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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 95355 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 22, 2008, 12:13:42 pm »

22/10/2008
 
La crisi può portare giustizia
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Il rapporto dell’Ocse sulle disuguaglianze economiche dei Paesi avanzati conferisce un’altra dimensione alla crisi finanziaria mondiale e alla recessione che, come hanno ricordato proprio ieri il governatore della Banca d’Italia e il Fondo monetario internazionale, incombe sulle famiglie dei Paesi ricchi in questo autunno già eccezionalmente perturbato dal punto di vista finanziario.

Le disuguaglianze dei redditi sono sensibilmente aumentate negli ultimi 10-15 anni, in uno scenario mondiale di crescita - pur interrotto da momenti angosciosi e crisi profonde - ormai definitivamente alle spalle. A seconda della matrice ideologica dei governi, tale crescita è stata tollerata oppure guardata con favore o addirittura favorita ma in nessun caso ostacolata. I motivi di questa benevolenza sono stati essenzialmente due.

Il primo motivo per tollerare o addirittura favorire la disuguaglianza dei redditi, - si ricollega al pensiero liberista classico e quelli che Keynes definì «spiriti vitali» degli imprenditori ed è stato largamente seguito negli Stati Uniti da Reagan a George W. Bush, in Gran Bretagna da Thatcher a Blair, in Italia dal secondo e terzo governo Berlusconi (mentre l’attuale governo Berlusconi ha molto attenuato la sua posizione in materia).

Si riteneva che i ceti sociali con redditi elevati fossero dotati di maggiore capacità di iniziativa e che queste capacità non solo andassero genericamente «premiate» ma potessero davvero svilupparsi solo con riduzioni del carico fiscale. Lasciare nelle loro mani una parte maggiore delle risorse significava iniettare adrenalina nelle vene dell’economia, imprimere una spinta alla crescita che sarebbe andata a beneficio di tutti perché avrebbe aumentato il dinamismo dell’economia, creato ricchezza. In maniera più o meno marcata, si procedette quindi quasi ovunque alla detassazione di questi redditi, giustificando il risultante «bonus fiscale» con la necessità di compensare chi era disposto a rischiare in proprio. Queste misure venivano anche proposte come reazione all’appiattimento ugualitarista di matrice socialdemocratica: occorreva andar contro a una società «noiosa» che appiattiva gli animi oltre che i redditi.

Per non essere noiosa, per non essere pianificata dalla culla alla bare a opera di qualche «grande fratello», per crescere di più e meglio, la società non doveva solo consentire una maggiore disuguaglianza dei redditi, doveva anche essere associata a una forte mobilità sociale ed è questo il secondo motivo per cui furono tollerate o favorite le disugualianze: una società poteva essere anche fortemente diseguale purché ci fossero dei meccanismi che permettevano ai singoli di superare queste disuguaglianze, di compiere un «salto» di classe di redditi, di passare dalla parte degli ultimi a quella dei primi. Nei Paesi anglosassoni, questa società veniva ritenuta preferibile a quelle europee continentali, meno diseguali ma immobilizzate nelle loro disuguaglianze da una serie di «paletti» e stratificazioni sociali che rendevano molto più difficile questo «salto»: società in cui chi nasceva povero sapeva che sarebbe anche morto povero.

L’esperienza di questi anni non ha dimostrato la validità di questi motivi in favore della disuguaglianza. Lo spirito di iniziativa dei ceti dotati di redditi più elevati non è stato certo eccezionale, in molti Paesi, tra cui l’Italia, la crescita è stata scarsa o quasi nulla, e, se si eccettua un numero limitato di casi, non vi è stato un aumento del benessere collettivo. Il benessere collettivo è anzi diminuito in molti suoi aspetti, dalla fruizione gratuita di importanti partite in televisione o di un certo numero di prestazioni negli ambulatori. In Italia, i maggiori redditi sono stati dovuti soprattutto a rendite di posizione, ad attività finanziarie con scarsi agganci con il meccanismo generale dell’economia e non a profitti sudati in mercati concorrenziali, a grandi investimenti e innovazioni. La mobilità sociale è stata frenata dal forte potere delle corporazioni: per mettersi in proprio in quasi ogni attività c’è bisogno di un «patentino», di un «esame di abilitazione».

Il peggioramento italiano nella graduatoria della disuguaglianza dei Paesi ricchi appare frutto delle deliberate politiche di favore per i redditi medio-alti senza che i «paletti» corporativi siano stati ridotti. Non va poi trascurato il «fattore Mezzogiorno»: il dato italiano è una media tra un Nord-Centro in cui i divari sono sostanzialmente a livello «europeo» e quelli del Sud, che sono a livello «messicano» (il Messico è il più diseguale tra i Paesi esaminati dall'Ocse). È ben difficile che il federalismo migliori questa situazione, potrebbe anzi peggiorarla. Il divario è inoltre maggiore tra i giovani mentre gli anziani, i cui interessi sono ben rappresentati in Parlamento, si difendono abbastanza bene.

La minaccia di recessione legata alla crisi finanziaria offre un’occasione per cominciare a rimediare a queste storture: l’allentamento del patto di stabilità, che si profila dopo i recenti vertici europei, consente ai singoli governi una maggiore libertà d’azione sul piano fiscale, in una situazione in cui bisogna detassare per sostenere i consumi e alleviare la (possibile) prossima recessione. Se gli sgravi fiscali non saranno più indirizzati ai redditi medio-alti ma a quelli medio-bassi, si otterranno contemporaneamente due benefici: sostenere il livello dei consumi, tenendo lontana la recessione, e diminuire il rischio di spaccatura sociale.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #16 inserito:: Novembre 10, 2008, 10:27:19 am »

10/11/2008
 
Se i media fanno il tifo per il crollo
 
MARIO DEAGLIO

 
La rapidità con cui le spinte recessive si stanno diffondendo nell’economia mondiale hanno sorpreso tutti gli osservatori: ai primi di settembre si parlava di crescita ridotta, ora si parla di cassa integrazione e comincia a comparire quell’espressione temutissima: recessione mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale ha frettolosamente rivisto in netto ribasso le sue previsioni ancora fresche di stampa e lanciato un Sos che ha fatto nuovamente tremare i mercati azionari, già sufficientemente traumatizzati.

Perché questo cambiamento così brusco, che la dice lunga sull’attendibilità degli strumenti utilizzati per le previsioni economiche? Forse il motivo principale è la paura che, nei paesi ricchi, si è impadronita di decine di milioni di famiglie, operatori economici e finanziari e imprese. Pur potendo spendere sostanzialmente come prima, non spendono nel timore di tempi peggiori; pur potendo investire non investono; pur non avendo alcun bisogno di vendere titoli, se ne disfano in perdita nel timore di perdite maggiori in futuro. Questi timori sono così divenuti un elemento determinante nel peggioramento dello scenario economico, e di conseguenza i consumi scendono o ristagnano, gli investimenti languono, le Borse sono molto nervose con tendenza a scendere ancora.

Ci si può legittimamente domandare quali siano le ragioni di queste paure e della loro rapidissima diffusione dopo interventi di proporzioni mai viste a sostegno all’economia da parte dei governi dei principali paesi; e per quale motivo tali interventi sembrano aver ottenuto un effetto opposto a quello che si proponevano. Per cercare di rispondere a questa domanda è inevitabile spostare l’attenzione sul modo in cui le notizie economiche vengono presentate al pubblico dai mezzi di informazione, i cosiddetti media. Un esame del trattamento della crisi finanziaria da parte dei media dei paesi ricchi consente di mettere a fuoco tre diverse debolezze.

La prima debolezza è la scarsa aderenza del linguaggio - soprattutto nei titoli - all’entità dei fenomeni. Basta un esame sommario dei media dei principali paesi occidentali per verificare che le quotazioni di Borsa non «scendono», non «calano», non «scivolano»: vanno semplicemente «a picco» oppure «crollano»; e basta un piccolo rimbalzo perché si dica che «volano», magari con una crescita del 2%. Se non «crolla» e non «vola», la Borsa non fa notizia. Di qui la tendenza alla drammatizzazione che porta a descrivere il mondo dell’economia in bianco e nero, trascurando il prevalente (e sicuramente noioso) colore grigio, e fornisce inevitabilmente un quadro deformato.

Se il giornalismo sportivo fosse ugualmente poco aderente alla realtà dei fatti, ci sarebbe una rivolta; le rubriche radiofoniche in materia sportiva sono dense di interventi di ascoltatori che contestano i giudizi dati dai conduttori di quelle trasmissioni. La stessa cosa non si verifica in materia economico-finanziaria perché il normale cittadino è assai meno competente in economia e finanza che in questioni sportive; proprio per questo dovrebbe esserci una maggiore consapevolezza della necessità di fornire notizie che non si prestino a conclusioni affrettate.

La seconda debolezza è una pesante sottolineatura negativa nella descrizione dell’attuale momento economico. Le Borse «bruciano» sempre centinaia di miliardi di euro quando scendono e non «creano» mai nulla quando salgono; si fanno accuratissimi calcoli sul peso che, a seguito dell’aumento del prezzo della benzina, graverà sui bilanci famigliari, non si fa alcun calcolo dello sgravio che la diminuzione (da giugno il prezzo alla pompa è diminuito di 20-30 centesimi) comporta per gli acquirenti. Proprio perché influenza un enorme numero di decisioni individuali, tale atteggiamento concorre a rendere più pesante una situazione di certo non brillante: è una previsione che si autoavvera e che contribuisce a spingerci nel gorgo della crisi. Anche in questo caso è appropriato un paragone con il giornalismo sportivo: un simile atteggiamento farebbe scattare immediatamente l’accusa di parzialità, di «tifare» per la «squadra della crisi». I media danno spesso per scontato che la crisi abbia già vinto, il che contribuisce non poco a farla vincere davvero.

La terza debolezza consiste nell’uso di collegamenti logici impropri o esagerati. Quando si dice, o si lascia capire ai telespettatori e ai lettori, che «le banche sono deboli e quindi i tuoi risparmi sono a rischio», si tralascia di ricordare che questo rischio, pur effettivamente esistente, è molto limitato ed è solo una delle tante alternative possibili e che contro una simile evenienza si sono già adottate misure importanti. I rischi aumentano proprio perché la grande maggioranza dei risparmiatori si è convinta, leggendo i giornali e guardando i telegiornali, che sarebbero aumentati; successe proprio così poco più di un anno fa alla banca inglese Northern Rock, presa d’assalto da migliaia di depositanti terrorizzati i quali poco si curavano delle garanzie totali fornite dalla Banca d’Inghilterra e dal governo di Londra. Questo portò a perdite ingenti per il sistema finanziario britannico e internazionale e determinò la nazionalizzazione della banca, che si sarebbe potuta benissimo evitare. Se è vero che ci aspettano tempi non facili, è altrettanto vero che le difficoltà possono, almeno in parte, essere tenute sotto controllo. Occorre che chi scrive, o trasmette, notizie economiche, così come chi le legge, mantenga una giusta freddezza e non si lasci trasportare dall’emotività.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 19, 2008, 06:05:17 pm »

19/11/2008 - I NO DI BERLINO SULLA RIPRESA
 
Germania frenatrice d'Europa
 
 
MARIO DEAGLIO
 
La bufera delle Borse ha avuto ieri, almeno in Europa, un momento di sosta; e per l'Italia le statistiche, che giorni fa avevano costretto a pronunciare la temuta parola «recessione», hanno rivelato, almeno fino a settembre, una tenuta abbastanza buona delle esportazioni italiane sia a livello di Unione Europea sia nel più vasto orizzonte mondiale. Per conseguenza, questo è forse quindi il momento giusto per riflettere sull'improvvisa gelata che si è abbattuta nelle ultime settimane sull'economia mondiale - e quindi anche su quella italiana - sorprendendo molti per la sua durezza e facendo drasticamente peggiorare le prospettive per i prossimi trimestri (per i prossimi anni, secondo alcuni).

Una delle poche misure credibili per contrastare questa situazione è rappresentata dal gigantesco programma infrastrutturale cinese, con i suoi 586 miliardi di dollari da spendere in due anni. Per quanto straordinariamente rapidi siano i cinesi, tuttavia, i due anni basteranno ad aprire i cantieri ma non certo a chiuderli e l'effetto di stimolo si rivolgerà soprattutto alle imprese cinesi e di altri Paesi asiatici e si ripercuoterà sul resto del mondo in maniera ritardata, indiretta e attenuata.

La Cina ha comunque dato il buon esempio. Perché mai l'Europa non la segue?

La risposta occorre cercarla a Berlino: di fronte a Francia e Italia disponibili a un rilancio europeo il cancelliere tedesco, signora Angela Merkel, è rimasto come impietrito e impaurito. Per conseguenza la Germania, ossia la vera locomotiva europea, sta frenando invece di accelerare, timorosa di essere trascinata nel gorgo dell'inflazione da alleati nei confronti dei quali riaffiorano vecchie paure e diffidenze.

La Germania si è opposta a un fondo europeo per le situazioni di crisi (salvo provvedere in maniera sostanziosa alle situazioni di difficoltà di alcune istituzioni finanziarie tedesche) e al progetto di finanziare progetti europei con l'emissione di obbligazioni della Banca Europea degli Investimenti e sta frenando su un'interpretazione meno «ingessata» del Patto di Stabilità: se tutti i Paesi portassero il loro deficit pubblico in prossimità del 3 per cento (o lo superassero temporaneamente di poco) il rischio inflazione sarebbe minimo e la ripresa quasi una certezza.

Vedremo alla riunionedel 26 di novembre della Commissione Europea se ne verrà fuori qualcosa di buono o soltanto il tradizionale cocktail di alti principi, buone parole e pochissime misure concrete. Tutti preferirebbero aspettare che il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, li tolga d'impaccio tirando fuori dal cappello presidenziale un piano economico già bell'e pronto. Il suo slogan elettorale non era forse «Yes, we can!», «Sì, lo possiamo fare», e non ha forse detto dopo le elezioni che gli Stati Uniti sono il Paese in cui l'impossibile riesce?

Aspettando il piano Obama - che necessariamente tarderà e non sappiamo quanto potrà essere efficace - la crisi sta mettendo in ginocchio l'economia di tutto il mondo, dai cinquantaduemila bancari licenziati dall'americana Citigroup al sistema delle piccole, efficienti aziende semiartigianali su cui si regge l'economia italiana; dall'American Express, gigante delle carte di credito, che chiede affrettatamente di diventare banca per accedere al credito facile della Federal Reserve americana, alle piccole e medie imprese italiane nei cui confronti le banche nostrane, senza peraltro dire apertamente di no, si mostrano improvvisamente reticenti ed evasive e rinviano concessioni di credito che prima delle ferie si sarebbero prese con una rapidità molto maggiore.

I piani dei governi europei non sembrano tenere conto del velocissimo peggioramento della situazione dell'economia reale e appaiono tali da cominciare a produrre effetti solo in tempi lunghi. Le misure annunciate per l'Italia, peraltro non ancora note in sufficiente dettaglio, rientrano in questa categoria e sembrano soprattutto riorganizzare fondi europei sui quali in larga misura si poteva già far conto; inoltre intendono finanziare con un aumento (presumibilmente immediato) delle tariffe autostradali dei lavori autostradali che realisticamente inizieranno sul terreno non prima di 12-18 mesi, il che avrebbe un effetto di freno alla domanda, opposto quindi a quello che si vuole ottenere. Rischia di essere, secondo una nota espressione inglese, «troppo poco, troppo tardi».

Non è questa la ricetta che serve oggi. Parafrasando uno slogan caro all'attuale ministro dell'Economia, oggi serve «mettere del denaro nelle tasche degli italiani» delle fasce di reddito più basse; se non lo si vuol fare in nome dell'equità sociale, lo si faccia almeno in nome della ripresa dell'economia. E non basta una «mancia» che integra la tredicesima, per finanziare i regali di Natale di un popolo che, a ragione o a torto, si sente impoverito, né una «social card» che dà a chi la usa la patente ufficiale di povero: è necessario un flusso aggiuntivo su cui contare per un tempo indefinito che deriva da una riduzione delle aliquote fiscali sulle categorie dal reddito più basso. Naturalmente oggi il ministro dell'Economia non ha le risorse per un'operazione del genere e il discorso torna così al piano di rilancio europeo che dovrebbe essere presentato dalla Commissione il 26 novembre. E' l'ultimo treno per evitare che le (finora modeste) spinte recessive si rafforzino fino a travolgere un'Europa che non ha i giganteschi problemi strutturali degli Stati Uniti e potrebbe puntare i piedi per resistere alla crisi. Per questo sono necessari un po' più di coraggio a Berlino, una visione meno burocratica a Bruxelles e misure rapide, vicine ai veri problemi nelle altre capitali, a cominciare da Roma.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #18 inserito:: Novembre 27, 2008, 03:45:19 pm »

27/11/2008
 
Il minimo necessario
 
MARIO DEAGLIO
 

Quanto meno l’Europa ha smesso di impiccarsi con le proprie mani: il sofferto riconoscimento da parte della Commissione Europea che il Patto di Stabilità deve essere trattato in maniera «elastica», come previsto dai trattati europei, rappresenta una vittoria.

Una vittoria necessariamente parziale - ed è bene che sia così - dei «politici» sui «grandi burocrati» di Bruxelles. Naturalmente nessuno vuole tornare alla finanza allegra ma sarebbe irrazionale, per questa paura, togliere l’ossigeno alle imprese e alle famiglie. Il che è tanto più difficile da sopportare in quanto, in quasi tutti i Paesi, contemporaneamente si mettono a disposizione somme assai grandi per il salvataggio delle banche, ammesso che ne abbiano realmente bisogno.

Gli storici del futuro si chiederanno come mai abbiamo aspettato tanto, perché un insieme di persone indubbiamente intelligenti siano rimaste così a lungo schiave di tabù assurdi (il rapporto deficit/pil sempre inferiore, qualsiasi cosa accada, al tre per cento e il rapporto debito/pil inferiore al sessanta per cento) e continuino, probabilmente senza rendersene ben conto, a scherzare con il fuoco della recessione. E intanto tutti continuiamo a domandarci come mai, in una situazione che peggiora a vista d’occhio, la Banca Centrale Europea, avendo finalmente riconosciuto l’esigenza di un taglio dei tassi, non senta il bisogno di convocare una riunione d’urgenza e aspetti tranquillamente una quindicina di giorni per rispettare la data in calendario. Il rispetto del protocollo, insomma, pare irresponsabilmente più importante della gravità della crisi. Con le decisioni di ieri, l’Unione Europea ha fatto il minimo indispensabile, il che è al tempo stesso un sollievo e un cruccio. Dietro alla soddisfazione giustificata, ma anche alla retorica di facciata, del presidente Barroso ci sono i contrasti irrisolti tra Francia e Germania, mentre il Regno Unito continua ad andare per conto proprio, c’è la debolezza di molti Paesi dell’Europa Orientale, emersa clamorosamente nelle ultime settimane, c’è l’incertezza di Italia e Spagna. Di fatto, pur nella fragile cornice di un accettabile disegno di fondo, ciascun Paese andrà per la sua strada e non si può proprio dire che le politiche di «rilancio», che in realtà sono politiche di contenimento della crisi, risulteranno davvero strettamente coordinate tra un Paese e l’altro.

Quasi nessun Paese, con la possibile eccezione della Francia, sembra aver inteso la gravità della situazione industriale che sta venendo in luce in queste settimane. Gli europei possono ancora evitare il collasso della domanda interna dei beni di consumo nel periodo natalizio e post-natalizio, iniettando - meglio se con una modifica permanente degli scaglioni e non con un’erogazione una tantum - una cospicua quantità di denaro liquido nelle buste paga di quei lavoratori dipendenti e nei bilanci di quei lavoratori autonomi che si trovano a bassi livello di reddito.

In questo senso, il «consumate, consumate» del presidente del Consiglio non centra il problema; un’affermazione così generale, così lontana dalla realtà dei conti familiari, fa sì che i milioni di italiani con redditi insufficienti, o diventati tali negli ultimi sei mesi, abbiano ragione di offendersi. Ciò che gli italiani dovrebbero fare è invece qualcosa di più specifico, ossia non rinunciare, per un irrazionale senso di paura e non per difficoltà oggettive, a consumi già previsti nei bilanci familiari.

A molti governi, compreso quello italiano, non sembra poi del tutto chiara la distinzione tra sostegno immediato della domanda, basato su sconti fiscali, e sostegno a più lungo termine dell’offerta, basato su investimenti in infrastrutture il cui effetto congiunturale si vedrà come minimo tra sei-diciotto mesi. Le due misure hanno logiche e ambiti diversi: se si vuole attenuare l’ondata negativa e la domanda va sostenuta prima che possano partire i cantieri, se mai partiranno.

Infine, la social card. Come molte altre volte, va dato atto al ministro Tremonti di aver inventato uno strumento brillante e - se davvero non ci saranno intoppi tecnici - sicuramente efficace nel suo ambito limitato per stabilire una piccola rete aggiuntiva di sicurezza per le condizioni più dolorose di povertà. La social card, però, spezza l’unità dei cittadini, li distingue in individui di classe A e di classe B. Si era combattuto a lungo perché avessero tutti pari dignità, il che significa che a nessuno la povertà doveva essere attaccata addosso come un marchio; questa era la base ideale, sicuramente sofferta, sicuramente difficile da realizzare, dello Stato sociale. La social card rischia invece di diventare precisamente un marchio, sinonimo di perdita di dignità e oggetto di vergogna. «Due scellini alla settimana sono il prezzo di un’anima» recitava una nenia inglese degli anni della Grande Depressione, alludendo al magro sussidio di disoccupazione su cui campava una parte importante della popolazione britannica; i due scellini di allora rischiano di trasformarsi nei quaranta euro al mese della social card.

mario.deaglio@unito.it
 
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 29, 2008, 09:52:21 am »

29/11/2008
 
Il freno di Bruxelles
 
MARIO DEAGLIO

 
Nelle misure governative non c’è la «svolta» richiesta da Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, per revocare lo sciopero generale indetto per il 12 dicembre. Del resto, Epifani, come tutti gli altri, sapeva benissimo che, date le decisioni adottate in sede europea, questa svolta non poteva esserci. Le misure vanno infatti nella direzione giusta, ma non bastano a garantire il superamento della recessione. Tale superamento sarebbe possibile con una maggiore flessibilità sui deficit stabiliti dai trattati, ma non se ne farà nulla finché non ci si deciderà a pensionare quanto meno il commissario europeo Joaquín Almunia, responsabile degli Affari Economici e Monetari dell’Unione; si tratta di una degnissima persona che abita un pianeta in cui l’economia reale non ha più posto, rigoroso custode di un’«ortodossia» inflessibile dei trattati che toglie respiro a ogni velleità di crescita. Avendo accettato i limiti di Almunia, i governi europei non hanno comunque in mano munizioni sufficienti per rispondere in pieno all’assalto della crisi; riusciranno quanto meno ad alleviarla, a evitarne le punte più acute.

In una simile situazione, il governo italiano si è mosso con relativo buon senso, con un insieme di provvedimenti ragionevoli, sufficientemente calibrati, anche se sicuramente risulta stonata la rivendicazione del presidente del Consiglio del «primato» italiano nella risposta alla crisi: l’Italia è il paese avanzato il cui profilo previsivo è peggiorato più sensibilmente nel corso delle ultime settimane ed è appena logico attendersi che il suo governo reagisca con reattività maggiore. L’effetto dei provvedimenti sulle infrastrutture e dei «Tremonti bonds» per facilitare il credito è non solo difficile da valutare ma relativamente remoto nel tempo. Il «bonus» alle famiglie, invece, arginando sperabilmente la caduta dei consumi fin da febbraio-marzo, potrà avere un impatto quasi immediato sulla produzione: equivale allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo e attenuerà un poco la caduta produttiva prevista per il 2009. Nel loro complesso, i provvedimenti di carattere sociale paiono al momento attuale soltanto abbozzati ma distribuiti in modo abbastanza rispettoso della mappa del disagio sociale che sta prendendo forma nel paese. La tendenza dei precedenti governi di centrodestra a tenere in particolare conto le esigenze dei redditi alti e medio-alti sembra ormai sostituita con quella per le esigenze dei redditi bassi e medio-bassi (e con la tenuta generale del sistema). Per effetto di queste misure, nonché del brusco mutamento del panorama inflazionistico italiano e mondiale, dominato dalla forte caduta dei prezzi delle materie prime energetiche, l’orizzonte economico delle famiglie con bassi redditi appare, se non schiarito, almeno non così buio come risultava un paio di mesi fa. Ai minori costi, rispetto al previsto, di benzina ed energia, si aggiungono le provvidenze per i mutui a tasso variabile, la sospensione degli scatti automatici delle tariffe autostradali, il blocco di quelle ferroviarie per i pendolari, tutte misure che paiono riflettere, oltre al resto, un tentativo di evitare lo sciopero generale indetto dalla Cgil. Tutto questo non è bastato - e non poteva bastare - né alla Cgil né alla Confindustria di fronte alla forte caduta della produzione industriale e alle allarmanti prospettive di aumento della disoccupazione. Si è costruita una trincea contro l’assalto della recessione e non si può non sperare che questa trincea tenga o allevii l’urto; non si è costruita alcuna politica di ripresa. Ma in questo caso, l’interlocutore di Cgil e Confindustria non è più Roma ma Bruxelles; per usare una vecchia metafora, Roma, come Parigi, Berlino e tutte le altre capitali, può mettere ordine alle sedie sul ponte del Titanic, e non lo sta facendo male, ma non può variare la rotta del Titanic, decisa a Bruxelles e destinata a passare in pericolosa prossimità di un iceberg. Sarebbe ora che le grandi impostazioni europee di politica economica venissero considerate oggetto di discussione politica, e quindi di possibile contestazione, e non pronunciamenti di una casta superiore. Se si raggiungesse questo risultato, non solo la congiuntura italiana, ma il funzionamento complessivo dell’Unione Europea avrebbe fatto un passo avanti. mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 06, 2008, 10:01:00 am »

6/12/2008
 
Il gorgo americano
 
MARIO DEAGLIO
 

Negli Stati Uniti non si vedono ancora file di disoccupati in coda per la minestra, come negli Anni Trenta, ma le statistiche sono senza pietà e lasciano poche illusioni: quasi due milioni di posti di lavoro sono stati perduti nei primi undici mesi dell’anno, oltre mezzo milione dei quali, in un impressionante crescendo, si sono polverizzati nello scorso mese di novembre. Il periodico rapporto della Fed, la banca centrale americana, mostra una crisi che si estende a velocità mai vista, che tocca tutti i comparti dell’economia americana e la cui virulenza non promette affatto di diminuire nei prossimi mesi. Non a caso, il presidente eletto, Barack Obama, ha dichiarato che la situazione è destinata a peggiorare. Per gli Stati Uniti, nel breve periodo, c’è ben poco da fare. Vissuti per quasi due decenni in una cultura che aveva rimosso l’idea stessa di crisi, gli americani risultano tecnicamente e psicologicamente impreparati a subirne una.

Non esiste alcun bottone magico da schiacciare, alcuna misura semplice perché gli Stati Uniti possano uscire in tempi brevi da questa pesantissima situazione; la riduzione del costo del denaro ha frenato temporaneamente la spinta depressiva ma, nell’attuale situazione, non crea alcuna spinta positiva; gli interventi di salvataggio finanziario ingessano il malato ma non bastano a rimetterlo in piedi.

A questo punto è indispensabile che gli europei si domandino se sono necessariamente costretti a essere risucchiati nel gorgo della caduta americana. Molti pensano di sì: in Germania, la Bundesbank, prevede per il 2009 le peggiori condizioni economiche da 16 anni; il pessimismo è molto profondo in Gran Bretagna, la Spagna combatte a fatica contro una violenta crisi edilizia. E tuttavia la «variante europea» della crisi è nettamente meno virulenta di quella americana e potrebbe risolversi con una caduta produttiva più ridotta e più breve.

Che cosa rende l’Europa meno vulnerabile dell’America? Il risparmio delle famiglie. Le famiglie americane sono state abituate da due generazioni a spendere oggi i soldi che presumono di incassare domani; per anni i consumi delle famiglie americane sono stati alimentati dai guadagni di Borsa, ora la riduzione dei consumi è determinata anche dalle perdite del listino; le loro carte di credito non hanno più credito residuo, i conti in banca sono quasi sempre in rosso. Non si può quindi far conto su un sussulto della voglia di consumare che non sarebbe accompagnata, sempre nel breve periodo, da alcuno strumento finanziario per soddisfarla.

L’Europa non è così. Quando spendono, o, viceversa, decidono di non spendere, gli europei - con l’eccezione degli inglesi - spendono o non spendono soldi propri. Per questo in Europa una molla importante per la tenuta dell’economia è in mano ai risparmiatori-consumatori che, per parafrasare un detto di Einaudi, sono dotati di memoria di elefante (che li ha portati subito a ricordare gli Anni Trenta) cuore di coniglio (che li induce a non prendere alcun rischio) e gambe di lepre (che li hanno fatti scappare dai supermercati come dai mercati finanziari). Ma sono anche dotati di un conto in banca quasi sempre in nero anziché in rosso.

Questa situazione, così diversa da quella americana, raggiunge la sua massima peculiarità in Italia, come si ricava dal 42° Rapporto Annuale del Censis, reso noto ieri, più della metà delle famiglie italiane non ha veri problemi finanziari. Il Rapporto ritrae un paese impaurito più che indebitato, capace di tenuta «trasversale», sul quale una modesta ridistribuzione a favore delle fasce di reddito più basso potrebbe sostenere i consumi più che in altri paesi. Non si tratta, naturalmente, di «consumare per consumare» ma di non rinunciare a consumi abituali per paure irrazionali, oggi molto diffuse; si può così costituire uno «zoccolo duro» di tenuta nei prossimi mesi sul quale provare a costruire una ripresa, magari con nuovi prodotti più a buon mercato e - per dirla con Giuseppe De Rita, che del Censis è da anni l’animatore - più «frugali», più adatti allo spirito dei tempi. Occorrerebbe aggiungere che proprio questa situazione di emergenza può rappresentare l’occasione perché si formi un consenso sociale attorno a molte delle riforme da troppo tempo tenute nel cassetto.

In questa terribile tempesta dell’economia mondiale, insomma, rischiano assai di più i paesi simili a moderni velieri costruiti per le regate che una chiatta, pesante, assai lenta ma molto stabile come è l’economia italiana. Non basta però che la barca italiana corra meno rischi e che derivi un vantaggio dall’essere vecchia. Occorre che questo vantaggio venga sfruttato; se è vera l’analisi di De Rita, i consumi natalizi faranno registrare soltanto una flessione relativamente modesta e il momento della verità verrà dopo Natale quando milioni di famiglie, e l’élite politica che le governa, dovranno prendere decisioni che vanno dai bilanci famigliari ai bilanci pubblici. Se in Europa e in Italia prevarranno i «cuori di coniglio», se tutti giocheranno a un «taglia, taglia» indiscriminato, seguiremo l’America nel baratro di una crisi incerta e di lunghezza indeterminata. Quanto più saremo, a tutti i livelli, razionali e responsabili, tanto meno lunga e dura risulterà la crisi.


mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 13, 2008, 05:04:41 pm »

13/12/2008
 
Quanto costa l'accordo
 

MARIO DEAGLIO
 

Nel pomeriggio di ieri è sembrato a tutti che per un momento il mondo andasse a rovescio.
Gli europei, tradizionalmente indecisi e litigiosi, avevano raggiunto un accordo sia sul clima, argomento sul quale si era sfiorata la rottura la vigilia, sia su un grande piano di stimolo dell’economia, sia infine su un nuovo referendum irlandese destinato, secondo le speranze di tutti, a ribaltare le conseguenze negative del precedente «no» di Dublino al Trattato di Lisbona e adottare così una sorta di surrogato della mancante Costituzione europea.

Nelle stesse ore gli americani, tradizionalmente compatti nelle grandi emergenze, avevano visto il Senato silurare gli aiuti all’industria dell’auto facendo sorgere lo spettro di milioni di ulteriori disoccupati, e Presidente in uscita, che ormai dovrebbe solo più preoccuparsi di salutare, cogliere tutti di sorpresa con l’idea di «dribblare» il voto parlamentare dirottando verso i colossi automobilistici in crisi una parte dei fondi già previsti per il salvataggio dei colossi della finanza.

Sull’accordo climatico l’Europa non è andata leggera con la retorica e l’autocompiacimento. Il Presidente francese, e Presidente europeo pro tempore, ha parlato di «momento storico», il Presidente della Commissione lo ha definito «il più ambizioso del mondo» e molto si è giocato sullo slogan del «20x20x20 entro il 2020» (ossia la riduzione del 20 per cento delle emissioni di gas serra, l’aumento del 20 per cento dell’efficienza energetica, e il conseguimento del 20 per cento dell’energia prodotta da fonti alternative) quasi avesse un significato cabalistico.

Se però si guarda nelle pieghe di questo accordo si scopre che ci sono «concessioni», «deroghe», «clausole di revisione» che pongono in posizioni particolari le industrie italiane, numerosi settori industriali tedeschi, il carbone polacco e che sono state il prezzo del voto all’unanimità, in un contesto di complicazioni e cavilli che costituisce purtroppo la normale realtà dell’Europa di Bruxelles. Il principio che le imprese devono pagare per l’inquinamento che producono è al tempo stesso riaffermato e indebolito da una serie di limitazioni e di eccezioni. In questo senso il presidente del Consiglio italiano può essere sicuramente soddisfatto, da politico attento ai risultati di breve periodo, in quanto ha giocato abilmente, ha raggiunto i suoi obiettivi e ha risposto alle attese immediate di un’industria già in difficoltà; l’Europa va probabilmente verso un disinquinamento abbastanza radicale ma con velocità diverse e con scarsa trasparenza; ed è scontato il giudizio negativo delle associazioni ecologiste mondiali, alle quali si uniscono numerosi scienziati, per i quali le misure non bastano ad arrestare il surriscaldamento del pianeta.

Lo stesso contrasto tra una facciata smagliante e una realtà meno edificante si registra per il referendum irlandese (per la sua ripetizione è stato pagato un prezzo pesante, ossia il diritto per i piccoli Paesi di continuare ad avere un commissario ciascuno) e soprattutto per il «piano di rilancio». Definito «ambizioso e coordinato» dal primo ministro inglese, in realtà non è né una cosa né l’altra; si tratta semplicemente delle misure concordate già più di due settimane fa a Bruxelles. In questi quindici giorni l’orizzonte congiunturale europeo si è vistosamente appesantito e le misure sono rimaste le stesse, anche se riverniciate perché abbiano l’aspetto di un piano mentre in realtà si tratta di poco più di una giustapposizione-armonizzazione di programmi nazionali in cui sono state inserite numerose misure già previste prima.

Quella che poteva essere una medicina complessivamente sufficiente basterà così solo ad attenuare i guasti della recessione. La difesa della congiuntura europea avrebbe richiesto più coraggio: il coraggio di sforare più decisamente, e sia pure temporaneamente e sempre in maniera controllata, i «tetti» che ingabbiano l’Europa per sostenere la spesa per consumi nell’inverno che sta per cominciare e il coraggio di impostare la ripresa a più lungo periodo attorno a finanziamenti comunitari per le infrastrutture e altri programmi di medio-lungo periodo in cui ciascun Paese membro avrebbe dovuto accettare di trovarsi - magari solo temporaneamente - nella posizione di finanziare investimenti di altri Paesi membri. Questa prospettiva si è scontrata con la ristrettezza di orizzonti di alcuni Paesi, prima tra tutti la Germania, tra l’altro ancora traumatizzata dal ricordo della grande inflazione di ottant’anni fa.

Mentre i capi di Stato e di governo europei tornavano a casa a festeggiare un Natale di recessione, il conflitto istituzionale americano rianimava le Borse di New York che recuperavano una parte del terreno perduto oscillando tra -0,5 e +0,2 per cento; quelle europee chiudevano con perdite generalmente comprese tra -2 e -3 per cento. Ci si chiede spesso perché, nelle ultime settimane, mentre la caduta produttiva degli Stati Uniti si fa più dura, le perdite delle Borse europee siano maggiori di quelle americane. Ciò che è avvenuto nella giornata di ieri può costituire una, sia pur parziale, e certo non esaltante, spiegazione.

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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 09, 2009, 05:12:05 pm »

9/1/2009
 
Alitalia, costano troppo bandiera e geografia
 
 
MARIO DEAGLIO
 

Qualcuno poteva sperare che l’avvio della nuova compagnia aerea nazionale fosse motivo di una sia pur modesta soddisfazione; si poteva provare a stendere un velo su illusioni e disillusioni, errori e sproloqui e prepararsi a stappare furtivamente una bottiglia di buon augurio. E non sarebbero stati pochi gli italiani che, nonostante tutto, avrebbero potuto anche commuoversi alla prospettiva che gli aerei con i colori nazionali continuassero a solcare i cieli del mondo, sia pure su un minor numero di rotte.

Gli avvenimenti degli ultimi due giorni hanno reso tutto ciò più difficile e questo per due motivi. Il primo è un clamoroso dissidio al vertice sulle scelte strategiche (il tira e molla su Air France e Lufthansa, su Fiumicino e Malpensa), il secondo è un parallelo e altrettanto clamoroso conflitto alla base tra lavoratori precari e lavoratori a tempo indeterminato. Tale conflitto è sfociato, al di fuori degli schemi sindacali, nella rivolta delle «tute verdi», ossia degli addetti alla pulizia e ai bagagli che rischiano il lavoro a seguito della riorganizzazione aeroportuale. La bottiglia augurale deve quindi essere rapidamente riposta e occorre invece riflettere sui segnali negativi che da questa deludente vicenda derivano sulla possibilità di tenuta dell’Italia.

Alcuni di questi segnali sono purtroppo di carattere strutturale. Ha ragione Umberto Bossi quando afferma che, se Malpensa non sarà uno hub, ossia uno scalo centrale, al quale faccia capo un gran numero di voli, Alitalia correrà un forte rischio di fallimento; ma è purtroppo anche vero che né la nuova Alitalia né l’Italia hanno le dimensioni necessarie per permettersi due hub. In base a considerazioni puramente economiche, un paese come l’Italia dovrebbe avere un solo grande hub delle dimensioni di Parigi ma, data la geografia, le localizzazioni produttive e quelle turistiche, questo semplicemente non si può fare. Per conseguenza, un sistema aeroportuale che riservi un ruolo importante, a livello europeo e mondiale, sia a Fiumicino sia a Malpensa, non può che operare in perdita: rappresenta quindi un costo aggiuntivo per il «sistema Italia» e per il contribuente italiano che possiamo chiamare il «prezzo della geografia». E non appare corretto da parte leghista invocare da un lato il regionalismo e l’autonomia, ossia il lato vantaggioso della geografia, e dall’altro reclamare che di fatto sia il governo centrale ad accollarsi il più che prevedibile deficit di Fiumicino-Malpensa.

Se dal sistema del trasporto aereo si passa a esaminare la struttura della proprietà della compagnia di bandiera, la situazione non appare molto più rosea. Con il senno di poi, da un mero punto di vista finanziario, sarebbe stato preferibile accettare la prima proposta di Air France, caldeggiata dal governo Prodi, osteggiata dall’attuale presidente del Consiglio in campagna elettorale e respinta di fatto, ai primi di aprile 2008, dal mondo sindacale: la rinuncia a tale progetto fu un grave errore non foss’altro perché da allora le condizioni del trasporto aereo mondiale sono incredibilmente peggiorate.

La nuova Alitalia parte infatti nel pieno di una riduzione storica del traffico mondiale delle merci (a novembre -14,5 per cento) e passeggeri (-4,5 per cento), mentre sono azzerati o fortemente ridotti i profitti di colossi come British Airways e Lufthansa; Air France ha mantenuto il volume passeggeri ma presenta una fortissima riduzione del traffico merci e i suoi aerei cargo, pur ridotti di numero, viaggiano mezzo vuoti. Ovunque sono all’ordine del giorno tagli ai voli, all’occupazione, all’operatività degli aeroporti; con la sua posizione assolutamente tiepida nella vicenda, Lufthansa potrebbe quindi ottenere il massimo dei vantaggi, ossia dirottare sui grandi voli intercontinentali in partenza da Francoforte e Monaco un numero di passeggeri italiani sufficiente a colmare i buchi causati dal calo del numero di passeggeri tedeschi.

Air France impegnerà probabilmente cifre assai inferiori nella nuova compagnia rispetto a quanto era disposta a fare otto mesi fa; a questo si aggiungono i costi pubblici dell’accordo (a cominciare dalle condizioni di assoluto privilegio della cassa integrazione dei dipendenti Alitalia rispetto agli altri lavoratori, fino al danno, non certo lieve, che deriva al turismo italiano da disservizi come quelli di ieri). Il tutto è controbilanciato dall’aver mantenuto il controllo della società in mani italiane e può essere considerato il «prezzo della bandiera».

A questo punto, l’italiano medio potrebbe cominciare a fare qualche conto e concludere che la somma del «prezzo della geografia» e del «prezzo della bandiera» è francamente eccessiva. Anche perché la situazione attuale non pare caratterizzata da una pura e semplice socializzazione delle perdite accompagnata da una privatizzazione degli utili: l’Alitalia non è mai stata un gioiello ma piuttosto un oggetto dal luccichio ingannevole. Gli imprenditori che fanno parte della cordata della nuova compagnia rischiano in proprio e le prospettive di ottenere un profitto su questo investimento si spostano in avanti con l’avanzare della crisi. Anche a seguito della crisi finanziaria, per motivi di costo siamo stretti in una morsa. Se vogliamo due grandi aeroporti, non possiamo permetterci una grande compagnia; se vogliamo invece una compagnia adeguata alle nostre dimensioni economiche dobbiamo rinunciare a uno degli aeroporti.

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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 23, 2009, 01:20:52 pm »

23/1/2009
 
Una strada comune
 
MARIO DEAGLIO
 

Chi vuole tenere a galla l’economia deve tenere a galla l’industria dell’auto. Questo principio, apparentemente semplicistico, che prescinde dalla maggiore o minore simpatia culturale nei confronti dei veicoli a motore, appare particolarmente appropriato alla luce di due notizie recentissime: la pubblicazione dei risultati del gruppo Fiat (buoni, ma non tali da suggerire la distribuzione di un dividendo tranne che alle azioni di risparmio) e quella del Bollettino Mensile della Banca Centrale Europea con il suo giudizio durissimo e sconsolato sulla crisi in corso, della quale non promette una rapida fine mentre lucidamente ne mette a fuoco l’effetto negativo sulle generazioni future.

Nella loro aridità le cifre dell’auto sono molto eloquenti. Il valore aggiunto del gruppo Fiat si aggira sui 13 miliardi di euro, di cui almeno 7 realizzati in Italia. Se a questo si somma il valore aggiunto dei fornitori (il cosiddetto «indotto») e delle attività a valle, come le assicurazioni e i finanziamenti, si arriva a una cifra di almeno 30 miliardi di euro, all’incirca il 2% del prodotto lordo italiano. Una situazione analoga, con percentuali sostanzialmente simili si registra in Germania, Francia, Giappone e anche in Svezia e in Spagna; per gli Stati Uniti la percentuale è solo leggermente inferiore.

Questo significa che aumenti o diminuzioni (queste ultime generalmente previste per il 2009) del fatturato del settore automobilistico del 10-20% provocano aumenti o diminuzioni nell’ordine dello 0,2-0,4% del prodotto interno lordo di gran parte di questi Paesi. Se in Italia, per ipotesi, si riuscisse a mantenere il fatturato dell’industria dell’auto nazionale agli stessi livelli del 2008 la pressione produttiva del 2009, oggi prevista nel 2%, si ridurrebbe all’1,6-1,8%, con un salvataggio significativo di posti di lavoro.

Può sembrare paradossale che il sostegno ad un’industria ormai tradizionale come quella dell’auto possa costituire la misura di politica industriale più efficace per sostenere la congiuntura dell’economia avanzata. Forse proprio per questo paradosso, e per la scarsa simpatia che l’auto oggi riscuote nei Paesi ricchi, in quanto ritenuta responsabile di gran parte dell’inquinamento e della congestione, l’idea si è fatta strada solo molto gradualmente.
I principali paesi produttori, però, si stanno ormai muovendo lungo questa strada, e anche l’Italia si appresta a percorrerla nel corso della prossima settimana; probabilmente si giungerà a misure di sostegno coordinate per tutti i paesi dell’Unione Europea.

Se il sostegno si limiterà a misure tradizionali (bonus fiscali alla rottamazione e simili) il risultato sarà limitato alla congiuntura e costituirà soltanto una, sia pure importante, boccata d’ossigeno. Occorre invece pensare ai sostegni dell’industria dell’auto in un’ottica di cambiamento che tenga conto di fattori a un tempo tecnici e culturali. I fattori tecnici sono ben noti e si ricollegano alle tematiche del riscaldamento globale; si potrebbe forse aggiungere che non ha molto senso proporre autoveicoli in grado di viaggiare tranquillamente a velocità che superano i limiti fissati nei vari Paesi oppure veicoli sempre più grandi i quali incontrano difficoltà di parcheggio sempre maggiore. I governi nazionali dovrebbero sostenere le innovazioni che vanno nella direzione di evitare questi inconvenienti e i relativi costi sociali, pur nei limiti ristretti consentiti dai bilanci pubblici.

I fattori culturali sono di più difficile definizione. È però ormai chiaro che in tutti i paesi ricchi l’auto - spesso simbolo estremo dell’individualismo - non gode più di quel prestigio, di quel valore emblematico sul quale si è costruita la sua espansione nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Il recupero dell’auto come fattore positivo di qualità della vita passa attraverso un ripensamento radicale del suo ruolo; in questo senso potrebbe a buon diritto inquadrarsi nel programma del neo presidente americano di far nascere un settore economico «alternativo» tutto da inventare ma incentrato su un diverso uso e su nuove forme di energia, su una vivibilità di tipo nuovo. L’ingresso della Fiat nell’americana Chrysler, un’impresa reduce da un «matrimonio» fallito con la tedesca Daimler, potrà dar luogo a un progetto valido che saprà inserirsi in una simile ottica di ripensamento del prodotto e di riflessione sulle società alle quali il prodotto spesso si indirizza. E i sostegni nazionali e internazionali all’industria dell’auto acquistano validità non solo se daranno una boccata d’ossigeno alla congiuntura ma soprattutto se si inseriranno in un progetto più generale di ridisegno economico e sociale che riesca a smentire le fosche previsioni della Banca Centrale Europea sul futuro nostro e dei nostri figli.

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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 31, 2009, 11:40:50 am »

31/1/2009
 
Economisti contro politici
 
MARIO DEAGLIO
 

La riduzione del prodotto lordo americano nell’ultimo trimestre del 2008 è la peggiore da ventisei anni, ma per valutarla in maniera appropriata occorre correggere ancora al ribasso questo dato perché una parte considerevole di quanto l’industria americana ha prodotto non è stata acquistata da nessuno ma giace nei magazzini. Secondo un calcolo sommario, nel corso della settimana lavorativa che oggi si chiude, la crisi ha distrutto all’incirca un milione di posti di lavoro nei Paesi ricchi (più di 50 mila nella giornata di mercoledì tra le sole grandi imprese americane) e un numero imprecisato, ma sicuramente maggiore, di lavoratori è passato dal lavoro a tempo pieno al lavoro a tempo parziale. Il presidente degli Stati Uniti ha parlato di un «disastro che non accenna a finire» per le famiglie dei lavoratori americani.

Di fronte a una situazione di questo genere c’è poco da disquisire, il politico con responsabilità di governo è come un medico di fronte a una grave emorragia: deve prima di tutto cercare di bloccarla. Poco importa se la cura può avere effetti collaterali dannosi perché l’alternativa è che il malato muoia. Non ci si deve quindi stupire che, in un modo o nell’altro, i governi di tutti i Paesi stiano mettendo da parte i principi del libero mercato e interferiscano apertamente con gli ingranaggi più delicati dell’economia, fino a due mesi fa considerati intoccabili. Molte volte lo fanno controvoglia, sono dei «socialisti riluttanti», secondo la definizione coniata trent’anni fa dallo studioso americano Michael Novak.

L’elenco di queste interferenze è lunghissimo; si va dal piano Obama per lo stimolo fiscale (uno stimolo che dovrebbe derivare da denari che non ci sono) per il quale il neo-presidente degli Stati Uniti ha esplicitamente chiesto la collaborazione dei sindacati, al finanziamento francese di cinque miliardi alle esportazioni di Airbus, un sostegno appena velatamente mascherato; dai massicci e generalizzati sussidi per il settore automobilistico in quasi tutti i Paesi produttori, all’abbozzo di specifiche misure protezioniste, come quella con cui gli Stati Uniti vorrebbero impedire l’utilizzo di acciaio importato per il gigantesco programma di infrastrutture pubbliche che la nuova amministrazione di Washington sta preparando.

Ovunque, quando ce n’è bisogno, le grandi banche vengono salvate con imponenti iniezioni di denaro pubblico e talvolta persino ufficialmente nazionalizzate; il salvataggio negato, in nome dei principi del libero mercato, alla banca americana Lehman Brothers ha peggiorato la crisi rendendola assai più difficile da controllare. Quasi sempre, nei casi di sostegno pubblico a istituti bancari si afferma solennemente la natura privata e l’autonomia degli istituti di credito ma è certo che nessuna banca nei fatti seguirà una politica contraria a quella indicata da un governo «salvatore». In altre parole, mentre si proclama solennemente che il sistema di mercato non cambierà, la natura del sistema è di fatto già cambiata. Dal liberismo siamo già passati a una forma di post-liberismo, dal sistema di mercato, così come si è venuto sviluppando negli ultimi 15-20 anni, siamo già passati a un incerto «post-mercato». Gli oltre duecento economisti americani, tenacissimi sostenitori di un liberismo intransigente, che hanno firmato un manifesto di critica al piano Obama forse vivono in un ambiente scientifico troppo astratto per percepire le difficoltà e le complessità delle situazioni reali e forse per questo sono piuttosto lontani dai problemi umani, oltre che economici, che la crisi finanziaria ha cominciato a porre con grande urgenza.

La difficoltà di far convivere principi e necessità appare evidente nel discorso pronunciato ieri dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel al World Economic Forum di Davos, l’ormai tradizionale luogo d’incontro tra i vertici delle imprese, della finanza e dei governi, quest’anno, non a caso, un po’ sotto tono. In un intervento di largo respiro, quale raramente si sente in un’Europa tutta ripiegata sui propri problemi contingenti, Merkel ha parlato di un «capitalismo diverso» e ha delineato un intreccio tra pubblico e privato, tra mercato e non mercato ben diverso da quel capitalismo americano arrogante e aggressivo che è rimasto di fatto sepolto sotto la montagna di titoli «tossici» che ha esso stesso creato.

Naturalmente, la posizione di Merkel, come quelle di Obama e Sarkozy è piena di contraddizioni, ma tutti i governanti devono muoversi con fatica in una realtà contraddittoria; il Cancelliere tedesco ha inneggiato alla libertà d’iniziativa ma il suo governo non ha avuto alcuna esitazione a salvare istituti bancari in crisi e a lanciare imponenti misure di sostegno per i settori in difficoltà come l’auto. Il fatto è che i capi di Stato e di governo non devono scrivere saggi scientifici ma cercare di far funzionare Paesi molto complicati. La speranza di oggi sta nel pragmatismo dei politici che può alleviare una crisi di entità sconosciuta; per i saggi scientifici ci sarà tempo dopo.

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« Risposta #25 inserito:: Febbraio 07, 2009, 03:45:51 pm »

7/2/2009
 
Una mano ai consumi
 
MARIO DEAGLIO
 

I provvedimenti approvati dal governo a favore dei settori industriali in crisi vanno nella direzione giusta. Se infatti la grave e imprevista riduzione della domanda di beni durevoli dovesse protrarsi ancora per qualche mese, non solo la struttura industriale ma anche la finanza pubblica subirebbero danni molto gravi.

La mancata produzione provocherebbe, oltre alla disoccupazione di qualche centinaio di migliaia di lavoratori dell’industria, anche una forte caduta delle entrate pubbliche a causa delle imposte non incassate, dei contributi sociali non versati e del forte aumento delle uscite dalla cassa integrazione guadagni.

Ne sarebbe sconvolto l’intero assetto della Finanziaria, che si basa su un deficit pubblico tenuto sotto controllo, sia pure con molta fatica, e il Tesoro avrebbe molta difficoltà a trovare sui mercati finanziari internazionali le risorse aggiuntive per turare un ulteriore «buco fiscale» di grandi proporzioni che non era né previsto né prevedibile 3-4 mesi fa. In ogni caso, le dimensioni del debito pubblico fanno sì che l’Italia non possa permettersi interventi di sostegno dell’entità di quelli realizzati in queste settimane da Francia e Germania, paesi il cui livello di indebitamento pubblico è all’incirca la metà di quello italiano.

Occorre considerare che il «bonus fiscale» almeno in parte si pagherà da solo come è già successo con analoghe esperienze del passato in quanto dalle maggiori vendite deriverà un maggiore introito per il fisco. Rappresenta inoltre una misura di rapida attuazione e di rapido effetto ed è associato a un apprezzabile obiettivo generale, quello ambientale, in quanto le nuove auto oggetto di «bonus» andranno a sostituirne altre più inquinanti.

Ci si può attendere che le diverse centinaia di migliaia di italiani che, tra settembre e gennaio, hanno rinunciato a cambiare l’auto, il ciclomotore, il frigorifero e il televisore perché impauriti dalle prospettive di un calo dei loro redditi riesaminino la loro decisione. La riduzione dell’inflazione, del prezzo della benzina e delle rate dei mutui a tasso variabile hanno complessivamente portato qualche sollievo a milioni di bilanci famigliari. Si può allora sperare che un po’ di linfa torni a scorrere nelle vene disseccate del sistema industriale, evitandone così l’atrofia. Tutto ciò non elimina però la necessità di una riflessione più profonda sulla struttura, sulla posizione internazionale e sul futuro del sistema industriale italiano. Per essere veramente valide, le misure attuali devono rappresentare l’inizio di una politica industriale di lungo periodo.

A rendere più urgente questa riflessione occorre ricordare che il dibattito politico-economico che ha accompagnato la difficile stesura di questo provvedimento ha posto in luce un senso di ostilità, di carattere culturale prima ancora che economico, nei confronti della grande industria. Esponenti di rilievo della maggioranza hanno fatto dichiarazioni di netta chiusura e neanche l’opposizione, che pure ha partecipato in maniera sufficientemente costruttiva al dibattito, sembra essere pienamente consapevole della necessità che in questo Paese permangano e crescano grandi strutture imprenditoriali. Solo sindacalisti, dirigenti industriali e imprenditori di medie e grandi dimensioni, a contatto diretto con la pesante realtà industriale di queste settimane, si sono mostrati pienamente consapevoli della gravità della situazione e dell’urgenza di un’azione del governo.

Si sta ampliando rapidamente nell’opinione pubblica un senso di fastidio e persino di antipatia nei confronti delle poche grandi imprese che ancora (r)esistono nel Paese; e questo parallelamente al crescente apprezzamento dei distretti industriali, costituiti di un gran numero di piccole e medie imprese. Un simile atteggiamento comporta spesso l’esaltazione del «piccolo è bello» e del «locale è bello» per cui le imprese dei distretti vanno bene solo se non crescono troppo e rimangono a livello di piccola città o di provincia.

I distretti industriali hanno certo dimostrato negli ultimi anni una notevole vitalità e rappresentano complessivamente un pilastro dell’economia italiana. Il sistema economico italiano non può però reggersi su un pilastro solo. Se vuol veramente continuare a contare qualcosa, l’economia italiana che è ancora la settima del mondo, e che si è sempre retta sui due motori delle piccole e delle grandi imprese, non può diventare soltanto un’economia di aziendine.

Per questo il sistema va sostenuto nel suo complesso in una crisi mondiale senza precedenti per pericolosità, ampiezza e violenza con gli scarsi mezzi a disposizione. Basti ricordare che la perdita annuale annunciata nel giorno stesso del varo dei provvedimenti italiani da una sola grande impresa automobilistica mondiale, la mitica Toyota, è pari ben a 2,9 miliardi di euro, ossia più del totale delle misure italiane di sostegno. A questo punto agli italiani non resta che farsi reciprocamente gli auguri e guardare con maggior simpatia le poche grandi imprese italiane rimaste.

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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 15, 2009, 03:04:48 pm »

15/2/2009
 
Chi pagherà il conto della crisi
 
MARIO DEAGLIO
 

Il comunicato stampa conclusivo della riunione dei ministri economici dei G7, ossia dei responsabili delle sette maggiori economie del mondo contiene una lunga litania di ovvietà. Vi si afferma infatti che la crisi è grave.

Che è necessario ristabilire la fiducia dei mercati, sostenere crescita e occupazione, evitare l’eccessiva volatilità dei cambi. Vi è una rituale condanna del protezionismo anche da parte di rappresentanti di governi, come quello francese, che hanno firmato pochissimi giorni prima provvedimenti che vengono generalmente ritenuti protezionisti.

Non è stata annunciata alcuna nuova specifica azione «ammazzacrisi» ma i ministri hanno notato, con malcelato autocompiacimento, di aver posto in atto misure «sollecite, vigorose, risolute». Poche righe più sopra, però, avevano ammesso che queste politiche non hanno finora prodotto risultati e che la «dura recessione ha già provocato importanti effetti negativi sull’occupazione» e «si prevede che continuerà per gran parte del 2009». Questa incongruenza tra l’entità delle misure e la scarsità dei risultati, del resto, è tipica delle difficoltà del momento. Non bisogna, del resto, dimenticare che i venti della crisi hanno acuito le difficoltà di molti governi: da quello giapponese, ormai debolissimo, a quello britannico, alle prese con una crisi che sta incrinando alle fondamenta le prospettive di crescita del Regno Unito, che ha puntato quasi tutto sulla sua posizione centrale nella finanza internazionale. E infine a quello del neopresidente americano, le cui misure anticrisi sono state adottate controvoglia, proprio alla vigilia del G7, da un Congresso riluttante e sono state accolte da ulteriori, gravi cadute di Borsa.

Inserendosi nella linea di una lunga serie di analoghi comunicati, che hanno suggellato le numerose riunioni inconcludenti degli ultimi due anni, le contraddizioni di questo documento dimostrano una verità che forse preferiremmo non conoscere: non abbiamo, per il momento, una ricetta vincente, questa crisi è troppo diversa da tutte le precedenti per cercarla sui libri di testo o nell’esperienza storica. In altre parole, «il re è nudo», o, se si preferisce, come ha scritto su queste colonne Domenico Siniscalco, ci manca la «pallottola d’argento», l’unica veramente in grado di uccidere il vampiro che succhia le risorse delle nostre economie. Tale «pallottola» dovremo costruirla noi, nei prossimi mesi (o anni?) scordandoci la beata illusione di ripristinare tutto come prima con poche misure risolutive.

Per fortuna, pur in questa non lusinghiera prospettiva, la riunione di Roma presenta qualche spunto di interesse e indica che qualcosa comincia a muoversi. Vi sono frequenti sottolineature sulla necessità di azioni comuni e una nuova urgenza nell’invocare la riforma del Fondo Monetario Internazionale (che proprio i governi dei paesi ricchi, e soprattutto degli Stati Uniti, hanno finora di fatto osteggiato); si parla di riforma delle regole, un passo avanti rispetto alla rigidità su questo punto della precedente amministrazione americana; si loda apertamente la politica cinese, in quella che è corretto leggere come un’apertura al grande paese asiatico. La Cina, tra l’altro, detiene la maggior parte delle riserve valutarie del pianeta e, come altri giganti del mondo emergente, continua incomprensibilmente a essere tenuto fuori da queste riunioni, il che ne riduce molto l’efficacia. E non si dimentichi il cambiamento d’opinione del Presidente del Consiglio italiano, contestuale alla riunione di Roma, l’unico tra i capi di governo a minimizzare, fino all’altro ieri, la gravità della situazione.

Qualcosa comincia quindi a muoversi nel mondo ingessato di queste riunioni e può darsi che la diplomazia economica del paese ospitante, ossia dell’Italia, ne abbia qualche merito. Ma perché la crisi venga veramente affrontata è necessario ben altro; a Roma si è fatta strada la convinzione che questa crisi, visto che non può essere annullata con qualche misura miracolosa, deve essere gestita.

In quest’ottica, i ministri economici del G7 - che, dopo tutto, sono uomini politici - dovrebbero porsi la fondamentale domanda politica che ci occuperà nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni. Questa domanda è molto semplice: chi pagherà per questa crisi? Saranno solo gli azionisti delle banche americane e inglesi fallite, nazionalizzate o tenute in piedi dal sostegno pubblico o i loro manager superpagati? Saranno i risparmiatori che hanno investito in una Borsa che ha mediamente dimezzato le loro risorse finanziarie? Saranno i lavoratori di tutto il mondo, e non solo quelli americani, con la perdita dei posti di lavoro? O non si tratterà, più in generale, dei cittadini del mondo ricco, travolti da una possibile, forse probabile, ondata di inflazione generata dal fortissimo indebitamento pubblico legato ai salvataggi e ai sostegni di questi mesi?

I ministri economici delle maggiori economie sviluppate del mondo, e, a maggior ragione, i capi di stato e di governo che tra qualche mese si riuniranno al G8 della Maddalena dovrebbero cercare di rispondere a queste domande che saranno con noi nel prevedibile futuro. A giudicare dai risultati della riunione di Roma, il cammino da compiere è ancora molto, molto lungo.

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« Risposta #27 inserito:: Marzo 06, 2009, 05:22:10 pm »

6/3/2009
 
Una doccia fredda dalla Cina
 

MARIO DEAGLIO
 
Pensavamo di aver ormai visto di tutto in questa crisi finanziaria ma evidentemente ci eravamo sbagliati. Le Borse mondiali che pendono dalle labbra del primo ministro cinese, l’economia globale che aspetta trepidante la salvezza che arriva da Pechino è uno spettacolo assolutamente inedito e induce a riflettere sulla rapidità e profondità con cui, al soffio della finanza malata, stanno cambiando le cose di questo mondo.

Due giorni fa sui mercati finanziari americani ed europei si era diffusa la speranza che, nel discorso di apertura della seconda sessione dell’XI Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, il primo ministro Wen Jiabao avrebbe annunciato un incremento del già gigantesco piano cinese di investimenti anticrisi (585 miliardi di dollari su un arco di due anni) per collaborare alla ripresa mondiale.

Questa speranza, unita al lieve miglioramento di un indice congiunturale cinese, aveva contribuito a far ripartire i mercati: Wall Street attendeva impaziente le notizie di Pechino, gli intransigenti sostenitori del capitalismo di mercato si aspettavano la salvezza dagli effetti sull’economia mondiale di un piano «socialista» di investimenti.

Un piano che trae largamente la sua filosofia e le sue origini dal socialismo reale. E per settimane il governo di Pechino era stato «corteggiato» da inviati del presidente Obama; il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, vi si era recata con molti sorrisi e molto pragmatismo (e nessun accenno ad argomenti spinosi come il Tibet e i diritti umani).

Ieri è arrivata la doccia fredda. Wen Jiabao non ha aggiunto neppure un dollaro al suo piano, già assai complesso e di difficile realizzazione, dimostrando così un realismo maggiore di quello manifestato dalle grandi Borse. L’illusione della possibilità che la Cina possa ribaltare la congiuntura mondiale negativa deriva infatti da una scarsa comprensione, in ambienti finanziari, della struttura dell’economia mondiale: questo piano, infatti, potrà semmai aiutare i Paesi africani, asiatici e latino-americani dai quali la Cina compra materie prime in grandi quantità ma avrà comunque effetti secondari per le sofisticate economie occidentali. I cinesi dispongono largamente di tutte le tecnologie necessarie per rinnovare le loro infrastrutture di trasporti e costruire una rete sanitaria di base e dalla loro domanda aggiuntiva non potranno derivare molte grandi commesse per le industrie europee o americane; tanto più che, nel generale clima di protezionismo che oggi si respira, non sarà difficile a Pechino dare la precedenza alle imprese di casa propria.

Dal discorso di Wen Jabao si può concludere che la Cina si ritiene fortunata se riuscirà a salvare se stessa. I numeri cinesi fanno impallidire le brutte cifre delle economie occidentali. Terminato il periodo di vacanze legate al capodanno cinese, in queste settimane milioni di lavoratori stanno tornando dalle loro campagne alle fabbriche, che in parte non riapriranno. Un settimanale economico cinese, il China Economic Weekly, ha stimato in 6,7 milioni i posti di lavoro «ufficiali» già perduti per effetto della crisi e a questi bisogna aggiungere un numero imprecisato ma rilevante di lavori «non ufficiali». Secondo l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, per dare occupazione a tutti quelli che la stanno cercando la Cina dovrebbe creare nel 2009 ben 33 milioni di nuovi posti di lavoro, una parte notevole dei quali dovrebbe andare a giovani in cerca del primo impiego e tra questi ci sono non soltanto gli operai non specializzati, ma diversi milioni di laureati e diplomati.

Sono queste le premesse per un piano che prevede una crescita dell’8 per cento nel 2009 che a noi sembra straordinaria (l’Italia l’ha a malapena realizzata in un decennio) ma che rappresenta una netta flessione nella velocità di espansione degli ultimi anni. L’obiettivo dell’8 per cento di crescita è considerato il minimo indispensabile per mantenere il «patto sociale» non scritto che tiene insieme la Cina; equivale, in questo senso, all’ancora imprecisato obiettivo italiano di decrescita (-2 per cento?). È pertanto curioso ma comprensibile che Wen Jabao e Giulio Tremonti abbiano usato ieri quasi gli stessi termini per parlare delle prospettive economiche del 2009: entrambi hanno dichiarato che saranno più difficili di quelle del 2008.

Proprio per questa difficoltà, il governo cinese prevede con molta calma un periodo di agitazioni e di forti tensioni sociali, che peraltro già hanno cominciato a manifestarsi. E non senza un brivido nella schiena si è potuta leggere su La Stampa di ieri una corrispondenza da Londra di Francesca Paci in cui si dà conto della previsione di un’estate densa di disordini e sommosse nelle città britanniche, che preoccupa non solo la polizia ma anche l’esercito.

La morale di tutto ciò è purtroppo una sola: non ci sono né soluzioni facili, né tempi brevi, né ipotetici aiuti cinesi né, purtroppo, idee chiare. Il primo ministro cinese, il presidente americano, i ministri europei dell’Economia, i banchieri centrali che ieri hanno ancora una volta tagliato il costo del denaro (una misura ritenuta indispensabile ma quasi certamente inefficace nel breve periodo) guardano tutti impotenti le economie che rallentano e le Borse che calano. La quotazione di Citigroup, l’orgogliosa nave ammiraglia del capitalismo finanziario degli Stati Uniti, è scesa ieri sotto il livello di un dollaro: due anni fa le stesse azioni si cambiavano a 50 dollari, un anno fa a 25 dollari. In queste semplici cifre sono racchiuse le dimensioni del problema che stiamo vivendo.

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« Risposta #28 inserito:: Marzo 18, 2009, 10:36:36 am »

18/3/2009
 
I paletti allo stato
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Nelle ultime settimane, il dibattito sui rimedi alla crisi finanziaria ha subito due importanti evoluzioni parallele. La prima riguarda il ruolo delle banche: man mano che la prospettiva di un sostegno pubblico al capitale delle banche - tramite i cosiddetti «Tremonti bonds» e gli analoghi strumenti di altri Paesi - si è fatta più concreta, gli obblighi ai quali le banche dovrebbero sottostare per avere accesso a questa fonte di finanziamento (piuttosto cara, visti gli attuali andamenti dei tassi) sono diventati sempre più gravosi e più lontani dalla normale attività bancaria: si è arrivati, nel dibattito politico, a ipotizzare semplicisticamente l’obbligo per le banche di riservare quote predeterminate del credito alle piccole e medie imprese sotto il controllo dei prefetti.

Se ne deve dedurre che il compito del banchiere non sarebbe più quello di compiere una valutazione, di cui è personalmente responsabile, del rischio connesso alla concessione di credito alle singole imprese bensì quello di adempiere un dovere burocratico-amministrativo, con il prefetto che lo incalza.

Elo potrebbe, al limite, sanzionare se non raggiungesse una certa «quota» di credito erogato. L’immagine di un banchiere libero nel suo operare che presta denari non suoi ed è tenuto a non perderli perché li deve restituire ai depositanti aumentati di un, sia pur minuscolo, interesse sembra così perdere di consistenza.

La seconda evoluzione riguarda la posizione delle piccole e medie imprese. Si è fatta strada l’idea che, anziché il risultato di una convergenza della libera volontà di una banca e di un’impresa, il credito sia un «diritto» per le imprese, specie se piccole e in difficoltà, in base a valutazioni esterne largamente sganciate dalla loro produttività, dai loro prodotti, dai loro programmi. A leggere alcune dichiarazioni di politici si deve concludere che il credito verrebbe «erogato» quasi automaticamente come si «erogano» i vaccini durante un’epidemia.

Queste tendenze sono emerse, in maggiore o minor misura, in un gran numero di Paesi. Il presidente degli Stati Uniti ha incluso misure che facilitano il credito alle piccole imprese nel suo «pacchetto» di rilancio con l’obbligo per le banche di trasmettere informazioni in merito alla loro attuazione. Dall’Australia alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Germania, la mobilitazione delle piccole imprese per avere condizioni creditizie e fiscali di favore si sta, del resto, sviluppando con una forza imprevista, forse superiore alla mobilitazione dei lavoratori delle grandi imprese per salvare il proprio salario. Il tutto potrebbe convergere, certamente al di là delle intenzioni di gran parte dei proponenti, e in maniera sicuramente imprevista, verso soluzioni di tipo «sovietico», ossia verso un pesante dirigismo di tipo amministrativo riferito al credito bancario, una forma parzialmente inedita di protezionismo.

Questa concezione del ruolo di banche e imprese si è rivelata particolarmente forte in Italia, per l’incidenza assai alta di imprese piccole. Ed è toccato al governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua audizione di ieri alla Commissione Finanze della Camera, chiarire i limiti entro i quali interventi amministrativi sul credito possono essere accettabili. Rimasto silenzioso di fronte agli «sconfinamenti» sul terreno bancario del governo e in particolare del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, Draghi ha risposto con il linguaggio misuratissimo dei banchieri centrali sottolineando la fondamentale solidità delle banche italiane. Grazie a questa solidità, gli interventi di sostegno al capitale decisi dal governo non sono forme di salvataggio di chi sta per annegare ma semmai dei ricostituenti per sostenere la corsa. Ha rivendicato «la forza patrimoniale della banca centrale italiana» che ha consentito interventi rapidi e di ammontare significativo senza mettere a rischio gli equilibri del bilancio (altrettanto non si potrebbe dire, tra l’altro, della banca centrale degli Stati Uniti). Ha denunciato senza mezzi termini la possibilità di pressioni a livello locale, il «pericolo di interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi».

Sarebbe errato ridurre a un contrasto personale Tremonti-Draghi la differenza di opinione tra un governo «interventista» e una Banca d’Italia tesa a preservare la caratteristica del credito come «attività imprenditoriale». Lo scontro è, semmai, tra due modi di intendere il ruolo delle banche centrali e del sistema bancario in genere: subordinato, non solo secondo il governo italiano ma più in generale secondo «i governi» dei Paesi ricchi, a più generali esigenze nazionali; libero e imprenditoriale secondo i governatori delle banche centrali. Per cui può anche succedere che governi, come quelli attuali di gran parte dell’Occidente - Italia naturalmente compresa e, anzi, in prima linea - partiti con istanze di difesa del mercato e delle libertà economiche, finiscano per intervenire in senso non precisamente confacente ai principi di questo mercato e queste libertà. È chiaro che in questa crisi perdurante - sulla cui rapida fine neppure il governatore Draghi ha dato alcuna speranza - il pendolo si sta spostando dal mercato verso lo Stato; ma occorre porre dei paletti. E uno di questi, forse il più importante, deve essere la libertà di decisione e di azione di banche economicamente sane.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #29 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:56:28 pm »

2/4/2009
 
L'America e gli altri
 
MARIO DEAGLIO
 
È difficile prevedere come finirà la riunione del G20 che si apre oggi a Londra, la cui vigilia è stata caratterizzata non solo da violente manifestazioni, ma anche da forti differenze d’opinione tra i partecipanti. È però già possibile dire che cosa non succederà: da questa tempestosa conferenza non verrà fuori, come per colpo di bacchetta magica, la soluzione della crisi in atto. Nel migliore dei casi, a un accordo sui principi farà seguito una fase, più o meno lunga, di messa a punto tecnica di provvedimenti concordati, destinati a rimettere in pista l’economia globale.

Questo scenario è però di difficile realizzazione. Il problema, infatti, non è quello di gonfiare allegramente la spesa pubblica americana nella speranza (flebile) che un simile gonfiamento basti da solo a far ripartire l’economia mondiale senza provocare un’inflazione globale; si tratta invece di decidere se sia possibile e desiderabile la continuazione del primato finanziario del dollaro. Si è voluto paragonare la riunione di Londra alla conferenza di Bretton Woods del 1944, ma allora la conferenza monetaria era funzionale al nuovo ordine mondiale che gli eserciti alleati stavano costruendo.

Oggi invece, molti, soprattutto a Washington, vorrebbero cambiare il sistema monetario lasciando invariato l’ordine mondiale. Per l’interazione di motivi economici e politici il vertice si presenta articolato a diversi livelli. Il più importante è quello dell’incontro-scontro tra Stati Uniti e Cina: tra il maggiore debitore del mondo e il suo maggiore creditore, due accaniti avversari che competono per la supremazia economica (e politica) ma che si trovano sulla stessa barca e devono cooperare perché la barca non affondi. Gli Stati Uniti non possono fare a meno dell’impegno della Cina a non vendere i titoli in suo possesso emessi dal Tesoro di Washington e a sottoscriverne altri; per continuare a crescere con l’elevata velocità di cui ha bisogno, la Cina, dal canto suo, difficilmente può fare a meno delle esportazioni verso gli Stati Uniti, destinate a essere pagate in dollari.

Basterà quest’interesse comune a farli andare d’accordo? È molto difficile dirlo. Gli Stati Uniti danno per scontato che il dollaro continui a essere la stella fissa dell’universo delle valute, i cinesi hanno già fatto sapere che vorrebbero sostituirlo con una «moneta artificiale», una sorta di «paniere di monete», delle quali il dollaro rimarrebbe la più importante, perdendo però le sue caratteristiche di unicità. Una nuova moneta per gli scambi dell’economia globale sarebbe forse la soluzione migliore per cancellare il recente passato monetario, i mutui subprime e i titoli tossici. Rappresenterebbe però un’evidente riduzione del potere finanziario americano ed è molto dubbio che il neo-presidente degli Stati Uniti possa accettarla. Dalla definizione di questi rapporti complessi sapremo se esistono davvero le condizioni politiche per un’uscita dalla crisi, senza le quali gli esercizi dei tecnici della finanza paiono di scarsa utilità. La risposta, però, non l’avremo dal comunicato stampa ma dal comportamento concreto dei governi e delle banche centrali nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

Il secondo livello è quello delle regole per la finanza mondiale. Come unico Paese veramente «sovrano» gli Stati Uniti sono molto riluttanti ad accettare che un organismo internazionale possa estendere i suoi controlli alle banche americane, così come resistono all’idea che i tribunali internazionali possano giudicare cittadini americani. Su questo punto insistono gli europei, e in particolare i francesi, forse nel tentativo di mostrare che gli Stati Uniti sono «un Paese come gli altri», forse per giustificare, in caso di un «no» americano, l’adozione da parte dell’Unione Europea di misure protezionistiche. Questa spaccatura di fondo potrebbe risultare paralizzante e costituisce il maggior rischio di fallimento del vertice.

Esiste poi il livello dei problemi specifici, marginali in questo convegno ma fondamentali per gli equilibri del pianeta, in cui i progressi sembrano meno difficili: per essere efficaci, le politiche ambientali ed energetiche devono poter contare su una solida base di finanziamenti internazionali; settori molto diversi, da quello della farmaceutica a quello della musica, necessitano di normative mondiali sui diritti d’autore; l’emergenza africana non può essere affrontata con successo in ordine sparso. Qui le convergenze appaiono maggiormente possibili e contribuiscono a non far perdere le speranze. Settantasei anni fa, nella stessa Londra, si svolse un’analoga conferenza, a pochi chilometri dalla sede di quella attuale, convocata per porre rimedio ai guasti della crisi mondiale iniziata nel 1929. Essa fallì, perché gli Stati Uniti del presidente Roosevelt rivendicarono, anche allora, l’«eccezionalità» americana. E i partecipanti, lasciata la capitale inglese, imboccarono ciascuno la via del proprio protezionismo; una via che contribuì a portarci alla seconda guerra mondiale. I capi di Stato che si riuniscono oggi dovrebbero avere sempre davanti gli occhi questo precedente storico.

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