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Autore Discussione: MARIO DEAGLIO.  (Letto 102005 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Aprile 21, 2011, 06:02:55 pm »

21/4/2011

Un Paese senza energia

MARIO DEAGLIO

La marcia indietro del governo sulla costruzione di quattro centrali nucleari mira a evitare un «no» popolare non solo in questo referendum ma anche - e soprattutto - negli altri due con i quali gli italiani sono chiamati a esprimersi il 12 giugno: quello sulla privatizzazione dell’acqua e quello sul legittimo impedimento. Un «no» sul nucleare, sull’onda dell’incidente alla centrale atomica giapponese di Fukushima, potrebbe infatti facilmente tirarsi dietro altri due verdetti negativi; e se l’impatto emotivo di Fukushima inducesse più della metà degli elettori a recarsi alle urne - dopo una lunga serie di referendum in cui il «quorum» non è stato raggiunto - l’incidente atomico porterebbe al siluramento sia della privatizzazione dell’acqua sia delle norme sul legittimo impedimento che stanno particolarmente a cuore al presidente del Consiglio.

Questo sembra essere il retroscena politico della rinuncia-rinvio del governo sul nucleare. Più rinvio che rinuncia, stando alle dichiarazioni in Senato del ministro delle Attività produttive, Paolo Romani. Il governo sembra poi essere riuscito a provocare divisioni non piccole nell’opposizione mentre l’eventuale acquisto di centrali nucleari americane anziché francesi, potrebbe rappresentare una ritorsione contro Parigi per una serie di «dispetti» che va dal caso Parmalat all’immigrazione e a Schengen.

Tre piccioni con una fava, quindi. Se così è stato, il governo si è dimostrato politicamente astuto e, per usare un termine calcistico, ha «dribblato» gli avversari. A queste capacità tattiche indubbiamente buone si accompagna però un’eccezionale miopia di lungo periodo. Quella delle centrali nucleari, infatti, non avrebbe dovuto essere una scelta opportunista, né la rinuncia alle centrali avrebbe dovuto trasformarsi in un proiettile in più da usare nella battaglia politica di tutti i giorni. Si doveva trattare, secondo il programma del governo, di una struttura portante della futura crescita italiana. Su questa struttura portante si poteva ampiamente discutere ma si trattava in ogni caso di un raro guizzo di strategia in una politica ostinatamente, talora sciaguratamente, avvitata sul presente.

La rinuncia al nucleare non appare invece accompagnata da alcuna indicazione di alternative: niente centrali atomiche, e basta. Fermiamo la «dissennata» corsa alla crescita e godiamoci il verde, anzi l’estremismo verde, tutto semplicità e ritorno al passato. Facciamo finta di dimenticare che l’Italia si è sempre sviluppata quando ha avuto ampie disponibilità energetiche e che la sua crescita è strangolata, tra l’altro, da un costo dell’energia elettrica per le imprese nettamente superiore alla media europea. Il «piano delle riforme» preannunciato dal ministro dell’Economia, non può partire se non ha come premessa una strategia energetica. E una strategia non si costruisce abbandonando, senza sostituirli, i progetti precedenti.

Dopo lo «choc» petrolifero del 1973-74 l’Italia si era data una strategia, quella di diversificare i fornitori e sostituire parzialmente il petrolio con il gas naturale. Per circa vent’anni è stato possibile ottenere una crescita abbastanza sostenuta, anche se non esaltante. Oleodotti e gasdotti dall’Europa orientale e dalla riva meridionale del Mediterraneo hanno consentito agli italiani un afflusso regolare, anche se non a buon mercato, di elettricità, benzina e gasolio. Le mutate condizioni richiedono oggi un disegno di lungo periodo del quale non si vedono le premesse.

Ciò è tanto più grave in quanto ci sono ormai chiari segni di scarsità di petrolio «buono», ossia di petrolio facilmente estraibile; le centrali a carbone, anche nella variante «pulita» non sono proponibili in un Paese come l’Italia nel quale l’inquinamento atmosferico obbliga tutti gli inverni a decretare divieti alla circolazione degli autoveicoli. L’energia solare e quella eolica possono essere soluzioni «di contorno» e soddisfare soprattutto la domanda a bassa potenza del consumo famigliare ma è molto difficile - e in ogni caso provoca troppi sprechi - utilizzarle per far muovere un treno ad alta velocità, o per far funzionare un altoforno.

È possibile che la vera alternativa al nucleare sia una politica che spinga a migliorare l’efficienza energetica sia delle imprese sia dei consumi delle famiglie. Se, per avventura, il mondo riuscisse a dimezzare il fabbisogno energetico per la produzione, i trasporti, il riscaldamento e gli usi domestici si otterrebbe il medesimo effetto che deriverebbe da un raddoppio delle riserve energetiche. Uno sforzo importante in questa direzione si ebbe dopo lo choc petrolifero del 1973-74 e in questo campo le imprese italiane non sono mal piazzate: ci sarebbero importanti ricadute tecnologiche a nostro favore.

Il rischio è invece che non si faccia nulla: che si mettano nel cassetto i piani nucleari per tirarli fuori quando la tempesta sarà passata senza seguire strade alternative e che i problemi energetici sollevino semplicemente un polverone di polemiche spicciole. Si tratta di un blocco delle decisioni che gli italiani conoscono molto bene per averlo sperimentato per decenni e che caratterizza quasi tutti i progetti infrastrutturali del Paese. Se il piano nucleare si risolverà semplicemente in un simile blocco, l’Italia si qualificherà una volta di più come un Paese senza energia: non solo quella fisica ma anche quella intellettuale e politica, anch’essa fondamentale per riproporre davvero quella crescita e quello sviluppo che continuano a sfuggirci.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #106 inserito:: Maggio 12, 2011, 10:59:09 am »

12/5/2011 - SÌ DELLA GERMANIA

Draghi alla Bce sulla poltrona più scottante

MARIO DEAGLIO

Lo scarno annuncio dell’appoggio - quasi certamente decisivo - del governo tedesco alla candidatura di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, alla carica di presidente della Banca Centrale Europea (Bce) è stato dato, sicuramente per caso, nel giorno dell’arrivo ad Atene della delegazione dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, incaricata di concordare i termini della politica greca di austerità. E ha trovato la capitale greca paralizzata dall’ennesimo sciopero generale precisamente contro quella politica di austerità. Pochi giorni prima, l’Eurostat, l’istituto statistico europeo, ha certificato che il debito pubblico tedesco ha superato quello italiano in valore assoluto, divenendo il terzo del mondo.

Draghi è stato quindi invitato ad accomodarsi su una poltrona che scotta, nel momento più difficile della storia dell’euro, in un quadro di generale confusione del mercato finanziario internazionale. Il debito greco è la punta di un iceberg che potrebbe sconvolgere il quadro politico-economico globale e non solo quello europeo: ci si accorge oggi che l’ammissione della Grecia nella zona euro è stata avventata e che la Grecia si trova in una situazione caotica non solo finanziaria ma anche, e soprattutto politica e civile.

Eppure sarebbe un disastro per tutti lasciarla fallire, ossia, per dirla in termini più diplomatici, permetterle di «ristrutturare» il proprio debito.

Come ha spiegato molto chiaramente in un’intervista a La Stampa di martedì il membro italiano del consiglio della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, la mancanza di una propria moneta da parte della Grecia impedirebbe il normale funzionamento di quell’economia mentre la crisi si estenderebbe ad altri paesi dell’area euro. I tedeschi che invocano la massima severità contro Atene si farebbero del male da soli perché sono proprio le banche tedesche ad avere in portafoglio gran parte del debito greco e la loro conclamata solidità sarebbe compromessa. In queste condizioni, il compito più urgente e delicato del presidente della Bce, non è quello, pur importante di vigilare contro l’inflazione strisciante degli ultimi mesi bensì quello, assai più arduo, di impedire da un lato la svalutazione/ristrutturazione del debito greco e dall’altro di riportare l’economia greca - in tempi ragionevoli ma non così stretti come quelli attualmente previsti - verso un funzionamento normale che le permetta di adempiere ai propri doveri di debitore. La stessa politica - in condizioni, peraltro, meno acute - deve essere svolta nei confronti di Irlanda e Portogallo, gli altri due Paesi europei affetti da una grave «malattia finanziaria».

Il nuovo responsabile dell’euro deve quindi avere alle spalle ampia esperienza, per coniugare chiarezza e determinazione sulle strategie e flessibilità sulle mosse tattiche per realizzarle. La cancelliera Merkel non ha trovato in Germania la persona adatta, per l’«estremismo liberista» dei suoi alleati di governo. Axel Weber, presidente della Deutsche Bank e candidato in pectore ha dimostrato di possedere la chiarezza (anche troppa) ma di non avere un briciolo di flessibilità e in aprile ha lasciato l’incarico. Martedì si è dimesso il ministro dell’Economia, il liberale Bruederle.

A Draghi sarà molto preziosa l’esperienza come attuale presidente del Financial Stability Board un organismo internazionale che ha il compito di seguire gli sviluppi della crisi finanziaria e di fare proposte per modificare i meccanismi che ne hanno permesso l’insorgere e che ancora ampiamente l’alimentano. Anche perché non solo in Europa ma neppure sul più vasto orizzonte mondiale Draghi potrà contare su acque tranquille. Tutte le monete sono, infatti, in fermento: sul dollaro pesa l’ombra di un debito pubblico meno affidabile di un tempo, di un deficit pubblico di dimensioni analoghe a quello greco, di un deficit commerciale che, come risulta dai dati diffusi ieri, non accenna a diminuire nonostante la forte perdita di valore del dollaro nell’ultimo anno. Non vanno purtroppo dimenticate neppure le particolari difficoltà del Giappone, oppresso da un debito pubblico ormai pari al doppio del prodotto interno lordo e costretto a incrementarlo ancora per finanziare la difficile ricostruzione dopo il terremoto. La Cina, inquieta per un marcato pericolo inflazionistico, sta a guardare mentre l’uso commerciale della sua moneta, continua a espandersi negli scambi commerciali asiatici in parziale alternativa al dollaro.

In quest’ampia prospettiva sono riduttive le considerazioni tipicamente italiane. Molti in Italia saranno tentati di considerare la partenza di Draghi per Francoforte soprattutto in termini politici locali, ossia come l’uscita di scena di un potenziale presidente del Consiglio di un eventuale governo di transizione o di emergenza, il che, al momento attuale, è francamente irrilevante. E soprattutto gli italiani dovranno scordarsi l’antico vizio della «raccomandazione» e cioè non pensare che, dal suo ufficio nella «torre dell’euro» di Francoforte, Draghi possa o voglia avere un occhio di riguardo per l'Italia. Gli italiani avranno soltanto il vantaggio che deriva dalla ovviamente profonda conoscenza della situazione italiana da parte del nuovo presidente della Bce il che potrà evitare eventuali malintesi. Ogni deviazione dall’attuale, severo programma di rientro dagli attuali livelli di deficit e debito da parte di un qualsiasi governo italiano nei prossimi anni rimarrà assolutamente vietata.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #107 inserito:: Maggio 22, 2011, 10:04:20 am »

22/5/2011

Inevitabile richiamo alla realtà

MARIO DEAGLIO

L’agenzia di rating «Standard&Poor’s», una sorta di angelo vendicatore i cui strali hanno scandito pressoché tutte le tappe della nuova fase della crisi finanziaria globale, ha abbassato ieri l’«outlook» del debito pubblico italiano, pur mantenendo all’Italia il suo «rating» attuale.

Tradotto in italiano - per la grande maggioranza dei lettori che, a buon diritto, non conoscono bene il gergo della finanza - l’oracolo dell’economia globale di mercato ha sentenziato che lo Stato italiano è attualmente in grado di pagare i suoi debiti ma che, se continua con la sua crescita striminzita e se non esce dall’attuale paralisi politica, tra poco non lo sarà più: imboccherà il sentiero infernale sul quale si sono incamminate prima di noi la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e forse anche la Spagna. Per non parlare degli Stati Uniti, il cui debito sovrano è stato trattato allo stesso modo soltanto poche settimane fa.

Gli italiani dovrebbero riservare a questo comunicato almeno la stessa attenzione che hanno dedicato alla raffica di interviste televisive del presidente del Consiglio della sera precedente e all’annuncio di misure vaghe e improbabili, come il trasferimento a Milano di due ministeri, destinate ad ammorbidire gli elettori milanesi, chiamati domenica prossima a scegliere con un ballottaggio il loro sindaco. Si tratta di un duro richiamo alle incompatibilità dell’economia moderna in cui non ci sono pasti gratis che contrasta con la preferenza, largamente diffusa tra gli italiani, a rinviare i grandi problemi dell’economia, ai quali viene preferito il teatrino della politica: a parlare di ballottaggi e dimenticarsi del deficit pubblico, a mangiare oggi e sperare fatalisticamente di poter pagare il conto domani.

Il comunicato di Standard&Poor’s corona una settimana in cui nella finanza mondiale si è visto di tutto. Dall’azione, priva di senso comune a occhi europei, di un agguerrito e arrabbiato gruppo di parlamentari repubblicani americani contrari ad alzare il «tetto del debito» - un’operazione indispensabile perché, di qui a un paio di mesi, il Tesoro degli Stati Uniti sia giuridicamente in grado di rimborsare alla scadenza i titoli del debito pubblico - alla porno-economia del caso Strauss-Kahn emerso proprio mentre l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale stava per recarsi in Europa nel tentativo di risolvere l’emergenza greca.

A differenza dell’Italia, dove siamo al primo avvertimento serio, per la Grecia siamo ormai al dunque in mezzo a una confusione totale. Per Atene l’unica via percorribile è il fallimento, spesso diplomaticamente indicato come «ristrutturazione del debito», ha dichiarato in buona sostanza a Parigi il ministro francese delle Finanze Christine Lagarde; il fallimento della Grecia sarebbe insostenibile per tutti, ha replicato da Francoforte la Banca Centrale Europea.

Chi ha ragione? Siamo di fronte a un dilemma ben più difficile del quesito che, in una delle più note leggende greche, la Sfinge pose a Edipo; i responsabili dell’economia di ogni parte del continente non lo sanno bene, ed eccoli allora affannarsi a immaginare la «ristrutturazione volontaria» del debito greco, ovvero un «fallimento-non fallimento», un’acrobazia giuridico-intellettuale che fa il paio con il Trattato di Lisbona, ossia la «costituzione-non costituzione» con cui un’Unione Europea fortemente divisa su tutto, dall’intervento militare in Libia alle politiche sull’immigrazione, riesce a tirare avanti stancamente, giorno dopo giorno.

Un’Unione Europea in cui quasi non si trova più un governo in buona salute, dove Merkel e Sarkozy - per non parlare del presidente del Consiglio italiano - vedono diminuire il consenso popolare e subiscono sconfitte elettorali gravi, mentre le piazze spagnole si riempiono di giovani che, per ora molto garbatamente, vogliono sapere perché i politici, dopo averli privati di prospettive future di vita, li stiano privando anche di un reddito di sopravvivenza in nome dell’economia di mercato. E non pochi si domandano se e quando le piazze di altri Paesi europei si riempiranno di altri giovani che ripeteranno la medesima, imbarazzante domanda.

Da quest’immane caos non si esce semplicemente con buone parole, con buoni propositi e neppure con il cosiddetto nuovo miracolo tedesco, che per il momento è ancora in una fase di recupero dopo le cadute produttive della crisi. Non si esce senza un’idea chiara di un nuovo patto sociale europeo che dovrà avere una forte connotazione generazionale. Dovrà essere, insomma, un patto tra giovani e meno giovani, un patto fra chi ha risparmi da parte che sarebbero intaccati da un’eventuale inflazione e chi da quest’inflazione - da tenere in ogni caso sotto controllo - potrebbe forse ricavare posti e occasioni di lavoro. Non si esce dalla crisi senza un patto politico europeo che trasferisca a un esecutivo centrale - rafforzato e dotato di proprie entrate finanziarie - competenze generali di politica economica che i governi di Paesi come la Grecia hanno dimostrato di usare malissimo. La Grecia, poi, dovrebbe essere, oltre che aiutata, di fatto «commissariata» finché le sue finanze non torneranno a una parvenza di normalità.

C’è, insomma, da abbandonare la politica-spettacolo e al tempo stesso da superare una situazione in cui la sostanza della politica è esclusivamente dettata dalla finanza. Se gli europei non ne saranno capaci, è ben probabile che per l’Europa abbia inizio un processo di dissoluzione.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #108 inserito:: Giugno 08, 2011, 04:23:17 pm »

8/6/2011

L'austerity deve colpire la politica

MARIO DEAGLIO

Senza riduzione del debito pubblico non c’è crescita. Senza crescita, però, la sola riduzione del debito pubblico spinge l’economia verso una nuova fermata.

E’ in queste condizioni difficili che la Commissione dell’Unione Europea ha inviato ieri le sue «raccomandazioni» ai ventisette governi degli Stati membri, intenti a preparare le leggi finanziarie per il 2012: una novità del sistema europeo di governo dell’economia, introdotta per evitare ripetizioni della «tragedia greca» della finanza pubblica e impedire politiche troppo disinvolte a spese di tutti.

Nelle «raccomandazioni» la Commissione schiaccia fino in fondo il freno del rigore: «Non abbiamo alcun desiderio di imporre l’austerità agli europei - hanno scritto i commissari - ma è un fatto che l’insostenibilità delle finanze pubbliche sta limitando il nostro potenziale di crescita». Giudica generalmente «troppo poco ambiziosi» e troppo vaghi i piani dei governi ai quali indica una serie di priorità: aumento dell’età pensionabile, riduzione dei pensionamenti anticipati, aggancio dei salari alla produttività, semplificazioni burocratiche per le imprese e incentivi per la ricerca e lo sviluppo. Non c’è male sul piano dei principi, soprattutto per chi non deve la propria carica al consenso degli elettori, ma la traduzione di questi propositi abbastanza nobili in proposte concrete è difficilissima per governi alle prese con un’impopolarità crescente.

La Commissione bacchetta un po’ tutti, ma indirizza un discorso particolarmente severo proprio all’Italia, forse perché in realtà proprio l’Italia è il Paese-chiave per la tenuta dell’euro. Sostiene che fino al 2012 i programmi italiani sono sostanzialmente in linea con gli impegni presi di riduzione di deficit e di debito, ma che i piani fiscali per il 2013-14 non sono adeguati all’obiettivo; in questo è in linea con il giudizio di Moody’s, l’agenzia internazionale che ha confermato la sua valutazione sullo stato attuale della finanza italiana ma ha peggiorato la valutazione futura. Quello che è richiesto all’Italia è, in pratica, un cambiamento radicale e gigantesco del settore pubblico. Dietro l’espressione, apparentemente «innocente», di «riforme di struttura» si cela un rinnovamento profondo di tutte le procedure amministrative.

Rinnovamento, è inutile dirlo, che risulterà in una sensibile riduzione del numero dei dipendenti pubblici a tutti i livelli nel giro di pochissimi anni. Le forze politiche saranno costrette a presentarsi agli elettori alla fine di questa legislatura- sia che essa arrivi al suo termine naturale sia che invece venga anticipata - non già con la lista dei regali e delle promesse, ma con la lista dei tagli.

Al primo posto di questa lista non può non esserci la stessa politica. Tagli profondi nella spesa pubblica non possono essere credibilmente proposti da chi non è disposto a tagliare la spesa relativa alle proprie funzioni. Devono quindi costituire il punto di partenza di chi vuol governare il Paese nel prossimo futuro. A un calcolo approssimativo, non dovrebbe essere troppo difficile ottenere un taglio di 1-2 miliardi di euro l’anno, agendo sulla riduzione sia dei privilegi della politica sia sul numero di quanti ne hanno diritto.

Solo con questa premessa sarà possibile cercare davvero di rendere al tempo stesso più efficienti, meno complicate e meno care le procedure amministrative: i burocrati dovranno essere sostituiti, dove possibile, dai computer. Alcune fasi del processo amministrativo dovranno essere saltate, magari prendendo a esempio quanto già si fa in molti Paesi. E un pilastro fondamentale, quello da cui è auspicabile che derivi il maggior contributo, sarà una lotta accanita all’evasione fiscale, un terreno sul quale si è ottenuto parecchio in questi anni ma che comincia a provocare forme vistose di risentimento.

Dallo sport all’agricoltura, i sussidi, anche quelli giustificabili e ragionevoli, dovranno essere rivisti con spirito molto critico; nelle «libere» professioni occorre liberalizzare l’entrata, resa sempre più difficile nel corso dei decenni. E’ inevitabile che molte missioni militari all’estero debbano essere terminate. E forse bisognerà decidersi a vendere un po’ di quell’oro, acquistato decenni fa a trentasei dollari l’oncia, che ora ne vale più di millecinquecento, una mossa che i governi di ogni colore sono sempre stati molto restii a prendere in considerazione. Da tutte queste misure risulterà probabilmente un insieme non trascurabile di risorse da destinare non solo alla riduzione del debito ma anche a progetti di crescita.

Chi vuole governare questo Paese nei prossimi anni potrà essere davvero credibile agli elettori e ai partner europei solo se si presenterà con un programma in regola su questi punti. In caso contrario, bando alle ipocrisie: prepariamoci, di qui a qualche anno, ad abbandonare l’euro e a riprendere il vecchio ciclo di inflazione e svalutazione.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #109 inserito:: Giugno 27, 2011, 09:55:06 am »

24/6/2011

Attenti, è l'ultimo autobus

Mario DEAGLIO

Chi analizza i dati economici degli ultimi giorni può essere più che giustificato se si lascia andare a una crisi di sconforto. Nell’ampia massa di notizie sulla congiuntura e sulle imprese di tutto il mondo è difficilissimo trovare qualche segnale davvero positivo.

Negli Usa aumenta la disoccupazione, in Italia il Centro Studi di Confindustriaprevede un tasso di crescita dimezzato, al ridicolo, quasi inesistente livello dello 0,6 per cento, del tutto insufficiente a qualsiasi discorso di rilancio.

Sempre negli Stati Uniti la vendita delle abitazioni nuove fa registrare l’ennesimo segno negativo, in Italia dal mondo del commercio arriva l’ennesimo allarme sulle serrande dei negozi che chiudono per sempre.

La presidente della Confindustria invoca riforme immediate, il presidente della Fed, la banca centrale americana riflette in maniera malinconica sui possibili effetti della crisi greca. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, basti pensare che persino in Germania, il Paesecampione del recente recupero, illusoriamente scambiato per crescita, il più noto indice congiunturale registra un’inattesa e grave caduta. La stessa Cina non sembra esser più un Eldorado senza crisi, visto che, pur con ripetuti rialzi dei tassi di interesse e altre misure finanziarie restrittive, non riesce a tenere a freno l’inflazione.

E’ ormai chiaro che nell’ambiziosa manovra di rilancio dell’economia mondiale basata sull’iniezione di nuova liquidità da parte degli Stati unici - in pratica, la stampa di nuovi dollari - qualcosa è andato storto e il mondo si trova sprovvisto di un «piano B», un piano di riserva per far ripartire il motore bloccato o troppo lento. Dalla politica non viene nessun barlume di soluzione e il mondo politico italiano spicca per la sua capacità di dimenticare i grandi problemi per dettagli come la polemica nascosta tra Bossi e Maroni, mentre molti mezzi di informazione dedicano più spazio alle difficoltà dell’Inter a trovare un nuovo allenatore che alle difficoltà dei giovani a trovare un lavoro.

E’ tempo di uscire da questo circolo vizioso, di provare a immaginarsi strade di crescita, di iniziare il discorso, troppo a lungo interrotto, sul nuovo sviluppo. Limitandosi all’Italia, lo si può fare domandandosi come potrebbe questo Paese riprendere, sia pure molto modestamente, un cammino di espansione della sua economia. Che cosa ci vorrebbe per passare dal misero 0,6 per cento del 2011 di cui - purtroppo realisticamente - ci accredita il Centro Studi della Confindustria diciamo a un 2 per cento nel 2012? Dopotutto, si tratta di un tasso che riuscivamo a raggiungere con disinvoltura ancora una quindicina di anni fa.

Deve essere chiaro che non c’è una ricetta miracolosa, non ci sono singole misure che possano agire da potentissime medicine. C’è invece una condizione di base che bisogna ricreare. Si tratta di un generale clima di collaborazione sulle questioni fondamentali, una sorta di consenso di fondo che ora manca nella società. Se non partiamo dal presupposto che tutti debbano rinunciare a qualcosa, che tutti hanno sbagliato qualcosa, se si reclamano o difendono diritti invece di accettare doveri è perfettamente inutile darsi da fare. La decomposizione dei rifiuti nelle strade di Napoli, dovuta a un contrasto di interessi particolari e al disprezzo per l’interesse collettivo assai più che a, pur importanti, motivi tecnici diventa una metafora della decomposizione dell’economia di un grande Paese nel più generale quadro di disgregazione del sistema politico-sociale europeo.

Schematicamente, le grandi rinunce sono due. E vedono da un lato alcuni diritti acquisiti, dall’altro alcuni capitali finanziari o immobiliari molto aumentati. Se gli orari, le ferie, le stesse procedure di inizio e termine del lavoro, l’età del pensionamento «non si toccano», le fabbriche - che devono competere con quelle di altri Paesi dove invece è possibile agire su questi elementi della produzione della ricchezza chiudono. Se i capitali finanziari devono essere esenti da imposte per definizione, e le rendite finanziarie devono continuare a essere poco tassate, se l’evasione fiscale deve continuare a essere tollerata, allora è bene rassegnarsi a vedere il Paese scendere sempre più in basso in tutti i confronti con ogni tipo di paesi del mondo.

Le due rinunce (quella «del lavoro» e quella «del capitale») non solo devono in qualche modo bilanciarsi e compensarsi ma anche essere accompagnate da un ulteriore scambio con le generazioni giovani e future. Finora siamo sopravvissuti alla crisi al prezzo di massacrare le prospettive di vita di gran parte di coloro che hanno meno di 35-40 anni; tutta la (poca) crescita che sarà possibile ottenere con questi sistemi deve andare a loro. Nel mondo del lavoro, una maggiore flessibilità all’uscita deve servire a garantire una maggiore stabilità all’entrata, oggi ridotta al peggior tipo di precariato.

Su queste basi è probabilmente possibile costruire un qualche programma politico di cui oggi né la maggioranza né l’opposizione sembrano disporre. Potremmo così provare a costruire un futuro decente per tutti. Per cercare di salire sugli ultimi autobus che la storia mette a nostra disposizione.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #110 inserito:: Giugno 30, 2011, 05:15:30 pm »

30/6/2011

Su Bankitalia non si può sbagliare

MARIO DEAGLIO

Nell’intricato panorama dell’economia italiana, stretta tra la prospettiva di una manovra lunga e severa - resa indispensabile dalle difficoltà europee e mondiali assai più che dalle difficoltà italiane - e quella di una crescita comunque stentata, si è aperto in questi giorni un nuovo problema: oltre a rappresentare un «successo d’immagine» per l’Italia a livello mondiale, cosa rara di questi tempi, la nomina di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea fa sorgere l’esigenza di pensare alla sua successione alla guida della Banca d’Italia.

E di pensarci in tempi rapidi perché, nonostante la schiarita rappresentata dal voto di ieri del Parlamento greco, le perturbazioni monetarie mondiali non sono certo finite e l’Italia avrebbe maggiori rischi di esserne coinvolta se l’incertezza sul nome del futuro Governatore dovesse durare troppo a lungo.

Dalla Banca d’Italia passa una parte non piccola dell’identità economica italiana.

E’ stato grazie alla Banca d’Italia di Mario Draghi che il sistema bancario italiano non si è dissolto dopo l’estate bollente del 2006, con la probabile acquisizione di alcuni dei principali istituti bancari italiani da parte di concorrenti stranieri. Quelle stesse banche sono state incoraggiate a fondersi, a raggiungere e mantenere un consistente livello di solidità patrimoniale; sono oggi annoverate tra le principali aggregazioni finanziarie europee e rappresentano una delle maggiori garanzie della tenuta italiana,

Il sistema di vigilanza della Banca d’Italia, uno dei più severi del mondo, ha poi contribuito a tenere le banche italiane lontane dalle avventure troppo frequenti in altri sistemi creditizi: basti pensare che in Gran Bretagna, patria dei moderni sistemi bancari, tre delle maggiori banche hanno dovuto essere nazionalizzate in situazioni di emergenza, naturalmente a spese dei contribuenti; il costo elevato di quelle nazionalizzazioni (che l’Italia ben difficilmente potrebbe permettersi) ora frena l’economia britannica. In Italia, quasi nessuna banca ha dovuto avvalersi del «paracadute» pubblico rappresentato dai cosiddetti «Tremonti bonds».

Di fronte a una crisi mondiale che fa ragionevolmente prevedere nuovi mesi di incertezza e di perturbazioni monetarie, la tenuta del sistema bancario appare essenziale alla tenuta dell’Italia. Essa sarà meglio garantita se verrà prescelto un candidato in grado di garantire la continuità della «cultura» della Banca d’Italia e della sua esperienza positiva degli ultimi anni.

Fatta salva l’indiscussa qualità professionale dei nomi dei possibili candidati, appare preferibile un’autonomia di fatto della Banca d’Italia dal ministero dell’Economia. Tra i due enti che, con competenze molto diverse, governano il sistema economico italiano la collaborazione - pur talvolta venata da qualche contrapposizione dialettica, tutto sommato salutare - è preferibile alla subordinazione della prima al secondo. Una Banca d’Italia sottomessa al Tesoro evocherebbe i tempi precedenti al «divorzio» del 1981 che pose le basi del rientro italiano dalla grande inflazione degli Anni Settanta. Fino ad allora la Banca d’Italia era tenuta a sottoscrivere, più o meno passivamente (e a far sottoscrivere dalle banche) i titoli pubblici che il Tesoro riteneva opportuno emettere.

Con l’attuale ministro dell’Economia, il rischio di una Banca d’Italia «schiava» probabilmente non si corre, in quanto la gestione Tremonti è tutto fuorché finanza allegra, come gli italiani in questi giorni possono ben constatare. I ministri, però, passano e i governatori restano, non avendo bisogno di essere confermati a ogni cambio di maggioranza. Con i tempi che corrono, una scelta che si fermi all’interno di Via Nazionale appare certamente la più lungimirante.

mario.deaglio@unito.it

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« Risposta #111 inserito:: Luglio 07, 2011, 09:48:17 am »

7/7/2011

Un colpo ai piccoli patrimoni

MARIO DEAGLIO

Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani» recitava uno slogan elettorale di grande effetto di questa maggioranza. Evidentemente il conto titoli non deve far parte di questa «tasca», sempre più vuota, dal momento che un «colpo di coda» della manovra fa passare da 34 a 120 euro l’imposta di bollo che grava sul conto titoli, obbligatorio per chi voglia gestire minimamente i propri risparmi, anche solo acquistando titoli di Stato.

I provvedimenti di questa manovra si prestano a giudizi variegati, qualcuno è ragionevole, qualcuno è pessimo, molti sono discutibili. Questo però è addirittura odioso. Perché farà grandi danni su piccolissimi patrimoni, succhiando via, in questi tempi di rendimenti microscopici, gran parte dei micro-interessi percepiti da milioni di persone; perché frustrerà irriterà, deluderà chi ha la possibilità di mettere da parte qualcosa in questi tempi difficili per un gran numero di famiglie, offendendone la dignità prima ancora di farne calare il reddito; perché è manifestamente iniquo in quanto questo balzello fisso peserà proporzionalmente di più su chi è riuscito a metter meno soldi da parte. Passi infatti l’aumento a 380 euro del bollo per i depositi in titoli superiori a 50 mila euro, certamente molto pesante per chi supera di poco questa cifra, mentre è quasi irrilevante per i grandi patrimoni, ma andarsela a prendere con i meno abbienti riveste un particolare carattere di odiosità.

Perché un ministro tutto sommato cauto, che si sforza di essere equilibrato, ha potuto compiere un errore del genere? Si può solo pensare a una situazione di grande disordine, grande confusione, grandi contrasti per cui la manovra diventa un enorme calderone di cui nessuno controlla più gli ingredienti; come è successo per la «norma Fininvest».

La «norma Fininvest» è stata ritirata in tempo, mentre il superbollo per i risparmiatori dovrebbe essere sulla «Gazzetta Ufficiale» di questa mattina. Non rimane da augurarsi che le Camere lo cancellino subito e senza contrasti. Con una raccomandazione al ministro Tremonti: per favore, abolisca la Giornata del Risparmio, oppure, se non ci riesce, alle celebrazioni del risparmio non ci vada mai più.

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« Risposta #112 inserito:: Luglio 12, 2011, 05:51:34 pm »

12/7/2011

I gravi rischi della tempesta perfetta


MARIO DEAGLIO

La telefonata del cancelliere tedesco Angela Merkel al primo ministro italiano Silvio Berlusconi, apparentemente rassicurante e di appoggio alla manovra finanziaria che si appresta ad essere esaminata dal Parlamento, costituisce in realtà un duro monito - mentre è riunito un vertice europeo di crisi - a procedere speditamente sulla via del risanamento finanziario, un invito pressante a resistere alle forti tentazioni, emerse in questi giorni, di un annacquamento della manovra appena presentata.

Ed è un segnale di quanto profonda sia la crisi attuale e di quanto limitate siano le opzioni di un’Italia almeno parzialmente sotto tutela europea.
Il limite delle opzioni italiane deriva dal fatto che l’Italia si trova in una situazione che qualcuno ha chiamato «tempesta perfetta» e che si verifica quando tutte le dimensioni di una crisi si influenzano e si aggravano a vicenda. La «tempesta perfetta» che si è scatenata in questi giorni sull’Italia è a un tempo finanziaria, economica e politica. È illusorio pensare di «sistemare» una di queste dimensioni senza sistemare anche le altre; e senza tener conto che, in realtà, l’attacco speculativo che coinvolge il debito pubblico italiano e la Borsa italiana potrebbe essere il culmine di uno scontro più vasto tra euro e dollaro in una situazione di forte disordine monetario mondiale.

Tra moneta americana e moneta europea è in atto una sorta di duello tra due debolezze: gli americani devono fare i conti con un rilancio non riuscito della loro economia, con un «tetto» del debito pubblico di fatto già sfondato, senza il consenso parlamentare, con qualche preoccupante segnale di inflazione incipiente; gli europei con i conti pubblici pericolanti di molti Paesi dell’euro. L’attacco al debito pubblico italiano - oggi tecnicamente non più debole di ieri - potrebbe essere una sorta di diversivo per cercar di evitare, o quanto meno di procrastinare, una diffusa perdita di fiducia nel dollaro che rischia di lasciarsi sfuggire la sua posizione di punto centrale del sistema valutario mondiale.

Per l’Italia, la «tempesta perfetta» comporta pericoli molto gravi. Significa che tutti i nodi vengono al pettine nello stesso momento: la manovra finanziaria non può essere disgiunta da un nuovo equilibrio politico (di questo si è già avuto qualche sentore nel mutare dei rapporti tra Lega Nord e Popolo della Libertà, con una maggiore forza dialettica della prima) e probabilmente da un nuovo patto sociale, il che richiede consensi più vasti di quelli dell’aritmetica parlamentare. Perché questi consensi si materializzino è necessario che il tutto si collochi nell’ottica di una fondata speranza di ripresa quanto meno nel medio periodo.

La manovra finanziaria contiene al suo interno numerosi elementi di elasticità, forse già pensati per poter essere anticipati in una situazione di emergenza: lo slittamento in avanti di quanto è previsto dalla manovra per il 2013 e per il 2014 rappresenterebbe un «indurimento» apprezzato dai mercati. Occorrerebbe però anche l’introduzione di alcuni elementi non presenti nel progetto attuale, che potrebbero attenuare gli eccessi dell’attuale compressione della spesa pubblica, chiaramente insostenibile nella sua forma attuale, da parte della maggioranza degli enti locali: un programma di vendita, almeno parziale, di poste e ferrovie (due imprese pubbliche di grandi dimensioni che potrebbero avere motivi di interesse per i mercati), una vendita di oro che, per quanto relativamente modesta dati i vincoli internazionali che l’Italia deve rispettare, darebbe un’idea del carattere strutturale dei rimedi che si stanno approntando, e un inasprimento delle misure per la compressione del costo della politica. Naturalmente si dovrebbero scordare provvedimenti volti a sanare situazioni particolari come quelli che possono coinvolgere la Fininvest, tolti dal testo definitivo della manovra attuale, ma che qualcuno pensa di ripresentare.

Le grandi linee di un nuovo patto sociale dovrebbero essere rappresentate da sacrifici paralleli per «capitale» e «lavoro». I sacrifici per il «capitale» sarebbero rappresentati da una qualche forma di imposta patrimoniale. I sacrifici per il «lavoro» dall’attenuazione di alcune conquiste del passato nell’ambito dei contratti nazionali; la falsariga dovrebbe essere rappresentata dai grandi accordi sindacali tedeschi dell’anno scorso che hanno fortemente contribuito al robusto rilancio dell’economia della Germania. Naturalmente i dettagli sarebbero tutti da studiare e toccherebbe a chi si trova al governo gestire questo parallelismo con la necessaria credibilità e decisione. Tutto ciò sarebbe probabilmente sufficiente a «mettere in sicurezza» il sistema italiano e a prepararlo per una nuova fase espansiva dell’economia europea, se questa ci sarà davvero, oppure a conferirgli particolare solidità se questa fase espansiva non dovesse materializzarsi.

La logica di un simile insieme coordinato di provvedimenti è che questo Paese si merita qualcosa di meglio del piccolo cabotaggio che ha caratterizzato la sua politica e la sua economia negli ultimi anni, qualcosa di meglio del dissolversi della sua coscienza pubblica in uno scetticismo privo di qualsiasi moralità, purtroppo evidente nella successione di scandali pubblici e privati che l’hanno caratterizzato di recente. A centocinquant’anni dalla formazione dello Stato italiano, l’Italia ha ancora molte cose da dire sull’orizzonte mondiale e non dovrebbe aver bisogno di una telefonata del Cancelliere tedesco per sapere che cosa deve fare.

mario.deaglio@unito.it
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« Risposta #113 inserito:: Luglio 25, 2011, 11:58:48 am »

24/7/2011

Euro-dollaro, i due volti della crisi

MARIO DEAGLIO

A Bruxelles un vistoso rattoppo che terrà per un poco ma che rischia di rendere necessari altri interventi. A Washington un vistoso strappo tra Camera e Presidente che fa sorgere interrogativi sulla tenuta del dollaro. Se ne ricava l’impressione di una crescente incapacità dei Paesi ricchi di governare il sistema monetario mondiale, il che getta ombre lunghe sui meccanismi della globalizzazione.

Il sofferto accordo sul debito greco, raggiunto giovedì sera a Bruxelles dopo una trattativa difficile ed estenuante, è ricchissimo di codicilli e molto povero di idee, un accordo senza vincitori, dal quale tutti escono un po’ sconfitti. Non possono esserne soddisfatti i greci, i quali, pur avendo ottenuto sconti sugli interessi da pagare e un paracadute sul loro enorme debito, vedono nel comunicato finale la conferma della condanna della loro economia, non certo florida, a un lungo periodo di stagnazione e difficoltà. E neppure le banche creditrici, costrette a sottoscrivere «volontariamente» i nuovi titoli del debito pubblico greco man mano che quelli vecchi giungeranno a scadenza, con una correzione al ribasso degli utili previsti. Non esultano i tedeschi sui quali, indirettamente, ricadrà una parte del peso della manovra, e non sono allegri neppure i francesi che non sono riusciti a far passare l’idea di una tassazione europea.

I mercati internazionali rimangono scettici e l’opinione pubblica nervosa.
L’accordo avviene all’insegna di una ampia politica di tagli, che si tradurranno in un freno aggiuntivo all’economia, proprio mentre l’Europa ha bisogno di stimoli alla crescita.

Non è solo la Confindustria a delineare la prospettiva inquietante di una produzione nuovamente stagnante nel terzo trimestre del 2011, in Germania gli indici di fiducia delle imprese sono bruscamente scesi ai valori di fine 2010 e analoghe cadute di fiducia si registrano tra le imprese francesi. Ottenere la stabilità dell’euro al prezzo di una stagnazione non sembra certo la più lungimirante delle politiche; anzi, non è neppure una politica, bensì una sorta di ondeggiamento continuo, senza una direzione precisa, da parte di un’Europa che non riesce a darsi una strategia per il proprio futuro.

In realtà, l’Europa è su un piano inclinato. Può uscirne verso l’alto con la rinuncia dei vari Paesi dell’euro a una parte della loro sovranità in materia di politica economica a favore di un governo centrale, e quindi con l’europeizzazione di importanti capitoli nazionali di spesa pubblica e di importanti entrate fiscali; oppure può uscirne verso il basso, ricreando il sistema monetario europeo, con l’euro al centro e una moderata possibilità di fluttuazione delle valute nazionali. In ogni caso non può restare, e non resterà, perennemente immobile.

La prospettiva risulta ancora più complessa in quanto le difficoltà dell’euro sono contestuali alle difficoltà del dollaro. A Washington è in corso ormai da mesi un incredibile braccio di ferro tra il presidente Obama e la maggioranza repubblicana della Camera dei Rappresentanti che si rifiuta di innalzare il tetto del debito pubblico (che negli Stati Uniti è stabilito per legge) senza ottenere in cambio imponenti tagli alla spesa pubblica. Venerdì sera i repubblicani hanno lasciato le trattative sbattendo la porta; se un accordo non verrà raggiunto entro il 2 di agosto, il Tesoro degli Stati Uniti potrebbe non disporre delle risorse per rimborsare i propri titoli in scadenza.

Nessuno crede veramente a un simile scenario, che sancirebbe la fine ingloriosa del dollaro quale valuta internazionale: anche solo l’abbassamento della valutazione attribuita ai titoli pubblici americani appartiene più a uno scenario di fantaeconomia che a un serio esercizio previsivo. Eppure nessuno se la sente di escluderlo di fronte alla scarsa lungimiranza dei parlamentari americani, la cui attenzione, come per quelli europei, è pressoché totalmente concentrata sui giochi politici interni e sul brevissimo periodo. Ormai, sembrano esser solo i cinesi e i brasiliani a pensare in grande, ad effettuare analisi economiche e valutarie globali di lungo periodo.

Anche ammettendo che i parlamentari americani non siano così folli e miopi da spingere il proprio Paese in un precipizio finanziario, la situazione degli Stati Uniti rimane debolissima per l’evidente fallimento della politica di stimolo monetario che fino a fine giugno per nove mesi ha «iniettato» nell’economia 2,5 miliardi di dollari al giorno. Con il solo risultato di far salire il prezzo delle materie prime, mentre la disoccupazione torna ad aumentare.

A questo punto non si può non convenire con il premio Nobel Paul Krugman che, sul New York Times di giovedì, ha ammonito contro il pericolo di una «Piccola Depressione» che assomiglia alla «coda» della «Grande Depressione» degli Anni Trenta: nel 1937, il passaggio prematuro da una politica di stimoli fiscali a una politica fiscale restrittiva fece deragliare gli accenni di ripresa. E la depressione continuò fino a quando la Seconda guerra mondiale diede alla domanda lo stimolo che le politiche di pace non erano state in grado di fornire. Sappiamo bene a quale terribile prezzo.

Fortunatamente siamo ben lontani dalle condizioni di allora. Sarebbe però opportuno che, sulle due rive dell’Atlantico, i banchieri centrali e i ministri economici quest’anno non andassero in vacanza. Per evitare di essere colti di sorpresa, nella quiete d’agosto, come successe nel 2007 e nel 2008, nel caso in cui una miope follia dovesse prevalere al Congresso americano o il «rattoppo» di Bruxelles non dovesse tenere.

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« Risposta #114 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:18:41 am »

31/7/2011

Il rischio del disordine globale

MARIO DEAGLIO

Il volto teso del presidente Obama che si rivolge ancora una volta ai suoi concittadini perché facciano pressione sul Parlamento e consentano, con una legge, all’amministrazione pubblica di funzionare normalmente può essere ben considerato come l’icona del possibile tramonto degli Stati Uniti quale Paese leader dell’economia mondiale. E, al tempo stesso, dell’incapacità della politica nei Paesi avanzati di fornire all’economia il supporto necessario per tornare a crescere, fornire sufficiente ricchezza e rilanciare la speranza nel futuro.

Il vuoto legislativo creato dalla risoluta volontà di una minoranza di parlamentari repubblicani di impedire l’innalzamento del tetto del debito che il governo americano è autorizzato a contrarre è infatti molto più che un tatticismo da guardare con indulgenza. Altre volte in passato quest’arma è stata usata nelle schermaglie americane di Washington, ma ora segnala un non riconoscimento o uno stravolgimento della posizione internazionale degli Stati Uniti, una grave, colpevole noncuranza per il ruolo del dollaro nel sistema internazionale.

Se anche alzeranno il «tetto» del debito che il governo federale è autorizzato a contrarre, i parlamentari repubblicani pensano di alzarlo di poco, in modo da poter tornare di qui a qualche mese a riproporre fortemente la loro concezione - si potrebbe dire il loro «ricatto» - di uno Stato minimo e di una ricchezza privata quasi priva di imposte. Siamo così di fronte al paradosso per cui il resto del mondo non avrebbe difficoltà ad acquistare, come ha sempre fatto, titoli del Tesoro degli Stati Uniti nonostante il deficit stia aumentando molto velocemente; tranne il piccolo particolare che una legge potrebbe impedire al Tesoro degli Stati Uniti di pagare gli interessi e rimborsare il prestito. Un brivido scuote così nuovamente, in questo agitato fine settimana, il castello di carte della finanza internazionale.

Il paradosso si aggrava considerando che il resto del mondo ricco non è in condizioni di dare alcun aiuto. Quasi in contemporanea al discorso di Obama, il primo ministro spagnolo Zapatero annunciava lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate. Tra i leader europei Zapatero era quello che, con maggior coerenza, lucidità e determinazione si era impegnato contro la crisi. Il ricorso alle urne, e la sua contemporanea dichiarazione di non volersi ricandidare, è un’ammissione chiara di sconfitta di fronte al malumore degli spagnoli per i sacrifici da affrontare.

Nel resto d’Europa, il governo inglese è alle prese con una delle crisi peggiori degli ultimi decenni che chiama in causa istituzioni sacrosante quali la stampa e la polizia; il Cancelliere tedesco e il Presidente francese devono affrontare una crescente impopolarità che li ha portati a una sconfitta dopo l’altra nelle elezioni locali e a una clamorosa perdita di consenso nei sondaggi di opinione. Per non parlare del Belgio senza governo, dei Paesi Bassi e della Svezia con governi di minoranza, del «pasticcio» libico, del terrorismo norvegese.

In quest’impotenza generale si colloca la specifica impotenza italiana che è inutile ricordare nei dettagli a lettori che la vivono quotidianamente. Ci si sarebbe potuti aspettare una vibrante presa di posizione del ministro dell’Economia che denunciasse le massicce vendite, di marca chiaramente speculativa, di titoli del debito pubblico italiano da parte di pochi grandi operatori, tra cui alcune banche tedesche. Grazie a queste vendite, si assiste a un secondo paradosso, ossia che il debito pubblico italiano, da tutti definito solido fino a un paio di mesi fa, sia divenuto debolissimo sui mercati senza che nulla sia cambiato nella struttura e nella congiuntura dell’Italia.

La denuncia - che è mancata anche per le difficoltà personali del ministro - avrebbe dovuto essere accompagnata da forti limitazioni, da attuare di concerto con gli altri Paesi della zona euro, nel tipo di contrattazioni ammesse, magari circoscritte ai soli contanti. C’è stato invece un quasi completo silenzio italiano: le meschinità della politica spicciola hanno monopolizzato l’attenzione di tutti e azzerato la nostra azione internazionale.

I Paesi non toccati dalla paralisi della politica, come la Cina e l’India, non hanno forza sufficiente per avviare un’azione di contrasto alla crisi. La Cina vede con timore la propria economia andare fuori controllo, non rispondere più ai freni monetari, più volte azionati senza successo negli ultimi mesi, e teme lo scoppio di una bolla edilizia che metta fine a una crescita che, per oltre un decennio, è stata guardata dal resto del mondo con meraviglia e con invidia. L’India è alle prese con corruzione e inflazione, entrambe elevate. Brasile, Russia, Turchia e Sudafrica, Paesi dove l’economia e la politica sembrano «tenere», sono complessivamente troppo piccoli per fare massa critica.

In queste condizioni il rischio di un disordine monetario globale che porti con sé una grave debolezza dell’economia globale è sicuramente elevato, anche se vi sono ancora margini per azioni di contrasto. Come atto di normale prudenza, le banche centrali, i governi più lungimiranti e l’Unione Europea dovrebbero cercare di mettere a punto un «piano B», ossia un piano di emergenza da tenere nel cassetto. Nel caso di gravi perturbazioni nei mercati finanziari, tale piano potrebbe comportare la graduale e parziale sostituzione del dollaroccon una moneta «artificiale», un «paniere» di monete di cui il dollaro costituisca la parte prevalente ma senza l’indipendenza e la libertà di manovra di oggi. Naturalmente, le regole valutarie mondiali dovrebbero essere riscritte; del resto, successe nell’agosto di quarant’anni fa, quando gli Stati Uniti sganciarono il dollaro dall’oro senza alcuna consultazione. Potrebbe essere giunto il tempo di «riagganciarlo» a qualche cosa, di metterlo dentro un paniere, appunto.

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« Risposta #115 inserito:: Agosto 06, 2011, 12:32:31 pm »

6/8/2011

Più coraggio per cambiare davvero

MARIO DEAGLIO

Il mercato, dopo tutto, qualche merito ce l’ha: ha costretto un Paese come l’Italia, fino a pochi giorni fa immerso in una compiaciuta miopia, a fare i conti con se stesso. E un presidente del Consiglio che ha ripetutamente negato prima l’esistenza e poi la gravità della crisi a venire, almeno parzialmente, a patti con la realtà. Un paio di giorni dopo le dichiarazioni alle Camere, in cui rivendicava alle Camere stesse, invece che ai mercati, il diritto di fare politica economica - un concetto ribadito con forza dal nuovo segretario del Popolo della Libertà - si è deciso a delineare un programma di politica economica la cui urgenza dipende esattamente dalla necessità di compiacere i mercati. Ne è scaturita una conferenza stampa che vuole delineare, se non un vero e proprio programma, almeno una serie di indirizzi, con spunti di interesse sul piano dei principi ma di efficacia limitata per quanto riguarda il lato operativo, l’effettivo potere di cambiare le cose. Il tutto è avvenuto nello stesso giorno in cui sia il Presidente degli Stati Uniti sia il commissario europeo agli Affari economici e monetari sono intervenuti in maniera analoga, ossia con una concretezza piuttosto limitata.

E questo mal comune dell’inefficacia può essere di qualche consolazione per un Paese additato come la pecora nera che si accorge di essere soltanto color grigio scuro. La nuova concretezza berlusconiana non può dirsi veramente concreta. Essa consiste nell’anticipo di un anno delle misure già prese, un provvedimento che probabilmente il ministro dell’Economia, e sicuramente i mercati, avevano già messo in conto da tempo. Per il resto sono state rimandate al Parlamento le tre deleghe su cui dovrebbero articolarsi le strutture portanti dell’Italia economica del futuro, ossia quella fiscale, quella assistenziale e quella del mercato del lavoro. Dati la complessità dell’argomento e l’intrico degli interessi delle parti sociali, la messa a punto di questi provvedimenti non si preannuncia breve e deve essere considerata soprattutto come una, peraltro lodevole, dichiarazione di intenzioni. Sul piano dei principi, il tutto è stato «condito» dalla prospettiva di una riforma costituzionale che vada nel senso dell’ampliamento delle libertà economiche e obblighi al pareggio del bilancio pubblico, anch’essa tutta da valutare per quanto riguarda la possibilità di effetti concreti in tempi necessariamente medi. I mercati dovranno essere convinti che la strategia di un cambiamento costituzionale e la strategia delle deleghe non sono semplicemente espedienti per mascherare le profonde divisioni su questi argomenti all’interno della stessa maggioranza. Curiosamente, l’elemento davvero concreto nelle dichiarazioni riguarda un fatto internazionale, ossia l’annuncio della prossima convocazione di un G7, che tocca al Presidente francese in quanto la Francia ha la guida, nell’attuale semestre, di quest’organizzazione informale dei maggiori Paesi ricchi.

Di qui potrebbero scaturire nuove normative sui mercati internazionali, che rappresentano l’elemento veramente carente nella crisi attuale. Occorre infatti francamente riconoscere l’attuale condizione di inferiorità degli Stati sovrani, specie se indebitati, nei confronti del grande mercato finanziario globale. Questa condizione oggi fa del male all’Italia, ma potrebbe farne a quasi tutte quelle che una volta si chiamavano «grandi potenze» economiche e non ci si dovrebbe troppo stupire se, passata la buriana in Italia, sotto attacco finisse la Francia. L’uscita «vera» dalla crisi a differenza del «rimbalzo» con cui l’Occidente si è illuso per oltre un anno di essere sulla strada giusta - deve pertanto avere due facce: quella di innovazioni profonde nel modo di funzionare dell’economia e quella, parallela, di innovazioni profonde nel funzionamento dei mercati finanziari. Potrebbero essere temporaneamente limitati alcuni meccanismi di questi mercati che consentono di «scommettere» contro un titolo somme molto ingenti senza esserne in possesso, ossia vendendo allo scoperto ciò che non si possiede nella speranza di ricomprarlo a prezzo più basso dopo qualche giorno o qualche settimana; lo ha fatto la Germania nel maggio 2010 e quest’esperienza andrebbe studiata con cura. E’ un peccato che questa dimensione mancasse nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio. In pratica oggi si chiede all’economia di adeguarsi ai mercati, giudici apparentemente unici di efficienza I mercati stessi dovrebbero essere posti sotto la lente d’ingrandimento di un’istituzione che abbia il potere di limitarne la funzionalità quando questa risulti manifestamente anomala.

In caso di anomalia potrebbero scattare limiti oggettivi riguardanti certi tipi di operazioni. Qualche decennio fa si affermava che il salario era «la sola variabile indipendente», ossia che tutte le grandezze dell’economia dovevano adeguarsi alle esigenze di crescita dei consumi dei lavoratori, specie se lavoravano «sotto padrone». Oggi si verifica nei fatti qualcosa di quasi esattamente opposto, ossia che la sola variabile indipendente è rappresentata dai mercati finanziari ai quali tutti si devono adeguare senza veramente discutere. Una riforma di questi mercati - che pure hanno i meriti di cui si è detto sopra - appare sempre più come una condizione necessaria per uscire davvero dalla crisi. E’ un peccato che nessun capo di Stato o di governo, compreso quello italiano, paia veramente muoversi in questa direzione.

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« Risposta #116 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:25:16 pm »

11/8/2011

Sì ai sacrifici se aiutano la crescita

MARIO DEAGLIO

Poche ore prima che il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, giungesse a Roma per presiedere l’incontro governo-parti sociali, il presidente francese, Nicholas Sarkozy era volato a Parigi per presiedere una riunione di emergenza convocata a seguito di voci sulla possibilità di un declassamento del debito pubblico francese e in Germania un sondaggio tra parlamentari rivelava che il cancelliere Angela Merkel non avrebbe più l’appoggio della propria maggioranza nel sostenere i titoli sovrani dei Paesi deboli della zona euro. Il presidente americano Obama veniva di fatto lasciato solo anche dalla banca centrale degli Stati Uniti che, annunciando due anni di tassi invariati a un livello prossimo a zero, scaricava sul governo degli Stati Uniti tutta la responsabilità della manovra economica. E i mezzi di informazione non lesinavano più la parola «panico» per descrivere l’andamento complessivo delle Borse.

Quando il «panico» scalda le notizie, il pericolo maggiore che corrono i governi è quello di non mantenere la mente fredda e di pensare solo a misure restrittive da gettare in pasto alle agenzie di rating al fine di raddrizzare per qualche ora o qualche giorno gli andamenti dei mercati. Se, cedendo al panico, tutti i governi europei varassero soltanto provvedimenti restrittivi, la recessione mondiale sarebbe assicurata, ne sarebbero coinvolti anche i dinamici Paesi emergenti che finora hanno tenuto in vita la crescita globale. Per evitare una simile prospettiva, le manovre europee di emergenza che si stanno preannunciando dovranno non solo ridurre fortemente deficit e debiti pubblici ma anche gettare le basi per il rilancio delle economie. E questo lo deve fare in particolare la manovra italiana, che sarà decisa con un decreto al termine del Consiglio straordinario dei ministri previsto per il 18 di agosto, perché all’Italia non basta ritrovare la risicata crescita economica del periodo precedente la crisi, rivelatasi appena sufficiente per mantenere a galla il Paese.

I futuri inasprimenti fiscali e la futura riduzione della spesa pubblica non devono quindi soltanto curare deficit e debito: una parte dovrà essere dedicata a far ripartire il motore economico inceppato. A titolo di esempio, di fronte a un miglioramento, derivante da nuovo gettito e minori spese, per un totale di 100, occorrerà che il governo «restituisca» all’economia una quota del miglioramento stesso, diciamo 30-40, e lo faccia secondo modalità tali da combattere le tendenze recessive. Per conseguenza, una manovra restrittivaespansiva deve essere di maggiore ampiezza di una manovra soltanto restrittiva e proprio per questo, e solo per questo, nell’ottica di una prospettiva di sviluppo futuro, ha senso chiedere che le parti sociali sopportino sacrifici straordinari. In questo senso è corretto parlare, come ha fatto il ministro Tremonti, di una «ristrutturazione» della manovra ancora fresca di stampa ma occorre non aver paura di pensare in grande.

L’espansione, infatti, non si può ottenere semplicemente cambiando le regole, facendo quelle generiche «riforme che non costano» e che danno maggiore libertà alle imprese. Una parte del miglioramento fiscale da ottenersi con la manovra dovrà essere utilizzata per ridurre alcune aliquote dell’Irpef e dell’Irpeg, oppure per finanziare direttamente - con tempi rapidi, da garantire con normative d’urgenza - importanti opere infrastrutturali. Alla restrizione, fino all’annullamento, del deficit si dovrà accompagnare la ridistribuzione da alcuni tipi di redditi - a cominciare da quelli sommersi - ad altri tipi di redditi. Per evitare il collasso dei consumi occorrerà una ridistribuzione alle fasce dei redditi più bassi (a cominciare dagli oltre 400 mila giovani che, secondo un’indagine resa nota ieri, hanno perso il lavoro nel 2010) per rilanciare gli investimenti occorrerà spostare risorse da impieghi poco efficienti a impieghi più efficienti.

Pare purtroppo che l’attenzione generale si concentri più sulla parte restrittiva che sulla parte espansiva. In realtà, solo nella prospettiva di una svolta per il Paese ha senso chiedere un contributo eccezionale a tutti, a cominciare da una classe politica caratterizzata da privilegi economici di tale portata - come quelli sulle liquidazioni messi in luce ieri da questo giornale - da suscitare un’ondata generale di sdegno che rischia di minare le radici della democrazia. L’eccezionalità della situazione fa sì che nessuno possa chiamarsi fuori. Se si comincia con premesse come «le pensioni (future) non si toccano» oppure «la patrimoniale non si può fare», allora è inutile che governo e parti sociali si siedano al tavolo. In realtà, tutti devono sedersi al tavolo con offerte e non con richieste, nell’ambito di un ridisegno complessivo che tenga conto non soltanto dell’emergenza e dei vincoli internazionali ma anche di prospettive di più lungo termine.

In quest’ottica, variazioni nei meccanismi in vigore per determinare le pensioni dei futuri pensionati e misure fiscali straordinarie di tipo patrimoniale possono rappresentare i due poli dell’azione necessaria per raddrizzare una barca pericolante. Necessaria, è doveroso dirlo, ma non sufficiente: il ritorno a condizioni fisiologiche di crescita dipenderà non solo da quanto farà l’Italia ma anche dall’intera evoluzione mondiale.

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« Risposta #117 inserito:: Agosto 15, 2011, 10:25:25 am »

15/8/2011

L'incapacità di offrire una speranza

MARIO DEAGLIO

È un agosto in cui tutto va abbastanza male. Con il numero degli italiani in vacanza che fa segnare un record negativo, il Parlamento aperto, le Borse in picchiata; con il dollaro degradato, la guerra di Libia, l’inflazione che minaccia la Cina, le fiamme della rivolta di Londra.

Il rilancio economico dei Paesi ricchi è almeno parzialmente fallito, il debito pubblico è in difficoltà quasi ovunque, i governi non sanno bene che cosa fare. E’ utile tener presente questo quadro perturbato per comprendere bene la manovra italiana di finanza pubblica, anche se tutto ciò può rappresentare solo un’attenuante per un provvedimento di politica economica purtroppo insufficiente, forse persino controproducente.

Tale provvedimento va collocato, prima di tutto, nell’orizzonte culturale del mondo politico che appare caratterizzato da due atteggiamenti di fondo.

Il primo, che riguarda soprattutto la maggioranza, è un rifiuto viscerale ad accettare la realtà e la gravità della crisi. La crisi viene considerata non già una conseguenza di debolezze intrinseche dell’economia italiana bensì un fatto esterno non prevedibile, una tegola che ci è caduta addosso. Prima di questo spiacevole incidente, sembra di capire, l’Italia stava andando benissimo.
In secondo luogo vi è la lontananza del mondo politico dai cittadini che impedisce ai parlamentari di cogliere sia il risentimento crescente per i loro innumerevoli privilegi sia le difficoltà della vita di tutti i giorni per i normali cittadini. Il presidente del Consiglio ha «un cuore che gronda sangue» per gli inasprimenti fiscali ma i bilanci famigliari degli italiani cominciano a grondare debiti: il tasso di risparmio delle famiglie è a livelli minimi da decenni, l’indebitamento delle stesse ai massimi. La ricchezza finanziaria, ossia i risparmi accumulati nel tempo dalle famiglie, si sta sciogliendo rapidamente.

Questa non comprensione di fondo dell’eccezionalità della situazione sia internazionale sia interna ha indotto il governo a non far uso di strumenti eccezionali. Dal presidente del Consiglio è arrivato un secco ultimatum a un’imposta patrimoniale, troppo lontana dalle sue promesse elettorali; dalla Lega Nord è venuto un ultimatum altrettanto secco alla modificazione dei meccanismi previdenziali, probabilmente perché il nucleo duro dell’elettorato di quella forza politica è costituito da persone ormai prossime alla pensione.

La manovra ha quindi dovuto far leva soprattutto su strumenti tradizionali: un giro di vite fiscale, verso i soliti soggetti, un taglio alle spese, più una manciata di interventi minori (dalla soppressione dei Comuni più piccoli all’obbligo per i funzionari pubblici a volare in classe economica, alla razionalizzazione di alcune festività e forse anche alla tassazione delle rendite finanziarie) che vanno nella direzione giusta ma che non bastano a ribaltare un giudizio negativo.

Tale giudizio deriva dalla constatazione che in questa finanziaria non ci sono misure per favorire la crescita mentre i provvedimenti previsti molto probabilmente aggraveranno il rallentamento già in atto, determinando forse una nuova contrazione del prodotto lordo. Il governo non riesce infatti a far balenare alcuna luce in fondo al tunnel. Pur di vedere questa luce, probabilmente gli italiani avrebbero accettato una manovra più severa in cui una parte delle risorse raccolte fossero state destinate a stimoli alla produzione. Il governo si propone invece come sconsolato gestore di una crisi alla quale non si intravede alcun termine.

L’«effetto annuncio» di quest’assenza di nuovi orizzonti è sicuramente molto negativo. Prima ancora di subire gli inasprimenti fiscali, gli italiani modificheranno in senso restrittivo i propri comportamenti di spesa, come già avevano cominciato a fare nei mesi scorsi. Per conseguenza, il pericolo di un calo generalizzato della domanda di beni di consumo è purtroppo reale, così come lo è quello di un rinvio dei programmi di investimenti da parte delle imprese. Minori consumi e minori investimenti implicano minori entrate fiscali, con il pericolo di innescare un, sia pur lieve, movimento di contrazione.

A un governo che non sa offrire speranze fa da contrappunto una popolazione con orizzonti angusti alla quale manca il soffio del cambiamento. La forza politica che, sotto vari nomi - da Forza Italia a Popolo della Libertà - fa capo al presidente del Consiglio era sorta all’insegna dell’entusiasmo e dell’ottimismo. Il volto teso del presidente del Consiglio, non più entusiasta né particolarmente ottimista, che annuncia provvedimenti restrittivi «tradizionali» è prima di tutto l’immagine di una sconfitta politica.

Vi è inoltre il pericolo di rilevanti tensioni sociali. A seguito dei tagli agli enti locali, introdotti senza troppo riguardo per l’efficienza, la manovra darà origine a una serie di disservizi e di scontentezze che possono costituire la premessa a un Paese più cupo. I tagli agli enti locali significheranno infatti strade più sporche e autobus più cari, minore assistenza agli indigenti e agli handicappati, minori iniziative culturali. I dipendenti pubblici, presi di mira dal provvedimento, si sentiranno trattati in blocco come fannulloni e malfattori, ci sarà animosità verso i lavoratori autonomi, toccati solo leggermente dagli inasprimenti fiscali. Forse non ci sarà macelleria sociale ma quasi certamente una macelleria della qualità della vita.

Vi è una modesta possibilità che queste prospettive negative possano essere quanto meno alleggerite nel corso della discussione parlamentare se l’opposizione saprà dare contributi correttivi e se la maggioranza li saprà accettare; a questa speranza si deve aggiungere quella che la congiuntura internazionale migliori e che un po’ di stimolo derivi dalla domanda estera. Due rondini, però, non fanno primavera.

mario.deaglio@unito.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9096
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« Risposta #118 inserito:: Agosto 30, 2011, 10:21:31 am »

30/8/2011

Il porcellum delle manovre

MARIO DEAGLIO

Le notizie sul contenuto della manovra-bis sono state diffuse, per puro caso, quasi contemporaneamente al comunicato dell’Istat sulla fiducia dei consumatori, che si colloca a un livello bassissimo. Se si rifacesse l’indagine oggi, è facile immaginare che il livello sarebbe più basso ancora. Nelle stesse ore, il Fondo monetario internazionale, senza conoscere il contenuto della manovrabis, aveva sostanzialmente dimezzato le già basse stime sulla crescita dell’Italia. Se dovesse rifare i calcoli oggi, ci collocherebbe ancora più in basso.

Negli anni d’oro della Prima Repubblica, c’erano almeno 50-70 parlamentari di tutti i partiti che sapevano «leggere» i conti pubblici.

Oggi, se va bene, i parlamentari non analfabeti in materia si contano sulle dita di una mano e i politici, per rimediare al proprio analfabetismo, si devono affidare a ministri che sono tecnici prima che politici.

Questa manovra-bis è il frutto della generale riduzione del livello di competenza e dell’aumento del livello di pressappochismo del mondo politico.

È uno sforzo da dilettanti, messo assieme in un paio di settimane, senza adeguati supporti tecnici, esclusivamente per rispondere a una pressante richiesta europea.

È una manovra messa a punto in riunioni private, il risultato di continui patteggiamenti senza riguardo per il quadro complessivo. È il «porcellum» delle manovre; così come la legge elettorale ha ingabbiato la vita politica italiana, i provvedimenti resi noti ieri sera rischiano di uccidere qualsiasi stimolo alla crescita.

Chi ha stilato il testo della manovra-bis non ha calcolato la dimensione giuridica: togliere dal calcolo delle pensioni gli anni di università riscattati significa appropriarsi di un versamento già effettuato dai lavoratori. Proporre un percorso costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione delle province (che, se va bene, richiederà un paio d’anni, ossia più della durata della legislatura) significa prendere in giro il cittadino, che, già al minimo della fiducia come consumatore lo è probabilmente anche come elettore.

La manovra-bis non sembra poggiare su alcuna previsione di crescita, su alcuna valutazione dei contraccolpi, in termini di riduzione della domanda, che le nuove misure certamente provocheranno.

Dall’esterno si ha la sensazione di assistere ad una sorta di «mercato delle vacche»: la Lega vuole a tutti i costi che non si tocchino le pensioni e in cambio di varie concessioni su altri punti. La politica più rozza prevale sull’economia. Gli italiani lavoratori, consumatori ed elettori - avevano la legittima aspettativa di meritarsi qualcosa di più.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9144
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« Risposta #119 inserito:: Settembre 03, 2011, 11:41:19 am »

3/9/2011

La manovra del malessere italiano

MARIO DEAGLIO

La cura economica anticrisi proposta dagli americani - consistente nell’immettere quantità molto ingenti di nuova liquidità nell’economia degli Stati Uniti e, per conseguenza, in quella mondiale - non ha funzionato, anzi si sta rivelando un vero e proprio disastro: moltissimo debito e niente crescita, minaccia di inflazione e occupazione che non riparte. Le Borse dei Paesi ricchi hanno perso il 10-15 per cento dall’inizio di agosto e nella giornata di ieri hanno subito una nuova, forte caduta. L’orgoglioso «modello tedesco» che doveva trainare la grande ripresa europea si ritrova con crescita prossima allo zero.

Si sta duramente prendendo atto che, per uscire da questa crisi, non serve, o non è sufficiente, stampare moneta, come ha fatto il governatore americano Bernanke; si deve anche prendere atto che non serve neppure ricercare a tutti i costi l’azzeramento dei deficit dei bilanci pubblici, come invece continua a ripetere il governatore Trichet dalla sede della Banca Centrale Europea a Francoforte.

Nessuno però sa bene che cosa fare, meno che mai i governi europei impegnati nella messa a punto di manovre e leggi finanziarie all’insegna della confusione, in un orizzonte dominato da inquietudini politiche di breve periodo, ossia da preoccupazioni elettorali prima che economiche, e dalla palpabile carenza di grandi visioni.

In questo panorama non allegro a quelle generali si sommano le specifiche difficoltà della manovra italiana di bilancio. Una manovra cucita di giorno, all’inizio in un’atmosfera quasi festiva e campestre, nella casa del presidente del Consiglio e scucita di notte, come la tela di Penelope, via via che i calcoli degli esperti mettevano in luce le incongruenze, le difficoltà pratiche, l’impossibilità della realizzazione delle decisioni affrettatamente prese poche ore prima.

Una manovra abbozzata sulla base di valutazioni molto approssimative, talora grossolanamente errate, circa il numero degli italiani toccati dai vari provvedimenti, gli effetti generali derivanti dal possibile taglio di voci fondamentali della spesa pubblica locale e, più in generale, le conseguenze macroeconomiche della riduzione concordata con l’Unione Europea. Una manovra della quale il presidente del Consiglio, lasciando da parte nozioni elementari di economia, ha dichiarato - e i suoi ministri hanno implicitamente concordato con lui - che conta solo il totale, perché imposto dall’Europa, non come a questo totale si arriva.

Ne è derivato un provvedimento cupo, disordinato, che non dà alcuna speranza, fatto in buona parte di tagli e ancora di altri tagli, di cavilli e di altri cavilli ancora. E quando i tagli sono troppo grossolani, e i cavilli troppo evidentemente vessatori, li si elimina dal testo e si attribuisce la somma mancante a una generica «lotta all’evasione», come una volta si diceva «Dio provvederà», senza spiegare come e perché questa lotta all’evasione dovrebbe avere risultati migliori di quelli del passato. L’idea di spostare risorse da un tipo di impiego a un altro per cercare così di far funzionare qualche meccanismo di stimolo, non è stata presa in considerazione. Ugualmente non si sono tenute in alcun conto le ultime notizie congiunturali che indicano un preoccupante rallentamento dei consumi delle famiglie già prima della manovra. Continuare su una linea esclusivamente restrittive non solo equivale a versare sale sulle ferite ma può cancellare le speranze per il futuro e aumenta le probabilità di una nuova recessione.

E’ naturale che, in questa situazione, la Commissione Europea abbia ieri diplomaticamente espresso «dubbi» - che celano un giudizio pesantemente negativo - su questa «miracolosa» lotta all’evasione, dalla quale dovrebbe derivare un gettito che, nelle stime del governo, è prodigiosamente aumentato nel giro di pochi giorni senza che si spieghi da che cosa derivi questo prodigio. La reazione dei mercati è stata assai meno diplomatica: la differenza nella quotazione dei titoli decennali del debito pubblico italiano rispetto a quelli tedeschi (ritenuti i più sicuri d’Europa) ha raggiunto il 3,3 per cento, il che significa che, al fine di cautelarsi contro il «rischio Italia», per prestare denaro a lungo termine allo Stato italiano i mercati esigono un tasso di interesse più che doppio di quello che richiedono per prestar denaro allo Stato tedesco. Si tratta del differenziale più alto da quando la Banca Centrale Europea ha attivato gli acquisti concordati per difendere le quotazioni.

In un’atmosfera mondiale di malessere diffuso e di diffusa sfiducia che ha portato ieri la quotazione dell’oro a un ennesimo record, l’Italia appare in più colpita da uno specifico e grave «malessere italiano», fatto di miopia e disorientamento, preoccupazione e sfiducia, al quale contribuisce anche la scarsità di proposte coordinate e complete provenienti dall’opposizione. Per superarlo occorre prima di tutto prenderne atto e non rifugiarsi, come gran parte del mondo politico, in una rassegnata ignoranza o in un’arrogante indifferenza.

mario.deaglio@unito.it
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9156
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