »

1/12/2009

Ma i prezzi vanno controllati
   
MARIO DEAGLIO

Immaginate di avere un figlio piccolo che ha fatto una brutta bronchite. Ormai è sfebbrato da due giorni e vorrebbe proprio uscire; gli misurate la temperatura e scoprite che, di primo mattino, è al limite della febbre. Se siete dei genitori saggi, dovrete, con rincrescimento, dirgli che deve restare a casa un giorno in più, sempre nella speranza che nel pomeriggio la febbre non torni a salire e allunghi la prognosi.

Un simile esempio, tratto dall’esperienza diffusa delle malattie stagionali, serve molto bene a inquadrare gli avvenimenti degli ultimi giorni con notizie lontane, come quelle provenienti da Dubai e notizie vicine che riguardano la spesa quotidiana: il figlio piccolo è l’economia, sia mondiale sia italiana, che ha alle spalle una crisi importante, forse conclusa e forse no. Ma anche se i sintomi di crisi cominciano lentamente a ritirarsi, i segnali non lasciano tranquilli. Senza le dovute precauzioni, la bronchite che si pensava di aver sconfitto può ripresentarsi come polmonite.

Il caso di Dubai è sicuramente il più clamoroso e il più preoccupante. E questo non solo perché la bolla è scoppiata in un paradiso del lusso dopo aver devastato l’edilizia povera dei mutui subprime, ma anche perché si conferma una volta di più che la comunità internazionale, nonostante due anni di risoluzioni e solenni propositi, non dispone di alcun mezzo non solo di intervento preventivo ma neppure di monitoraggio dei flussi finanziari. Prima ancora che nuova una sfida alle Borse, il caso di Dubai rappresenta una nuova sfida al sistema finanziario mondiale e alla serietà dei propositi di un suo ordinato controllo.

Si è parlato tanto di trasparenza e i governi dei Paesi ricchi continuano a tollerare l’opacità quasi completa dei «fondi sovrani» di gran parte dei Paesi emergenti, a cominciare da quelli petroliferi. Nessuno pare in grado di dire con qualche certezza quanti debiti abbia il fondo sovrano Dubai World, quali istituti bancari li abbiano sottoscritti e magari inseriti in prodotti «derivati» e chi ora possieda questi prodotti né quali garanzie i governi degli Emirati siano di fatto disposti a concedere. La possibilità che questo nuovo focolaio di infezione rovini la festa di un mondo finanziario che sta ripetendo in maniera miope i riti e gli errori del passato - a cominciare dagli assurdi super bonus dei dirigenti finanziari americani - non può certamente essere trascurata. Anzi, nel giro di un paio di settimane, quando è in calendario la scadenza di importanti debiti del fondo sovrano Dubai World, si avrà una sorta di prova della verità.

Se dalle Borse mondiali passiamo alla nostra borsa della spesa, il piccolo segnale che non lascia del tutto tranquilli è rappresentato dall’aumento, anche se minuscolo, dei prezzi con i quali si confronta il comune cittadino europeo. Dopo un declino durato cinque mesi nell’area dell’euro l’indice dei prezzi al consumo dà ora qualche segno di risalita. Per l’Italia tali segnali, per quanto molto contenuti, sono più consistenti che altrove. Certo, parlare di inflazione quando i prezzi al consumo salgono dello 0,7 in un anno e dello 0,1 per cento in un mese può sembrare eccessivo e in questo senso le grida di allarme sono quanto meno premature e probabilmente fuori luogo; non è invece eccessivo, ma anzi del tutto ragionevole, mettere i prezzi sotto osservazione.

Un’analisi sommaria mostra che l’aumento con cui si confronta il consumatore non è derivato dai prezzi alla produzione, sostanzialmente fermi per l’industria, a livelli inferiori a un anno fa, e addirittura fortemente cedenti per l’agricoltura senza che il consumatore ne abbia sentito gli effetti negli acquisti di generi alimentari. Si deve concludere che gli aumenti sembrano localizzati in prevalenza nel sistema distributivo che ha praticato per mesi molti sconti sui listini e che ora cerca di recuperare fiato con le vendite natalizie. Il fatto è che il sistema distributivo italiano, con i suoi troppi passaggi, è relativamente inefficiente e non consente un buon funzionamento dei meccanismi di mercato. Senza mutamenti strutturali in questo sistema sarà difficile dar vita a una ripresa di lungo periodo.

Un’economia strutturalmente debole come quella italiana in un contesto strutturalmente debole come è quello dell’attuale globalizzazione corre sempre due rischi paralleli: quello della stagnazione con prezzi cedenti, un male che il Giappone si porta addosso da almeno quindici anni, e quello di un’inflazione con poca crescita (la temutissima stagflazione che ha fatto la sua comparsa negli Anni Settanta). I grandi sviluppi mondiali e i piccoli sviluppi dei bilanci famigliari consentono oggi di concludere che entrambi i rischi esistono e vanno affrontati con decisione ossia cambiando regole, il che significa modificare strutture di potere. Se non lo faremo, la prospettiva che una bronchite quasi superata si trasformi in una polmonite pericolosa non sarà più soltanto teorica.

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« Risposta #59 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:51:49 pm »

11/12/2009

Ancora buio dopo il tunnel
   
MARIO DEAGLIO


Grazie al forte calo della produzione industriale dei Paesi ricchi (tra il 10 e il 20% rispetto ai valori di un anno fa) il livello di inquinamento del pianeta è sicuramente diminuito in maniera sensibile.

Come è però ovvio, questo modo di ridurre l’inquinamento non piace a nessuno, neppure ai partecipanti alla Conferenza sul clima di Copenhagen. La nostra è infatti ben lontana dall’essere una decrescita felice: nel quadro economico mondiale, gli unici indicatori in sicuro e sensibile aumento sono il numero degli affamati dei Paesi poveri e dei disoccupati nei Paesi ricchi nonché l’ammontare del debito pubblico di molte tra le maggiori potenze economiche.

La quasi assenza della ripresa è una sorpresa per molti osservatori, che, sulla base dell’esperienza di altre crisi recenti, derivanti dalla necessità di comprimere la domanda per tenere a bada l’inflazione, prevedevano un rapido recupero produttivo. Secondo lo schema del premio Nobel Milton Friedman, dopo aver superato il punto di svolta inferiore, la produzione, sgravata dai pesi imposti per recuperare la stabilità dei prezzi, avrebbe dovuto scattare all’insù come un elastico e riportarsi in pochissimo tempo sul sentiero di crescita forzatamente abbandonato. La ripresa è invece pigra, quasi svogliata, le economie più dinamiche del pianeta hanno mostrato una bassa reattività all’imponente iniezione di risorse finanziarie nel sistema da parte delle banche centrali e dei governi. In Giappone è tornata la stagflazione, una temutissima «malattia economica» derivante dalla presenza congiunta di un calo di produzione e un calo generalizzato dei prezzi, in Spagna la disoccupazione sfiora il 20 per cento.

La spiegazione di simili lentezze e incertezze si può trovare precisamente nel diverso carattere della crisi attuale che, distruggendo enormi risorse finanziarie, ha fortemente ridotto non solo le capacità di spesa delle famiglie ma anche le capacità delle imprese di investire, innovare, reagire alla crisi stessa. Passeranno quindi ancora molti trimestri prima che si raggiungano i valori di produzione che oggi rivedremmo volentieri, anche se portano con sé un inquinamento maggiore.

Un esempio dell’inadeguatezza della ripresa può essere facilmente trovato nei più recenti dati italiani: secondo quanto confermato ieri dall’Istat, nel periodo luglio-settembre il prodotto lordo è cresciuto dello 0,6 per cento rispetto al trimestre precedente. Può sembrare un ottimo risultato ma se si confronta il dato con quello del terzo trimestre 2008 si constata una caduta del 4,6 per cento, tra le peggiori dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Pensavamo di essere usciti dal tunnel, e forse statisticamente lo siamo, ma ci accorgiamo che fuori dal tunnel è buio, la strada è tortuosa e piena di buche, il nostro navigatore si è rotto e procediamo cautamente, un metro dopo l’altro, senza avere un’idea precisa di dove stiamo andando.

L’espansione a passo di lumaca preoccupa soprattutto i produttori di petrolio, tormentati non già dalla prospettiva dell’esaurimento delle loro riserve bensì da quella opposta di una perdurante debolezza nella domanda del loro prodotto. Al punto che il Messico ha deciso di spendere un miliardo di dollari per acquistare una polizza di assicurazione contro la caduta del prezzo del petrolio: se le quotazioni dell’ «oro nero» scenderanno mediamente sotto i 57 dollari al barile nel corso del 2010, il Messico verrà «indennizzato» da un gruppo di banche con le quali ha concluso il contratto.

Del resto il Venezuela, altro produttore latino-americano di primaria grandezza, è precipitato in recessione dopo quasi sei anni di espansione; e alla base delle difficoltà di Dubai e di Abu Dhabi c’è la previsione che la rendita petrolifera di cui godono i Paesi del Golfo sia destinata a calare. Incuranti dell’ottimismo di molti analisti e delle dichiarazioni piene di fiducia di molti capi di governo, i detentori di capitali di quell’area stanno «votando con i loro soldi», per parafrasare un’espressione di Einaudi, ossia portando i loro capitali fuori da quello che doveva essere un paradiso basato sul petrolio e che invece rischia di diventare una trappola di costruzioni faraoniche non finite. Stanno di fatto comportandosi come se la ripresa fosse inesistente o di entità irrilevante.

La scommessa messicana e i comportamenti dei produttori petroliferi del Medio Oriente vanno presi sul serio soprattutto dagli europei, in quanto la probabile crisi del debito pubblico greco introduce una nuova, allarmante dimensione a un quadro che di per sé non è già dei migliori.

Pessimismo? No, realismo dal quale è necessario partire per imbastire discorsi fondatamente ottimistici. L’economia non è come la Bella Addormentata destinata a svegliarsi per miracolo senza segni di vecchiaia dopo un lungo sonno; e a svegliarla e a farla ringiovanire non sarà il bacio di un Principe Azzurro. E’ necessaria un’azione dura e spesso oscura di un gran numero di imprenditori, banchieri, politici pronti a mettere in gioco le loro fortune personali, a contrapporre azioni con orizzonti lunghi alle scommesse anti-rischio di breve termine come quella del Messico. Le diatribe dei politici di questi giorni, lontanissime dai problemi che l’economia deve affrontare, mostrano quale distanza ci separa da una vera ripresa.

mario.deaglio@unito.it

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