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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 101967 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:05:54 pm »

16/4/2009
 
Solidarietà e referendum
 
MARIO DEAGLIO
 
Il finanziamento della ricostruzione dell’Aquila pone una serie di problemi complessi che vanno dalla politica economica alla lotta politica e che partono da un’osservazione fondamentale: i soldi per la ricostruzione non possono essere spesi tutti subito ma, per i tempi tecnici della spesa - ai quali si spera che non si debbano aggiungere ritardi anomali della burocrazia - dovranno essere «spalmati» su un certo numero di esercizi finanziari, diciamo 3-4 anni nel migliore dei casi.

Sarebbe appropriato che il prossimo Consiglio dei Ministri indicasse, sia pure a grandi linee, non solo l’ammontare della spesa complessiva ma anche la sua probabile scansione temporale. In ogni caso, se si accetta per buona la stima sommaria di 12 miliardi di euro, l’entità della spesa equivale all'incirca a una manovra finanziaria. Anche se tale spesa sarà diluita in qualche anno, occorre domandarsi come possa digerire una medicina così pesante un paziente qual è l'economia italiana, già appesantito da un pesantissimo fardello di debiti e deficit.

E in qualunque modo si affronti la questione, l'Europa gioca, in maniera sia diretta sia indiretta, un ruolo importante nella risposta. Direttamente, è legittimo attendersi lo stanziamento di fondi speciali europei per aiutare la ricostruzione e l'abbuono all'Italia di versamenti dovuti all'Unione Europea in questo e nei prossimi 3-4 anni. E questo perché siamo di fronte alla maggiore calamità naturale di un Paese dell'Unione Europea nel nuovo secolo e il Trattato di Maastricht prevede esplicitamente (all’articolo 103 A) un'«assistenza finanziaria comunitaria» allo Stato membro qualora questo si trovi in «gravi difficoltà» a seguito di «calamità naturali». L’aiuto dell’Unione Europea può inoltre essere indiretto in quanto all’Italia sia consentita una modifica del piano di rientro dal debito e dal deficit che era stato concordato prima del terremoto. Il che darebbe via libera al reperimento sul mercato della parte maggiore dei fondi necessari.

Ci si può ragionevolmente attendere che questa «dimensione europea» del finanziamento giunga a coprire, su 3-4 anni appunto, più della metà della somma necessaria. Che fare per la parte restante? È inevitabile che si concorra con una pluralità di fonti, ciascuna di entità relativamente modesta ma dal notevole valore pratico e simbolico. Si potrebbe cominciare con qualche vendita di oro, il prezioso «metallo giallo» di cui l'Italia detiene una quantità spropositata (è al quarto posto nella classifica delle riserve auree) nel rispetto degli accordi internazionali che limitano questo tipo di operazioni. Anche se in passato analoghe proposte si sono scontrate con un’incomprensibile ritrosia, questo è il momento di metter mano, sia pure in piccola parte, ai gioielli di famiglia. Non sarebbe irragionevole pensare di ricavare, in tempi brevi, circa 400-500 milioni di euro dalle vendite delle quantità relativamente modeste di oro delle nostre riserve.

Sarebbe ugualmente non irragionevole la richiesta di un contributo specifico ai parlamentari e anche a chi ricopre cariche elettive a livello regionale o locale, oltre che agli eletti al parlamento europeo: si tratterebbe, certo, solo di poche decine di milioni di euro ma sarebbero prova tangibile di solidarietà da parte di chi gode di numerosi trattamenti di favore, spesso nettamente superiori a quelli in vigore in altri Paesi europei per le medesime cariche.

Un contributo specifico dal mondo della politica avrebbe senso in un contesto in cui si pensasse a un'addizionale sui redditi elevati (sopra i centomila euro lordi annui), già colpiti da aliquote marginali superiori a quelle degli altri redditi. Si tratta complessivamente di poche persone (poco più di centomila, i «soliti noti») in un Paese in cui i redditi da capitale vengono tassati separatamente, il che riduce legalmente la visibilità fiscale dei «grandi redditi» e potrebbe portare nelle casse dello Stato circa 400-500 milioni di euro. Sempre che si tratti di un’imposta una tantum e non, come è stato purtroppo frequente nella storia fiscale di questo Paese, di un’addizionale che da straordinaria diventa ordinaria. Si potrebbe anche cercare di far pagare un poco gli evasori devolvendo alla ricostruzione abruzzese una quota dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale che, in quest’occasione, potrebbe essere ancora potenziata.

In questo contesto di attenta e risicata ricerca di risorse non avrebbe senso, ma sarebbe anzi un insulto alla solidarietà nazionale emersa spontaneamente in questi giorni, che una somma di poco inferiore al gettito dell’eventuale addizionale una tantum venisse scialacquata in pochi giorni con le spese per un referendum che, per i capricci o i calcoli politici della Lega, non si vuole accorpare con le altre consultazioni elettorali dei prossimi mesi. E non avrebbe senso, in un momento in cui si chiedono sacrifici «mirati» a categorie specifiche di italiani, cercare risorse offrendo vantaggi ad altre categorie, come sarebbe il caso di un nuovo «scudo fiscale» per chi rimpatria capitali dall'estero. Il Consiglio dei ministri di venerdì dovrà muoversi con ragionevolezza in questo insieme di scelte intricate se non vorrà sciupare il «capitale politico» che la gestione della prima fase dell’emergenza terremoto gli ha indubbiamente procurato.

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« Risposta #31 inserito:: Aprile 19, 2009, 05:10:47 pm »

18/4/2009
 
Torino sulla linea del fuoco
 

MARIO DEAGLIO
 
Dopo essere rimaste a lungo immobili, le ruote della storia industriale hanno ripreso a girare vorticosamente. Meno di dieci anni fa, Fiat Auto pareva sul punto di diventare una semplice consociata di General Motors; ora, con nuovi modelli, nuovi motori e quote di mercato in crescita, è sul punto di acquisire una partecipazione determinante in Chrysler, un altro grande del mercato mondiale dell’auto.

Quest’inversione a U del gruppo torinese è naturalmente dipesa da molti fattori ma quello più tipico lo potremmo chiamare «fattore L», ossia «leadership». Non c’è dubbio che l’amministratore delegato Sergio Marchionne abbia fatto da elemento catalizzatore del molto di buono che si celava all’interno della Fiat e che abbia esercitato con estrema efficacia e ottimi risultati il suo mandato di ridisegnare il sistema di decisione e di operazione del gruppo. È precisamente la presenza congiunta di questo «fattore L» e delle nuove tecnologie della Fiat a convincere molti americani, a cominciare dal loro Presidente, della bontà di un collegamento patrimoniale e operativo - se saranno superate non trascurabili complessità di tipo finanziario e organizzativo - tra Fiat e Chrysler. A rendere economicamente ragionevole una simile combinazione è il radicale e improvviso mutamento strutturale dell’industria dell’auto. Con la disastrosa caduta mondiale delle vendite iniziata nell’autunno-inverno sembra essersi spezzata una molla psicologica che da molti decenni poneva l’acquisto dell’auto in cima alle priorità della famiglia media in tutti i Paesi avanzati. La domanda di auto sta ora tornando in Europa verso livelli normali, ma con modalità diverse: si richiedono, oltre a formule finanziarie flessibili e «leggere», auto più piccole, motori più puliti, costi più contenuti. E proprio in questi aspetti oggi importanti della produzione la Fiat può vantare al suo attivo sia una lunga tradizione sia un importante (e spesso trascurato) impegno di ricerca; quest’ultimo aspetto dovrebbe indurre a un certo ripensamento chi ritiene che dalle università italiane e dai laboratori delle industrie italiane non esca ormai più nulla di importante.

Le nuove tecnologie fanno sì che per produrre un’auto sicura, ecologica e di prezzo contenuto, i componenti base debbano essere comuni a molti modelli e che i costi fissi debbano essere spalmati su milioni di esemplari. Questo ha indotto lo stesso Marchionne, in un’intervista di qualche mese fa (dal titolo significativo: «La festa è finita») a stimare in 5,5-6 milioni di auto all’anno la dimensione minima per una valida presenza industriale; questa dimensione lascerebbe in vita solo sei produttori mondiali. Non è detto però che produzione e proprietà coincidano perfettamente: l’orizzonte dell’auto dei prossimi decenni non sembra più dominato da grandi imperi industriali, rigidamente governati dal centro, ma piuttosto da un sistema di alleanze, dotate di una certa flessibilità e caratterizzate, al di là della dimensione tecnologico-produttiva, da un rilevante grado di autonomia dei partecipanti. Qualcosa di simile, del resto, si è già visto con l’intesa, raggiunta dieci anni fa, tra la francese Renault e la giapponese Nissan.

In questo ridisegno strutturale dell’industria mondiale dell’auto, è significativo che un ruolo importante spetti al sindacato che, alla Chrysler, ha ancora una sorta di un diritto di veto sull’accordo stesso. L’intesa nuovo management-sindacato, così come l’intesa nuovo management-proprietà (che, in questo caso, implica indirettamente il governo degli Stati Uniti) appaiono essere le due strutture portanti necessarie per qualsiasi accordo che consenta di eliminare le molteplici inefficienze produttive del colosso americano. Del resto alla Fiat Marchionne si è mosso in questo senso, con una ricetta che implica poca retorica e impegni concreti e rispettati, e così aveva fatto anche nel suo precedente incarico ad Alusuisse che implicò una difficile intesa con il potente sindacato tedesco IG Metall.

Essere il «cuore» di una nuova grande alleanza industriale a livello mondiale non potrà certo modificare le prospettive immediate di Torino e delle industrie fornitrici dell’auto in Italia; allarga però in maniera inaspettata i loro orizzonti di attività. Se poco cambierà nei prossimi trimestri, le prospettive dei prossimi lustri - e quindi le prospettive di vita dei giovani, soprattutto di quei neolaureati che faticano a trovar lavoro di questi tempi - saranno radicalmente migliorate. Non certo nel senso che ci sia dietro l’angolo una vittoria certa ma nel senso che c’è ancora una partita da giocare e che, se si vince questa partita, si rimane in Serie A.

La stretta finale per il possibile accordo Fiat-Chrysler avviene mentre altre grandi imprese italiane si proiettano su un orizzonte mondiale. Sarà stata una sorpresa per molti scoprire tra le notizie di questi giorni che le Generali sono il primo assicuratore in Cina, mentre Eni, Enel e Finmeccanica intessono una fitta rete di accordi mondiali e molte imprese medie stanno percorrendo il medesimo cammino. Siamo di fronte a un rivolgimento imprevisto nella grande «battaglia industriale» che ha fatto seguito al tramonto del primato indiscusso degli Stati Uniti e all’apertura di un nuovo fronte in cui molti Paesi, Stati Uniti compresi, si trovano a cercare di trovare nuovi equilibri. Tutto ciò sta proiettando improvvisamente sulla linea del fuoco, con un’arma carica in mano, chi sembrava destinato a rimanere nelle retrovie.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 24, 2009, 10:35:46 am »

24/4/2009

Vestiremo alla cinese
   
MARIO DEAGLIO


Dietro le cifre delle previsioni aride e molto imprecise delle previsioni economiche globali per il 2009 si cela, dal lato dell’offerta, un rapidissimo cambiamento del peso e del potere economico dei grandi Paesi e un profondo ridisegno del quadro produttivo del mondo. Dal lato della domanda, si delinea invece un cambiamento di capacità e modelli di spesa, di priorità, di gusti individuali e familiari.

Se anche la crisi passerà abbastanza rapidamente, ossia nel giro di 4-6 trimestri - come viene ufficialmente sostenuto, sia pure con una convinzione sempre minore - questi mutamenti della domanda sono destinati a diventare permanenti. Si ripercuoteranno sul modo di consumare di 2-3 miliardi di abitanti di Paesi poveri che diventeranno un po’ meno poveri nonostante la crisi, e degli abitanti dei Paesi ricchi che potrebbero diventare un po’ meno ricchi.

I gusti e le capacità di spesa della famiglia Smith, della famiglia Dupont o della famiglia Bianchi, oggi alle prese con una crescente precarietà di reddito, stanno diventando meno importanti dei gusti e delle capacità di spesa delle (molto più numerose) famiglie Hu, Singh o dos Santos le quali, pur partendo da livelli bassissimi, hanno alle spalle ormai diversi decenni di allargamento di orizzonti e di crescita dei redditi, e un futuro in cui probabilmente tale tendenza sarà destinata a continuare, sia pure a un ritmo un po’ inferiore a quello del recente passato. Per conseguenza, mentre il numero dei giovani cinesi, indiani e brasiliani che andranno all’università è destinato ad aumentare, il numero dei giovani americani che si recheranno al college si ridurrà in quanto l’istruzione superiore negli Stati Uniti non è gratuita e molte famiglie, prive delle risorse finanziarie necessarie, non possono più ricorrere all’indebitamento. Contemporaneamente continuerà a crescere il numero di abitanti dei Paesi emergenti che possono permettersi cure mediche avanzate; negli Stati Uniti, in attesa che la riforma sanitaria proposta dal presidente Obama possa essere attuata, saranno sempre più numerosi gli americani non più in grado di pagare l’assicurazione sanitaria. E noi europei dovremo tenerci ben stretto l’«ombrello assistenziale» che ci ripara - a un costo molto elevato per le finanze pubbliche - dai costi della nostra salute e che ha già subito parecchie limature.

Se vorranno sopravvivere e prosperare, le imprese, grandi e piccole, che producono i beni di consumo per un mercato mondiale, dovranno adattarsi a questa domanda diversa; e l’innovazione di prodotto proverrà sempre più da direzioni insolite. L’auto meno cara al mondo è stata recentemente presentata da un’impresa indiana e negli Stati Uniti si guarda con un interesse che un tempo sarebbe stato del tutto inusuale alla Cinquecento e ai motori europei a basso consumo di carburante. Nei ristoranti fast food del mondo emergente sono presenti più piatti a base di cereali che hamburger. L’ondata di impopolarità nei confronti delle categorie manageriali potrebbe rapidamente trasferirsi in impopolarità dei consumi vistosi con cui queste categorie spesso si sono identificate in Occidente. Anche se ancora non si intravedono chiaramente le alternative, il tramonto del «modello americano» di consumo potrebbe essere il risultato più duraturo dell’attuale crisi.

L’illusione, diffusa soprattutto tra gli operatori finanziari, che la crisi sia un fastidioso intermezzo, destinato a diventare tra breve un ricordo di cui liberarsi rapidamente per riprendere i giochi e i comportamenti di prima è, appunto, un’illusione: quando l’economia mondiale tornerà a una crescita sostenuta e uniforme, non solo la geografica produttiva e la mappa del potere economico mondiale saranno radicalmente diverse ma anche le priorità personali e i parametri del gusto saranno mutati e risentiranno assai più di oggi di una componente asiatica, o talora russa, latino-americana o islamica. Già oggi, come aveva osservato lo storico e politologo americano Samuel Huntington, è solo la nostra miopia che ci fa definire «globali» prodotti che sono più semplicemente «occidentali». È inevitabile quindi che i nuovi prodotti globali vengano configurati in maniera crescente secondo gusti asiatici e per questo sono frequenti i casi di grandi società che lanciano le loro novità sul mercato cinese e localizzano in Cina o in India centri di design, stile e ricerca. Questa mutazione qualitativa indica abbastanza chiaramente la direzione verso la quale deve muoversi l’industria italiana. Uno dei suoi punti di forza è, da sempre, la rapidità con la quale sa adattare i propri prodotti al mutare delle condizioni esterne; quando lo shock petrolifero del 1974-75 mise nelle mani degli «sceicchi» un inusitato potere d’acquisto, i mobilieri della Brianza prepararono velocemente nuovi prodotti di gusto arabeggiante; lo stile dei gioielli italiani già oggi riflette fortemente il gusto di compratori extraeuropei.

La maggiore reattività, la capacità di interpretare culture e gusti diversi, la flessibilità produttiva sono le armi migliori con cui le imprese italiane possono combattere la crisi attuale. Non bastano, infatti, i pur necessari sostegni finanziari e gli sgravi fiscali che le imprese chiedono al governo. Una sfida analoga a quella attuale, e cioè trovare prodotti nuovi per un mondo nuovo, fu vinta dall’Italia del dopoguerra che propose al mondo lo scooter, una forma nuova di motorizzazione di massa, le macchine per scrivere portatili, il cioccolato a basso costo, i frigoriferi piccoli che entravano anche nelle case dei poveri e tante altre cose ancora. Per sopravvivere e prosperare, le imprese italiane devono svolgere la medesima funzione storica per il mondo che uscirà dalla crisi attuale.

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« Risposta #33 inserito:: Aprile 28, 2009, 05:54:44 pm »

28/4/2009
 
Il contagio può colpire l'economia
 
MARIO DEAGLIO
 
La febbre suina non rappresenta solo una grave emergenza sanitaria; si tratta di un evento totalmente imprevisto, un «fattore S» (dove S può stare per «suini», «sanità» e «sorpresa») comparso d’improvviso con il quale occorre fare i conti, oltre che sotto il profilo medico anche sotto quello delle già incerte prospettive di ripresa economica mondiale. Lo si è visto nella giornata di ieri quando le prime notizie sulla febbre suina hanno immediatamente determinato su tutte le Borse del mondo forti perdite per i titoli legati ai viaggi e al turismo mentre le quotazioni delle imprese farmaceutiche, soprattutto quelle che producono vaccini, sono fortemente salite, una reazione cinica ma purtroppo realistica dei mercati tesi a individuare subito chi guadagna e chi perde di fronte a una situazione nuova.

Crisi sanitaria e crisi finanziaria hanno molti aspetti in comune.

Il primo è appunto la mancanza di un rimedio già pronto: niente vaccini contro la febbre, nessuna ricetta valida per bloccare i danni legati all’insuccesso dei mutui subprime. Il secondo è la rapida mutazione della causa iniziale: ci hanno già informati che il vero pericolo, tutto sommato, non è il virus suino nella sua forma attuale ma la elevata probabilità di mutazioni più gravi e aggressive. Partendo dal solo settore delle abitazioni «povere» degli Stati Uniti, il virus finanziario dei mutui subprime ha subito in due anni diverse mutazioni, estendendosi all’intera edilizia abitativa di quel Paese; di lì si è insinuato nei bilanci delle banche che avevano prestato soldi su garanzie immobiliari e ha provocato enormi perdite contabili e indotto negli operatori finanziari il sospetto reciproco. Si è così arrivati nella primavera-autunno del 2008 a una vera e propria paralisi del mercato interbancario con la necessità di imponenti interventi pubblici; e infine il virus ha superato, con una violenza e una rapidità vista poche altre volte nella storia, la barriera che lo separava dall’economia reale, determinando le attuali, massicce cadute produttive e occupazionali.

Di fronte a questa incredibile avanzata, i regolatori dell’economia non hanno saputo bene che cosa fare e hanno ripetutamente, nel corso del 2007 e del 2008, trasmesso messaggi di fiducia, come se i problemi fossero in via di soluzione, che si sono rivelati gravemente errati. Auguriamoci che i responsabili della sanità mondiale riescano a prendere in mano la situazione, dal momento che dispongono di procedure consolidate e hanno esperienza di altre crisi simili, come quella, tutto sommato assai ben gestita, dell’influenza aviaria. Sul loro successo, l’informazione giocherà un ruolo importante e difficile: come per le vicende delle Borse, anche per le epidemie tra l’informazione corretta e l’allarmismo la distinzione può essere molto tenue.

Al livello sanitario mondiale le procedure sono consolidate alla luce di precedenti epidemie e pandemie, ma differenze apparentemente piccole nell’atteggiamento concreto dei singoli governi possono provocare pesanti ripercussioni. Il presidente Obama ha tenuto a dichiarare ieri che la febbre suina è «motivo di preoccupazione» e non già «motivo di allarme», una distinzione che può sembrare speciosa; ha però ricordato di aver dichiarato uno «stato di emergenza» relativo alla salute pubblica, sia pure a titolo precauzionale. Sembra un giocare con le parole non troppo dissimile da quello del suo predecessore che si rifiutava di usare la temutissima parola «recessione» e preferiva il meno allarmistico «inversione di tendenza» (downturn).

Da oltre Atlantico arriva quindi una cautissima tendenza a ridimensionare, ma da Bruxelles la cipriota Androulla Vassiliou, commissario europeo alla Sanità, non ha fatto tanti complimenti e ha consigliato agli europei di evitare qualunque viaggio non essenziale negli Stati Uniti e in Messico, un invito di gravità eccezionale che lascerebbe supporre la presenza di elementi di preoccupazione non ancora resi pubblici. Da Bruxelles si è poi ristretto il consiglio alle aree in cui si sono registrati casi del morbo, che comprendono però la città di New York, dove in un liceo almeno otto studenti sono risultati infetti. Un alto funzionario della Sanità americana ha però definito «ingiustificato» questo consiglio dato agli europei.

Dietro a queste differenze di opinioni c’è forse il maggior grado di preparazione della sanità pubblica europea, con un’ampia serie di reti di sicurezza mentre questo settore non ha certo rappresentato in anni recenti una priorità per gli Stati Uniti, dove non solo si è sostanzialmente abolita l’obbligatorietà dei vaccini, ma si è giunti, in taluni casi, a negarne la gratuità agli immigrati irregolari e ai loro figli in nome del mercato, della libertà e della responsabilità individuale. Nella vecchia Europa, il mercato fortunatamente non è giunto a simili estremi e l’«ombrello» pubblico dovrebbe risultare più efficiente.

In definitiva, in un mondo in cui si pretende giustamente la «trasparenza finanziaria» ci starebbe bene anche un poco di «trasparenza sanitaria»; il cittadino ha l’impressione che, nella sanità come nella finanza, qualcosa gli possa essere celato. E non è con le reticenze che si esce dalle crisi né di un tipo né dell’altro

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« Risposta #34 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:30:19 pm »

1/5/2009
 
La rivincita del lavoro italiano
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
E’ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.

Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.

E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.

Il tutto avverrà - dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale - in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.

Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.

In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.

Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse.

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« Risposta #35 inserito:: Maggio 06, 2009, 06:00:13 pm »

6/5/2009
 
La nuova impresa dei nostri tempi
 
 
MARIO DEAGLIO
 
I tempi dell’economia sono talora vorticosi. Non è ancora asciutto l’inchiostro sull’accordo Fiat-Chrysler che già si prospetta una «partita» Fiat-Opel, secondo tempo della possibile costruzione della prima impresa industriale a carattere globale del XXI secolo. Se nel caso Fiat-Chrysler le sinergie erano ovvie, legate alla sostanziale estraneità di un partecipante all’altro per quanto riguarda sia i modelli sia i mercati, nella seconda sono assai più complesse sia perché i partecipanti operano sullo stesso mercato sia perché gli interessi in gioco sono più vari e più intensi. Essi presentano quattro diverse dimensioni in quanto riguardano il lato tecnico e quello sindacale, la posizione dei governi e quella della proprietà.

Dal lato tecnico occorre notare che gran parte dei modelli attuali di Fiat e di Opel hanno la loro origine nel periodo di stretta collaborazione tra Fiat e General Motors che di Opel era ed è proprietaria (ancora per poco, vista la sua situazione fallimentare e la sua necessità di disfarsi comunque del ramo europeo). Tanto per fare un esempio tra molti, la Fiat Punto e la Opel Corsa hanno lo stesso pianale e il medesimo motore nella versione diesel. Questo implica che, nel breve-medio periodo, una collaborazione organica tra le due aziende possa comportare sensibili economie di scala che si potrebbero tradurre in riduzioni altrettanto sensibili dei prezzi di vendita; in periodi più lunghi da qui e dalle sinergie con Chrysler può nascere la prima auto veramente mondiale.

È verosimilmente questo il «Paradiso tecnologico» evocato da Marchionne. Per arrivarci bisogna però passare attraverso una fase di transizione, un Purgatorio, nel quale, presumendo stabilità sostanziale nelle quote di mercato e domanda statica in Europa, l’attuazione delle sinergie implica che ci si trovi di fronte a una parola che non si vorrebbe mai sentir pronunciare: la parola «esuberi». Precisamente questo Purgatorio chiama in causa i governi, in primo luogo quello tedesco ma anche quelli inglese e svedese che questa transizione dovranno in qualche modo finanziare; e li chiama in causa con urgenza, sia che la proposta della Fiat venga accettata sia che venga respinta. Il più che probabile fallimento di General Motors, proprietaria di Opel, oltre che dell’inglese Vauxhall e della svedese Saab, fa sì che queste tre aziende debbano essere vendute molto rapidamente (o addirittura chiuse se non si trovasse un’impresa che se ne assuma il carico) anche se la situazione è scomoda per scadenze elettorali relativamente prossime in Germania e in Gran Bretagna. Che si accetti o no l’offerta Fiat o quella di altri possibili concorrenti, un esborso consistente di denaro pubblico in questi Paesi appare inevitabile, oltre che doveroso, per evitare pesanti conseguenze economico-sociali e nell’ottica di un ritorno all’economicità in tempi brevi.

Naturalmente non bastano i soldi dei governi, occorre anche la collaborazione sindacale in Paesi in cui il sindacato stesso ha una vasta e strutturale presenza sociale ed economica e una parallela influenza sulla politica. Ai lavoratori attuali delle aziende interessate non può non essere fornita ogni possibile garanzia nel caso in cui la ristrutturazione degli impianti li lasci, temporaneamente o definitivamente, senza lavoro. L’obiettivo condiviso dovrebbe comunque essere quello di raggiungere - in un futuro non immediato ma neanche molto lontano - un livello di occupazione almeno pari a quello attuale, in presenza di un prodotto innovativo e meno caro in grado di generare una forte corrente di acquisti nel quadro di un rinnovamento sostanziale dell’auto. Tale livello non va calcolato per quanto riguarda i grandi stabilimenti ma, più in generale, per l’occupazione del settore, senza trascurare - come ha ricordato ieri Luciano Gallino su la Repubblica - le conseguenze sull’indotto, il cui numero di occupati è prevalente rispetto ai dipendenti diretti delle case automobilistiche. La partnership sindacale nella scommessa può implicare la presenza del sindacato negli organi di governance e forse, come è previsto per Chrysler, nel capitale della nuova impresa. Si tratterebbe quindi di una presenza attiva, di una condivisione di rischi in un mondo comunque rischioso anche al di là della formale e un po’ ossificata presenza sindacale nei consigli di amministrazione delle società tedesche.

Il problema del consiglio di amministrazione sposta l’attenzione sulla proprietà di questa nuova impresa e sul possibile scorporo di Fiat-Auto che diventerebbe Fiat-Opel-(Chrysler) ed è questa la quarta dimensione del caso Fiat-Opel. Sulla falsariga di quanto si è verificato nel caso Fiat-Chrysler ci si potrebbe trovare in presenza di una diluizione dei gruppi proprietari nonché di ingressi, più o meno permanenti, accanto al mercato, di capitale pubblico e del sindacato. Sembra confusamente prender forma un nuovo tipo di capitalismo imprenditoriale, erede di quello famigliare italiano tradizionale e di quello «renano», con grande importanza del mercato ma senza l’esclusione di altri interessi.

Il «Paradiso tecnologico» di Marchionne implica, in definitiva, una molteplice scommessa innovativa che va al di là delle tecnologie e comprende innovazioni - naturalmente ancora tutte da mettere a punto nella loro specificità - nel coinvolgimento pubblico, in quello sindacale e in quello dei governi. Per progettare e vendere con successo un nuovo tipo di auto, ci vuole, insomma, un nuovo tipo di impresa, con un nuovo tipo di rapporto con la società. È questa la sintesi della scommessa che di fatto si trova sul tavolo non solo del governo tedesco ma anche di tutta l’Europa. L’Europa vanta spesso la sua capacità di forgiare nuove idee e nuove istituzioni, e non solo nuovi prodotti; ora ha la possibilità, e forse il dovere, nell’ambito di una nuova economia globale, di non replicare il passato.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 14, 2009, 12:02:36 pm »

14/5/2009
 
La vittoria di Roma
 
MARIO DEAGLIO
 

Gli ultimi dubbi sono caduti. I lombardi che vorranno andare in America e in Cina non potranno più partire dal loro «aeroporto di casa».

E anche per recarsi in molte destinazioni europee dovranno «cambiare» a Fiumicino, o, se preferiscono, a Francoforte, Parigi, Londra. Come fanno da anni i piemontesi, i liguri, i veneti, gli emiliani che hanno visto tagliare i collegamenti in partenza dai loro scali aerei verso molte destinazioni importanti.

Optando per Fiumicino, l’Alitalia (e possiamo dire l’Italia, perché sarebbe difficile pensare che una decisione simile non sia stata presa senza un previo assenso governativo di massima) ha comunque compiuto una scelta difficilissima. Si trattava di individuare il male minore, in termini di conto economico e di perdita di traffico, un percorso obbligato dal punto di vista economico ma sicuramente non scontato dal punto di vista politico: quella di presentarsi sullo scenario del trasporto aereo mondiale con un unico grande hub, ossia aeroporto centrale di riferimento. Due hub, Malpensa e Fiumicino, l’Alitalia non se li poteva proprio permettere, come non se li può permettere nessun’altra compagnia delle sue dimensioni e la scelta è stata, tutto sommato, logica: si è optato per lo scalo più grande, anche se così si perderanno molti passeggeri (che comunque fino ad ora sono quasi sempre stati trasportati in perdita).

Il messaggio va però molto al di là delle logiche aziendali. L’Italia ha superato una paralisi decisionale che l’ha fermata per molti anni e ha ribadito di voler giocare sullo scacchiere dei trasporti internazionali come sistema economico organicamente unito e non con sottosistemi semiautonomi che difficilmente possono raggiungere l’economicità. La centralità della Pianura Padana nell’ambito euro-mediterraneo, da molti sostenuta con argomenti non banali, fa un passo indietro: Roma sta legando a sé Milano anche con la linea ferroviaria ad alta velocità e ribadisce così il proprio ruolo centrale.

In questo decisionismo, Roma si è rivelata piuttosto «milanese» mentre Milano si è scoperta «romana». Nel corso degli ultimi mesi, infatti, Roma si è, nel complesso, dimostrata «imprenditoriale», i poteri locali si sono evidentemente dati da fare perché si arrivasse alla decisione annunciata ieri da Alitalia, e in questo senso va interpretato anche l’accordo parallelo di Alitalia con Aeroporti di Roma. Milano, al contrario, ha sostanzialmente atteso gli eventi; forse ha sperato che i ministri lombardi dessero una mano o che la Lega ponesse dietro Malpensa il suo considerevole peso politico, facendo della sua valorizzazione un elemento di irrinunciabilità.

Probabilmente, però, la Lega ha orizzonti diversi. Per Milano ci sono i fondi Expo, più in generale sul piatto c’è il decreto sicurezza con il suo tempestoso passaggio parlamentare, e dietro l’angolo il federalismo. Non occorre essere degli incalliti dietrologi per immaginare la possibilità e la ragionevolezza, dal punto di vista degli strateghi del partito di Bossi, di uno scambio politico, anche se tale scambio non risulterà molto gradito ai numerosi elettori del Carroccio che vivono in provincia di Varese e che comunque vedono prossima l’istituzione delle «ronde» di cui hanno fatto una priorità. Non si può in ogni caso non provare un certo senso di delusione per non aver visto maggiori energie di imprenditori settentrionali dedicate al tentativo di creare una credibile compagnia aerea incentrata su Malpensa - come sembra voler fare Lufthansa con la consociata Lufthansa Italia - mentre proprio Alitalia ha ricevuto dal Nord un consistente apporto di capitale.

La sconfitta di Malpensa, per molti versi prevista, rilancia la possibilità che l’Italia Settentrionale provi ad organizzarsi con una rete di piccoli e medi aeroporti, il che ridimensionerebbe ulteriormente lo scalo milanese; e sicuramente lascia l’amaro in bocca a molti di coloro che fecero fallire l’offerta di Air France che, a suo tempo, con l’appoggio del governo Prodi, avrebbe probabilmente garantito a Malpensa un futuro meno incerto di quello che deve affrontare oggi.

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« Risposta #37 inserito:: Maggio 18, 2009, 04:56:08 pm »

18/5/2009
 
La rabbia e la favola
 

 
MARIO DEAGLIO
 
Un declino annunciato: la scivolata dei salari medi italiani è un’ulteriore conferma del lento affondare della nostra economia, poco presente nei settori avanzati, dall’elevata produttività che consente alti salari, soffocata da una tassazione molto pesante, peraltro necessaria per far fronte all’elevato debito pubblico e da contributi sociali da record, indispensabili per pagare le pensioni a un Paese sempre più composto da vecchi. Questa situazione difficile si colloca su un contesto di tensioni e sfilacciamento sociale messo in luce dalle notizie degli ultimi due giorni.

Sabato a Torino, di fronte alla storica palazzina del Lingotto, il segretario generale della Fiom veniva tirato giù dal palco da militanti dello Slai Cobas davanti a 15 mila operai - i quali, in tempi non lontani, avrebbero reagito vigorosamente - preoccupati per il loro posto di lavoro; poche ore più tardi, nella stessa Torino e nella centralissima e ancora più storica piazza San Carlo, una folla stimata in almeno tre volte tanto si accalcava a un «evento» di Mediaset realizzato per illustrare la nuova televisione digitale incentrata sul programma «Amici», una competizione in grado di aprire ai vincitori le porte del successo televisivo.

Sempre nella stessa piazza, nella giornata di ieri coloro che aspiravano a partecipare alla trasmissione «Grande Fratello» (anch’essa considerata una scorciatoia a fama, celebrità e successo mediatico) formavano una coda lunga circa mezzo chilometro.

Le vicende parallele e apparentemente diversissime del Lingotto e di piazza San Carlo rappresentano due facce della stessa moneta: si tratta di due risposte, irrazionali e prive di progettualità, a una crisi che, se raggiunge le sue punte più visibili nell’economia reale e nella finanza, si configura ogni giorno di più come crisi di valori e di sistema e contro la quale i rimedi razionali si sono sinora dimostrati inadeguati o insufficienti. Non si tratta, del resto, di un fenomeno soltanto italiano, anche se i dati salariali sull’Italia mostrano che proprio da noi raggiunge punte molto elevate.

Di fronte alle prospettive sempre più incerte e alle minacce sempre più concrete di perdere il lavoro, in tutto l’Occidente le due risposte estreme sono quelle di un ricorso alla violenza e di un ricorso alla fortuna che porti un successo improvviso o, quanto meno, all’evasione in un mondo di favola, lontano dalle asprezze e dalle incertezze della vita di tutti i giorni. C’è chi reagisce cercando di buttar giù tutto con una spallata, magari anche il palco di una manifestazione sindacale, e chi cerca di reagire con una risata, che spesso suona un po’ innaturale, a un evento televisivo o cerca l’onda della fortuna grazie a questo evento.

In Francia, la protesta assume le forme, ormai note, del «sequestro dei manager»; ad Atene quelle della rottura delle vetrine dei negozi di lusso. Nello stesso giorno del Lingotto, a Berlino sono sfilati centomila manifestanti con striscioni su cui era scritto «Sozial statt Kapital!», ossia «Il sociale al posto del capitale!», un’evidente impossibilità economica ma un buon termometro delle istanze di chi vede a rischio non solo il proprio posto di lavoro ma anche il proprio modello di vita. Parallelamente cresce la popolarità di programmi che assicurano ai partecipanti notorietà e redditi elevati e continua la fortuna, anche su Internet, di chi costruisce mondi artificiali in cui evadere di fronte a una realtà che non si riesce più a sopportare.

Coloro che cercano soluzioni efficaci di tipo razionale a una situazione economico-sociale che sembra scivolare fuori di ogni controllo devono tener conto di questi bisogni profondi, di quest’insoddisfazione radicale; non basta controllare i deficit pubblici, risanare i tessuti malati dell’economia, sfornare ricette teoriche di rilancio. Dai dati dell’Ocse si ricava che è indispensabile, ma non sufficiente, far sì che questo Paese sia in grado di pagare salari più elevati grazie ad attività più produttive. L’insoddisfazione, però, in Italia, ha radici più profonde e, se non se ne tiene conto, i rimedi dei tecnici paiono destinati al fallimento; ci vorrebbe una grande visione politica che, per il momento, proprio non si profila all’orizzonte non solo in Italia ma neppure nel resto del mondo (dopo la «fiammata» iniziale di Obama, ormai largamente esauritasi, come spiegava su queste colonne qualche giorno fa Enzo Bettiza) e una massa di persone incerte che si sentono trascurate dall’economia e ignorate dalla politica. E potrebbero risultare sempre più inclini a travolgere i palchi delle manifestazione serie e ad accalcarsi attorno a quelle che promettono facili evasioni.

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« Risposta #38 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:19:52 am »

25/5/2009
 
Il gatto è fuggito dal sacco
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Il possibile declassamento del debito pubblico britannico pesa come un macigno sulle incerte prospettive della finanza mondiale nella settimana che si apre oggi. Le prime notizie sono circolate giovedì e hanno subito bloccato la timidissima ripresa delle Borse mondiali, fatto scendere la sterlina (che però ha recuperato) e soprattutto il dollaro (che non ha recuperato) e provocato un rialzo nel prezzo dell’oro.

Certo, il debito a carico del governo di Londra non è al livello spazzatura, ma l’indebolimento della sua valutazione è altamente significativo sia dal punto di vista simbolico, sia in una prospettiva pratica. Dal punto di vista simbolico non si può non ricordare che, per il Paese di Margaret Thatcher, patria del liberismo moderno, l’azzeramento del deficit di bilancio e la forte riduzione del debito hanno rappresentato la sconfitta, che si credeva definitiva, dello statalismo. Ora, invece, a essere sconfitta è l’economia di mercato che andrà tutta ripensata per poter davvero significare qualcosa in questo turbolento XXI secolo.

In una prospettiva pratica, va osservato che, per un lungo periodo, il governo inglese aveva contratto prestiti netti assai bassi e addirittura dal 1998 al 2001 aveva operato una restituzione netta di parte del debito.

Poi è cominciata la pressione della spesa, per bisogni sociali trascurati, ai quali si è aggiunta la necessità di utilizzare denaro pubblico per salvare/nazionalizzare quasi tutte le più importanti banche del Paese. Nel 2008-09 il deficit britannico è stato pari al 6 per cento del prodotto interno lordo e nel 2009-10 dovrebbe risultare del 12 per cento, ossia circa 3 volte quello previsto per l’Italia, frutto di quella che The Economist ha definito «la Finanziaria della disperazione» approvata un mese fa. Nel 2013 il debito pubblico britannico dovrebbe raggiungere livelli «italiani» e collocarsi al 100 per 100 del prodotto lordo.

Sono cifre di eccezionale gravità perché anche altri governi, e in particolare quello degli Stati Uniti, stanno perseguendo la strada dell’indebitamento a tappeto. Tra gli altri, Germania, Francia e Spagna (e probabilmente il Giappone) contano di fare ampio ricorso al mercato. Per conseguenza, una valanga di titoli pubblici è destinata a rovesciarsi sui mercati internazionali alla ricerca di compratori; non è detto che le banche centrali di Cina, Giappone e Corea del Sud, tradizionali acquirenti di questi titoli, riescano, e vogliano, farvi fronte perché l’attivo delle loro bilance commerciali è fortemente diminuito.

Nelle scorse settimane negli Stati Uniti si è proceduto a fare lo «stress test», una simulazione delle possibilità di tenuta finanziaria in condizioni estreme di mercato, alle principali banche. Occorrerebbe fare un analogo «stress test» al mercato finanziario mondiale, per verificare le sue possibilità di reggere alla prevedibile ondata di domanda; servirebbe, naturalmente, un’organizzazione internazionale che non esiste e che dovrebbe essere dotata di vasti poteri d’indagine. Si tratta di un argomento appropriato per l’ormai imminente riunione del G8.

Per convincere il resto del mercato all’acquisto sarà probabilmente necessario alzare l’attuale, bassissimo livello dei tassi di interesse. Un rialzo dei tassi, tuttavia, accentuerebbe le difficoltà dell’economia reale, il che rinvierebbe ancora la sospirata ripresa, annunciata con insistenza nelle ultime settimane ma sulla quale pesano fortissimi dubbi. E questo perché il panorama dell’economia reale sembrava essersi schiarito dopo il G20 tenutosi a Londra ai primi d’aprile, anche a seguito di una lunga serie di dichiarazioni rassicuranti dei responsabili dell’economia dei maggiori Paesi, forse concordate a quel vertice. I dati sull’andamento del primo trimestre si sono invece rivelati disastrosi con cali produttivi impressionanti come quello del Giappone (-15 per cento rispetto al primo trimestre del 2008), o comunque molto gravi come quelli degli Stati Uniti e dei maggiori Paesi europei.

C’è quindi da domandarsi se i responsabili delle maggiori economie del pianeta abbiano davvero il polso della situazione o non siano essi stessi spiazzati da una crisi che presenta modalità di propagazione e di espansione almeno in parte nuove. Un ulteriore interrogativo è se continuare a dar credito a «proiezioni» degli andamenti futuri dell’economia, formulate a livello internazionale e nazionale, che vengono regolarmente superate dagli avvenimenti.

A complicare ancor più la situazione contribuisce il prezzo del petrolio. I produttori sono apparentemente riusciti a coordinare le limitazioni della propria offerta e il prezzo è cominciato a salire, nonostante la domanda sia bassa perché molte fabbriche sono chiuse o non lavorano a pieno regime. L’aumento del prezzo rischia di introdurre un ulteriore elemento inflattivo in un quadro economico sufficientemente perturbato. In altre parole, si pensava - parafrasando una nota espressione inglese - che i governi fossero riusciti a «mettere nel sacco» il gatto della crisi. Questo gatto, però, è sfuggito ancora una volta, e più che un ottimismo di maniera serve un rinnovato impegno a cercare un modo appropriato per catturarlo.

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« Risposta #39 inserito:: Giugno 02, 2009, 11:34:56 am »

Dopo Gm il capitalismo non sarà più lo stesso
 
MARIO DEAGLIO
 
Dopo il fallimento della General Motors, gli Stati Uniti non saranno più gli stessi. E forse il capitalismo non sarà più lo stesso. In 77 dei suoi 101 anni di vita, questo colosso dell’industria è stato il maggior produttore di auto al mondo, al tempo stesso pilastro e simbolo del benessere americano, al punto che, negli Anni 50, il suo presidente di allora, Charles Wilson, divenuto ministro della Difesa, candidamente affermò che gli interessi dell’America coincidevano perfettamente con quelli della sua maggiore industria automobilistica.

La General Motors è stata affondata precisamente da questa sua convinzione di essere indispensabile, insostituibile e comunque centrale, punto di riferimento fisso in un mondo e in un’industria che stavano invece mutando rapidamente. La sua storia degli ultimi trent’anni è una lunga sequela di errori strategici, di problemi individuati correttamente e di soluzioni che hanno mancato il segno, di strategie mal eseguite, della difficoltà dei grandi e potenti di autocriticarsi, della facilità a cadere in una forma di arroganza.

Le pensioni come i salari: l’accordo insostenibile
Il colosso di Detroit comprese il carattere profondamente innovativo del modo di produzione giapponese che stava rivoluzionando il settore dell’auto ma non riuscì ad assimilarlo, limitandosi quasi sempre a un’imitazione superficiale: un tipico errore nelle prime fasi della «rincorsa» ai costruttori nipponici, pionieri nell’uso dei robots, fu di mettere troppi robots sulle linee di montaggio creando confusioni e ritardi. Sovente eccellente nella ricerca, non riuscì a trasferire pienamente alle sue consociate americane le innovazioni tecnologiche introdotte sulle auto che produceva in Europa e il suo innovativo «progetto Saturno» non ha mai prodotto auto di grande diffusione. La General Motors è anche esempio e simbolo di altri due più generali fallimenti americani. Il primo riguarda il lavoro: il sindacato americano dell’auto, che colse negli stabilimenti di Detroit i suoi successi maggiori, è rimasto impotente e, tutto sommato, indifferente di fronte al chiarissimo declino degli ultimi trent’anni, preoccupato solo di conservare un accordo, in realtà insostenibile, che garantiva ai suoi membri in pensione aumenti di reddito commisurati agli aumenti dei salari, una formula pesantissima che ha contribuito fortemente al tracollo finanziario.

Il secondo fallimento riguarda il capitale e, più in generale, i meccanismi di governo delle grandi società: la General Motors, infatti, rappresenta uno degli esempi più chiari di frammentazione della proprietà, tipica del modello delle public companies. Con azioni diffusissime, nessun azionista contava molto; il titolo d’altra parte non contava molto nel patrimonio dei risparmiatori e dei fondi di investimento; per conseguenza, il potere si è concentrato nelle mani di un’élite manageriale che non temeva l’opposizione nelle assemblee e di fatto non rispondeva a nessuno.

Ciò che era bene per la General Motors non era forse necessariamente bene per l’America, ma ciò che oggi è male per la General Motors è sicuramente una grossa e difficile sfida che l’America non può vincere guardando semplicemente a parametri finanziari e a un rinnovamento strategico e tecnologico. E non è solo l’America che deve meditare su quello che sta succedendo a Detroit: si comincia oscuramente a comprendere che la società che sta uscendo da Internet non vuole adattarsi all’auto e che sarà l’auto a doversi adattare alla società di Internet.

Sull’America l’onda d’urto del colosso che affonda
Nei paesi ricchi, l’automobile non è più come una volta un simbolo di status sociale, per cui il tipo di auto che hai individua abbastanza esattamente quale è la tua professione e quale è il tuo reddito; l’auto è sempre più spesso intesa come un anonimo e sostituibile cavallo da tiro che deve costare il meno possibile, risultando per giunta assolutamente sicuro ed ecologico, e al quale non ci si affeziona più di tanto. E i colossi dell’auto non saranno più imperi industriali dai confini rigidamente determinati e ordinati gerarchicamente, ma potranno assomigliare a coalizioni flessibili, spesso legate a singoli progetti, attorno a nuclei centrali di eccellenza tecnologica e organizzativa.

Al di là di questi effetti di lungo periodo, l’onda d’urto della General Motors che affonda non potrà non lasciare la sua impronta negativa sulla già difficile congiuntura americana. Pur nella sua attuale fase terminale, la società di Detroit (che è scesa in America a una quota di mercato inferiore al 20%, invece del suo tradizionale 40-50%) conta più di 250 mila dipendenti e nel 2008 ha prodotto 8 milioni di autoveicoli con 14 marchi diversi in otto Paesi, totalizzando un fatturato di quasi 150 miliardi di dollari; al suo fondo pensioni sono iscritte quasi mezzo milione di persone che dipendono da General Motors non solo per il loro reddito mensile ma anche per l’assistenza sanitaria. Nel 2008 ciò che ha venduto a 100 le è costato 120.

La chiusura di ulteriori impianti e un difficile periodo post-fallimentare si riverberano su quasi ogni comparto dell’economia americana. Per la rinascita di quest’economia, alla quale tutto il mondo guarda con attenzione e con ansia, occorre partire - e non solo con formule finanziarie - con un progetto di industria, economia e società. Di un simile progetto per ora non si vedono molti segnali.

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« Risposta #40 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:32:43 pm »

6/6/2009
 
Statistiche per la fiducia perduta
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Fino a tempi recentissimi nessun presidente del Consiglio si sarebbe permesso di contestare le informazioni statistico-economiche fornite dal governatore della Banca Centrale.

E di affermare che non corrispondono alla «conoscenza della realtà» del presidente stesso e che quindi implicitamente sono errate. Il dato statistico prodotto da fonti ufficiali era sacro, super partes, indiscutibile; e un contrasto istituzionale sui dati, o sulle elaborazioni di questi dati, sarebbe stato impensabile.

Tra i tanti segnali dell’imbarbarimento in atto, uno dei più importanti e dei più trascurati riguarda le statistiche: da un lato sempre più difficili da produrre, dall’altro sempre più deformate e stiracchiate, sempre meno analizzate nel dettaglio. Si tratta di un fenomeno che investe tutta l’economia globale: basti pensare che la crisi attuale ha rivelato l'esistenza di enormi flussi finanziari pressoché sconosciuti alle autorità che dovrebbero controllarli.

Per restare in Italia, le organizzazioni dei consumatori rifiutano i dati dell’Istat sull’inflazione e, per qualche tempo, hanno perfino cercato di produrre indici dei prezzi alternativi; il numero delle famiglie in povertà viene variamente misurato da diverse fonti; ci sono controversie sul numero degli abitanti relative alla stima degli immigrati clandestini; e perfino il numero dei morti è da considerare in discussione, dal momento che, secondo una «leggenda metropolitana», gli immigrati cinesi ufficialmente non muoiono mai perché chi muore viene fatto sparire e il suo documento di identità viene utilizzato da qualcun altro.

Il fenomeno ha caratteristiche generali: sempre più spesso, quando una statistica non ci piace tendiamo a dire che non rispecchia la realtà. Per questo, la crisi può essere considerata dal presidente del Consiglio soprattutto come uno stato d’animo da curare con un’iniezione di ottimismo e dall’opposizione come un processo che sta spaccando la società italiana da curare con sostanziosi interventi economici.

La perdita della fiducia condivisa nell’imparzialità e nella credibilità delle statistiche ufficiali ci sta privando rapidamente di un bene pubblico molto prezioso. In una società basata sui numeri, l’indiscutibilità delle statistiche ufficiali è uno dei fondamenti dell’accordo sociale che deve tener assieme il Paese. Metterle in discussione genera una crescente barbarie statistica nella quale il «valore notizia» di un dato passa largamente davanti alla sua affidabilità statistica. Invece di essere analizzate, le statistiche vengono banalizzate e sacrificate sull’altare del sensazionalismo.

Le statistiche ufficiali sono la base della «realtà ufficiale»; e se un Paese non crede alla propria «realtà ufficiale», perde una parte importante di se stesso. Il suo conoscersi e riconoscersi, la sua stessa identità sono legati all’accettazione generalizzata delle statistiche nazionali e dei metodi di rilevazione. La perdita di questa dimensione della realtà è presente in misura minore anche in altri Paesi, ma il venir meno di quest’accettazione è uno degli aspetti più pericolosi dello sfilacciamento italiano.

In luogo dei dati ufficiali ci costruiamo statistiche alternative, «sondaggi» e «previsioni» alle quali chiediamo di rassicurarci di un futuro radioso dietro l’angolo. La conoscenza oggettiva della realtà difficile e complessa delle economie delle società attuali sfuma rapidamente ed è possibile per tutti, a cominciare dai politici, costruirsi un Paese immaginario, pur basato sui numeri. Il fatto è che, purtroppo, i politici devono governare un Paese reale, del quale conoscono sempre meno e sempre peggio le misure.

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« Risposta #41 inserito:: Giugno 16, 2009, 04:16:45 pm »

16/6/2009
 
La gelata sui sogni di ripresa
 
MARIO DEAGLIO
 
All’inizio d’aprile, la primavera dell’economia mondiale sembrava davvero sul punto di sbocciare. Dopo il G-20 di Londra, analisti e commentatori hanno frugato tra statistiche di ogni genere alla ricerca di germogli che lasciassero presagire il ritorno di un radioso futuro. Ministri e commentatori non si sono stancati di ripetere che ormai il peggio era passato e che la ripresa era dietro l’angolo, anzi era già arrivata. A Londra, i governi di venti Paesi avevano posto il loro sigillo sul salvataggio delle grandi banche americane e inglesi (oltre ad alcune tedesche e olandesi) da parte dei rispettivi governi, mettendole tranquillamente a carico, mediante aiuti pubblici di dimensioni mai viste, dei contribuenti del futuro. Perché quindi continuare a preoccuparsi? Tempo qualche mese, i germogli sarebbero fioriti.

Il salvataggio dei giganti bancari era forse un percorso inevitabile, se si accetta l’idea che alcune di queste banche erano troppo grandi per essere lasciate fallire, ma non altrettanto inevitabile era la conclusione che l’economia fosse pronta a ripartire, in quanto le banche salvate sono ora, nel migliore dei casi, convalescenti e fragilissime. Eppure le Borse di tutto il mondo si entusiasmarono all’idea e risalirono dai minimi; siccome partivano da livelli molto bassi, la salita sembrava molto alta.

L’indice Dow Jones, una sorta di «termometro» del capitalismo finanziario, era sceso a fine marzo a quota 6500; ai primi di giugno aveva recuperato circa 2000 punti, con una crescita di quasi il 30%; eppure restava sotto di quasi il 30% alla quota 12 mila alla quale si trovava un anno fa. Il prezzo del petrolio è tornato a crescere, spinto quasi esclusivamente da una domanda finanziaria di tipo speculativo.

Tutto questo sembra finito. Fin dai primi giorni di giugno, una serie di dati negativi provenienti dall’economia reale ha bruscamente gelato questa primavera finanziaria. E ieri le Borse europee hanno perduto pesantemente terreno; quella italiana è arretrata di oltre il 2,5%. L’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, disegna, giorno dopo giorno, il ritratto di un’Europa che non solo assomiglia sempre più agli Stati Uniti nella disoccupazione - con quasi due milioni di posti di lavoro perduti nei primi tre mesi di quest’anno - ma li batte ampiamente nella caduta produttiva.

Nel primo trimestre del 2009 il prodotto lordo dell’Unione risultava inferiore di quasi il 5% rispetto al primo trimestre del 2008 mentre la produzione industriale europea di aprile era inferiore di circa il 20% a quella dell’aprile 2008. Dall’altro lato dell’Atlantico, la finanza non è affatto tranquilla, con ampi segnali di nervosismo sul debito pubblico americano, dopo che la domanda internazionale di titoli del Tesoro americano da parte di Cina, Giappone e Russia si è nettamente ridotta, proprio mentre gli Stati Uniti si apprestano a chiedere somme enormi in prestito sul mercato finanziario mondiale.

Ancora una volta le istituzioni economiche hanno dato prova di non avere il polso delle economie che dovrebbero controllare e sono state costrette a una frettolosa marcia indietro rispetto ai loro precedenti accenni d’ottimismo. Il Fondo Monetario afferma che il peggio della crisi non è ancora superato e la ripresa americana diventerà «solida» solo di qui a un anno; il segretario al Tesoro americano, Geithner, come il suo predecessore Paulson, deve compiere autentiche acrobazie verbali per non dare messaggi negativi. E quindi sposta in avanti ancora una volta la sospirata data della «svolta» e aggiunge che la ripresa sarà lenta. Lo sforzo di dare sicurezza ai mercati con qualche forzatura mediatica sembra essersi infranto contro gli scogli di un’economia reale in ritirata per la quale non si sta facendo abbastanza.

L’Italia è rimasta finora in una zona di relativa calma della tempesta mondiale, ma questo non è una garanzia per il futuro. Le «Note Regionali», frutto della nuova rete di rilevazioni e studi statistici, che la Banca d’Italia sta diffondendo in questi giorni, mostrano profonde debolezze strutturali, da tempo intuite ma mai così chiaramente messe in luce. La Campania ha il tasso di disoccupazione più elevato d’Europa e il calo produttivo del 2,8% «rappresenta un salto indietro di sette anni»; l’economia dell’Umbria nel 2008 «si è contratta in tutti i settori»; in Piemonte «l’urto della crisi potrebbe essere particolarmente significativo per le imprese in condizioni strutturali di fragilità finanziaria».

Non si può dar torto al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che invoca misure incisive da attuarsi in cento giorni; perché questo sia possibile, le forze politiche dovrebbero spostare maggiormente la loro attenzione sull’economia, alquanto dimenticata per argomenti più immediati e forse più futili, rinunciando magari alle ferie estive. Il rischio sembra diffondersi in tutti i settori e riguarda soprattutto la fascia delle imprese medie che sono meno esposte di quelle grandi ai riflettori dell’attualità e i cui bilanci semestrali cominceranno ad arrivare in luglio. Qualche forma di garanzia che non ricada direttamente sulle finanze dello Stato ma che veda in primo piano, tra gli altri, la Cassa Depositi e Prestiti, può oggi ancora risultare efficace e stimolare un’adeguata risposta tra le banche. Tra cento giorni, potrebbe non esserlo più. Il pericolo che i germogli di ripresa (per la verità assai pochi nel nostro Paese) possano essere tutti uccisi dall’attuale ondata di gelo è molto più reale di quanto normalmente si crede.

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« Risposta #42 inserito:: Luglio 05, 2009, 10:53:06 am »

5/7/2009 (7:51) - VERSO IL G8

La salvezza dell'Africa è anche un buon affare
 
L'economista: serve una combinazione di commercio e aiuti

MARIO DEAGLIO


Prendete una carta geografica sulla quale siano rappresentate l’Europa e l’Africa e rovesciatela. Con l’Africa in alto e l’Europa in basso, i due continenti acquistano un profilo assai poco familiare: la sterminata massa africana sembra quasi schiacciare un’Europa striminzita. Questo rovesciamento non è una stranezza ma il tentativo di uscire dalla nostra gabbia concettuale che, quasi «naturalmente», colloca l’Europa in alto e l’Africa in basso. Con la carta girata così, è più facile rendersi conto di che cosa significa che gli africani siano circa novecento milioni e diventeranno quasi due miliardi nel giro di qualche decennio, mentre gli europei rimarranno all’incirca cinquecento milioni. A questo punto non è neppure necessario un (auspicabilissimo) senso di solidarietà umana per concludere che non è nell’interesse dell’Europa ignorare un vicino di casa così grosso, così giovane, così privo di tutto. Se agli africani viene negata la prospettiva di raggiungere un livello di vita ragionevole, la «fortezza Europa» con la sua vecchia popolazione e la sua antica ricchezza non può resistere all’onda d’urto di un’Africa giovane, povera e disperata. Molti lettori saranno sicuramente d’accordo ma si chiederanno che cosa è possibile fare. Il pensiero economico dell’ultimo mezzo secolo ha messo a punto due ricette, spesso considerate, probabilmente a torto, alternative.

La prima va sotto il nome di «trade» (commercio), la seconda sotto il nome di «aid» (aiuto). La ricetta commerciale richiede l’abolizione delle barriere doganali e in questo Europa e Stati Uniti hanno mostrato una buona dose d’ipocrisia. Apparentemente il commercio internazionale è molto più libero perché i dazi doganali sono diminuiti; i dazi, però, sono spesso stati sostituiti da altre, forse più impenetrabili, barriere, in particolare da sussidi ai produttori. Il sussidio americano a circa 150 mila coltivatori di cotone consente a questi ultimi di praticare, a spese dei contribuenti, prezzi così bassi da mettere fuori mercato, e, in pratica, condannare alla povertà, milioni di produttori africani di cotone. Ancora: è molto facile per gli africani vendere in Europa e in America il loro caffè verde e il loro cacao, assai meno facile – per una serie di dazi specifici e di normative tecniche – vendere il caffè tostato e il cioccolato. L’apertura commerciale ai Paesi poveri ha un costo per l’agricoltura dei Paesi ricchi. Se importati liberamente, vino sudafricano, riso egiziano e olio d’oliva magrebino, a esempio, con i loro bassi prezzi riducono lo spazio per gli analoghi prodotti dell’agricoltura europea. Gli agricoltori europei vanno sostenuti non perché possano abbassare i prezzi ma perché diversifichino la loro produzione. Nel lungo periodo, gli africani, diventati meno poveri, «ripagheranno» acquistando una maggiore quantità di prodotti europei. Anche la seconda ricetta, quella degli aiuti, dev’essere aggiornata. Troppo spesso europei e americani sono andati in Africa pensando di di avere in tasca la formula sicura della crescita economica. Questa forma di colonialismo culturale ha fatto soprattutto disastri ed è necessaria un’iniezione d’umiltà: abbiamo relativamente poco da insegnare e molto da imparare assieme agli africani. Occorre quindi un «mix» di nuove aperture commerciali e nuove forme di aiuti. Se l’Africa raggiungerà così un ragionevole livello di benessere, gli imprenditori e i consumatori africani non saranno semplicemente la copia degli europei o degli americani.

Come mostrano le esperienze della Cina e dell’India, daranno origine a varianti autonome del sistema attuale. Aspettiamoci perciò una variante africana che potrebbe essere legata a una particolare dimensione familiare anziché all’individualismo esasperato. Come ha scritto Visay Mahajan, professore di Business all’Università del Texas in Africa Rising, un libro che finalmente fornisce una visione positiva di questo continente, l’Africa è ben di più di un’occasione per aiuti umanitari, è un’opportunità di mercato. Ma il mercato globale con novecento milioni di africani in più sarà un mercato diverso da quello di oggi e – possiamo sommessamente sperare – anche un mercato migliore.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #43 inserito:: Luglio 09, 2009, 10:24:35 pm »

9/7/2009
 
Lo sciame sismico della crisi
 

MARIO DEAGLIO
 
Un documento ad amplissimo raggio, frutto di mesi di lavoro delle maggiori diplomazie mondiali e approvato rapidamente dai vertici del G-8; un impegno, solenne ma generico, a risolvere pressoché tutti i problemi del pianeta, dall’inquinamento alla povertà. Buone parole, senza dubbio pronunciate con più determinazione del passato, che lasciano spazio a maggiori speranze; per il momento, però, solo buone, bene auguranti parole. Intanto il Fondo Monetario continua nel valzer delle previsioni con cifre che, come le precedenti, saranno cambiate di qui a pochi mesi o a poche settimane e che mostrano semplicemente che la ripresa, che si spera arrivi presto, è comunque spostata un po’ più in là, al 2010.
C’è qualcosa di un po’ irreale in ogni riunione del G8 ma particolarmente in questa che vede i leader delle maggiori potenze del pianeta riuniti a convegno in una città in cui la terra non smette di tremare per parlare di un’economia globale che non smette di sobbalzare.
Questi sussulti paralleli accentuano una sensazione generale di incertezza e proprio l’incertezza economica globale costituisce, nei suoi vari aspetti, la nota unificante del vertice dell’Aquila.

Il primo aspetto dell’incertezza economica riguarda naturalmente la congiuntura. Lo «sciame sismico» del grande terremoto produttivo - che nel periodo ottobre-marzo ha fatto aumentare di oltre quindici milioni il totale dei disoccupati dei paesi ricchi - è ben lontano dalla fine. I geologi avevano previsto che all’Aquila la terra avrebbe continuato a tremare per molti mesi; il Fondo Monetario e le altre organizzazioni internazionali avevano formulato previsioni molto più ottimistiche per l’economia che hanno dovuto essere duramente riviste al ribasso e vengono ora ritoccate. Ora sappiamo che l’economia continuerà a tremare per parecchio tempo e la ripresa sarà più lontana, meno rapida, più incerta. E che il mondo sarà diverso.

Le istituzioni internazionali e quelle americane non hanno saputo prevenire la crisi, limitarne la diffusione, prevederne gli effetti secondari. I recenti salvataggi pubblici hanno richiesto somme gigantesche e concentrato sulla Banca Centrale americana buona parte del rischio normalmente diffuso nel sistema finanziario degli Stati Uniti. Non è quindi concepibile che tutto continui come prima. Gli Stati Uniti oggi importano ogni giorno merci e servizi dal resto del mondo per due miliardi di dollari in più di quante ne esportano e il resto del mondo fa loro credito. Questa situazione va radicalmente corretta, anche se in maniera graduale, per evitare un nuovo e peggiore collasso che non sarebbe nell’interesse di nessuno.

La crisi non potrà quindi essere archiviata come un semplice sussulto ma segna la fine di un indiscusso primato monetario-finanziario americano che durava al termine della seconda guerra mondiale. Dovrà portare a una diversa organizzazione economico-monetaria mondiale e la natura di quest’organizzazione è il secondo aspetto dell’incertezza economica che caratterizza il G8 dell’Aquila, al di là dei comunicati. Gli Stati Uniti devono trovare un accordo con i loro creditori (principalmente cinesi, giapponesi, coreani e altri asiatici); e in particolare con la Cina. L’accordo dovrà garantire che chi detiene riserve in dollari non le smobiliti, ma anzi che, per scongiurare un ulteriore collasso, continui a investire nella valuta americana almeno una parte di eventuali nuove riserve, nel quadro di un’ordinata transizione in cui il potere degli attuali paesi ricchi deve attutirsi e stemperarsi. Anche se l’Aquila sarà solo una tappa di questo processo, il dollaro sarà affiancato da altre monete internazionali e potrebbe diventare esso stesso una parte - per il momento la più importante - di una nuova unità di conto internazionale nella quale potrebbero essere espressi i prezzi di molte materie prime, a cominciare dal petrolio.

Il governo italiano ha promesso di dare ai terremotati dell’Aquila un tetto sopra la testa nel giro di pochi mesi. Nessuno può fare, in maniera credibile, simili promesse per l’economia mondiale, e in particolare nessuno sa in quanto tempo chi ha perso il lavoro a seguito della crisi (e, purtroppo bisogna dirlo, chi lo perderà nei mesi prossimi) sarà in grado di recuperarlo. L’inizio della ripresa slitta sempre un po’ più in là e ora per gran parte dell’Europa si parla dell’estate prossima; per conseguenza, il tempo per recuperare i livelli di occupazione precedenti al settembre 2008 si misurano, nel migliore dei casi, in un paio d’anni.

Per conseguenza sarebbe un illuso chi ancora sognasse una ripresa indolore, che avesse inizio tra pochi giorni, quando i leader lasceranno L’Aquila tra sventolii di bandiere e discorsi d’addio. Con la fine del vertice avrà inizio un duro periodo di negoziazioni e di trattative, la cui prossima tappa, ben difficilmente definitiva, sarà la riunione annuale di settembre del Fondo Monetario Internazionale che si tiene a Washington. La ripresa avrà bisogno di un edificio finanziario internazionale ben diverso da quello di oggi, solcato dalle crepe e pericolante che dovrà essere, almeno in parte, abbattuto e ricostruito. Sarà un gran risultato del G8 dell’Aquila se su questo abbattimento e questa ricostruzione si raggiungerà, senza troppi litigi, un accordo di massima; e se anche l’economia, come il terreno dell’Aquila, smetterà di tremare, ci vorrà del tempo prima che le macerie del vecchio sistema economico mondiale vengano rimosse e le istituzioni finanziarie internazionali vengano ricostruite.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #44 inserito:: Luglio 14, 2009, 07:47:50 pm »

30/6/2009
 
E ora il processo al sistema
 
MARIO DEAGLIO
 
Chiaro. Limpido. Indiscutibile. Un truffatore perfido, uomo di successo, con una faccia da attore di successo. Una condanna colossale, 150 anni di galera, assurdi a orecchi europei, per una truffa colossale, assurda anch'essa nella sua semplicità con cui sono stati gabbati per decenni alcuni tra i più preparati investitori del mondo, le autorità di vigilanza, gli analisti, i guru, i media, i controllori, molte banche. Un giudice che parla di crimine diabolico e un imputato-diavolo che faceva il benefattore, era membro dei consigli di numerose istituzioni benefiche. E viene denunciato dai figli, terrorizzati dall’entità della frode. Quest’imputato-diavolo chiede il permesso di essere presente - impassibile - alla lettura della sentenza in camicia bianca, giacca e cravatta che, per il duro regolamento del carcere in cui sarà rinchiuso, probabilmente non indosserà mai più, o meglio indosserà tra 150 anni. Ex ricchi che si mettono a piangere, pubblico che applaude, un imprigionamento che diventa un atto liberatorio per un’America che vuole condannare, ripartire, dimenticare e continuare a fare finanza.

Fine del discorso. Fine della scena. Seconda scena in Italia. È fin troppo plateale il confronto tra una giustizia americana che ti scova il malfattore l’11 dicembre, lo rimanda agli arresti domiciliari dietro una cauzione gigantesca, lo riarresta in gennaio, imbastisce il processo in febbraio-marzo e te lo condanna con tutte le cerimonie, praticamente in maniera definitiva, il 29 giugno. Nessuna scarcerazione in attesa di gradi ulteriori di giudizio, dei quali, d’altra parte, ci sono pochissime possibilità; nessuna ricusazione di giudici, nessuna lotta per arrivare all’archiviazione per decorrenza dei termini. Nessun affidamento ai servizi sociali, nessun occhio di riguardo perché l’imputato ha più di settant’anni. Prevedibili dichiarazioni di politici. Di giudici. Di esperti. Forse accordo sulla necessità di riforma per i crimini economici. Chissà, magari qualche progetto di legge; è persino possibile l’istituzione di una commissione parlamentare. Fine della scena. Ebbene, né l’una né l’altra scena sono soddisfacenti.

I 150 anni di condanna non possono sostituire 150 o più processi o indagini non ancora partiti su come è stato possibile tutto ciò; su come venivano fatti i controlli; sul perché nessuno abbia dato retta a Harry Markopolos, un esperto che dieci anni fa si era rivolto alle autorità di controllo perché persuaso che fosse matematicamente impossibile che le società di Madoff realizzassero i profitti che dichiaravano di realizzare; sul perché per questi dieci anni uomini finanziariamente astutissimi (Madoff si è rifiutato di fare qualsiasi nome) sulle due rive dell’Atlantico continuassero a consegnargli un fiume di denaro. Spente le luci sul processo, molti interrogativi restano. La distanza tra Stati Uniti e Italia rimane altissima, ma non è che oltre Atlantico tutto sia chiarissimo. La scena si deve spostare in avanti. Magari all’Aquila, al G8, visto che tutto ormai sembra rotolare verso questo vertice al di fuori del normale in un anno economicamente al di fuori del normale. Potrebbe essere questa la sede buona per affrontare una volta per tutte il problema dei mercati finanziari; che è poi il problema di quanti Madoff siano in attività nel mondo e di quanti possano sorgere in futuro.
Se c’è una cosa che il caso Madoff mette in luce, è l’inutilità di controlli nazionali - e anche di sistemi giudiziari nazionali per crimini economici legati ai circuiti finanziari globali - e la necessità di un loro rapido superamento in favore di un'autorità internazionale di controllo. Che possa ficcare il naso nei libri contabili e fare domande di ogni tipo, in ogni Paese del mondo. Che gli americani hanno sempre avversato e che forse oggi avverserebbero un po’ meno. Madoff, insomma, deve essere un punto di partenza, non un punto d’arrivo. Non dimenticato fino a quando defungerà come il prigioniero matricola 61727-054 del Metropolitan Correction Center di New York in cui è detenuto, ma sempre presente nelle prossime mosse dei procuratori di giustizia. Si potrebbe anche suggerire che chi si occupa di crimini economici si tenga sempre una foto di Madoff sulla scrivania o appesa sul muro dell’ufficio. Per ricordargli che deve capire davvero come ha fatto; per convincere collaboratori e vittime a raccontare tutto. Per evitare che si faccia un processo, per quanto sacrosanto, a una persona anziché un'indagine a tappeto, sicuramente necessaria, sul funzionamento di un sistema.

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